La domenica della nonviolenza. 230



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 230 del 23 agosto 2009

In questo numero:
1. Giuliano Pontara: Etica e politica
2. Giuliano Pontara: Ripensare i diritti

1. MAESTRI. GIULIANO PONTARA: ETICA E POLITICA
[Riproponiamo (nuovamente ringraziando l'autore per avercela messa a
disposizione) la versione in italiano di questa voce scritta per
l'Enciclopedia de Paz y Conflictos, 2 voll., a cura di Mario Lopez Martinez,
Editorial Universidad de Granada, Granada 2004.
Giuliano Pontara e' uno dei massimi studiosi della nonviolenza a livello
internazionale, riproduciamo di seguito una breve notizia biografica gia'
apparsa in passato sul nostro notiziario (e nuovamente ringraziamo di tutto
cuore Giuliano Pontara per avercela messa a disposizione): "Giuliano Pontara
e' nato a Cles (Trento) il 7 settembre 1932. In seguito a forti dubbi sulla
eticita' del servizio militare, alla fine del 1952 lascia l'Italia per la
Svezia dove poi ha sempre vissuto. Ha insegnato Filosofia pratica per oltre
trent'anni all'Istituto di filosofia dell'Universita' di Stoccolma. E' in
pensione dal 1997. Negli ultimi quindici anni Pontara ha anche insegnato
come professore a contratto in varie universita' italiane tra cui Torino,
Siena, Cagliari, Padova, Bologna, Imperia, Trento. Pontara e' uno dei
fondatori della International University of Peoples' Institutions for Peace
(Iupip) - Universita' Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la
Pace (Unip), con sede a Rovereto (Tn), e dal 1994 al 2004 e' stato
coordinatore del Comitato scientifico della stessa e direttore dei corsi.
Dirige per le Edizioni Gruppo Abele la collana "Alternative", una serie di
agili libri sui grandi temi della pace. E' membro del Tribunale permanente
dei popoli fondato da Lelio Basso e in tale qualita' e' stato membro della
giuria nelle sessioni del Tribunale sulla violazione dei diritti in Tibet
(Strasburgo 1992), sul diritto di asilo in Europa (Berlino 1994), e sui
crimini di guerra nella ex Jugoslavia (sessioni di Berna 1995, come
presidente della giuria, e sessione di  Barcellona 1996). Pontara ha
pubblicato libri e saggi su una molteplicita' di temi di etica pratica e
teorica, metaetica  e filosofia politica. E' stato uno dei primi ad
introdurre in Italia la "Peace Research" e la conoscenza sistematica del
pensiero etico-politico del Mahatma Gandhi. Ha pubblicato in italiano,
inglese e svedese, ed alcuni dei suoi lavori sono stati tradotti in spagnolo
e francese. Tra i suoi lavori figurano: Etik, politik, revolution: en
inledning och ett stallningstagande (Etica, politica, rivoluzione: una
introduzione e una presa di posizione), in G. Pontara (a cura di), Etik,
Politik, Revolution, Bo Cavefors Forlag,  Staffanstorp  1971, 2 voll., vol.
I, pp. 11-70; Se il fine giustifichi i mezzi, Il Mulino, Bologna 1974; The
Concept of Violence, Journal of Peace Research , XV, 1, 1978, pp. 19-32;
Neocontrattualismo, socialismo e giustizia internazionale, in N. Bobbio, G.
Pontara, S. Veca, Crisi della democrazia e neocontrattualismo, Editori
Riuniti, Roma 1984, pp. 55-102; tr. spagnola, Crisis de la democracia,
Ariel, Barcelona 1985; Utilitaristerna, in Samhallsvetenskapens klassiker, a
cura di M. Bertilsson, B. Hansson, Studentlitteratur, Lund 1988, pp.
100-144; International Charity or International Justice?, in Democracy State
and Justice, ed. by. D. Sainsbury, Almqvist & Wiksell International,
Stockholm 1988, pp. 179-93; Filosofia pratica, Il Saggiatore, Milano 1988;
Antigone o Creonte. Etica e politica nell'era atomica, Editori Riuniti, Roma
1990; Etica e generazioni future, Laterza, Bari 1995; tr. spagnola, Etica y
generationes futuras, Ariel, Barcelona 1996; La personalita' nonviolenta,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; Guerre, disobbedienza civile,
nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; Breviario per un'etica
quotidiana, Pratiche, Milano 1998; Il pragmatico e il persuaso, Il Ponte,
LIV, n. 10, ottobre 1998, pp. 35-49; L'antibarbarie. La concezione
etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Ega, Torino 2006. E' autore delle
voci Gandhismo, Nonviolenza, Pace (ricerca scientifica sulla), Utilitarismo,
in Dizionario di politica, seconda edizione, Utet, Torino 1983, 1990 (poi
anche Tea, Milano 1990, 1992). E' pure autore delle voci Gandhi,
Non-violence, Violence, in Dictionnaire de philosophie morale, Presses
Universitaires de France, Paris 1996, seconda edizione 1998. Per Einaudi
Pontara ha curato una vasta silloge di scritti di Gandhi, Teoria e pratica
della nonviolenza, Einaudi, nuova edizione, Torino 1996, cui ha premesso un
ampio studio su Il pensiero etico-politico di Gandhi, pp. IX-CLXI". Una piu'
ampia bibliografia degli scritti di Giuliano Pontara aggiornata fino al 1999
(che comprende circa cento titoli), gia' apparsa nel n. 380 de "La
nonviolenza e' in cammino", abbiamo successivamente riprodotto nel n. 121 di
"Voci e volti della nonviolenza"]

La questione del rapporto tra etica e politica riguarda tre problemi
fondamentali.
