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Voci e volti della nonviolenza. 374
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 374
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 11 Sep 2009 10:09:49 +0200
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 374 dell'11 settembre 2009 In questo numero: 1. Luca Briasco: Letteratura statunitense oggi 2. Roberto Francavilla: Letteratura portoghese oggi 3. Valentina Parisi: Letteratura russa oggi 1. LETTERATURE. LUCA BRIASCO: LETTERATURA STATUNITENSE OGGI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 agosto 2009 col titolo "Atlante letterario. Stelle americane" e il sommario "Tutte le strade portano indietro. La reazione all'11 settembre della narrativa statunitense si e' risolta in un ritorno alla solidita' della tradizione, tra saghe familiari, intrecci storici, consapevoli tentativi di preservare gli esiti del postmoderno, e l'introduzione di uno sguardo altro, in grado di sondare ferite recenti e traumatiche"] Riflettere sulla letteratura americana, sul suo stato di salute e sulle direzioni verso le quali si sta orientando equivale prima di tutto a cercare di capire e assimilare un decennio difficile e contraddittorio, che si e' aperto con una data tanto fatidica quanto extraletteraria. L'11 settembre 2001 e i suoi significati culturali vanno ben al di la' del quadro sociopolitico che l'attentato al World Trade Center ha sancito e inaugurato al tempo stesso: il crollo delle Torri ha scavato un vero e proprio abisso nella psiche collettiva, traducendosi prima di tutto in una profonda crisi della rappresentazione, della parola, dei modi di racconto. * Soluzioni pescate dal passato L'America emersa dall'11 settembre si e' rifugiata in un modello narrativo unico e rassicurante, nel quale il mito della democrazia, la ricodificazione del nazionalismo, i valori del fondamentalismo cristiano sono stati riorganizzati in un nuovo mix, costruendo l'immagine di una nazione granitica, in grado di rinsaldare la propria identita' collettiva anche al prezzo di una cessione di liberta' individuali e di una omogeneizzazione del panorama culturale. Ne e' emerso un paese chiuso dentro se stesso, sordo alla perdita di prestigio e di leadership internazionale (culturale ed economica), soprattutto incapace di riprendere quell'opera incessante di ascolto, assimilazione e rielaborazione che - la si voglia o meno sintetizzare nel termine melting pot - ne ha sempre rappresentato la forza attrattiva. La letteratura americana ha pagato questa crisi senza riuscire, come pure era accaduto in altre circostanze - una su tutte: la guerra del Vietnam - a trovare il linguaggio giusto per raccontarla e per invertire il modello narrativo dominante, o per svelarne le falsita'. Per quasi tutto il decennio che si avvia a conclusione, il compito di polemizzare con la vulgata dell'America di Bush e' stato affidato a figure "pubbliche", che trovano nella forma scritta piu' un'occasione per sintetizzare percorsi creativi sviluppati all'interno di altri media che non uno spazio privilegiato: Michael Moore e David Sedaris (quest'ultimo, con un grado molto piu' forte di consapevolezza formale) su tutti. Il romanzo statunitense ha scelto altre vie, molto piu' indirette, nelle quali al corpo a corpo, allo scontro all'arma bianca con i nuovi conformismi, viene preferita la narrazione distesa, la saga familiare, la rievocazione nostalgica di un "bel tempo andato" da contrapporre ai falsi valori del presente; o addirittura il romanzo storico, che proprio in questo inizio millennio ha conosciuto un ritorno di fiamma certamente non casuale. Da questa prospettiva critica, l'autore che segna il vero e proprio spartiacque tra la letteratura degli anni '90 e quella che si affaccia affannosamente sulle rovine delle Torri e' senza dubbio Philip Roth. Che al fervore di fine millennio aveva contribuito attivamente con due dei suoi romanzi piu' complessi e ambiziosi (Operazione Shylock e soprattutto Il teatro di Sabbath), e che subito dopo si e' avventurato in una complessa opera di ricodificazione dei propri temi privilegiati, nella quale all'esplorazione diretta della scena contemporanea si sovrappone la rievocazione nostalgica di un tempo e di un sistema di valori ormai irrecuperabili. Di questa ricodificazione, che ha peraltro sancito in via definitiva l'ingresso di Roth nell'Olimpo dei classici, e' testimonianza una serie di romanzi strutturalmente perfetti e sorprendentemente armoniosi, spesso imperniati su una qualche forma di conflitto generazionale, lontani dalla frenesia e dalla furibonda inventiva delle opere precedenti (due titoli su tutti: Pastorale americana e La macchia umana). * Un pessimismo rassicurante La tendenza a sfuggire al confronto diretto con il presente, e a commentarlo in contrapposizione a una pienezza a volte immaginata almeno quanto reale, e' anche la chiave per spiegare il successo improvviso di un autore che per anni aveva simboleggiato (non meno di Salinger e Pynchon) il mito dell'artista recluso e sdegnosamente in fuga dalla notorieta' e dalle vendite. Gia' con la Trilogia della frontiera, e ancor piu' con Non e' un paese per vecchi e La strada, Cormac McCarthy ha deliberatamente preso le distanze dal pessimismo radicale che aveva contraddistinto la sua prima fase creativa e quelle che restano forse le sue opere migliori (Il buio fuori, Figlio di Dio, Meridiano di sangue), ricorrendo ai