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La domenica della nonviolenza. 229
- Subject: La domenica della nonviolenza. 229
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 16 Aug 2009 11:57:25 +0200
- Importance: Normal
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 229 del 16 agosto 2009 In questo numero: 1. Anna Bravo: La resistenza e la cura 2. Anna Bravo: La Resistenza nonviolenta 3. Anna Bravo: Per una questione di decenza 1. MAESTRE. ANNA BRAVO: LA RESISTENZA E LA CURA [Estratto dalla bella rivista "Una citta'", n. 103, aprile 2002 (disponibile anche nel sito: www.unacitta.it), riproponiamo ancora una volta il seguente intervento di Anna Bravo, li' pubblicato col titolo "La resistenza e la cura. Uno sguardo su donne e uomini nelle guerre contro i civili. Esperienze storiche". Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della verita'. Opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008] Ho pensato molto a quale contributo poteva dare la storia a un percorso formativo complicato e delicato come quello da offrire a persone che vanno in situazioni difficili, di guerre civili e di guerre contro i civili; mi e' sembrato possibile presentare alcune riflessioni sulle forme di reazione sociale all'occupazione nazista durante la seconda guerra mondiale. La seconda guerra mondiale e' la prima che si puo' definire guerra contro i civili, per i bombardamenti a tappeto sulle citta', per le violenze e le rappresaglie di massa, e prima ancora per le deportazioni e per i giganteschi spostamenti di popolazioni. Nel Terzo Reich ci sono la deportazione degli ebrei e degli zingari, le deportazioni per motivi politici, e i grandi spostamenti di popolazioni destinate al lavoro coatto nell'economia di guerra. In Urss prima e durante la guerra, gruppi nazionali non russi come ceceni, tatari, ingusci, turchi, giudicati di "dubbia lealta'" o accusati in massa di aver collaborato con i nazisti, sono deportati quasi per intero, sia per "russificare" le loro terre sia per avere a disposizione forza-lavoro semicoatta per l'industria di guerra. * C'e' un altro elemento che mi incoraggia a parlare della seconda guerra mondiale e riguarda il Kosovo, dove la resistenza nonviolenta condotta dalla Lega democratica di Rugova e' durata parecchi anni, senza che mai trovasse spazio sui media e considerazione adeguata sul piano internazionale. Ci si e' accorti del Kosovo solo quando e' iniziata la lotta armata, e a quel punto Rugova e' stato emarginato. Se si fossero conosciute le tante forme di resistenza civile o non armata (le due parole grosso modo si equivalgono) che ci sono state nell'Europa sotto dominio nazista, forse si sarebbe prestata piu' attenzione all'esperienza kosovara, unica, fra l'altro, nella situazione balcanica. Invece non c'era conoscenza, non c'era un orizzonte simbolico che facesse capire come fosse importante. Qui anche la storiografia ha i suoi torti. Se si fosse creata una memoria condivisa capace di valorizzare quella resistenza, forse anche in Kosovo si sarebbe potuto fare qualcosa prima che la situazione degenerasse. Tanto piu' che ci sono delle parentele fra alcune pratiche adottate nei paesi occupati dal Terzo Reich e altre messe in atto dalla societa' civile per esempio in Kosovo, in Afghanistan e anche in Sud Tirolo nel periodo fascista. Intendo la societa' come luogo dell'associarsi delle persone in tante forme, che esprimono e producono liberta', ma contemplano anche ambivalenze e conflitti. Le identita' collettive, comprese quelle etniche, che dall'esterno sembrano un tutt'uno, sono segnate da conflitti interni che, per fortuna, portano a cambiamenti di idee, di mentalita'. Societa' quindi come insieme di attori collettivi, di complesse strutture di coesione. Schematicamente, se ne possono indicare due tipi, uno formalizzato, l'altro informale. Il primo sono le associazioni di persone che si danno un nome, uno