Voci e volti della nonviolenza. 374



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 374 dell'11 settembre 2009

In questo numero:
1. Luca Briasco: Letteratura statunitense oggi
2. Roberto Francavilla: Letteratura portoghese oggi
3. Valentina Parisi: Letteratura russa oggi

1. LETTERATURE. LUCA BRIASCO: LETTERATURA STATUNITENSE OGGI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 agosto 2009 col titolo "Atlante
letterario. Stelle americane" e il sommario "Tutte le strade portano
indietro. La reazione all'11 settembre della narrativa statunitense si e'
risolta in un ritorno alla solidita' della tradizione, tra saghe familiari,
intrecci storici, consapevoli tentativi di preservare gli esiti del
postmoderno, e l'introduzione di uno sguardo altro, in grado di sondare
ferite recenti e traumatiche"]

Riflettere sulla letteratura americana, sul suo stato di salute e sulle
direzioni verso le quali si sta orientando equivale prima di tutto a cercare
di capire e assimilare un decennio difficile e contraddittorio, che si e'
aperto con una data tanto fatidica quanto extraletteraria. L'11 settembre
2001 e i suoi significati culturali vanno ben al di la' del quadro
sociopolitico che l'attentato al World Trade Center ha sancito e inaugurato
al tempo stesso: il crollo delle Torri ha scavato un vero e proprio abisso
nella psiche collettiva, traducendosi prima di tutto in una profonda crisi
della rappresentazione, della parola, dei modi di racconto.
*
Soluzioni pescate dal passato
L'America emersa dall'11 settembre si e' rifugiata in un modello narrativo
unico e rassicurante, nel quale il mito della democrazia, la ricodificazione
del nazionalismo, i valori del fondamentalismo cristiano sono stati
riorganizzati in un nuovo mix, costruendo l'immagine di una nazione
granitica, in grado di rinsaldare la propria identita' collettiva anche al
prezzo di una cessione di liberta' individuali e di una omogeneizzazione del
panorama culturale. Ne e' emerso un paese chiuso dentro se stesso, sordo
alla perdita di prestigio e di leadership internazionale (culturale ed
economica), soprattutto incapace di riprendere quell'opera incessante di
ascolto, assimilazione e rielaborazione che - la si voglia o meno
sintetizzare nel termine melting pot - ne ha sempre rappresentato la forza
attrattiva.
La letteratura americana ha pagato questa crisi senza riuscire, come pure
era accaduto in altre circostanze - una su tutte: la guerra del Vietnam - a
trovare il linguaggio giusto per raccontarla e per invertire il modello
narrativo dominante, o per svelarne le falsita'. Per quasi tutto il decennio
che si avvia a conclusione, il compito di polemizzare con la vulgata
dell'America di Bush e' stato affidato a figure "pubbliche", che trovano
nella forma scritta piu' un'occasione per sintetizzare percorsi creativi
sviluppati all'interno di altri media che non uno spazio privilegiato:
Michael Moore e David Sedaris (quest'ultimo, con un grado molto piu' forte
di consapevolezza formale) su tutti. Il romanzo statunitense ha scelto altre
vie, molto piu' indirette, nelle quali al corpo a corpo, allo scontro
all'arma bianca con i nuovi conformismi, viene preferita la narrazione
distesa, la saga familiare, la rievocazione nostalgica di un "bel tempo
andato" da contrapporre ai falsi valori del presente; o addirittura il
romanzo storico, che proprio in questo inizio millennio ha conosciuto un
ritorno di fiamma certamente non casuale.
Da questa prospettiva critica, l'autore che segna il vero e proprio
spartiacque tra la letteratura degli anni '90 e quella che si affaccia
affannosamente sulle rovine delle Torri e' senza dubbio Philip Roth. Che al
fervore di fine millennio aveva contribuito attivamente con due dei suoi
romanzi piu' complessi e ambiziosi (Operazione Shylock e soprattutto Il
teatro di Sabbath), e che subito dopo si e' avventurato in una complessa
opera di ricodificazione dei propri temi privilegiati, nella quale
all'esplorazione diretta della scena contemporanea si sovrappone la
rievocazione nostalgica di un tempo e di un sistema di valori ormai
irrecuperabili. Di questa ricodificazione, che ha peraltro sancito in via
definitiva l'ingresso di Roth nell'Olimpo dei classici, e' testimonianza una
serie di romanzi strutturalmente perfetti e sorprendentemente armoniosi,
spesso imperniati su una qualche forma di conflitto generazionale, lontani
dalla frenesia e dalla furibonda inventiva delle opere precedenti (due
titoli su tutti: Pastorale americana e La macchia umana).
*
Un pessimismo rassicurante
La tendenza a sfuggire al confronto diretto con il presente, e a commentarlo
in contrapposizione a una pienezza a volte immaginata almeno quanto reale,
e' anche la chiave per spiegare il successo improvviso di un autore che per
anni aveva simboleggiato (non meno di Salinger e Pynchon) il mito
dell'artista recluso e sdegnosamente in fuga dalla notorieta' e dalle
vendite. Gia' con la Trilogia della frontiera, e ancor piu' con Non e' un
paese per vecchi e La strada, Cormac McCarthy ha deliberatamente preso le
distanze dal pessimismo radicale che aveva contraddistinto la sua prima fase
creativa e quelle che restano forse le sue opere migliori (Il buio fuori,
Figlio di Dio, Meridiano di sangue), ricorrendo ai moduli narrativi
consolidati del western, del noir e della fantascienza per contrapporre la
solidita' di valori non recuperabili (ma forse per questo ancor piu'
"autentici") alla catastrofe e alla deriva materialistica del presente (o
del futuro prossimo).