moduli narrativi consolidati del western, del noir e della fantascienza per contrapporre la solidita' di valori non recuperabili (ma forse per questo ancor piu' "autentici") alla catastrofe e alla deriva materialistica del presente (o del futuro prossimo). In questo moto oscillatorio tra nostalgia e catastrofismo, i romanzi dell'ultimo McCarthy - non diversamente da quelli dell'ultimo Roth - propongono al lettore un "pessimismo rassicurante", assolutamente adatto a tempi di crisi; la forma narrativa subisce una corrispondente contrazione, nel momento in cui rinuncia al quadro complesso, al ritratto collettivo di una nazione, e preferisce riprodurne le contraddizioni attraverso il conflitto tra personaggi (il vecchio sceriffo Bell e il killer Chigurrh in Non e' un paese per vecchi). Partire da due autori che hanno esordito a cavallo tra gli anni '50 e i '60 per costruire un quadro della letteratura americana contemporanea puo' sembrare contraddittorio, ma lo e' solo in apparenza. Il ripiegamento di McCarthy e Roth e il loro approdo a forme radicate nella tradizione americana li trasforma in veri e propri capifila (piu' o meno riconosciuti) di quella che si puo' definire a tutti gli effetti la narrativa dominante negli Stati Uniti di questo inizio millennio. I due romanzi forse piu' importanti di questi ultimi anni - Le correzioni di Jonathan Franzen e Middlesex di Jeffrey Eugenides - presentano infatti piu' di un'analogia con il percorso che ha condotto Roth e McCarthy verso lo status di classici contemporanei. Tanto nel caso di Franzen quanto in quello di Eugenides, infatti, la forma e i temi trattati, dietro la scintillante patina postmoderna, configurano un vero e proprio ritorno della grande narrazione, quando non, come in Eugenides, del romanzo storico. Ed entrambi gli autori giungono al loro magnum opus partendo da opere imperfette e irrequiete (La ventisettesima citta' per Franzen, Le vergini suicide per Eugenides), nelle quali alla sperimentazione narrativa si accompagnavano diagnosi ben piu' distruttive e a diretto contatto con il contemporaneo, tra crisi del modello familiare e distopia. Nelle Correzioni e in Middlesex, come anche nella fantasmagoria "storica" delle Fantastiche avventure di Kavalier e Clay di Michael Chabon, esiste una evidente, a tratti esplicita contrapposizione tra un mondo favoloso e sentimentale, disperso nei meandri della storia e ricreato da personaggi alla deriva nel presente, e una realta' inaridita o mascherata dietro falsi miti. Una realta', soprattutto, che appare "illeggibile", irreparabilmente opaca, cosicche' allo scrittore e all'intellettuale non resta che leggerla attraverso cio' che essa non e' piu', o, in alternativa, attraverso lo sguardo vergine e ingenuo del bambino, del folle, dello straniero. E' questa l'altra via che la nuova letteratura americana ha intrapreso per istituire un rapporto con la realta' dell'oggi. Ed e' la via seguita da Dave Eggers nel suo notevole romanzo di esordio L'opera struggente di un formidabile genio, purtroppo rimasto senza seguiti all'altezza, come anche da Jonathan Safran Foer in Ogni cosa e' illuminata (il suo libro migliore) e in Molto forte, incredibilmente vicino. Si tratta di tre opere - alle quali merita di essere accostato anche Lowboy di John Wray, forse l'autore piu' interessante dell'ultima generazione - nelle quali le grandi ferite remote e recenti della contemporaneita', dall'Olocausto all'11 settembre, al riscaldamento globale, vengono elaborate e portate sulla scena attraverso uno sguardo altro, in grado di percepirle, a partire da un sistematico straniamento, nei loro elementi essenziali e piu' autentici. Nel ricorrere alle due strade del romanzo-saga e della Bildung, la nuova narrativa americana sembra perseguire un ritorno alle proprie radici profonde (dunque, all'antica polarita' Henry James - Mark Twain), abbandonando quella vena piu' sperimentale, aperta e coraggiosa che, tra gli anni '80 e i '90, aveva animato una generazione di nuovi, grandi autori, da William Vollmann a David Foster Wallace, a Richard Powers. D'altro canto, alla ricerca di una nuova (o antica) solidita' si accompagna il consapevole tentativo di preservare le innovazioni del postmoderno, se non altro attraverso il ricorso all'ironia, al disincanto, al gioco metanarrativo. Un tentativo che - proprio quando del postmoderno sembra essersi esaurita la spinta critica e l'ambizione - si configura come sempre piu' decisamente maschile: non e' un caso che gli autori citati finora siano tutti uomini, e bianchi (anche se non necessariamente wasp). * Il punto di vista femminile Affidandosi alla solidita' della trama e alla centralita' dei personaggi e della loro psicologia, gli eredi dei postmoderni, di Roth e di McCarthy, "invadono" un territorio a lungo affidato alla gelosa custodia delle scrittrici. La narrazione al femminile resta infatti profondamente innervata dentro la tradizione del romanzo di famiglia: con in piu' un radicamento nei luoghi e nei territori che ha indotto spesso la critica a parlare (non senza un fondo di sprezzo) di regionalismo, quasi a voler trasformare la geografia in gabbia e in fattore riduttivo. Eppure, proprio a partire dal suo radicamento, la narrativa al femminile ha saputo raggiungere una universalita' e una profondita' di sguardo capace di dire sull'America di oggi molto e forse piu' rispetto alle saghe nostalgiche maschili cui sono andati troppo spesso