statuto e si riuniscono intorno a una ragione sociale che puo' essere la piu' varia, dalla cultura all'assistenza, allo sport e quant'altro. Per esempio la Germania pre-nazista era un pullulare di organizzazioni di base di questo tipo, dalle corali alle filarmoniche, alle bocciofile, alle societa' di storia locale, alle associazioni di mestiere. La seconda forma, molto piu' fluida, e' quella dei reticoli familiari, amicali, parentali, di quartiere, di vicinato. Tutte e due queste strutture della coesione sociale hanno in comune un radicamento locale forte e la presenza di un solo obiettivo, o di obiettivi circoscritti, a differenza dei partiti che chiedono un'adesione a una linea complessiva. Tutte e due hanno una funzione particolarmente importante durante le emergenze e le guerre, in generale quando lo stato vive una crisi; e in queste circostanze si puo' cogliere con piu' chiarezza quel loro carattere ambivalente, progressivo sotto certi aspetti, regressivo per altri. In ogni caso sono forme vitali, che hanno contato e contano nel farsi della storia. Non e' vero che la storia va avanti secondo processi economici o decisioni a livello di alta politica. Reti familiari e di tipo etnico hanno avuto un grande peso nel determinare i tempi del mutamento sociale: in Usa nella prima fase del taylorismo, per esempio, spesso le fabbriche assumevano non secondo i criteri attitudinali, ma tenendo conto dei legami "etnici" degli operai immigrati. * Quanto fossero importanti le strutture della coesione sociale lo dice innanzitutto il modo in cui sono state trattate dai totalitarismi. La prima cosa che fanno i nazisti quando salgono al potere e' distruggere completamente queste realta', sciogliendole di forza, o nazificandole, ossia assimilandole nelle organizzazioni di massa per il tempo libero del partito nazista. Anche per quanto riguarda la seconda tipologia - le reti di relazione - c'e' il tentativo di penetrazione spionistica, che magari non riesce totalmente, ma basta a seminare quella sfiducia reciproca che non permette piu' di parlare tranquillamente con gli amici e persino nella famiglia. In Urss c'e' un processo simile: lo stato, il partito-stato azzera tutte le realta' associative e comunitarie tradizionali, e gia' all'indomani dell'ottobre azzera anche, svuotandoli o sciogliendoli brutalmente, i tanti comitati e associazioni - di inquilini, di massaie, di caseggiato, di mestieri - nate tra febbraio e ottobre nel fervore del mutamento. In Italia, la situazione e' un po' diversa perche' il fascismo deve patteggiare molto con i centri di potere preesistenti, innanzitutto con la chiesa cattolica. Il partito fascista neanche lontanamente avrebbe potuto pensare di azzerare le organizzazioni dell'Azione cattolica. I totalitarismi temono le strutture della coesione sociale perche' sono i luoghi delle relazioni fra persone, quelle relazioni che possono produrre l'imprevisto nella storia. Sono luoghi in cui ci si parla, ci si confronta, si possono avere delle idee diverse da quelle dominanti. Pero' sono anche luoghi del conformismo di gruppo, qualsiasi gruppo ne ha in se' i germi, sono luoghi dove si e' esercitata e si esercita anche la violenza. Sta di fatto che nell'Europa occupata queste realta' hanno avuto un ruolo primario in quella che un importante studioso francese, Jacques Semelin, chiama "resistenza civile"; la chiama cosi' perche' nasce dalla societa', dai cittadini, ed e' una resistenza non violenta, ma non sempre: ci sono azioni non armate, soprattutto di donne, in cui si usa la massa d'urto dei corpi, come quando si assaltano i magazzini di viveri. Queste innervature di base della societa', sia di tipo associazionistico, sia di tipo familiare, parentale, di mestiere, anche di bar se volete, sono decisive per impedire al nazismo di esercitare pienamente la sua volonta' di dominio sulla societa' civile, di sfruttamento di tutte le sue risorse, comprese