In questo moto oscillatorio tra nostalgia e catastrofismo, i romanzi
dell'ultimo McCarthy - non diversamente da quelli dell'ultimo Roth -
propongono al lettore un "pessimismo rassicurante", assolutamente adatto a
tempi di crisi; la forma narrativa subisce una corrispondente contrazione,
nel momento in cui rinuncia al quadro complesso, al ritratto collettivo di
una nazione, e preferisce riprodurne le contraddizioni attraverso il
conflitto tra personaggi (il vecchio sceriffo Bell e il killer Chigurrh in
Non e' un paese per vecchi).
Partire da due autori che hanno esordito a cavallo tra gli anni '50 e i '60
per costruire un quadro della letteratura americana contemporanea puo'
sembrare contraddittorio, ma lo e' solo in apparenza. Il ripiegamento di
McCarthy e Roth e il loro approdo a forme radicate nella tradizione
americana li trasforma in veri e propri capifila (piu' o meno riconosciuti)
di quella che si puo' definire a tutti gli effetti la narrativa dominante
negli Stati Uniti di questo inizio millennio. I due romanzi forse piu'
importanti di questi ultimi anni - Le correzioni di Jonathan Franzen e
Middlesex di Jeffrey Eugenides - presentano infatti piu' di un'analogia con
il percorso che ha condotto Roth e McCarthy verso lo status di classici
contemporanei. Tanto nel caso di Franzen quanto in quello di Eugenides,
infatti, la forma e i temi trattati, dietro la scintillante patina
postmoderna, configurano un vero e proprio ritorno della grande narrazione,
quando non, come in Eugenides, del romanzo storico. Ed entrambi gli autori
giungono al loro magnum opus partendo da opere imperfette e irrequiete (La
ventisettesima citta' per Franzen, Le vergini suicide per Eugenides), nelle
quali alla sperimentazione narrativa si accompagnavano diagnosi ben piu'
distruttive e a diretto contatto con il contemporaneo, tra crisi del modello
familiare e distopia. Nelle Correzioni e in Middlesex, come anche nella
fantasmagoria "storica" delle Fantastiche avventure di Kavalier e Clay di
Michael Chabon, esiste una evidente, a tratti esplicita contrapposizione tra
un mondo favoloso e sentimentale, disperso nei meandri della storia e
ricreato da personaggi alla deriva nel presente, e una realta' inaridita o
mascherata dietro falsi miti. Una realta', soprattutto, che appare
"illeggibile", irreparabilmente opaca, cosicche' allo scrittore e
all'intellettuale non resta che leggerla attraverso cio' che essa non e'
piu', o, in alternativa, attraverso lo sguardo vergine e ingenuo del
bambino, del folle, dello straniero.
E' questa l'altra via che la nuova letteratura americana ha intrapreso per
istituire un rapporto con la realta' dell'oggi. Ed e' la via seguita da Dave
Eggers nel suo notevole romanzo di esordio L'opera struggente di un
formidabile genio, purtroppo rimasto senza seguiti all'altezza, come anche
da Jonathan Safran Foer in Ogni cosa e' illuminata (il suo libro migliore) e
in Molto forte, incredibilmente vicino. Si tratta di tre opere - alle quali
merita di essere accostato anche Lowboy di John Wray, forse l'autore piu'
interessante dell'ultima generazione - nelle quali le grandi ferite remote e
recenti della contemporaneita', dall'Olocausto all'11 settembre, al
riscaldamento globale, vengono elaborate e portate sulla scena attraverso
uno sguardo altro, in grado di percepirle, a partire da un sistematico
straniamento, nei loro elementi essenziali e piu' autentici.
Nel ricorrere alle due strade del romanzo-saga e della Bildung, la nuova
narrativa americana sembra perseguire un ritorno alle proprie radici
profonde (dunque, all'antica polarita' Henry James - Mark Twain),
abbandonando quella vena piu' sperimentale, aperta e coraggiosa che, tra gli
anni '80 e i '90, aveva animato una generazione di nuovi, grandi autori, da
William Vollmann a David Foster Wallace, a Richard Powers.
D'altro canto, alla ricerca di una nuova (o antica) solidita' si accompagna
il consapevole tentativo di preservare le innovazioni del postmoderno, se
non altro attraverso il ricorso all'ironia, al disincanto, al gioco
metanarrativo. Un tentativo che - proprio quando del postmoderno sembra
essersi esaurita la spinta critica e l'ambizione - si configura come sempre
piu' decisamente maschile: non e' un caso che gli autori citati finora siano
tutti uomini, e bianchi (anche se non necessariamente wasp).
*
Il punto di vista femminile
Affidandosi alla solidita' della trama e alla centralita' dei personaggi e
della loro psicologia, gli eredi dei postmoderni, di Roth e di McCarthy,
"invadono" un territorio a lungo affidato alla gelosa custodia delle
scrittrici. La narrazione al femminile resta infatti profondamente innervata
dentro la tradizione del romanzo di famiglia: con in piu' un radicamento nei
luoghi e nei territori che ha indotto spesso la critica a parlare (non senza
un fondo di sprezzo) di regionalismo, quasi a voler trasformare la geografia
in gabbia e in fattore riduttivo. Eppure, proprio a partire dal suo
radicamento, la narrativa al femminile ha saputo raggiungere una
universalita' e una profondita' di sguardo capace di dire sull'America di
oggi molto e forse piu' rispetto alle saghe nostalgiche maschili cui sono
andati troppo spesso il plauso e gli allori. E' il caso di Marylinne
Robinson, rimasta per molti anni l'autrice di un unico, memorabile romanzo,
Housekeeping (ancora in attesa di traduzione), e poi in grado di superarsi
con la splendida elegia di Gilead; oppure, guardando alle nuove generazioni,
di A. M. Homes, che nei suoi romanzi, ma soprattutto nei superbi racconti
della Sicurezza degli oggetti, ha esplorato le patologie dell'America
contemporanea a partire dall'istituzione familiare, con una esattezza di
sguardo e una innovativita' di forme che hanno pochi eguali.