il plauso e gli allori. E' il caso di Marylinne Robinson, rimasta per molti anni l'autrice di un unico, memorabile romanzo, Housekeeping (ancora in attesa di traduzione), e poi in grado di superarsi con la splendida elegia di Gilead; oppure, guardando alle nuove generazioni, di A. M. Homes, che nei suoi romanzi, ma soprattutto nei superbi racconti della Sicurezza degli oggetti, ha esplorato le patologie dell'America contemporanea a partire dall'istituzione familiare, con una esattezza di sguardo e una innovativita' di forme che hanno pochi eguali. E ancora, quasi a voler proporre un percorso inverso e complementare rispetto a quello (essenzialmente centripeto) della narrativa maschile, le migliori e piu' coraggiose scrittrici statunitensi si sono lanciate nell'esplorazione a tutto campo del nuovo (e artefatto) sogno americano, svelandone limiti e menzogne. E' quanto ha saputo fare Joyce Carol Oates, narratrice di inarrivabile eclettismo, capace di spaziare tra romanzo di famiglia, giallo, neogotico e saggistica. Il suo Sorella, mio unico amore, prendendo le mosse da una tipica famiglia suburbana americana e raccontandone le ambizioni smodate e la pubblica caduta, riesce a rivelare la marcescenza, la volgarita' e la finzione sottesa all'America di Bush meglio di qualunque altro romanzo degli ultimi anni. Insieme a E poi siamo arrivati alla fine, romanzo di esordio di Joshua Ferris, ritratto collettivo della nuova generazione di colletti bianchi davvero notevole per profondita' e innovazione formale, l'ultimo libro di Oates rappresenta un segnale di ritrovata vitalita' e ambizione: bisognera' pero' attenderne i seguiti per avere la certezza che il romanzo americano abbia ripreso le armi e possa reclamare quel ruolo di laboratorio del nuovo che per tanti anni aveva saputo ricoprire. * Postilla. Anni '90. Strategie di diserzione del corpo a corpo con la realta' Dopo le grandi sperimentazioni degli anni '90, che recuperavano, in reazione al minimalismo, i migliori esiti del postmoderno adattandoli a una nuova realta' di cui capire e assimilare le coordinate, senza facili adesioni ma anche senza pregiudizi, il romanzo americano si affaccia al nuovo millennio in un clima di restaurazione. Di fronte agli anni bui di Bush, alla degenerazione imperialistica del sogno americano, alla chiusura difensiva di un'intera nazione dopo l'11 settembre, i narratori sembrano impreparati e disorientati, quasi privi del coraggio necessario per cercare il corpo a corpo con una realta' che non amano e che stentano a rappresentare in via diretta. Alla fiction coraggiosa e iconoclasta della grande triade di fine millennio, William Vollmann (I racconti dell'arcobaleno), David Foster Wallace (Infinite Jest) e Richard Powers (Galatea 2.2), si contrappongono le grandi saghe storico-familiari di una nuova triade: Jonathan Franzen (Le correzioni), Jeffrey Eugenides (Middlesex) e Michael Chabon (Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay). Romanzi che ripropongono la ricchezza linguistica e l'ironia postmoderna, ma restando all'interno di una struttura tradizionale, nella quale traspare la nostalgia per un tempo e un sistema di valori dei quali l'America contemporanea sa mettere in scena soltanto la parodia. 2. LETTERATURE. ROBERTO FRANCAVILLA: LETTERATURA PORTOGHESE OGGI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 settembre 2009 col titolo "Atlante letterario. Rapsodie portoghesi" e il sommario "La tendenza generale al disimpegno e' bilanciata dal recente tentativo di narrare le vicende che hanno coinvolto decine di migliaia di retornados, costretti ad abbandonare i loro luoghi e i loro affetti in seguito all'indipendenza delle colonie africane, avviata nel '74"] Considerato il senso moderno dell'aggettivo "nazionale" applicato alla letteratura - che ci rimanda all'esprit de la litterature illuminista - sarebbe interessante chiedere a un lettore medio italiano quale sia la sua percezione della cultura portoghese e quanto c'entri, in questa percezione, la letteratura. Avremmo quasi certamente risposte vaghe, scopriremmo lacune talvolta abissali e vedremmo consolidarsi stereotipi secolari. L'Italia e' uno dei paesi dove si pubblica di piu' e dove si legge di meno. Di fatto, anche per via della congenita esterofilia del nostro mercato editoriale (gli inguaribili ottimisti si ostinano a definirla "vivacita' intellettuale"), la letteratura portoghese nel nostro paese e' degnamente rappresentata, sebbene confinata nelle solite nicchie - escluse le eccezioni rappresentate da Pessoa, Jose' Saramago e Antonio Lobo Antunes - e per di piu' ancorata a traduzioni obsolete; certo e' che viene spesso ignorata dai recensori ed e' posizionata ai margini del canone. Lo testimonia il numero esiguo di opere della letteratura portoghese incluse nelle collane dei grandi classici e l'approssimazione con cui si ricordano autentici "grandi" della Weltliteratur come Gil Vicente, Camoes, Eca de Queiros. Singolare il caso di quest'ultimo, esiliato in polverose traduzioni risalenti alla prima meta' del '900, salvo qualche felice ma saltuaria riedizione (Il mandarino per Einaudi, Il conte di Abranhos per Avagliano, i Racconti per Bur). La letteratura portoghese sembra dunque un tesoro prezioso e nascosto riservato agli intenditori, ai curiosi, agli esploratori. * Un riferimento intramontabile In questo quadro, a meta' degli anni '80 l'autorevole lista del critic's choice del "New