Definendo la politica come l'insieme dei comportamenti (di un individuo, di
un gruppo, di una collettivita') volti ad influenzare, conquistare,
mantenere o esercitare il potere (a livello locale, statale,
internazionale), i tre problemi possono essere posti brevemente nel modo
seguente: 1) se l'agire politico possa plausibilmente essere fatto oggetto
di giudizio morale, ossia se esso sia sussumibile sotto le categorie del
moralmente giusto e ingiusto, doveroso e proibito, oppure esuli totalmente
dalla sfera della moralita'; 2) se, data una risposta affermativa alla
precedente domanda, le esigenze morali cui soggiace l'agire politico siano
fondamentalmente diverse da quelle cui soggiace l'agire privato; 3) se, o in
che misura e a quali condizioni, la lotta politica possa essere
efficacemente condotta con i mezzi propri della morale intesa in senso lato,
ossia l'argomentazione, il dialogo, l'appello all'empatia, la pressione
nonviolenta.  I primi due problemi sono di natura prevalentemente
teorico-filosofica, il terzo e' invece di natura prevalentemente empirica.
Nel plurimillenario dibattito sulla questione, questi problemi sono stati
trattati in modo piu' o meno sistematico da pensatori, filosofi, sociologi,
politologi, scrittori e politici di natura ed estrazione culturale piu'
diversa. In questo dibattito, che va da Socrate a Gandhi, da Platone a Hegel
e Croce, da Marx ed Engels a Lenin e Mao, da  Aristotele a Tommaso d'Aquino
a Maritain, da Machiavelli e Hobbes a Max Weber, Meinecke e Karl Schmidt, da
Sofocle a Tolstoj e Sartre, sono individuabili relativamente a ciascuno dei
tre problemi, tre tesi opposte: 1. La tesi dell'amoralita' della politica
verso la tesi della sua moralita';  2. la tesi dualistica verso la tesi
monistica;  3) la tesi "realistica" verso la tesi "idealistica".
*
1. Secondo la tesi dell'amoralita', l'agire politico (individuale o
collettivo che sia) non soggiace, gia' a livello teorico, ad alcuna esigenza
o limite di natura morale; esso esula dalla sfera della moralita' tout
court, e' al di la' del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto. Ne
segue che chi formula sinceramente giudizi morali sull'agire politico compie
un errore analogo a quello che compirebbe chi, applicando categorie morali
alla condotta degli animali o delle macchine, giudicasse tali comportamenti
moralmente giusti o doverosi o sbagliati. E' pero' compatibile con questa
tesi riconoscere che giudizi morali su questo o quell'agire o attore
politico possono essere usati come strumenti di propaganda nella misura in
cui si dimostrano mezzi efficaci nella lotta politica per i fini che si
perseguono. Per esempio, visto che tanta gente crede - erroneamente, secondo
i fautori della tesi in oggetto - che vi siano guerre moralmente
giustificate e guerre moralmente ingiustificate, puo' essere assai efficace,
al fine di ottenere l'appoggio ad una guerra, presentarla come moralmente
giustificata.
Un argomento talora addotto a sostegno della tesi dell'amoralita' della
politica e' che l'agire politico, a differenza dell'agire privato, non e'
espressione di una volonta' libera, ossia che gli attori politici, a
differenza degli individui che agiscono nella sfera del privato, non sono
forniti di libero arbitrio. Questo argomento si fonda sulla premessa che la
morale presuppone una volonta' libera, o, come si suole dire, che dovere
implica potere. Ma perche' mai gli individui che agiscono in ruoli politici
dovrebbero perdere quella liberta' del volere che presumibilmente hanno
nella sfera privata? Altra cosa e' che vi possono essere azioni le quali, in
determinate situazioni, sono politicamente impossibili, nel senso che un
attore politico non puo' scegliere di farle se vuole influenzare, mantenere
o conquistare il potere. A volte l'argomento in questione e' formulato
soltanto relativamente a comportamenti politici collettivi in situazioni
conflittuali acute: in tali situazioni i singoli individui membri di tali
collettivita' perderebbero del tutto ogni potere di scelta e l'agire
collettivo diventerebbe simile ad un fenomeno naturale. In base a questo
argomento, la guerra, per esempio, e' il risultato di forze impersonali
sulle quali gli uomini non hanno alcun potere di influire: strettamente, non
sono gli uomini a scegliere di fare la guerra, ma forze impersonali che, in
determinate situazioni, fanno fare agli uomini la guerra. In questo senso,
tutte le guerre che si sono verificate e quelle che si verificheranno sono
"necessarie". La guerra, quindi, non e' ne' morale ne' immorale - e'
amorale.
La tesi dell'amoralita' della politica non va confusa con quella della
minore moralita'  secondo la quale vari fattori socialpsicologici e
sociologici fanno si' che gli attori politici siano portati a trasgredire
impunemente esigenze basilari di moralita' in misura maggiore di quella in
cui lo sono gli individui nei loro rapporti privati. Questa tesi presuppone
che l'agire politico non esuli dalla moralita' tout court.