quelle umane; sono decisive per far si' che ci siano degli ostacoli, che le cose non possano funzionare come loro vorrebbero; con differenze fra situazione e situazione, fra paese e paese, anche in relazione alla diversita' dei piani riservati da Hitler alla loro popolazione. * Vi faccio l'esempio della Polonia, primo stato ad essere invaso, uno stato che Hitler, nei suoi piani del Reich millenario aveva destinato al lavoro servile, a essere una sorta di colonia che facesse il lavoro grezzo, bruto. La pratica applicata nei confronti del popolo polacco era sfruttarlo sul piano economico, depotenziarlo anche demograficamente, ma soprattutto decapitarlo culturalmente, assassinando intellettuali e membri della classe dirigente, e poi impedendo la formazione della futura classe dirigente. Ecco perche' i nazisti distruggono le scuole, ecco perche' una delle azioni piu' ammirevoli della resistenza polacca e' l'organizzazione di scuole clandestine che vanno dalle elementari fino all'universita' in modo che, a guerra finita, la Polonia possa avere una sua classe dirigente. Qui, e non e' una forzatura, viene immediatamente da pensare alle scuole del Kosovo, che la Lega democratica aveva organizzato a tutti i livelli ovunque fosse possibile, magari nelle case, in modo che ci fossero scuole dove si parlava la lingua della maggioranza della popolazione, sia per continuare a formare i quadri dirigenti, sia per garantire l'istruzione di base a tutti. Mi viene in mente l'Afghanistan, dove c'erano gruppi di donne che organizzavano scuole clandestine per le bambine, non solo nei campi profughi in Pakistan, ma anche nel paese. Mi dicono che in questa zona, in Sud Tirolo, quando il fascismo, con il suo nazionalismo razzista e aggressivo, voleva estirpare la lingua tedesca, c'erano le Katacomben Schulen, in cui si dava l'istruzione che non si sarebbe ricevuta nella scuola statale fascistizzata. Tutto questo fa capire come tra le potenze occupanti e la popolazione si creasse spesso un contenzioso diretto; come la societa' non fosse soltanto il contorno della lotta armata; come il territorio della resistenza non fosse soltanto quello dove si combatteva con le armi. Fra queste forme di resistenza civile, ce n'e' una particolarmente "alta", bella, commovente, ed e' la cura di chi e' in pericolo, di chi ha bisogno. Dico cura per indicare un accudimento, una sollecitudine verso le persone in difficolta', che non sempre e' legata a solidarieta' preesistenti o a convinzioni politiche, ideologiche o religiose. Una cura che nasce piuttosto dall'incontro tra una persona e la vulnerabilita' dell'altra, proprio dall'incontro faccia a faccia, occhi negli occhi. E' un altro imprevisto che fa paura ai totalitarismi, che non a caso puntano a isolare i perseguitati in modo da impedire contatti da cui possa scattare il desiderio di fare qualcosa per l'altro. La cura e' un concetto associato molto al femminile, pero' bisogna dire che nei gruppi che si occupano di nascondere, di far scappare le persone ricercate c'e' anche una forte presenza maschile. * Anche queste pratiche di aiuto sono diverse da fase a fase, da paese a paese. Nella protezione degli ebrei, banco di prova della resistenza civile, si vedono bene le differenze fra i tre paesi abitualmente considerati "amichevoli", la Danimarca, la Bulgaria, che pero' su questo punto ha una storia troppo particolare per parlarne qui, e l'Italia che, a mio avviso, negli ultimi tempi sta un poco esagerando nel rivendicare i propri meriti. La Danimarca era un paese di tradizione democratica, con sentimenti civici forti e un alto livello di identificazione nelle istituzioni, e visse una situazione sul filo del rasoio per tutta la guerra: il governo non si oppose militarmente all'ingresso dei nazisti, ma siglo' un protocollo in cui si impegnava a fornire alla Germania delle risorse soprattutto economiche, in cambio dell'assicurazione formale