York Times" manteneva fra le sue preferenze il romanzo di Jose' Saramago Memoriale del convento, menzionandolo oltre ogni consuetudine temporale, fatto che ha contribuito al successo dello scrittore e allo sdoganamento di una letteratura fino ad allora considerata semiperiferica (concetto ancora frequentato nella dimensione sociale della letteratura oltre che nelle aggiornate classifiche di Harold Bloom). Proprio in quegli anni si andava solidificando il progressivo riavvicinamento del Portogallo all'Europa, movimento inverso a quell'allegorica deriva atlantica che la penisola Iberia avrebbe intrapreso in un altro noto romanzo di Saramago, La zattera di pietra. In seconda battuta, verso la fine degli anni '90 si e' parlato di Lisbona come centro di cultura proprio grazie alla popolarita' imagologica prodotta dalla letteratura e dalle altre arti (Tabucchi esegeta di Pessoa e narratore della citta' con Requiem e Sostiene Pereira, il Pereira stesso interpretato da Mastroianni, la musica dei Madredeus, Lisbon Story di Wim Wenders, Lisbona capitale europea della cultura, l'Expo e infine la ciliegina sulla torta: il Nobel a Saramago). L'effetto, pero', si e' afflosciato come un palloncino bucato. Nell'editoria italiana ne' Pessoa ne' Saramago hanno mai funzionato da rimorchio per autori come Mario de Sa' Carneiro, Camilo Pessanha, Antero de Quental, Cesario Verde, Aquilino Ribeiro, Jorge de Sena, Miguel Torga, Lidia Jorge, Joao de Melo. Anche l'onda di quella effimera rinascenza si e' stancamente arenata su una spiaggia. La cultura lusitana di oggi sembra trovare una allegoria calzante nel viaggio statico dell'eteronimo pessoano Alvaro de Campos: una vertigine suggerita dalle partenze di navi contemplate dall'immobilita' di un molo. E il mondo delle lettere ne costituisce un riflesso fedele, fra cosmopolitismo e provincia, fra voci di genio e una sorta di rassegnata bonaccia venata da noiose querelles, come quella suscitata pochi anni orsono quando il poeta laureato Manuel Alegre venne escluso da una antologia titolata O Seculo de ouro, neanche tanto scapigliata: un "piccolo dolore alla portoghese / cosi' mansueto, quasi vegetale", avrebbe detto con il consueto sarcasmo il poeta Alexandre O'Neill, incluso nel secolo d'oro, ma pressoche' dimenticato - imperdonabile lacuna - dalla nostra editoria. In Italia, un tentativo di antologizzazione della letteratura portoghese, possibile viatico all'esplorazione di una cultura letteraria, e' stato realizzato negli ultimi anni con l'edizione dell'Antologia del racconto portoghese (Cavallo di Ferro), curata da Joao de Melo, dove viene presentato un ventaglio narrativo che parte dai romantici Alexandre Herculano e Camilo Castelo Branco e arriva al giorno d'oggi con Jose' Luis Peixoto (ma con l'inspiegabile oblio di un narratore "giovane" quale Jacinto Lucas Pires che proprio nella dimensione del racconto ha offerto le prove migliori); un altro tentativo lo ha compiuto l'editrice La nuova frontiera con la raccolta di racconti Lusofonica, che pero' considerava anche la letteratura brasiliana e quelle africane di espressione portoghese nel segno della grande comunita' linguistica della lusofonia. Alcuni editori, poi, hanno eletto la letteratura portoghese a elemento connotativo dei loro cataloghi, e tra questi la leccese Besa che, fra l'altro, propone uno scrittore "classico" del postmoderno lusitano come Almeida Faria, sebbene traducendone le prove forse meno convincenti (Il conquistatore, 2004 e Le passeggiate del sognatore solitario, 2005). Un breve percorso attraverso la narrativa portoghese contemporanea, per quanto non esaustivo, deve attingere a un repertorio eterogeneo, non inquadrato in scuole e movimenti ma unito nel rapporto con i modelli e con la generazione precedente. Da tempo il termine di confronto e' sempre e soltanto Saramago, mentre meno presente fra i punti di riferimento e' Jose' Cardoso Pires, come se la sua lezione di lucido e coraggioso indagatore dei falsi miti, delle strutture piu' recondite e dei complessi meccanismi che storicamente hanno legato il potere e la societa' del Portogallo rivestisse un minore interesse. Forse perche' lo sguardo dello scrittore ha un po' rinunciato allo scavo sociale e politico del suo paese; come se una volta archiviato (quando non rimosso) il recente passato e una volta decretato il transito definitivo nel tessuto globalizzato del nuovo millennio, anche le tensioni che spiegherebbero al lettore una societa' in mutazione fossero state accantonate nel nome della ricerca, non sempre riuscita, di una scrittura in cui prevalga il lato estetico e espressivo. Quanto agli autori che, a tutti gli effetti, dovrebbero rappresentare i "vecchi maestri" - Vergilio Ferreira, Jose' Rodrigues Migueis, Aquilino Ribeiro, Jorge de Sena, Miguel Torga - sembra che la loro traccia si sia inspiegabilmente persa nel tempo. Curiosa, poi, la canonizzazione in vita di uno scrittore come Lobo Antunes, testimoniata filologicamente dalla scelta da parte della lisbonense Dom Quixote di pubblicare l'edizione ne varietur della sua ormai vasta opera, e confermata anche dalla recente pubblicazione di Lettere dalla guerra (Feltrinelli), un epistolario piu' vicino alla diaristica d'autore che all'autofiction e all'intersezione fra testo narrativo e autobiografia. Le missive di Lobo Antunes risultano prive di quel corredo testuale caratteristico del journal intime, poiche' - e' evidente - non