*
2. Se la politica rientra nella sfera della morale, un problema che sorge e'
in base a quali criteri essa vi rientri. Secondo la tesi dualistica, l'agire
politico e' moralmente giusto o ingiusto in base a criteri diversi -
fondamentalmente diversi - da quelli validi nella sfera del privato. Vi sono
varie versioni di tale tesi, a seconda del contenuto che piu' precisamente
si da' a tali criteri. La versione forse piu' diffusa, risalente in parte a
Machiavelli, a Lutero, ai teorici della ragion di stato, e' quella elaborata
da Max Weber. Egli distingue tra etica della convinzione o dell'interiorita'
(Gesinnugsethik) da una parte, ed etica della responsabilita'
(Verantwortungsethik) dall'altra. Grosso modo, la prima, valida nella sfera
dei rapporti privati, e' una forma di cosiddetta etica deontologica in
quanto si articola in una serie di obblighi (non uccidere, non mentire,
mantenere le proprie promesse, soccorrere i bisognosi, ecc.) valevoli nei
confronti di tutti e vincolanti indipendentemente dalle conseguenze cui
l'agire conforme ad essi conduce. Per Max Weber, quest'etica s'identifica
sostanzialmente con l'etica dell'amore e della non resistenza al male
predicata da Cristo. La seconda invece, valida nella sfera dell'agire
politico, e' una forma di cosiddetta etica consequenzialistica in quanto
consiste in un principio fondamentale che prescrive di agire in base al
calcolo delle conseguenze che l'agire ha per il bene o gli interessi dello
Stato (o, in altre versioni, del popolo, o della nazione o della classe) cui
si appartiene. Se vi sono altri obblighi morali, essi sono secondari
rispetto a quello di massimizzare il bene dello Stato. Per l'attore politico
le ragioni morali piu' forti sono sempre le ragioni di Stato: "salus rei
publicae suprema lex". In base a questo principio di etica politica possono
essere moralmente giustificate azioni - come mentire, uccidere, non
mantenere patti - che in base all'etica privata sono ingiustificabili.
Una siffatta concezione dualistica e' problematica sotto vari aspetti. Qui
se ne indicano brevemente due. Problematica, in primo luogo, e' l'idea che
vi sia una distinzione fondamentale e irriducibile tra esigenze etiche a
livello privato e esigenze etiche a livello politico: e' difficile vedere in
base a quali argomenti una siffatta distinzione possa essere plausibilmente
difesa. Altrettanto problematica, in secondo luogo, e' l'idea di un obbligo
irriducibile, ultimo e assoluto, o comunque dominante, di massimizzare il
bene dello Stato cui si appartiene: perche' mai le conseguenze dell'agire
politico cesserebbero di essere moralmente rilevanti allorche' investono,
come spesso e in modo molto drammatico accade, il benessere di persone e
gruppi che non appartengono allo Stato dell'attore politico agente? Perche'
mai le esigenze fondamentali della morale in politica si fermerebbero ai
confini dello Stato, che e' una costruzione storica che in futuro puo' anche
non esistere? Tutti e due questi problemi sono evitati da una concezione
etica che, riprendendo la dottrina dell'utilitarismo classico elaborata
inizialmente da Jeremy Bentham e susseguentemente da Henry Sidgwick e altri,
assume come unico e fondamentale principio etico quello che prescrive di
massimizzare il benessere o la felicita' generale a livello universale.
L'utilitarismo e' un esempio - forse il piu' convincente - di dottrina etica
universalistica e monistica: cio' che rende un'azione (sia essa individuale
o collettiva, privata o politica) moralmente giusta sono le conseguenze che
essa ha sul benessere generale universale, incluso quello delle generazioni
future. Va notato che in base a tale dottrina monistica si puo' sostenere
una forma di dualismo derivato: siccome la previsione e il calcolo delle
conseguenze delle nostre azioni sul benessere generale sono molto difficili
e complessi, puo' essere preferibile - perche' probabilmente massimizza il
benessere generale - che nella vita quotidiana gli individui non deliberino
applicando direttamente il principio utilitaristico bensi' seguano delle
norme generali di condotta. Queste norme possono benissimo identificarsi,
almeno in parte,  con quelle che nella tesi dualistica sopra accennata sono
considerate proprie dell'etica individuale. A livello di grandi scelte
collettive, sociali, economiche, politiche - che presumibilmente hanno
conseguenze di ben piu' vasta portata sul benessere generale e dove
presumibilmente si puo' contare sulla collaborazione di gruppi di esperti di
vario tipo - puo' invece essere preferibile che le decisioni su quale
alternativa mandare ad effetto siano basate direttamente sul calcolo delle
conseguenze. Un altro tipo di dottrina monistica e' quella fondata sull'idea
di diritti fondamentali dell'uomo universalmente validi e tali da porre
precisi vincoli morali sia all'agire individuale sia a quello collettivo,
tanto nella sfera privata quanto in quella politica.