che gli occupanti non avrebbero mai toccato le leggi e la costituzione danese, vale a dire i valori democratici di quel paese. Inizia cosi' un lungo braccio di ferro tra governo danese e nazisti: i danesi tergiversano quando si tratta di consegnare merci o viveri, ma, soprattutto, si oppongono fermissimamente all'emanazione di qualsiasi misura razzista contro gli ebrei in nome del fatto che, sancendo la costituzione danese l'uguaglianza dei cittadini, qualsiasi norma discriminatoria l'avrebbe violata. Si arriva a un punto di frizione tale che la solidarieta' popolare e la fermezza del governo hanno un effetto demoralizzante sui capi nazisti e Hitler e' costretto a sostituirli. Hannah Arendt ne La banalita' del male parla quasi di un contagio del bene: i nazisti non riuscivano ad essere abbastanza efferati in una societa' che stigmatizzava il razzismo. Sta di fatto che a un certo punto i tedeschi prendono in mano la situazione e cominciano i primi arresti e le prime deportazioni degli ebrei. E qui si apre un altro scenario imprevisto, una cosa mai successa, il fatto che la grande maggioranza di un popolo con le sue istituzioni, con le sue associazioni e i suoi singoli cittadini, si organizza per portare in salvo in Svezia i "suoi" seimila ebrei. Portarli in salvo con delle navi - piu' facilmente con delle barche - voleva dire avvertirli segretamente, riunirli segretamente, trovare soldi per le navi o per le barche, traghettarli, trovar loro una sistemazione dall'altra parte. Questa operazione riesce. E' il piu' grande episodio di salvataggio di tutta la storia della persecuzione antiebraica. L'Italia e' un paese molto diverso, che l'8 settembre esce da vent'anni di un regime che ha frantumato l'opposizione e fascistizzato le strutture della coesione sociale. I partiti di opposizione sono debolissimi, quelli che non hanno scelto l'esilio, come il partito comunista, sono stati falcidiati dalla repressione. L'Italia poi e' un paese dove non c'erano forti sentimenti civici e dove se c'era qualche barlume di identificazione con le istituzioni era stato spazzato via dalla fuga del re. Il nostro non e' il re di Danimarca, che e' presente, attivo e ha posizioni molto rigide, in particolare sul razzismo. Anche in Italia una parte della popolazione si sforza di dare aiuto, sebbene forse non sia ampia come si dice oggi. Ma le "strutture" di salvataggio sono spesso costituite di un individuo solo, con una piccola rete di aiutanti; sono i religiosi che accolgono nelle sacrestie, nei conventi; sono alcuni comandanti militari delle zone occupate dall'Italia - in Francia, in particolare questi alti ufficiali, pur essendo legati al governo fascista, fanno scelte diverse, e per una serie di motivi complessi ai quali pero' non e' estraneo l'umanitarismo, cercano di non emanare o di non applicare le le misure contro gli ebrei. Poi ci sono delle persone "comuni"; basta fare il nome di Perlasca, che comune non e' per la sua azione, ma comune e' per la sua origine sociale, la sua caratterizzazione culturale; e' un uomo come tanti. Su scala molto piu' piccola poi ci sono uomini e donne che nascondono le persone, per esempio medici che le ricoverano negli ospedali facendole passare per malati, donne che fanno passare un bambino ebreo per proprio figlio. Un grande ruolo, in Italia, ce l'hanno proprio le reti familiari, parentali, di quartiere e di vicinato, dove la fiducia reciproca consentiva di creare percorsi molto fluidi, in cui alcuni ricercati passano da un luogo all'altro seguendo i fili di queste reti. A volte ad agire sono intere comunita': in una valle piemontese, in un paesino che si chiama Ror‡, per due anni vivono in segreto delle famiglie ebree e tutti lo sanno. Il paese viene rastrellato, ma nessuno le tradisce. Va reso onore a questi gruppi e persone che, a rischio di vita, a rischio di deportazione, proteggono e salvano. * Va detto che pero' a guerra