E ancora, quasi a voler proporre un percorso inverso e complementare
rispetto a quello (essenzialmente centripeto) della narrativa maschile, le
migliori e piu' coraggiose scrittrici statunitensi si sono lanciate
nell'esplorazione a tutto campo del nuovo (e artefatto) sogno americano,
svelandone limiti e menzogne. E' quanto ha saputo fare Joyce Carol Oates,
narratrice di inarrivabile eclettismo, capace di spaziare tra romanzo di
famiglia, giallo, neogotico e saggistica. Il suo Sorella, mio unico amore,
prendendo le mosse da una tipica famiglia suburbana americana e
raccontandone le ambizioni smodate e la pubblica caduta, riesce a rivelare
la marcescenza, la volgarita' e la finzione sottesa all'America di Bush
meglio di qualunque altro romanzo degli ultimi anni. Insieme a E poi siamo
arrivati alla fine, romanzo di esordio di Joshua Ferris, ritratto collettivo
della nuova generazione di colletti bianchi davvero notevole per profondita'
e innovazione formale, l'ultimo libro di Oates rappresenta un segnale di
ritrovata vitalita' e ambizione: bisognera' pero' attenderne i seguiti per
avere la certezza che il romanzo americano abbia ripreso le armi e possa
reclamare quel ruolo di laboratorio del nuovo che per tanti anni aveva
saputo ricoprire.
*
Postilla. Anni '90. Strategie di diserzione del corpo a corpo con la realta'
Dopo le grandi sperimentazioni degli anni '90, che recuperavano, in reazione
al minimalismo, i migliori esiti del postmoderno adattandoli a una nuova
realta' di cui capire e assimilare le coordinate, senza facili adesioni ma
anche senza pregiudizi, il romanzo americano si affaccia al nuovo millennio
in un clima di restaurazione. Di fronte agli anni bui di Bush, alla
degenerazione imperialistica del sogno americano, alla chiusura difensiva di
un'intera nazione dopo l'11 settembre, i narratori sembrano impreparati e
disorientati, quasi privi del coraggio necessario per cercare il corpo a
corpo con una realta' che non amano e che stentano a rappresentare in via
diretta. Alla fiction coraggiosa e iconoclasta della grande triade di fine
millennio, William Vollmann (I racconti dell'arcobaleno), David Foster
Wallace (Infinite Jest) e Richard Powers (Galatea 2.2), si contrappongono le
grandi saghe storico-familiari di una nuova triade: Jonathan Franzen (Le
correzioni), Jeffrey Eugenides (Middlesex) e Michael Chabon (Le fantastiche
avventure di Kavalier e Clay). Romanzi che ripropongono la ricchezza
linguistica e l'ironia postmoderna, ma restando all'interno di una struttura
tradizionale, nella quale traspare la nostalgia per un tempo e un sistema di
valori dei quali l'America contemporanea sa mettere in scena soltanto la
parodia.

2. LETTERATURE. ROBERTO FRANCAVILLA: LETTERATURA PORTOGHESE OGGI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 settembre 2009 col titolo "Atlante
letterario. Rapsodie portoghesi" e il sommario "La tendenza generale al
disimpegno e' bilanciata dal recente tentativo di narrare le vicende che
hanno coinvolto decine di migliaia di retornados, costretti ad abbandonare i
loro luoghi e i loro affetti in seguito all'indipendenza delle colonie
africane, avviata nel '74"]

Considerato il senso moderno dell'aggettivo "nazionale" applicato alla
letteratura - che ci rimanda all'esprit de la litterature illuminista -
sarebbe interessante chiedere a un lettore medio italiano quale sia la sua
percezione della cultura portoghese e quanto c'entri, in questa percezione,
la letteratura. Avremmo quasi certamente risposte vaghe, scopriremmo lacune
talvolta abissali e vedremmo consolidarsi stereotipi secolari. L'Italia e'
uno dei paesi dove si pubblica di piu' e dove si legge di meno. Di fatto,
anche per via della congenita esterofilia del nostro mercato editoriale (gli
inguaribili ottimisti si ostinano a definirla "vivacita' intellettuale"), la
letteratura portoghese nel nostro paese e' degnamente rappresentata, sebbene
confinata nelle solite nicchie - escluse le eccezioni rappresentate da
Pessoa, Jose' Saramago e Antonio Lobo Antunes - e per di piu' ancorata a
traduzioni obsolete; certo e' che viene spesso ignorata dai recensori ed e'
posizionata ai margini del canone. Lo testimonia il numero esiguo di opere
della letteratura portoghese incluse nelle collane dei grandi classici e
l'approssimazione con cui si ricordano autentici "grandi" della
Weltliteratur come Gil Vicente, Camoes, Eca de Queiros. Singolare il caso di
quest'ultimo, esiliato in polverose traduzioni risalenti alla prima meta'
del '900, salvo qualche felice ma saltuaria riedizione (Il mandarino per
Einaudi, Il conte di Abranhos per Avagliano, i Racconti per Bur). La
letteratura portoghese sembra dunque un tesoro prezioso e nascosto riservato
agli intenditori, ai curiosi, agli esploratori.
*
Un riferimento intramontabile
In questo quadro, a meta' degli anni '80 l'autorevole lista del critic's
choice del "New York Times" manteneva fra le sue preferenze il romanzo di
Jose' Saramago Memoriale del convento, menzionandolo oltre ogni consuetudine
temporale, fatto che ha contribuito al successo dello scrittore e allo
sdoganamento di una letteratura fino ad allora considerata semiperiferica
(concetto ancora frequentato nella dimensione sociale della letteratura
oltre che nelle aggiornate classifiche di Harold Bloom). Proprio in quegli
anni si andava solidificando il progressivo riavvicinamento del Portogallo
all'Europa, movimento inverso a quell'allegorica deriva atlantica che la
penisola Iberia avrebbe intrapreso in un altro noto romanzo di Saramago, La
zattera di pietra.