vi e' nulla o quasi di autenticamente letterario, perlomeno nelle intenzioni. Piu' interessante e' forse una riflessione sul contenuto sociale (lo sfondo della guerra coloniale) e politico (la fine del salazarismo). La lettura di questo epistolario risulta ancora piu' significativa se si considera un contesto come quello rappresentato dalla cultura portoghese che, salvo rari casi, ha archiviato senza una vera analisi previa periodi cosi' oscuri della sua storia, relegandoli nella dimensione del tabu' e dell'oblio. Una parziale inversione di tendenza e' rappresentata dal recente tentativo di narrare le vicende che hanno coinvolto decine di migliaia di cittadini portoghesi, i cosiddetti retornados, costretti ad abbandonare i loro luoghi, le loro esistenze e spesso anche i loro affetti a seguito dell'indipendenza delle allora colonie africane, inserendosi a grande fatica nel tessuto sociale portoghese dopo il 25 aprile del 1974. Le storie di portoghesi in Africa sono il tema attorno al quale si sviluppano le prove interessanti di Francisco Camacho con Niassa e di Francisco Jose' Viegas con Lourenco Marques, entrambe connotate fin dal titolo da una topografia localizzata in ambito coloniale (Lourenco Marques e' il nome portoghese della capitale mozambicana, oggi chiamata Maputo). * Qualche menzione speciale Un paio di anni fa sono stati finalmente tradotti anche in Italia, dalle edizioni Cavallo di Ferro due bei romanzi: quello di Joao de Melo Autopsia di un mare di rovine, e Equatore, il feulleton del giornalista Miguel Sousa Tavares, presto diventato un caso editoriale, in cui il recente passato coloniale viene riletto alla luce di vicende personali narrate secondo i modelli canonici del romanzo sentimentale. Quel che apparira' chiaro, sfogliando uno schedario inevitabilmente arbitrario di autori e di opere in qualche modo rappresentativi, e' che va subito archiviata l'ipotesi di un comune deposito di temi, mentre si potra' facilmente rintracciare una tendenza al disimpegno, allo scollamento dal contesto portoghese, bilanciato dall'incursione nel passato piu' remoto, non necessariamente circoscritto ai confini lusitani. Proprio questo si trova nella narrativa di Goncalo M. Tavares, portoghese nato in Angola nel 1970, epistemologo, autore assai prolifico il quale, nel volgere di pochissimi anni - dopo avere debuttato nel 2001 con le poesie di Livro da danca per la prestigiosa Assirio & Alvim - ha vinto alcuni fra i premi letterari piu' importanti assegnati in Portogallo inducendo una critica frettolosa a scomodare addirittura l'eteronimia di Pessoa. Oltre al romanzo piu' noto, Jerusalem (2004) e alla fortunata serie assai apprezzata dall'Oulipo parigino dedicata a quei "signori scrittori" che animano i caffe' di un quartiere reinventato nel centro di Lisbona e che si chiamano signor Valery, signor Brecht, signor Walser, signor Henri (nel senso di Michaux) o signor Calvino, sono da poco uscite le sue originali prose rapsodiche Acqua, cane, cavallo, testa (Il Filo), collezione di lacerti costruiti intorno a personaggi-monadi colti in ossessive deambulazioni dal risvolto mortifero. Sullo stesso stile e con una spiccata propensione al racconto breve di ispirazione americana, sebbene pervasa di elementi surreali, si muove Jacinto Lucas Pires, purtroppo non ancora tradotto in Italia, anch'egli giovanissimo al suo debutto e trasmigrato di recente verso la sperimentazione cinematografica e la frequentazione di altri media. Il paradigma sul quale possiamo riflettere l'analisi di una intera generazione e' senz'altro rappresentato da Jose' Luis Peixoto, anch'egli tradotto in Italia (ricordo in particolare Questa terra ora crudele, La nuova frontiera, struggente requiem in memoria del padre): la sua opera forse piu' ambiziosa, Cemiterio de pianos, nel complesso e' un buon romanzo, sebbene prolisso e inciso da incastri spesso superflui ma, ancora una volta, e' troppo costruito intorno alla lezione di Lobo Antunes. Un discorso analogo si potrebbe fare per Dulce Maria Cardoso (Le mie condoglianze e Campo di sangue, per Voland), autrice proveniente dalla sceneggiatura cinematografica. Dalla scia di Antunes si discosta invece Mario de Carvalho, il quale appartiene pero' alla generazione degli esiliati parigini rientrati in patria dopo la rivoluzione del 25 di aprile; tra i suoi libri sono notevoli Passeggia un dio nella brezza della sera e I sottotenenti (entrambi usciti in Italia da Instar). Una menzione, infine, va accordata alle promesse non mantenute: in particolare a Possidonio Cachapa, in caduta libera dopo un debutto assai originale (A materna docura) e Pedro Rosa Mendes, eclissatosi dopo un mirabile esempio di romanzo-testimonianza (Baia dos Tigres, Einaudi), scritto a seguito di un lungo viaggio fra le rovine di un'Angola e di un Mozambico apocalittici e violenti, disseminati di mine e corrosi da conflitti irrisolti. * Postilla. Studi lusitani. Una ambigua famiglia tenuta insieme dalla lingua. Autori provenienti dalle antiche colonie africane dell'Ultramar portoghese A dispetto del "demone dell'analogia", che permette di includere opere diverse all'interno di un corpus e nel rispetto di una tradizione secolare e di un plausibile senso di ordine e di utilita', sono spesso i parametri della lingua e della nazione ad essere eletti come vincolanti, quando non addirittura assoluti, per la costruzione di un sistema letterario. Cosi' e' nella letteratura