*
3. Ne' la dottrina utilitaristica,  ne' quella dei diritti umani escludono
come sempre ingiustificato il ricorso alla violenza. Se o meno il suo
impiego sia moralmente giustificabile dipende in parte da come e'
configurata la situazione in cui si agisce e in parte da come agiscono gli
altri. Ora, secondo i fautori della tesi "realistica" la sfera della
politica e' caratterizzata da situazioni di incontro con la menzogna, la
frode, la minaccia e l'uso della violenza, onde chi vuole partecipare alla
lotta politica in modo efficace deve avere le virtu' machiavelliche della
volpe e del leone, ossia essere disposto a ricorrere a quegli stessi mezzi:
non si puo' partecipare efficacemente alla lotta politica senza essere
disposti ad avere, come dice Jean-Paul Sartre, "le mani sporche". A questa
tesi si oppone la tesi "idealistica" per cui la lotta politica non e', per
sua natura, essenzialmente connessa all'uso della menzogna, della frode e
della violenza. La tesi si fonda sull'assunto che gli esseri umani, anche
quando agiscono in gruppo e in situazioni conflittuali tese, possono essere
in grado di comportarsi e reagire in modo umano, che essi sono influenzabili
dall'appello alla ragione, all'empatia e dalla pressione nonviolenta. La
storia dei rapporti tra politica e morale, da questo punto di vista, e' la
storia del continuo tentativo di moralizzare la politica creando situazioni
e istituzioni che limitino e riducano in qualche modo il ricorso alla
violenza e favoriscano gli strumenti del dialogo, del compromesso equo e la
soluzione pacifica dei conflitti.
Tre importanti sviluppi in questa direzione, specie a partire dal secolo
scorso, sono: a) l'affermazione in un numero sempre maggiore di stati, anche
se in modo variamente efficace, del metodo democratico, con il quale la
lotta politica viene condotta contando e non tagliando le teste; b) la
creazione dell'Onu come strumento di governance umana basata sull'idea di
diritti fondamentali; c) l'esplorazione pratica su vasta scala di metodi
efficaci di lotta nonviolenta, da quelli impiegati dalle classi lavoratrici
nella lotta tra capitale e lavoro, a quelli praticati da Gandhi, Martin
Luther King e molti altri nella lotta per l'indipendenza di un popolo o per
l'affermazione di fondamentali diritti umani. Viste le conseguenze sempre
piu' esiziali che l'uso della violenza armata nei conflitti tra stati o tra
etnie oggi conduce, compreso un rischio di catastrofe per l'intera umanita',
tre tra le maggiori sfide di questo secolo sono quella di allargare
ulteriormente il metodo democratico, quella di potenziare e sviluppare
ulteriormente l'Onu in direzione di istituzione di democrazia internazionale
o cosmopolita e quella di esplorare ulteriormente metodi efficaci di lotta
nonviolenta.

2. MAESTRI. GIULIANO PONTARA: RIPENSARE I DIRITTI
[Riproponiamo (nuovamente ringraziando l'autore per avercela messa a
disposizione) l'introduzione al libro di Philip Alston e Antonio Cassese,
Ripensare i diritti nel XXI secolo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2004]

Gli autori dei due scritti che costituiscono questo volume (l'undicesimo)
della collana "Alternative" sono entrambi noti studiosi del diritto
internazionale dei diritti umani.
Ambedue sono anche da anni impegnati in organizzazioni internazionali di
monitoraggio e protezione di tali diritti. Philip Alston e' uno dei massimi
esperti mondiali nel campo dei diritti economici, sociali e culturali, ed e'
stato per otto anni - dal 1991 al 1998 - presidente del Comitato dell'Onu su
questi diritti. Antonio Cassese, giudice, autore di importanti lavori sui
diritti umani, ha presieduto per cinque anni - dal 1993 a 1997 - il
Tribunale dell'Aja sui crimini nella ex Iugoslavia (International Criminal
Tribunal for the former Yugoslavia).
Entrambi gli autori "prendono i diritti sul serio". Sono quindi
perfettamente coscienti dell'uso puramente ideologico cui il linguaggio dei
diritti molto bene si presta e della retorica dei diritti, spesso usata
nelle giustificazioni ufficiali di interventi "umanitari" di vario tipo (da
qualsiasi parte avvengano) allo scopo di stendere cortine di fumo su azioni
in realta' mosse da ben altre ragioni e far accettare alla gente politiche
che, nei migliori dei casi, con i diritti umani non hanno nulla a che fare
e, nei peggiori, comportano gravi e ripetute violazioni di essi.
Ambedue gli autori concordano anche nel ritenere il sistema dei diritti
umani, come concepito mezzo secolo fa, strumento sempre piu' inadeguato.
Muovendo da una concezione dinamica, essi evidenziano il bisogno di
ripensare e ridisegnare il sistema dei diritti umani in funzione del
susseguirsi sempre piu' rapido di avvenimenti che in pochi decenni hanno
profondamente cambiato il mondo. Da questo punto di vista i due scritti in
questo volume sono complementari l'uno all'altro. Alston auspica un
ripensamento del diritto internazionale in modo tale che anche degli attori
non statali siano trattati alla stregua di "soggetti" al pari degli stati.
Cassese insiste sul problema dell'enforcing, additando come particolarmente
importanti alcuni diritti "essenziali".
*
Una delle sfide cui il sistema dei diritti umani, tradizionalmente inteso su
basi puramente statocentriche, si trova di fronte e' posta dalla drastica
riduzione della sfera del potere statale e dalla parallela ascesa di potenti
attori non statali, connessa con il modello neoliberista prevalente
nell'attuale processo di globalizzazione dell'economia. Prevale la tendenza
allo stato minimo (peraltro armato fino ai denti), "guardiano notturno"
della legge e dell'ordine. Il resto e' lasciato sempre di piu' alle
operazione di un mercato globale presupposto libero, in realta' fortemente
dominato da diecimila multinazionali e da potenti istituzioni finanziarie
internazionali quali la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale.