In seconda battuta, verso la fine degli anni '90 si e' parlato di Lisbona
come centro di cultura proprio grazie alla popolarita' imagologica prodotta
dalla letteratura e dalle altre arti (Tabucchi esegeta di Pessoa e narratore
della citta' con Requiem e Sostiene Pereira, il Pereira stesso interpretato
da Mastroianni, la musica dei Madredeus, Lisbon Story di Wim Wenders,
Lisbona capitale europea della cultura, l'Expo e infine la ciliegina sulla
torta: il Nobel a Saramago). L'effetto, pero', si e' afflosciato come un
palloncino bucato. Nell'editoria italiana ne' Pessoa ne' Saramago hanno mai
funzionato da rimorchio per autori come Mario de Sa' Carneiro, Camilo
Pessanha, Antero de Quental, Cesario Verde, Aquilino Ribeiro, Jorge de Sena,
Miguel Torga, Lidia Jorge, Joao de Melo. Anche l'onda di quella effimera
rinascenza si e' stancamente arenata su una spiaggia. La cultura lusitana di
oggi sembra trovare una allegoria calzante nel viaggio statico
dell'eteronimo pessoano Alvaro de Campos: una vertigine suggerita dalle
partenze di navi contemplate dall'immobilita' di un molo.
E il mondo delle lettere ne costituisce un riflesso fedele, fra
cosmopolitismo e provincia, fra voci di genio e una sorta di rassegnata
bonaccia venata da noiose querelles, come quella suscitata pochi anni orsono
quando il poeta laureato Manuel Alegre venne escluso da una antologia
titolata O Seculo de ouro, neanche tanto scapigliata: un "piccolo dolore
alla portoghese / cosi' mansueto, quasi vegetale", avrebbe detto con il
consueto sarcasmo il poeta Alexandre O'Neill, incluso nel secolo d'oro, ma
pressoche' dimenticato - imperdonabile lacuna - dalla nostra editoria.
In Italia, un tentativo di antologizzazione della letteratura portoghese,
possibile viatico all'esplorazione di una cultura letteraria, e' stato
realizzato negli ultimi anni con l'edizione dell'Antologia del racconto
portoghese (Cavallo di Ferro), curata da Joao de Melo, dove viene presentato
un ventaglio narrativo che parte dai romantici Alexandre Herculano e Camilo
Castelo Branco e arriva al giorno d'oggi con Jose' Luis Peixoto (ma con
l'inspiegabile oblio di un narratore "giovane" quale Jacinto Lucas Pires che
proprio nella dimensione del racconto ha offerto le prove migliori); un
altro tentativo lo ha compiuto l'editrice La nuova frontiera con la raccolta
di racconti Lusofonica, che pero' considerava anche la letteratura
brasiliana e quelle africane di espressione portoghese nel segno della
grande comunita' linguistica della lusofonia. Alcuni editori, poi, hanno
eletto la letteratura portoghese a elemento connotativo dei loro cataloghi,
e tra questi la leccese Besa che, fra l'altro, propone uno scrittore
"classico" del postmoderno lusitano come Almeida Faria, sebbene traducendone
le prove forse meno convincenti (Il conquistatore, 2004 e Le passeggiate del
sognatore solitario, 2005).
Un breve percorso attraverso la narrativa portoghese contemporanea, per
quanto non esaustivo, deve attingere a un repertorio eterogeneo, non
inquadrato in scuole e movimenti ma unito nel rapporto con i modelli e con
la generazione precedente. Da tempo il termine di confronto e' sempre e
soltanto Saramago, mentre meno presente fra i punti di riferimento e' Jose'
Cardoso Pires, come se la sua lezione di lucido e coraggioso indagatore dei
falsi miti, delle strutture piu' recondite e dei complessi meccanismi che
storicamente hanno legato il potere e la societa' del Portogallo rivestisse
un minore interesse. Forse perche' lo sguardo dello scrittore ha un po'
rinunciato allo scavo sociale e politico del suo paese; come se una volta
archiviato (quando non rimosso) il recente passato e una volta decretato il
transito definitivo nel tessuto globalizzato del nuovo millennio, anche le
tensioni che spiegherebbero al lettore una societa' in mutazione fossero
state accantonate nel nome della ricerca, non sempre riuscita, di una
scrittura in cui prevalga il lato estetico e espressivo. Quanto agli autori
che, a tutti gli effetti, dovrebbero rappresentare i "vecchi maestri" -
Vergilio Ferreira, Jose' Rodrigues Migueis, Aquilino Ribeiro, Jorge de Sena,
Miguel Torga - sembra che la loro traccia si sia inspiegabilmente persa nel
tempo.
Curiosa, poi, la canonizzazione in vita di uno scrittore come Lobo Antunes,
testimoniata filologicamente dalla scelta da parte della lisbonense Dom
Quixote di pubblicare l'edizione ne varietur della sua ormai vasta opera, e
confermata anche dalla recente pubblicazione di Lettere dalla guerra
(Feltrinelli), un epistolario piu' vicino alla diaristica d'autore che
all'autofiction e all'intersezione fra testo narrativo e autobiografia. Le
missive di Lobo Antunes risultano prive di quel corredo testuale
caratteristico del journal intime, poiche' - e' evidente - non vi e' nulla o
quasi di autenticamente letterario, perlomeno nelle intenzioni. Piu'
interessante e' forse una riflessione sul contenuto sociale (lo sfondo della
guerra coloniale) e politico (la fine del salazarismo). La lettura di questo
epistolario risulta ancora piu' significativa se si considera un contesto
come quello rappresentato dalla cultura portoghese che, salvo rari casi, ha
archiviato senza una vera analisi previa periodi cosi' oscuri della sua
storia, relegandoli nella dimensione del tabu' e dell'oblio.