portoghese che all'universita' italiana viene studiata insieme a quella brasiliana: aggregamento coloniale nel nome della lingua (ma con lo stesso rapporto che intercorre fra Peru' e Spagna o fra Australia e Gran Bretagna) e di un comune ma parziale passato storico, di una dipendenza politica che ha radici nell'Impero e che, fatta forse eccezione per il '500, non e' assolutamente sufficiente a contenere senza evidenti sbavature le culture di questi due paesi. Il discorso si complica quando all'interno di questa ambigua "famiglia allargata", che prende il nome altisonante e vagamente epico di lusofonia, viene incluso un corpus cosi' complesso e multiforme come quello formato dalle letterature di Angola, Capo Verde, Mozambico, Guinea-Bissau e Sao Tome' e Principe, ovvero le antiche colonie africane dell'Ultramar portoghese. Da un mercato editoriale quasi totalmente occupato da lettori portoghesi (con il ruolo quasi monopolistico dell'editrice Caminho) anche l'Italia attinge con attenzione e una buona dose di coraggio, consapevole di trovare quasi sempre nella solita nicchia il destino finale di un libro. Dopo il progetto pionieristico dell'antologia Africana - racconti dell'Africa che scrive in portoghese (Feltrinelli, 1999) gli autori piu' noti hanno quasi tutti ottenuto la loro collocazione e talvolta un certo successo di pubblico, come e' il caso del mozambicano Mia Couto. Dallo stesso paese australe provengono il femminismo militante di una delle narratrici piu' dotate della generazione odierna, Paulina Chiziane (Il settimo giuramento, 2002 e Niketche, 2006, entrambi per La nuova frontiera), la lettura amara e severa delle vicende legate alla guerra civile di Ungulani Ba Ka Khosa (La gabbia vuota, Edizioni Lavoro, 2007) e gli strazianti racconti densi di allegorie anticoloniali di Luis Bernardo Honwana (Abbiamo ucciso il cane rognoso, Goree, 2008). Dall'Angola, oltre al maestro Luandino Vieira (La vita vera di Domingos Xavier, Tullio Pironti, 2004) e le risate amare provocate da Manuel Rui, Magari fossi un'onda (La nuova frontiera, 2006) spicca la voce del giovanissimo Ondjaki (Il fischiatore, 2002 e Le aurore della notte, 2006, entrambi per le Edizioni Lavoro). Nel caso di Capo Verde, esaurita la vena che discende da Amado di un narratore puntuale ma ingabbiato in una certa ripetitivita' tematica quale e' Germano Almeida, non resta che risalire alle origini del discorso postcoloniale e leggere un piccolo autentico capolavoro degli anni '30 come Chiquinho di Baltasar Lopes (Edizioni Lavoro, 2008). 3. LETTERATURE. VALENTINA PARISI: LETTERATURA RUSSA OGGI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 agosto 2009 col titolo "Atlante letterario. Nostalgici russi" e il sommario "Elementi fantasmagorici su scenari realistici. In un orizzonte letterario certamente privo di significative effervescenze, gli esempi piu' interessanti sono i libri di tre scrittori 'realisti', accomunati da un rinnovato interesse sociale. Non ancora tradotti, Zakhar Prilepin, Mikhail Elizarov e German Sadulaev danno voce alla generazione 'di mezzo' che ha fatto in tempo a vedere con i propri occhi l'Urss, ma anche a sperimentare le drammatiche conseguenze della transizione al capitalismo"] Due anni fa, presentando in Italia al Museo "Luigi Pecci" di Prato un'ampia collettiva di artisti provenienti dalle ex repubbliche dell'Urss, il critico Viktor Misiano introdusse il concetto apparentemente antinomico di "nostalgia progressista" per definire esperienze creative alquanto diverse tra loro, ma ugualmente ispirate da un senso di delusione per le connotazioni particolarmente aggressive che il capitalismo neoliberista aveva assunto nell'area postsovietica. Alla stabilizzazione degli anni '90 e alla deriva nazionalista del decennio successivo, gli artisti raccolti da Misiano contrapponevano una riflessione sull'utopia sovietica soffusa da un senso di nostalgia per il passato "non per com'era stato, ma per come avrebbe potuto essere". Una proiezione che si trasformava ipso facto in strategia antagonista nel momento in cui, smentendo il trionfalismo isterico delle organizzazioni giovanili filoputiniane o le altre voci del consenso organizzato, denunciava le terrificanti lacune del processo di democratizzazione, i diritti civili invariabilmente calpestati, le innumerevoli vittime sacrificate sull'altare della modernizzazione. "La Storia non e' un monumento equestre, ma la pelle rivoltata di un cavallo frustato a sangue": cosi', "parafrasando" la spiazzante scultura Gattamelata all'ombra di Gengis Khan di Erbossyn Mel'dibekov, Misiano sintetizzava l'atteggiamento demistificatorio assunto dell'arte post-sovietica nei confronti delle grandi narrazioni elaborate del potere politico. Se, come nell'opera di Mel'dibekov, degli idoli del passato sono rimasti in piedi soltanto quattro zoccoli equini, collocati su un piedistallo e sovrastati da un vuoto inquietante, all'artista di oggi non resta che ricostruire nostalgicamente le fisionomie individuali di coloro che sono rimasti calpestati dall'avanzata spettrale della Storia. Questo rinnovato interesse sociale emerge anche dalle prove narrative di tre giovani scrittori "realisti", accomunati sia dall'appartenenza generazionale, sia dai temi prescelti, e persino dalla casa editrice che ne pubblica i testi (la moscovita Ad Marginem). Non ancora tradotte in Italia, le opere di Zakhar Prilepin, Mikhail Elizarov e German Sadulaev