finita, queste realta', comprese quelle familiari e comunitarie, possono rivelare il loro aspetto violento, feroce, patrocinando vendette private e spacciandole per azioni politiche, oppure esasperando la propria vendetta politica contro alcuni, o legittimando le rese dei conti. Altre volte riescono invece a disinnescare la violenza; per esempio, qualcuno del paese garantisce per quel tale fascista che ha aderito a Salo', ma non si e' macchiato di crimini, e riesce cosi' a salvarlo, perche' magari il capo della formazione partigiana locale e' un parente, un amico, uno che si conosce; in questi casi spesso il ruolo delle donne e' decisivo. Insomma, da queste strutture puo' dipendere il salvataggio di alcuni e la morte di altri, e la fisionomia del dopoguerra. L'ambivalenza si manifesta ovunque, non solo in Italia. In Danimarca le strutture della coesione sociale svolgono un'azione di straordinaria civilta', ma a guerra finita fanno cio' che a me sembra molto poco civile: mettono in un unico fascio le collaborazioniste donne, che c'erano, le ragazze che si erano innamorate di un soldato tedesco e le donne che si erano prostituite per ragioni di sopravvivenza, considerandole tutte traditrici della nazione e sottoponendole tutte, indiscriminatamente, a umiliazioni e violenza. Le strutture sono le stesse o dello stesso tipo, e su un aspetto si mostrano altamente civili, su un altro appaiono portatrici dell'ideologia vecchia e mortifera per cui l'onore nazionale si identifica con l'onore sessuale, misurato su quello che fanno o non fanno le donne. Insisto, oltre che sull'ambivalenza, sulle donne, perche' in molti posti dove andrete ci sono tensioni e guerre di tipo "etnico", e uno degli aspetti principali delle "identita' etniche" e' lo statuto assegnato alle donne sul piano simbolico, sociale, familiare, politico; e' uno dei massimi terreni di scontro fra "etnie", ma lo e' anche al loro interno. Per questo il discorso sul rispetto delle culture locali e' un punto di principio necessario, ma che non mi sembra basti a orientare i comportamenti: assistere in silenzio a gesti aggressivi contro una donna, per esempio, non vuol dire automaticamente rispettare una cultura, puo' voler dire che se ne sta legittimando una parte, la peggiore, e sacrificandone un'altra. 2. MAESTRE. ANNA BRAVO: LA RESISTENZA NONVIOLENTA [Nuovamente riproponiamo il seguente saggio di Anna Bravo (che nuovamente ringraziamo per avercelo messo a disposizione) originariamente pubblicato sul quotidiano "La Repubblica" del 26 aprile 2005] Al tempo della seconda guerra mondiale, in Europa e negli Stati Uniti circolava l'espressione "sdraiarsi come un danese" La Danimarca non si era opposta con le armi all'occupazione nazista, il governo socialdemocratico, pur protestando contro la violazione della neutralita', era rimasto in carica, aveva consentito alla messa fuori legge dei comunisti, si lasciava usare come "vetrina democratica" del III Reich, collaborava mantenendo relazioni economiche con la Germania. Dunque la Danimarca si era "sdraiata", allo stesso modo di una donna che si sottometta all'assalto maschile - i discorsi politici ricorrono spesso a metafore sessuali. Strana collaborazione, pero', lontanissima dallo zelo della Francia di Vichy. Visto che la Germania ha sottoscritto un memorandum in cui si impegna a non ingerirsi negli affari interni danesi, il governo sceglie di prenderlo alla lettera, muovendosi sul filo del rasoio con la tattica del "come se": come se la Germania intendesse davvero rispettare i patti, come se la minuscola Danimarca potesse negoziare da pari a pari. A volte ci riesce. Nell'ottobre 1942, Hitler deve rinunciare a far introdurre nel paese leggi antiebraiche, perche' il governo minaccia di dimettersi, dichiarando che qualsiasi attacco agli ebrei danesi equivale a un attacco alla Costituzione, in cui e' garantita l'uguaglianza di tutti i cittadini. Intanto, non