In questo modello, caratterizzato dalla deregulation del potere di attori
privati mossi dalla logica dell'efficienza economica e della massimizzazione
del profitto, favorevole alla privatizzazione anche dei servizi pubblici
piu' essenziali, in cui le esigenze connesse al rispetto dei diritti sono
sistematicamente messe in secondo piano (a meno che non si tratti di quelle
che favoriscono le operazione del mercato e dello stato minimo), i deboli
del mondo, coloro che non hanno potere contrattuale e potere di acquisto,
sono destinati ad essere spazzati via. La logica in questo modello non e'
quella di una benigna mano invisibile che assicura continui miglioramenti
per tutti, bensi' piuttosto quella di un duro stivale - spesso assai
visibile - che a grandi pedate relega i piu' poveri e i piu' deboli nei
ghetti della poverta' assoluta.
La tesi centrale sostenuta da Alston nel suo scritto e' che, tale essendo la
situazione globale, una delle grandi sfide per il sistema dei diritti umani
e' quella di ristrutturare il diritto internazionale dei diritti estendendo
la portata del principio di responsabilita' dagli stati ad attori non
statali quali, in primo luogo, le imprese multinazionali e le grandi
organizzazioni finanziarie internazionali. Infatti, a tutt'oggi, tali
attori, in quanto attori non statali, non sono vincolati dalle norme del
diritto dei diritti. La proposta di Alston puo' avere implicazioni piu' o
meno radicali, e la fattibilita' di quanto implicato puo' essere piu' o meno
realistica. Come minimo, essa comporta che le politiche di attori non
statali del tipo menzionato dovrebbero essere monitorate da sistemi
internazionali ufficiali di controllo e attuazione dei diritti (e non solo
dal mondo delle Ong - Amnesty International, Human Rights Watch, ecc. - come
avviene oggi).
*
La lista dei diritti umani e' molto estesa e nuovi si vanno aggiungendo.
Alcuni di essi, come certi diritti civili e politici, sono diritti
"negativi" nel senso che richiedono immunita' da certi tipi di interferenza;
altri, segnatamente certi diritti economici e sociali, sono "positivi", nel
senso che implicano una pretesa di interventi di un certo tipo. I primi si
violano essenzialmente per commissione, i secondi anche per omissione. Si
dice spesso che tutti i diritti umani sono indivisibili e interdipendenti. E
in qualche senso lo sono. Ma e' chiaro che essi possono confliggere, quanto
meno nel senso che, come si continua a rilevare da varie parti, a causa
della scarsita' di risorse non tutti possono venire pienamente attuati in
breve tempo e per tutti.
Teoricamente, vi sono vari modi per risolvere conflitti tra diritti e tra
politiche alternative che incidono variamente sui diritti umani di molte
persone. Un modo e' quello di prendere tutti i diritti ugualmente sul serio
e quindi di volta in volta (cercare di) individuare la politica che
probabilmente conduce alla maggiore attuazione totale dei diritti - nel
lungo periodo dato che, plausibilmente, i diritti di individui futuri
contano tanto quanto contano quelli degli individui oggi esistenti. Secondo
questo modo di vedere non vi sono diritti umani assoluti, che non e' mai
lecito violare: tra i diritti vi possono essere trade-offs. Plausibilmente,
e fino a prova contraria, sia il numero delle persone i cui diritti sono
coinvolti, sia il numero dei diritti attuati rispettivamente non attuati o
violati, sia i gradi di attuazione, non attuazione o violazione, sono
fattori ugualmente importanti. Inutile dire che, dato il gran numero di
persone e di diritti coinvolti, le stime necessarie per individuare di volta
in volta le politiche piu' atte a massimizzare la fruizione totale dei
diritti comportano calcoli e operazioni estremamente complessi.
Un modo di rendere il problema piu' gestibile consiste forse nel dare
priorita' a pochi diritti che possono plausibilmente essere considerati
basilari, ossia tali che l'effettiva fruizione di essi e' condizione
necessaria per il perseguimento e la fruizione di tutti gli altri diritti.
Tra i diritti basilari vi saranno, plausibilmente, oltre al diritto alla
vita, il "diritto alla liberta' dalla fame" (come sancito nel Patto sui
diritti economici, sociali e culturali), e oggi si puo' certamente
aggiungere, dalla sete; o piu' in generale, un diritto di "sopravvivenza",
inteso come diritto a un nutrimento adeguato, acqua potabile, servizi
igienici e sanitari essenziali, educazione di base, insomma un diritto a
quelle risorse basilari necessarie per raggiungere quel tenore di vita
materiale e mentale a sua volta necessario per poter perseguire qualsiasi
altro valore, scelta o proprio piano di vita. Questa e' la via indicata da
Cassese il quale appunto suggerisce che la "comunita' internazionale", al
fine di non disperdere energie e poter agire piu' efficacemente nella
promozione dei diritti umani, negli anni a venire dovrebbe focalizzare
l'attenzione su un numero ristretto di diritti civili politici ed economici
"essenziali", potenziando contemporaneamente il sistema di controllo e
implementazione di essi.
*
I diritti umani pongono severi limiti alle politiche locali e globali sia
degli attori statali sia degli attori non statali. Cio' vale forse in
particolar modo per i diritti basilari, quale quello alla liberta' dalla
fame. Se la gente in alcune parti del mondo muore di fame in seguito alle
politiche economiche di certi stati, o di certe imprese multinazionali e
certe istituzioni finanziarie internazionali, perche' questi stati, imprese,
istituzioni non sarebbero da ritenere corresponsabili di violazioni massicce
di siffatto diritto? Si considerino, a titolo di puro esempio, i due
seguenti casi.