Una parziale inversione di tendenza e' rappresentata dal recente tentativo
di narrare le vicende che hanno coinvolto decine di migliaia di cittadini
portoghesi, i cosiddetti retornados, costretti ad abbandonare i loro luoghi,
le loro esistenze e spesso anche i loro affetti a seguito dell'indipendenza
delle allora colonie africane, inserendosi a grande fatica nel tessuto
sociale portoghese dopo il 25 aprile del 1974. Le storie di portoghesi in
Africa sono il tema attorno al quale si sviluppano le prove interessanti di
Francisco Camacho con Niassa e di Francisco Jose' Viegas con Lourenco
Marques, entrambe connotate fin dal titolo da una topografia localizzata in
ambito coloniale (Lourenco Marques e' il nome portoghese della capitale
mozambicana, oggi chiamata Maputo).
*
Qualche menzione speciale
Un paio di anni fa sono stati finalmente tradotti anche in Italia, dalle
edizioni Cavallo di Ferro due bei romanzi: quello di Joao de Melo Autopsia
di un mare di rovine, e Equatore, il feulleton del giornalista Miguel Sousa
Tavares, presto diventato un caso editoriale, in cui il recente passato
coloniale viene riletto alla luce di vicende personali narrate secondo i
modelli canonici del romanzo sentimentale.
Quel che apparira' chiaro, sfogliando uno schedario inevitabilmente
arbitrario di autori e di opere in qualche modo rappresentativi, e' che va
subito archiviata l'ipotesi di un comune deposito di temi, mentre si potra'
facilmente rintracciare una tendenza al disimpegno, allo scollamento dal
contesto portoghese, bilanciato dall'incursione nel passato piu' remoto, non
necessariamente circoscritto ai confini lusitani. Proprio questo si trova
nella narrativa di Goncalo M. Tavares, portoghese nato in Angola nel 1970,
epistemologo, autore assai prolifico il quale, nel volgere di pochissimi
anni - dopo avere debuttato nel 2001 con le poesie di Livro da danca per la
prestigiosa Assirio & Alvim - ha vinto alcuni fra i premi letterari piu'
importanti assegnati in Portogallo inducendo una critica frettolosa a
scomodare addirittura l'eteronimia di Pessoa. Oltre al romanzo piu' noto,
Jerusalem (2004) e alla fortunata serie assai apprezzata dall'Oulipo
parigino dedicata a quei "signori scrittori" che animano i caffe' di un
quartiere reinventato nel centro di Lisbona e che si chiamano signor Valery,
signor Brecht, signor Walser, signor Henri (nel senso di Michaux) o signor
Calvino, sono da poco uscite le sue originali prose rapsodiche Acqua, cane,
cavallo, testa (Il Filo), collezione di lacerti costruiti intorno a
personaggi-monadi colti in ossessive deambulazioni dal risvolto mortifero.
Sullo stesso stile e con una spiccata propensione al racconto breve di
ispirazione americana, sebbene pervasa di elementi surreali, si muove
Jacinto Lucas Pires, purtroppo non ancora tradotto in Italia, anch'egli
giovanissimo al suo debutto e trasmigrato di recente verso la
sperimentazione cinematografica e la frequentazione di altri media.
Il paradigma sul quale possiamo riflettere l'analisi di una intera
generazione e' senz'altro rappresentato da Jose' Luis Peixoto, anch'egli
tradotto in Italia (ricordo in particolare Questa terra ora crudele, La
nuova frontiera, struggente requiem in memoria del padre): la sua opera
forse piu' ambiziosa, Cemiterio de pianos, nel complesso e' un buon romanzo,
sebbene prolisso e inciso da incastri spesso superflui ma, ancora una volta,
e' troppo costruito intorno alla lezione di Lobo Antunes. Un discorso
analogo si potrebbe fare per Dulce Maria Cardoso (Le mie condoglianze e
Campo di sangue, per Voland), autrice proveniente dalla sceneggiatura
cinematografica. Dalla scia di Antunes si discosta invece Mario de Carvalho,
il quale appartiene pero' alla generazione degli esiliati parigini rientrati
in patria dopo la rivoluzione del 25 di aprile; tra i suoi libri sono
notevoli Passeggia un dio nella brezza della sera e I sottotenenti (entrambi
usciti in Italia da Instar).
Una menzione, infine, va accordata alle promesse non mantenute: in
particolare a Possidonio Cachapa, in caduta libera dopo un debutto assai
originale (A materna docura) e Pedro Rosa Mendes, eclissatosi dopo un
mirabile esempio di romanzo-testimonianza (Baia dos Tigres, Einaudi),
scritto a seguito di un lungo viaggio fra le rovine di un'Angola e di un
Mozambico apocalittici e violenti, disseminati di mine e corrosi da
conflitti irrisolti.
*
Postilla. Studi lusitani. Una ambigua famiglia tenuta insieme dalla lingua.
Autori provenienti dalle antiche colonie africane dell'Ultramar portoghese
A dispetto del "demone dell'analogia", che permette di includere opere
diverse all'interno di un corpus e nel rispetto di una tradizione secolare e
di un plausibile senso di ordine e di utilita', sono spesso i parametri
della lingua e della nazione ad essere eletti come vincolanti, quando non
addirittura assoluti, per la costruzione di un sistema letterario. Cosi' e'
nella letteratura portoghese che all'universita' italiana viene studiata
insieme a quella brasiliana: aggregamento coloniale nel nome della lingua
(ma con lo stesso rapporto che intercorre fra Peru' e Spagna o fra Australia
e Gran Bretagna) e di un comune ma parziale passato storico, di una
dipendenza politica che ha radici nell'Impero e che, fatta forse eccezione
per il '500, non e' assolutamente sufficiente a contenere senza evidenti
sbavature le culture di questi due paesi.