rappresentano l'elemento di maggior novita' in un orizzonte letterario certo non caratterizzato da grande effervescenza. Lo sdegno sincero, quasi adolescenzialmente irriverente, con cui i tre sono soliti attaccare i cosiddetti "liberali" (i difensori delle riforme degli anni '90, attualmente sostenitori del binomio Putin-Medvedev come "male minore" e ineluttabile fase di transizione per la Russia) ha spinto alcuni a salutare addirittura la nascita di un movimento di sinistra di stampo occidentale, critico nei confronti delle politiche neoliberiste. Senza dubbio, Prilepin, Elizarov e Sadulaev rappresentano la voce della generazione "di mezzo" che ha fatto in tempo a vedere con i propri occhi l'Urss, ma anche a sperimentare le drammatiche conseguenze della transizione al capitalismo. Dunque, se nel caso di questi autori si puo' parlare di "nostalgia progressista", tuttavia tale etichetta andra' interpretata nel senso di un ripiegamento istintivo verso un passato fortemente idealizzato; in piu', c'e' l'esigenza di sanare il trauma che ha segnato la loro adolescenza (la dissoluzione dell'Unione Sovietica, ossia la perdita della patria semi-mitologica dell'infanzia), e il tentativo coraggioso, ma non esente da ingenuita', di tracciare una prospettiva nuova per il futuro. "Un governo schifoso, disonesto e stupido, che si disfa dei piu' deboli e da' il via libera ai vili e ai corrotti - perche' sopportarlo? perche' conviverci, tradendo a ogni pie' sospinto se stessi e i propri concittadini?": questo l'interrogativo di fondo di San'kja (2006), secondo frammento della trasfigurazione letteraria cui Zakhar Prilepin ha sottoposto la propria biografia, indiscutibilmente movimentata e romanzesca. Dopo avere partecipato alle operazioni militari in Cecenia a capo di un reparto del corpo speciale Omon, l'autore nato nel 1975 ha militato nel partito nazionalbolscevico fondato da Eduard Limonov, partecipando alle Marce dei Disobbedienti organizzate dalla coalizione "Un'altra Russia". San'kja e' l'epopea disperata dei suoi compagni di lotta, ragazzi di provincia irrimediabilmente "selvaggi", giunti da ogni angolo della Russia per portare la rivoluzione a Mosca. Si', perche' come sostiene l'alter ego di Prilepin, "Russia e Rivoluzione sono due concetti equivalenti e equipollenti. La Russia non e' piu' concepibile al di fuori e senza la Rivoluzione". * Punti di vista alienati Nella sfida che San'kja lancia al potere in nome di un partito che ricorda assai da vicino quello nazionalbolscevico, c'e' dunque un senso di imperscrutabile fatalita', il rinnovarsi del sacrificio dei narodniki ottocenteschi, la consapevolezza che la propria rivolta non potra' concludersi se non con l'autodistruzione. Anche perche' tutto intorno si spalanca un duplice vuoto: quello tangibile della campagna (dove gli uomini stanno letteralmente scomparendo, decimati non solo dall'alcolismo, ma anche dalla recente passione per le motociclette) e quello spirituale delle grandi citta', in preda alla vertigine consumistica e all'ossessione per il glamour (parola-chiave degli anni Zero in Russia). Nemmeno l'ebbrezza transitoria della violenza riesce a colmare questo senso di sconfortante vacuita': "La citta' si era rivelata debole, inconsistente - e spaccarla era stato insensato come spaccare un giocattolo: dentro non c'era niente - solo un vuoto di plastica". Nel modellare i suoi eroi nichilisti, Prilepin si richiama esplicitamente al discorso "rivoluzionario" della letteratura russa classica (dal Che fare? di Cernyscevskij, ai Demoni dostoevskiani al giovane Gor'kij della Madre), sviluppando in particolare un'intuizione di Aleksandr Blok: per il narodnik del Terzo Millennio la Russia non e' tanto assimilabile alla figura della madre (dalla quale e' inevitabile allontanarsi), quanto al miraggio di una sposa mistica che si ama disperatamente, senza possibilita' di scelta. Cosi' come altrettanto ineludibile e' l'esigenza di riparare agli errori dei padri per poter retrocedere finalmente allo stato di innocenza proprio dell'infanzia. Il tema della colpa torna anche in Patologie (2003), l'esordio letterario di Prilepin centrato sull'esperienza cecena. Qui l'interlocutore a distanza, oltre che il Tolstoj dei Racconti di Sebastopoli, e' innanzitutto Lermontov, per anni ufficiale di stanza nel Caucaso. Come il ventisettenne autore di Un eroe del nostro tempo, anche Prilepin elargisce al suo protagonista il diritto a non dover giustificare ogni sua singola azione, lasciandolo piuttosto da solo a confrontarsi con le proprie "patologie": l'amore follemente geloso per Dasha e il coinvolgimento nelle operazioni militari a Groznyj. "La patologia ha inizio dove termina l'indifferenza", afferma sibillina Dasha. E, infatti, posto di fronte agli orrori della guerra, Egor' si sforzera' di indossare una maschera di fosca imperturbabilita', riducendo al grado zero ogni forma di riflessione. "Non me ne importa niente ne' della tasca che potrebbe sporcare il pesce, ne' del pesce che mi sporca la tasca", dichiara aggirandosi tetro, con un pezzo di aringa affumicata nei calzoni, per il mercato di una cittadina cecena identica a quella russa da cui proviene. A interrompere questo stato di "necessario" abbrutimento sono incongrui slanci lirici, resi da Prilepin con notevole efficacia. Cosi' l'eroe si domanda di colpo come si sentano gli alberi in tempo di guerra, oppure, nelle ultime righe del romanzo, vorrebbe gettarsi