solo a a Copenaghen, molti e molte smettono repentinamente di parlare e di capire la lingua tedesca, e il rifiuto dell'antiebraismo e' cosi' diffuso e palese che fra i gerarchi nazisti nascono divergenze su come gestire la situazione. Nell'agosto '43, di fronte alla pretesa tedesca di schiacciare con la legge marziale una ondata di scioperi, il governo si autoscioglie, dando una enorme legittimazione alla pressoche' neonata resistenza. Poco dopo, a cavallo fra settembre e ottobre, la storia piu' ammirevole. Quando gli occupanti cominciano ad arrestare in prima persona gli ebrei e progettano la loro deportazione in massa, ecco che la popolazione - si puo' davvero dire "la popolazione" - si organizza. Il rabbino della sinagoga di Copenaghen comunica ai fedeli la minaccia; la resistenza, i partiti, le Chiese, la diffondono con i loro canali. I cittadini attivano tutto il loro tessuto associativo, nascondono i ricercati, raccolgono denaro per affittare un numero di barche suffficiente a caricare in poche riprese migliaia di persone, li accompagnano nottetempo ai luoghi di imbarco, mentre lungo strade e sentieri di campagna vigilano i membri della resistenza; infine li traghettano nella sicura Svezia. Hanno collaborato almeno quaranta associazioni di vario tipo, organi amministrativi, la polizia, la guardia costiera - per questo alcuni poliziotti finiranno in Lager. Grazie al popolo "sdraiato", piu' del 90% dei 7.695 ebrei danesi passa dalla parte dei salvati. Esempio unico, che alcuni autori hanno cercato invano di relativizzare, e che, ha scritto Hannah Arendt, dovrebbe essere proposto agli studenti di scienze politiche, perche' capiscano a quali risultati puo' arrivare una lotta nonviolenta, sorretta da un buon livello della coesione sociale e del riconoscimento popolare nelle istituzioni. * Prima ancora che nasca una resistenza armata, pratiche conflittuali inermi si sviluppano in tutta Europa: si va dalla non cooperazione agli scioperi, dalle proteste pubbliche per la penuria di viveri, alla protezione dei piu' vulnerabili, alla resistenza alle razzie di lavoratori da gettare nelle fabbriche del III Reich. In Polonia, si crea una rete di scuole clandestine contro il disegno nazista di ridurre quel popolo alla condizione servile. Soprattutto nei paesi del nord, insegnanti, magistrati, medici, sportivi, spesso appoggiati dalle Chiese, rifiutano di iscriversi ad associazioni di mestiere nazificate; in Norvegia non ci sara' piu' alcuna gara fino alla conclusione della guerra - il che contribuisce a aprire gli occhi a molti giovani. Ovunque durissimo, il braccio di ferro porta ad arresti e deportazioni, ma le istituzioni collaborazioniste sono completamente svuotate, la parvenza di normalizzazione cui aspirano gli occupanti resta un miraggio. Pochissime, almeno fino agli anni novanta, le ricerche che mettono a tema il carattere disarmato di queste lotte, e dovute quasi esclusivamente a studiosi dell'area nonviolenta, fra cui lo storico francese Jacques Semelin. Elaborando alla fine degli anni Ottanta il concetto di resistenza civile, Semelin da' a queste pratiche eterogenee un solido statuto teorico, e ne chiarisce la specificita': assenza delle armi e metodi in genere nonviolenti, i cittadini come protagonisti principali, autonomia degli obiettivi, diretti a contrastare lo sfruttamento e il dominio nazista sulla societa'. Altra cosa, e piu' complessa, del ruolo di appoggio e supporto alla resistenza armata, che pure conta ed e' prezioso. * Ancora oggi, nell'opinione comune e nella ritualita' ufficiale, e' solo quest'ultimo aspetto a essere ricordato. Cosi' anche in Italia. Sull'onda dell'attenzione di Carlo Azeglio Ciampi per il rapporto fra identita' nazionale e resistenza, le celebrazioni del 25 aprile si sono aperte da tempo all'esperienza dei civili, presentati come attori solidali e sofferenti, pero' calati e confusi in una massa indistinta, gregaria