- Le sovvenzioni dei paesi ricchi dell'Occidente alla propria agricoltura,
dell'ordine di 300 miliardi di dollari annui, e quelle alla produzione di
tabacco, dell'ordine di 200 miliardi di dollari annui - da paragonarsi ai 52
miliardi di dollari annualmente devoluti all'assistenza nei "paesi in via di
sviluppo" - producono, in questi ultimi, congiuntamente con le politiche
doganali protezionistiche praticate dai primi, ulteriore disoccupazione,
fame e miseria. Se tali sovvenzioni fossero drasticamente ridotte, e le
politiche doganali radicalmente rivedute, tanti contadini del "Terzo Mondo"
avrebbero ben altre possibilita' di esportazione dei loro prodotti, con
conseguente diminuzione della poverta' e della fame tra di essi. Non
comportano le politiche protezionistiche dei paesi occidentali violazioni di
diritti umani?
- Se gli Stati Uniti, invece di praticare il dumping della sovrapproduzione
delle proprie granaglie in Africa, comperassero quelle che ivi vengono
prodotte e quindi usassero le proprie risorse nella loro distribuzione, cio'
costituirebbe un grande stimolo per l'agricoltura africana proprio dove c'e'
maggiore bisogno di esso, con conseguente riduzione di disoccupazione,
poverta', fame tra le popolazioni locali. Le esigenze di attuazione di
diritti umani basilari non fanno si' che il dumping praticato dagli Usa
costituisca una violazione di tali diritti?
*
I diritti implicano obblighi, e se gli obblighi non vengono onorati i
diritti rimangono parole nelle Carte. Diritti umani basilari come quello
alla vita e alla liberta' dalla fame implicano un obbligo dei governi
(specie quelli che hanno ratificato i patti e le convenzioni in cui siffatti
diritti sono sanciti), nonche' della comunita' internazionale di creare
leggi, norme e istituzioni per la realizzazione di quelle politiche
necessarie alla loro attuazione - a livello globale.
Qui ci si scontra con un altro difficile problema per il sistema dei diritti
umani, quello rappresentato dall'espansione dell'egemonia - specie
militare - degli Stati Uniti nel mondo. Da piu' di mezzo secolo, la
politica, tanto interna quanto estera, degli Usa viene ufficialmente
presentata e giustificata come ispirata alla promozione dei diritti umani.
Nel gennaio del 1941 il presidente F. D. Roosvelt, in un famoso messaggio al
Congresso, proponeva una nuova societa' mondiale fondata sul rispetto, "da
parte di tutti", dei diritti alla liberta' di parola e di pensiero, alla
liberta' di culto, alla liberta' dal bisogno e alla liberta' dalla paura.
Mezzo secolo dopo, alla Conferenza mondiale sui diritti umani che ebbe luogo
a Vienna nel giugno l993, l'allora Segretario di Stato statunitense, Warren
Chistopher, ribadiva l'impegno degli Usa nella difesa "della universalita'
dei diritti umani" contro "gli aggressori di tutto il mondo e coloro che
incoraggiano la diffusione delle armi", in base a un criterio unico di
comportamento determinato dalla universalita' stessa dei diritti. E,
immancabilmente, ogniqualvolta gli Usa sono intervenuti militarmente, da
soli o alla testa di alleanze, sulla scena internazionale (interventi armati
in Somalia, Bosnia, Kosovo, Iraq) essi si sono richiamati alla protezione
dei diritti umani. Ma alle parole corrispondo di rado i fatti.
E' noto che gli Stati Uniti sono i maggiori esportatori di armi nel mondo.
E' arcinoto che gli Usa non hanno ratificato vari Patti e Convenzioni intesi
a dare maggiore concretezza ai diritti sanciti nella Dichiarazione
universale dei diritti dell'uomo. Non hanno ratificato ne' il Patto sui
diritti economici, sociali e culturali del 1966 (ritenendo che parlare di
tali diritti sia un nonsenso - una "lettera a Babbo Natale" aveva a suo
tempo ironicamente caratterizzato questa categoria di diritti l'ambasciatore
statunitense all'Onu Jeanne Kilpatrick), ne' la Convenzione
sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione della donna del 1979,
ne' la Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia del l989 (unico
paese al mondo, assieme alla Somalia, a non averla ratificata). Inoltre, pur
avendo ratificando il Patto sui diritti civili e politici, essi hanno
formulato precise riserve nei confronti dell'articolo 6(5) che proibisce la
pena di morte per reati commessi da persone antecedentemente al loro
diciottesimo anno di eta', sancendo che "nella legislazione presente e
futura" degli Usa la pena capitale puo' essere comminata anche a persone per
reati commessi quando erano minori. (Sedici stati mantengono a tutt'oggi una
legislazione che permette l'esecuzione capitale per reati commessi da
minori: tra questi, l'Arkansas e il North Carolina pongono il limite a
quattordici anni, la Louisiana e la Virginia a quindici, il Mississippi a
tredici). Gli Stati Uniti hanno anche formulato precise riserve nei
confronti dell'articolo 7 dello stesso Patto che proibisce punizioni o
trattamenti crudeli, inumani o degradanti, sancendo che gli Usa sono
vincolati da questo articolo "soltanto nella misura in cui 'punizione o
trattamento crudele, inumano o degradante' significa punizione crudele o
inusuale" come proibita dalla Costituzione degli Stati Uniti. Una simile
riserva condiziona anche l'accettazione da parte degli Usa della Convenzione
contro la tortura del 1984. Nel momento in cui sto stendendo queste righe
gli Stati Uniti - che non intendono ratificare il trattato istitutivo della
Corte penale internazionale - stanno allestendo tribunali militari speciali,
incompatibili con ogni sistema democratico e stato di diritto, per giudicare
i prigionieri tenuti a Guantanamo in condizioni che contravvengono le norme
del diritto internazionale vigente.