Il discorso si complica quando all'interno di questa ambigua "famiglia
allargata", che prende il nome altisonante e vagamente epico di lusofonia,
viene incluso un corpus cosi' complesso e multiforme come quello formato
dalle letterature di Angola, Capo Verde, Mozambico, Guinea-Bissau e Sao
Tome' e Principe, ovvero le antiche colonie africane dell'Ultramar
portoghese. Da un mercato editoriale quasi totalmente occupato da lettori
portoghesi (con il ruolo quasi monopolistico dell'editrice Caminho) anche
l'Italia attinge con attenzione e una buona dose di coraggio, consapevole di
trovare quasi sempre nella solita nicchia il destino finale di un libro.
Dopo il progetto pionieristico dell'antologia Africana - racconti
dell'Africa che scrive in portoghese (Feltrinelli, 1999) gli autori piu'
noti hanno quasi tutti ottenuto la loro collocazione e talvolta un certo
successo di pubblico, come e' il caso del mozambicano Mia Couto. Dallo
stesso paese australe provengono il femminismo militante di una delle
narratrici piu' dotate della generazione odierna, Paulina Chiziane (Il
settimo giuramento, 2002 e Niketche, 2006, entrambi per La nuova frontiera),
la lettura amara e severa delle vicende legate alla guerra civile di
Ungulani Ba Ka Khosa (La gabbia vuota, Edizioni Lavoro, 2007) e gli
strazianti racconti densi di allegorie anticoloniali di Luis Bernardo
Honwana (Abbiamo ucciso il cane rognoso, Goree, 2008). Dall'Angola, oltre al
maestro Luandino Vieira (La vita vera di Domingos Xavier, Tullio Pironti,
2004) e le risate amare provocate da Manuel Rui, Magari fossi un'onda (La
nuova frontiera, 2006) spicca la voce del giovanissimo Ondjaki (Il
fischiatore, 2002 e Le aurore della notte, 2006, entrambi per le Edizioni
Lavoro). Nel caso di Capo Verde, esaurita la vena che discende da Amado di
un narratore puntuale ma ingabbiato in una certa ripetitivita' tematica
quale e' Germano Almeida, non resta che risalire alle origini del discorso
postcoloniale e leggere un piccolo autentico capolavoro degli anni '30 come
Chiquinho di Baltasar Lopes (Edizioni Lavoro, 2008).

3. LETTERATURE. VALENTINA PARISI: LETTERATURA RUSSA OGGI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 agosto 2009 col titolo "Atlante
letterario. Nostalgici russi" e il sommario "Elementi fantasmagorici su
scenari realistici. In un orizzonte letterario certamente privo di
significative effervescenze, gli esempi piu' interessanti sono i libri di
tre scrittori 'realisti', accomunati da un rinnovato interesse sociale. Non
ancora tradotti, Zakhar Prilepin, Mikhail Elizarov e German Sadulaev danno
voce alla generazione 'di mezzo' che ha fatto in tempo a vedere con i propri
occhi l'Urss, ma anche a sperimentare le drammatiche conseguenze della
transizione al capitalismo"]

Due anni fa, presentando in Italia al Museo "Luigi Pecci" di Prato un'ampia
collettiva di artisti provenienti dalle ex repubbliche dell'Urss, il critico
Viktor Misiano introdusse il concetto apparentemente antinomico di
"nostalgia progressista" per definire esperienze creative alquanto diverse
tra loro, ma ugualmente ispirate da un senso di delusione per le
connotazioni particolarmente aggressive che il capitalismo neoliberista
aveva assunto nell'area postsovietica. Alla stabilizzazione degli anni '90 e
alla deriva nazionalista del decennio successivo, gli artisti raccolti da
Misiano contrapponevano una riflessione sull'utopia sovietica soffusa da un
senso di nostalgia per il passato "non per com'era stato, ma per come
avrebbe potuto essere".
Una proiezione che si trasformava ipso facto in strategia antagonista nel
momento in cui, smentendo il trionfalismo isterico delle organizzazioni
giovanili filoputiniane o le altre voci del consenso organizzato, denunciava
le terrificanti lacune del processo di democratizzazione, i diritti civili
invariabilmente calpestati, le innumerevoli vittime sacrificate sull'altare
della modernizzazione. "La Storia non e' un monumento equestre, ma la pelle
rivoltata di un cavallo frustato a sangue": cosi', "parafrasando" la
spiazzante scultura Gattamelata all'ombra di Gengis Khan di Erbossyn
Mel'dibekov, Misiano sintetizzava l'atteggiamento demistificatorio assunto
dell'arte post-sovietica nei confronti delle grandi narrazioni elaborate del
potere politico. Se, come nell'opera di Mel'dibekov, degli idoli del passato
sono rimasti in piedi soltanto quattro zoccoli equini, collocati su un
piedistallo e sovrastati da un vuoto inquietante, all'artista di oggi non
resta che ricostruire nostalgicamente le fisionomie individuali di coloro
che sono rimasti calpestati dall'avanzata spettrale della Storia.
Questo rinnovato interesse sociale emerge anche dalle prove narrative di tre
giovani scrittori "realisti", accomunati sia dall'appartenenza
generazionale, sia dai temi prescelti, e persino dalla casa editrice che ne
pubblica i testi (la moscovita Ad Marginem). Non ancora tradotte in Italia,
le opere di Zakhar Prilepin, Mikhail Elizarov e German Sadulaev
rappresentano l'elemento di maggior novita' in un orizzonte letterario certo
non caratterizzato da grande effervescenza. Lo sdegno sincero, quasi
adolescenzialmente irriverente, con cui i tre sono soliti attaccare i
cosiddetti "liberali" (i difensori delle riforme degli anni '90, attualmente
sostenitori del binomio Putin-Medvedev come "male minore" e ineluttabile
fase di transizione per la Russia) ha spinto alcuni a salutare addirittura
la nascita di un movimento di sinistra di stampo occidentale, critico nei
confronti delle politiche neoliberiste.