alla lotta in armi. Diversamente che nel dibattito storiografico, quasi mai si parla della resistenza disarmata come di una realta' autonoma. Eppure anche da noi e' esistita, ed ha avuto il suo momento unico, iniziato e cresciuto nei giorni dopo l'8 settembre, quando alla notizia dell'armistizio con gli alleati l'esercito si dissolve, e decine di migliaia di militari si sbandano sul territorio nazionale, braccati da tedeschi e fascisti. Sulle strade - scrive Meneghello ne I piccoli maestri - si vedevano "file praticamente continue di gente, tutti abbastanza giovani, dai venti ai trentacinque, molti in divisa fuori ordinanza, molti in borghese, con capi spaiati, bluse da donna, sandali, scarpe da calcio... Pareva che tutta la gioventu' italiana di sesso maschile si fosse messa in strada, una specie di grande pellegrinaggio di giovanotti, quasi in maschera, come quelli che vanno alla visita di leva". Dietro quei capi sottratti ad armadi gia' sguarniti, indossati in case cautamente ospitali o in luoghi appartati, si nasconde una iniziativa di massa del tutto indipendente da direttive politiche, e carica di rischi - presa in ostaggio, deportazione, fucilazione. E' la piu' grande azione di salvataggio della nostra storia, e una testimonianza che fra popolazione e nazisti/fascisti si e' aperto un contenzioso su aspetti cruciali dell'esistenza collettiva e della legittimita' pubblica, come i criteri di innocenza e colpevolezza. E' politica, che altro? Solo che a agire sono per lo piu' donne, e donne odiosamente definite "umili", donne ritenute incompatibili con la sfera pubblica, che operano individualmente o ricorrendo a reti di relazione parentali, di comunita', di vicinato - strutture basilari della coesione sociale, pero' invisibili alle categorie dell'analisi politica. In quegli anni si incontrano storie belle e importanti, che andrebbero raccontate in ogni occasione, pervicamente. Che aiuterebbero a ripensare il tema della responsabilita' personale nella guerra e nella resistenza. E' vero che la lotta armata chiede corpi giovani e sani, che non tutti possono sparare, vivere in clandestinita', reggere grandi fatiche; ma il quadro cambia se si pensa a una resistenza diversa, praticabile in molti piu' luoghi e forme, accessibile a molti piu' soggetti, dalla madre di famiglia al prete al nonviolento, a chi ha un'eta' anziana o e' fisicamente debole. "Fai come me" e' un invito che il resistente civile puo' estendere ben al di la' di quanto possa fare il partigiano in armi, e che mina alle radici una infinita' di autoassoluzioni. * Quelle storie aiuterebbero anche a smontare lo stereotipo della nonviolenza come utopia per anime belle. Niente affatto. Nel '43, poteva apparire del tutto irrealistico tentare un salvataggio degli ebrei con mezzi nonviolenti, in un paese sotto legge marziale direttamente controllato dai nazisti. Guardando all'oggi, nessuno aveva previsto le rivoluzioni incruente all'est, e c'e' chi diffida dei militanti di Otpor, l'organizzazione serba per la resistenza civile contro Milosevic, che girano l'Europa per insegnare le tecniche non armate, ma che devono pur avere altri fini! - la nonviolenza da sola non varrebbe la pena. Non era utopica neppure la lunga resistenza civile della popolazione kosovara; e' stata ottusa la comunita' internazionale a non sostenere decisamente Rugova, una scelta che nel tempo ha minato la fiducia nella strategia nonviolenta dando spazio all'Uck. * La seconda guerra mondiale ha ancora molto da dire, a cominciare da quel che si intende per contributo di un paese o di un gruppo alla lotta antinazista (e a qualsiasi lotta). Oggi lo si valuta ancora in termini di morti in combattimento; sarebbe giusto, tanto piu' in tempi di guerre contro i civili, misurarlo anche sulla quantita' di energie, di beni, soprattutto di vite strappate al nemico; sul sangue risparmiato non meno che sul sangue versato. 