Una sfida per il sistema universale dei diritti umani e' quella di impedire
che con l'egemonia militare statunitense prevalga a livello globale anche la
concezione riduttiva dei diritti umani di cui la classe dirigente di questo
paese e' portatrice. La sfida puo' addirittura essere nientemeno che quella
di impedire che il diritto internazionale venga di fatto sostituito da
quello americano. E' sperabile che l'Europa firmataria del Trattato di
Amsterdam, entrato in vigore nel 1999, voglia e sia in grado di prendere
questa sfida sul serio.
*
Un'altra grande sfida per il sistema dei diritti umani nel XXI secolo e'
quella - brevemente discussa da Cassese nell'ultima parte del suo scritto -
concernente l'enforcing dei diritti - almeno di quelli essenziali. Come
Cassese rileva, tale strategia si articola essenzialmente in due direzioni:
da una parte, attraverso il perseguimento e la punizione (per scopi
preventivi, non grettamente retributivi) di persone provate colpevoli di
crimini internazionali (tortura, crimini contro l'umanita', genocidio) da
corti nazionali, o da tribunali penali internazionali; dall'altra,
attraverso il ricorso, come ultima ratio e in via del tutto eccezionale,
all'intervento armato da parte della comunita' internazionale allo scopo di
porre termine a violazioni sistematiche e massicce di diritti umani, o
almeno di quelli indicati da Cassese come "essenziali".
Su questo ultimo punto il dibattito negli ultimi dieci anni si e' fatto
sempre piu' intenso. Un numero crescente di voci, molte assai autorevoli, si
sono alzate a sostenere o rispettivamente a contestare la tesi per cui il
diritto internazionale deve essere sviluppato in modo tale da rendere
possibile legittimare in base ad esso determinati interventi militari
umanitari da parte della comunita' internazionale. Vari fautori di questa
tesi auspicano addirittura la legittimazione di siffatti interventi anche
senza l'autorizzazione dell'Onu - almeno in situazioni in cui l'Onu non sia
in grado di agire e tutte le alternative diplomatiche e quelle di intervento
non armato si siano dimostrate inefficaci. A sostegno di questa tesi si
adducono talora vari precedenti di interventi fatti a scopo umanitario - o
comunque ufficialmente presentati come tali - e avvenuti senza
l'autorizzazione dell'Onu: l'intervento armato del Vietnam in Cambogia;
l'intervento armato da parte dell'Ecowas (Economic Community of Western
African States) nel l990 in Liberia dilaniata dalla guerra civile;
l'intervento di truppe statunitensi, francesi e inglesi nel l991 nell'Iraq
del Nord, giustificato ufficialmente come necessario per proteggere le
popolazioni curde ivi residenti dopo il soffocamento della rivolta curda da
parte dell'esercito di Saddam Hussein; i bombardamenti della Nato contro la
Iugoslavia, e via dicendo. Il diritto internazionale non e' statico. Esso si
trasforma continuamente attraverso nuove interpretazioni che non sono il
risultato di conferenze diplomatiche internazionali, bensi' interpretazioni
degli stati; e quando queste interpretazioni sono sostenute da grandi
potenze e via via condivise da un numero sempre maggiore di stati, esse
diventano in prosieguo di tempo consuetudine e un po' alla volta diritto
vincolante (principio di effettivita'). Tuttavia, come Cassese rileva, non
vi e' a tutt'oggi nel diritto internazionale consuetudinario una norma
largamente accettata che sancisca interventi armati umanitari del tipo in
questione. Sia in relazione al massiccio intervento armato della Nato in
Kosovo nel 1999, sia in relazione all'intervento armato ancor piu' massiccio
degli Usa e alleati contro l'Iraq (tutti e due gli interventi, come noto,
sono avvenuti senza l'autorizzazione dell'Onu), la comunita' internazionale
e' stata profondamene divisa.
*
L'attuazione dei diritti umani richiede potere. Ma si puo' lecitamente
perseguire la loro attuazione attraverso operazioni militari che comportano
esse stesse la violazione di diritti? Questo e' il dilemma. Nella sua
trattazione vengono spesso tirati in ballo vari principi, quello di
"proporzionalita'", quello di "discriminazione" tra perpetratori di
violazioni di diritti e innocenti (tra combattenti e civili), e quello tra
"violazioni dirette" (deliberatamente volute) e "violazioni collaterali"
(previste o prevedibili, ma non deliberatamente volute) di diritti umani.
Ciascuno di questi principi solleva piu' questioni di quelle che in base ad
essi si cerca di risolvere. Le violazioni di diritti debbono essere
proporzionali: come, quanto, a che cosa? E chi lo decide quando lo sono?
Come si traccia piu' precisamente la linea di demarcazione tra coloro che
sono coinvolti in violazioni massicce di diritti (combattenti) e coloro che
non lo sono (civili)? Che senso ha, da parte delle vittime, se loro
fondamentali diritti sono violati direttamente o collateralmente? E perche'
mai le violazioni collaterali di diritti sarebbero meno importanti (quanto?)
di quelle dirette?