Senza dubbio, Prilepin, Elizarov e Sadulaev rappresentano la voce della
generazione "di mezzo" che ha fatto in tempo a vedere con i propri occhi
l'Urss, ma anche a sperimentare le drammatiche conseguenze della transizione
al capitalismo. Dunque, se nel caso di questi autori si puo' parlare di
"nostalgia progressista", tuttavia tale etichetta andra' interpretata nel
senso di un ripiegamento istintivo verso un passato fortemente idealizzato;
in piu', c'e' l'esigenza di sanare il trauma che ha segnato la loro
adolescenza (la dissoluzione dell'Unione Sovietica, ossia la perdita della
patria semi-mitologica dell'infanzia), e il tentativo coraggioso, ma non
esente da ingenuita', di tracciare una prospettiva nuova per il futuro.
"Un governo schifoso, disonesto e stupido, che si disfa dei piu' deboli e
da' il via libera ai vili e ai corrotti - perche' sopportarlo? perche'
conviverci, tradendo a ogni pie' sospinto se stessi e i propri
concittadini?": questo l'interrogativo di fondo di San'kja (2006), secondo
frammento della trasfigurazione letteraria cui Zakhar Prilepin ha sottoposto
la propria biografia, indiscutibilmente movimentata e romanzesca. Dopo avere
partecipato alle operazioni militari in Cecenia a capo di un reparto del
corpo speciale Omon, l'autore nato nel 1975 ha militato nel partito
nazionalbolscevico fondato da Eduard Limonov, partecipando alle Marce dei
Disobbedienti organizzate dalla coalizione "Un'altra Russia". San'kja e'
l'epopea disperata dei suoi compagni di lotta, ragazzi di provincia
irrimediabilmente "selvaggi", giunti da ogni angolo della Russia per portare
la rivoluzione a Mosca. Si', perche' come sostiene l'alter ego di Prilepin,
"Russia e Rivoluzione sono due concetti equivalenti e equipollenti. La
Russia non e' piu' concepibile al di fuori e senza la Rivoluzione".
*
Punti di vista alienati
Nella sfida che San'kja lancia al potere in nome di un partito che ricorda
assai da vicino quello nazionalbolscevico, c'e' dunque un senso di
imperscrutabile fatalita', il rinnovarsi del sacrificio dei narodniki
ottocenteschi, la consapevolezza che la propria rivolta non potra'
concludersi se non con l'autodistruzione. Anche perche' tutto intorno si
spalanca un duplice vuoto: quello tangibile della campagna (dove gli uomini
stanno letteralmente scomparendo, decimati non solo dall'alcolismo, ma anche
dalla recente passione per le motociclette) e quello spirituale delle grandi
citta', in preda alla vertigine consumistica e all'ossessione per il glamour
(parola-chiave degli anni Zero in Russia). Nemmeno l'ebbrezza transitoria
della violenza riesce a colmare questo senso di sconfortante vacuita': "La
citta' si era rivelata debole, inconsistente - e spaccarla era stato
insensato come spaccare un giocattolo: dentro non c'era niente - solo un
vuoto di plastica". Nel modellare i suoi eroi nichilisti, Prilepin si
richiama esplicitamente al discorso "rivoluzionario" della letteratura russa
classica (dal Che fare? di Cernyscevskij, ai Demoni dostoevskiani al giovane
Gor'kij della Madre), sviluppando in particolare un'intuizione di Aleksandr
Blok: per il narodnik del Terzo Millennio la Russia non e' tanto
assimilabile alla figura della madre (dalla quale e' inevitabile
allontanarsi), quanto al miraggio di una sposa mistica che si ama
disperatamente, senza possibilita' di scelta. Cosi' come altrettanto
ineludibile e' l'esigenza di riparare agli errori dei padri per poter
retrocedere finalmente allo stato di innocenza proprio dell'infanzia.
Il tema della colpa torna anche in Patologie (2003), l'esordio letterario di
Prilepin centrato sull'esperienza cecena. Qui l'interlocutore a distanza,
oltre che il Tolstoj dei Racconti di Sebastopoli, e' innanzitutto Lermontov,
per anni ufficiale di stanza nel Caucaso. Come il ventisettenne autore di Un
eroe del nostro tempo, anche Prilepin elargisce al suo protagonista il
diritto a non dover giustificare ogni sua singola azione, lasciandolo
piuttosto da solo a confrontarsi con le proprie "patologie": l'amore
follemente geloso per Dasha e il coinvolgimento nelle operazioni militari a
Groznyj. "La patologia ha inizio dove termina l'indifferenza", afferma
sibillina Dasha. E, infatti, posto di fronte agli orrori della guerra, Egor'
si sforzera' di indossare una maschera di fosca imperturbabilita', riducendo
al grado zero ogni forma di riflessione. "Non me ne importa niente ne' della
tasca che potrebbe sporcare il pesce, ne' del pesce che mi sporca la tasca",
dichiara aggirandosi tetro, con un pezzo di aringa affumicata nei calzoni,
per il mercato di una cittadina cecena identica a quella russa da cui
proviene.
A interrompere questo stato di "necessario" abbrutimento sono incongrui
slanci lirici, resi da Prilepin con notevole efficacia. Cosi' l'eroe si
domanda di colpo come si sentano gli alberi in tempo di guerra, oppure,
nelle ultime righe del romanzo, vorrebbe gettarsi piangente al collo di una
cagna salita per sbaglio sull'aereo che riporta gli uomini del reparto
speciale in patria. Inutile dire che restera' immobile, a fissare il
soffitto con gli occhi asciutti: "Non ho chiesto perdono a nessuno".