piangente al collo di una cagna salita per sbaglio sull'aereo che riporta gli uomini del reparto speciale in patria. Inutile dire che restera' immobile, a fissare il soffitto con gli occhi asciutti: "Non ho chiesto perdono a nessuno". Se il testo spietato di Prilepin ha rotto un silenzio - quello degli scrittori russi sulla guerra in Cecenia - che stava iniziando a farsi assordante, i racconti di German Sadulaev Sono ceceno! (2006) riflettono il punto di vista "alienato" dell'emigrante (l'autore, nato nel 1973, aveva lasciato il suo paese natale a sedici anni per studiare a Pietroburgo) che stenta a riconoscersi sia nel "nuovo" popolo ceceno, trincerato dietro il fanatismo religioso, sia nei ritmi della metropoli affacciata sul Golfo di Finlandia. Il tema della proiezione nostalgica verso il mondo della campagna in rapida dissoluzione - essenziale sia per Prilepin, sia per Elizarov - si fonde qui con la prospettiva geopolitica dei cambiamenti in atto nel Caucaso, la fine dell'internazionalismo sovietico, l'inasprirsi dei fondamentalismi. Ma se per i colleghi russi la scoperta della dimensione "esotica" e primigenia del villaggio e' veicolata dal rapporto privilegiato con la generazione dei nonni (contrapposta a quella inurbata dei padri), il confronto con l'universo patriarcale per il ceceno Sadulaev risulta molto piu' serrato e conflittuale, conferendo ai suoi racconti una particolare drammaticita'. Dal trauma per la perdita della terra d'origine Sadulaev sembra aver preso le distanze nei suoi testi successivi e, soprattutto, in Pillola (2008), romanzo d'ambientazione pietroburghese centrato sugli sdoppiamenti di personalita' di Maksimum, un manager insoddisfatto dalle inclinazioni neo-marxiste (ennesima reincarnazione dell'impiegato gogol'iano) che, grazie a misteriose pillole rosa, riscopre in sogno le sue origini di discendente del khan di Khazaria. Senonche' le visioni che ogni notte si profilano ai suoi occhi ricordano in maniera inquietante gli avvenimenti piu' recenti della storia russa... Nel suo assemblaggio spesso caotico di allusioni caustiche alla contemporaneita' e fughe in un passato leggendario, Pillola evidenzia tuttavia una delle tendenze stilistiche ricorrenti nella narrativa russa odierna: la contaminazione di scenari realistici con elementi fantasmagorici, quasi psichedelici, utilizzati come veri e propri grimaldelli per scardinare trame altrimenti statiche e forzare l'azione verso conseguenze imprevedibili. * Un caso linguistico Cosi' avviene nel notevole Bibliotecario di Elizarov (insignito l'anno scorso del Booker Prize russo), dove le opere di un oscuro pennivendolo del realismo socialista, Dmitrij Aleksandrovich Gromov rivelano alla sua morte insospettati poteri magici, trasformandosi nell'ambita preda di collezionisti-adepti in acerrima rivalita' tra loro. Se il motivo della societa' segreta rinvia apertamente alla Trilogia di Vladimir Sorokin (di cui Einaudi nel 2005 ha tradotto il frammento centrale, Ghiaccio), l'immagine del corpus sacrale dei testi di Gromov appare un'ironica rielaborazione della biblioteca borgesiana e fornisce a Elizarov innumerevoli spunti per teorizzare il carattere puramente mantrico della letteratura sovietica: "Il paese che aveva prodotto Gromov poteva pubblicare migliaia di autori che nessuno leggeva". Infine, il tema della nostalgia affiora chiaramente anche dall'opera prima di Nicolai Lilin, l'unico autore tra quelli citati che il pubblico italiano potra' leggere, per l'ottimo motivo che il ventinovenne originario della Transnistria e ora residente a Cuneo ha scelto di scrivere Educazione siberiana nella lingua del nostro paese. Un italiano duttile ed espressivo che veicola alla perfezione la parabola discendente della comunita' criminale degli Urka e che, nel contempo, risulta estremamente interessante per chiunque sappia il russo, tale e' la quantita' di calchi, di torsioni e acrobazie piu' o meno consapevoli sfoderate dallo scrittore per adattare il flusso vivo e struggente della memoria a un idioma estraneo. Da qui un interrogativo provocatorio: se Lilin avesse scritto in russo, il suo celebrato best seller sarebbe mai apparso sugli scaffali delle librerie italiane? * Postilla. La generazione precedente. Eduard Limonov, Vladimir Sorokin e Viktor Pelevin, i referenti Benche' gli eroi dei loro romanzi siano orfani o legati ai padri da rapporti conflittuali, Prilepin, Elizarov e Sadulaev non hanno mai nascosto il debito contratto verso la generazione letteraria che li ha preceduti, in particolare, nei confronti dei loro "idoli", rispettivamente Eduard Limonov, Vladimir Sorokin e Viktor Pelevin. Le sorti attuali di questi scrittori, noti anche al pubblico italiano, sono quantomeno eterogenee: Sorokin si e' rivolto al XV secolo per proseguire col romanzo antiutopico Cremlino di zucchero (2008) la resa dei conti con Putin gia' intrapresa in Un giorno nella vita di un opricnik (2006). E Eduard Limonov - dopo aver scontato due anni di reclusione per possesso illegale d'armi - delinea i tratti della Russia che verra' nei saggi di Un'altra Russia, modellando la sua immagine di ex prigioniero politico su quella di Nikolaj Cernyscevskij. Pelevin invece con i racconti di P5 continua a ripetere impavido se stesso. ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 374 dell'11 settembre 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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