Qualcuno e' forse disposto ad avanzare seriamente la tesi per cui interventi
militari come quelli della Nato contro la Iugoslavia o della coalizione
Usa-Gran Bretagna (perche' di questa in effetti si e' trattato) contro
l'Iraq, non comportano nessuna violazione di diritti? Ma gia' le politiche
di sanzioni - comprese quelle decise in varie occasioni dal Consiglio di
Sicurezza (da quelle contro la Repubblica Sudafricana al tempo
dell'apartheid ufficiale, a quelle contro l'Iraq) - hanno avuto effetti
devastanti sui diritti di milioni di persone. Come rilevato in un rapporto
del Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e
culturali - steso in base a un'analisi di vari tipi di sanzioni e del loro
impatto nei vari paesi colpiti - "le sanzioni determinano spesso
interruzioni nella distribuzione di cibo, prodotti farmaceutici e sanitari,
compromettono la qualita' dell'alimentazione e l'accesso all'acqua potabile,
colpiscono gravemente il funzionamento dei servizi sanitari di base e
dell'istruzione, abbattono il diritto al lavoro". Se questi sono gli effetti
sui diritti umani delle politiche di sanzioni, figurarsi quali sono quelli
connessi con i massicci interventi armati "umanitari" verificatisi gli
ultimi quindici anni! E allora?
Allora e' auspicabile che il diritto internazionale non legittimi, in nome
della tutela di diritti fondamentali, massicci interventi armati di tal
tipo. E se per mettere fine a vistose e reiterate violazioni di diritti
umani fondamentali e' ritenuto necessario, come ultima ratio, l'intervento
armato da parte della comunita' internazionale, e' ovviamente importante che
chi decide sull'ultima ratio non sia questo o quello stato o alleanza di
stati e che le forze militari da far intervenire non siano quelle di paesi
che nell'area di intervento hanno grossi interessi economici, geopolitici,
ecc. E' quindi auspicabile che un eventuale diritto di intervento armato
umanitario rimanga di esclusiva competenza dell'Onu.
E' ben vero che in seno all'Onu le decisioni di intervento le prende il
Consiglio di Sicurezza, che queste decisioni sono politiche e che,
attraverso l'istituto del veto, possono essere bloccate. Ma e' altrettanto
vero che politiche sono pure le decisioni di intervento di uno stato o
alleanza di stati. Quello che occorre, oggi piu' che mai, e' potenziare il
processo di riforma democratica e ulteriore rafforzamento dell'Onu. Nella
regia di un'Organizzazione delle Nazioni Unite piu' democratica, piu' forte
ed economicamente piu' attrezzata sono pensabili efficaci, e dal punto di
vista internazionale piu' credibili, interventi umanitari alternativi a
quelli armati: politiche di sanzioni molto selettive volte a colpire i
responsabili di massicce violazioni di diritti umani e non intere
popolazioni; impiego di vasti contingenti di verificatori (in Kosovo, per
esempio, invece di ritirare i verificatori Osce in vista e/o preparazione
dei bombardamenti, si poteva potenziarne fortemente la presenza portandoli
da poche migliaia a decine di migliaia); impiego di forze di intervento non
armate.
*
Comunque sia, l'introduzione nel diritto internazionale di una norma che
sancisca, in determinate e ben specificate condizioni, "interventi armati
umanitari" comporta l'evoluzione del diritto internazionale in direzione di
una revisione dei principi di sovranita' e non-intervento. Ma cio' puo'
avere implicazioni assai radicali. Se possono essere legittimati determinati
e ben limitati interventi armati da parte della comunita' internazionale
allo scopo di (cercare di) porre fine a massicce violazioni di diritti
basilari perpetrate contro intere popolazioni dai loro governi o da fazioni
coinvolte in una guerra civile, perche' non potrebbero parimenti essere
legittimati interventi coercitivi (non dico armati!) da parte della
comunita' internazionale nei confronti di stati - ma anche di attori non
statali - le cui politiche economiche comportano palesi e gravi violazioni
di diritti umani basilari tra le popolazioni del pianeta? E perche' non
dovrebbero trovare legittimazione - sempre che sia possibile attuarle -
misure volte a introdurre un sistema di tassazione coercitiva globale degli
stati (e delle multinazionali) al fine di realizzare una ridistribuzione un
po' piu' equa delle ricchezze e risorse del pianeta e garantire cosi'
l'effettiva fruizione di diritti umani basilari per un numero crescente di
persone? Cio' puo' a sua volta comportare una revisione del principio di
sovranita' territoriale come sancito nell'articolo 1 comma 2 dei due Patti
del '66 per cui "tutti i popoli possono disporre liberamente delle proprie
ricchezze e delle proprie risorse naturali". E' vero che questo articolo
puo' essere visto come volto a tutelare dallo sfruttamento i popoli piu'
poveri e deboli; ma e' parimenti chiaro che esso favorisce fortemente anche
quelli che sono piu' ricchi, lo siano per fortuna naturale, o come frutto di
passate immani violenze e violazioni di diritti nei confronti di altri
popoli, o per ambedue questi fattori.
La funzione del sistema dei diritti - presi sul serio - e' quella di
costituire una barriera alla violenza in tutte le sue forme, da quella
militare, a quella strutturale, a quella culturale. La grande sfida cui tale
sistema si trova di fronte nel XXI secolo e' nientemeno che quella di
riuscire a imporsi a livello globale. A rischio, altrimenti, di rivelarsi un
inganno di piu'.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 230 del 23 agosto 2009

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