Se il testo spietato di Prilepin ha rotto un silenzio - quello degli
scrittori russi sulla guerra in Cecenia - che stava iniziando a farsi
assordante, i racconti di German Sadulaev Sono ceceno! (2006) riflettono il
punto di vista "alienato" dell'emigrante (l'autore, nato nel 1973, aveva
lasciato il suo paese natale a sedici anni per studiare a Pietroburgo) che
stenta a riconoscersi sia nel "nuovo" popolo ceceno, trincerato dietro il
fanatismo religioso, sia nei ritmi della metropoli affacciata sul Golfo di
Finlandia. Il tema della proiezione nostalgica verso il mondo della campagna
in rapida dissoluzione - essenziale sia per Prilepin, sia per Elizarov - si
fonde qui con la prospettiva geopolitica dei cambiamenti in atto nel
Caucaso, la fine dell'internazionalismo sovietico, l'inasprirsi dei
fondamentalismi. Ma se per i colleghi russi la scoperta della dimensione
"esotica" e primigenia del villaggio e' veicolata dal rapporto privilegiato
con la generazione dei nonni (contrapposta a quella inurbata dei padri), il
confronto con l'universo patriarcale per il ceceno Sadulaev risulta molto
piu' serrato e conflittuale, conferendo ai suoi racconti una particolare
drammaticita'.
Dal trauma per la perdita della terra d'origine Sadulaev sembra aver preso
le distanze nei suoi testi successivi e, soprattutto, in Pillola (2008),
romanzo d'ambientazione pietroburghese centrato sugli sdoppiamenti di
personalita' di Maksimum, un manager insoddisfatto dalle inclinazioni
neo-marxiste (ennesima reincarnazione dell'impiegato gogol'iano) che, grazie
a misteriose pillole rosa, riscopre in sogno le sue origini di discendente
del khan di Khazaria. Senonche' le visioni che ogni notte si profilano ai
suoi occhi ricordano in maniera inquietante gli avvenimenti piu' recenti
della storia russa... Nel suo assemblaggio spesso caotico di allusioni
caustiche alla contemporaneita' e fughe in un passato leggendario, Pillola
evidenzia tuttavia una delle tendenze stilistiche ricorrenti nella narrativa
russa odierna: la contaminazione di scenari realistici con elementi
fantasmagorici, quasi psichedelici, utilizzati come veri e propri
grimaldelli per scardinare trame altrimenti statiche e forzare l'azione
verso conseguenze imprevedibili.
*
Un caso linguistico
Cosi' avviene nel notevole Bibliotecario di Elizarov (insignito l'anno
scorso del Booker Prize russo), dove le opere di un oscuro pennivendolo del
realismo socialista, Dmitrij Aleksandrovich Gromov rivelano alla sua morte
insospettati poteri magici, trasformandosi nell'ambita preda di
collezionisti-adepti in acerrima rivalita' tra loro. Se il motivo della
societa' segreta rinvia apertamente alla Trilogia di Vladimir Sorokin (di
cui Einaudi nel 2005 ha tradotto il frammento centrale, Ghiaccio),
l'immagine del corpus sacrale dei testi di Gromov appare un'ironica
rielaborazione della biblioteca borgesiana e fornisce a Elizarov
innumerevoli spunti per teorizzare il carattere puramente mantrico della
letteratura sovietica: "Il paese che aveva prodotto Gromov poteva pubblicare
migliaia di autori che nessuno leggeva".
Infine, il tema della nostalgia affiora chiaramente anche dall'opera prima
di Nicolai Lilin, l'unico autore tra quelli citati che il pubblico italiano
potra' leggere, per l'ottimo motivo che il ventinovenne originario della
Transnistria e ora residente a Cuneo ha scelto di scrivere Educazione
siberiana nella lingua del nostro paese. Un italiano duttile ed espressivo
che veicola alla perfezione la parabola discendente della comunita'
criminale degli Urka e che, nel contempo, risulta estremamente interessante
per chiunque sappia il russo, tale e' la quantita' di calchi, di torsioni e
acrobazie piu' o meno consapevoli sfoderate dallo scrittore per adattare il
flusso vivo e struggente della memoria a un idioma estraneo. Da qui un
interrogativo provocatorio: se Lilin avesse scritto in russo, il suo
celebrato best seller sarebbe mai apparso sugli scaffali delle librerie
italiane?
*
Postilla. La generazione precedente. Eduard Limonov, Vladimir Sorokin e
Viktor Pelevin, i referenti
Benche' gli eroi dei loro romanzi siano orfani o legati ai padri da rapporti
conflittuali, Prilepin, Elizarov e Sadulaev non hanno mai nascosto il debito
contratto verso la generazione letteraria che li ha preceduti, in
particolare, nei confronti dei loro "idoli", rispettivamente Eduard Limonov,
Vladimir Sorokin e Viktor Pelevin. Le sorti attuali di questi scrittori,
noti anche al pubblico italiano, sono quantomeno eterogenee: Sorokin si e'
rivolto al XV secolo per proseguire col romanzo antiutopico Cremlino di
zucchero (2008) la resa dei conti con Putin gia' intrapresa in Un giorno
nella vita di un opricnik (2006). E Eduard Limonov - dopo aver scontato due
anni di reclusione per possesso illegale d'armi - delinea i tratti della
Russia che verra' nei saggi di Un'altra Russia, modellando la sua immagine
di ex prigioniero politico su quella di Nikolaj Cernyscevskij. Pelevin
invece con i racconti di P5 continua a ripetere impavido se stesso.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 374 dell'11 settembre 2009

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