3. MAESTRE. ANNA BRAVO: PER UNA QUESTIONE DI DECENZA [Ripreso dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) nuovamente riproponiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "La Repubblica" del 31 gennaio 2007] Secondo un sondaggio dell'Antidefamation League (cfr. "La Repubblica" del 24 gennaio 2007) il 49% degli italiani pensa che gli ebrei parlino troppo della Shoah (in Polonia il 52%, in Inghilterra il 28%); sulla domanda se siano piu' fedeli a Israele che al paese in cui vivono, siamo al primo posto in Europa con il 55% di si' (in Polonia il 52%, in Germania il 50%). Dal 2004 il pregiudizio e' cresciuto, e sembra cresciuta anche la tendenza a considerare la memoria del genocidio come una questione esclusiva degli ebrei. Non credo sia soltanto l'effetto di una visione compartimentata della storia, in cui degli ebrei dovrebbero occuparsi gli ebrei, delle donne le donne, dei cattolici i cattolici e cosi' via. Questa concezione esiste, e sotto la copertura della correttezza politica fa danni ovunque. Ma qui si tratta di altro, del ritrarsi dalla comunanza nel ricordo costruita faticosamente nei decenni, della rottura del patto morale che riconosce alla Shoah un posto unico nella coscienza dell'Occidente, al di la' delle ideologie e delle fedi politiche o religiose. Ora sempre meno. Quel 49% comprende probabilmente un buon numero di persone convinte di sapere gia' tutto quel che deve sapere un "non ebreo". Siamo di fronte a un nuovo doppio standard, per cui il livello accettabile di informazione varia a seconda dell'appartenenza? Una certa quota per gli ebrei, un'altra per i non ebrei - e quale per i figli di matrimoni misti? A me pare che un non ebreo debba sapere ne' piu' ne' meno di quel che deve sapere un ebreo di pari sensibilita', e che soltanto da questa base possa nascere la condivisione. Con una avvertenza: un non ebreo deve mettere in conto che l'empatia e la buonafede non bastano a rendere il suo discorso "innocente"; che per nominare questo spartiacque della storia non esistono un modo giusto e uno sbagliato, ce ne sono molti e quasi tutti manchevoli. Forse alle radici del senso di colpa che Hannah Arendt aveva riscontrato fra giovani tedeschi non ancora nati ai tempi del nazismo, premeva la consapevolezza di questo ingorgo comunicativo capace di scavalcare le generazioni. * Mi chiedo quanti si rendano conto di cosa significhi ricordare in solitudine. Nel suo bellissimo (e colpevolmente non tradotto) Deportation et genocide, Annette Wieviorka nota che per gli ebrei francesi la consapevolezza del genocidio ha avuto bisogno di tempo per formarsi, e fra i motivi indica il bisogno di vivere, dopo lo stigma della diversita', la comunanza con tutte le vittime, l'uguaglianza con tutti i cittadini. Mi chiedo quanti capiscano la violenza implicita nel caricare il diritto/dovere del ricordo su qualcuno, e nel deprecare allo stesso tempo che faccia troppo uso di questa facolta'. Oggi si parla molto di negazionismo e dell'orizzonte politico in cui si iscrive. Giusto, necessario. Ma altrettanto necessario guardare alle forme piu' o meno mascherate di antiebraismo, di cui le risposte di quel 49% sono un segno. Qui non servono leggi. Servono cultura, informazione, nozioni. Molti politici hanno detto: "bisogna saper spiegare alle nuove generazioni cosa e' accaduto e perche' e' necessario che non accada mai piu'". Il punto e': e poi? Che di fronte al male (agito, accolto), la conoscenza non abbia di per se' un effetto salvifico e' ovvio; se mai c'e' da stupirsi delle tante dichiarazioni fiduciose espresse nei dintorni del Giorno della memoria. Ci sono persone che sanno, e approvano; ci sono stati regimi che hanno preso a modello i Lager; chi esibisce la svastica negli stadi non e' necessariamente uno sprovveduto inconsapevole del suo significato. Non e' risolutiva nemmeno la forma di conoscenza impegnativa e raffinata che dobbiamo innanzitutto ai racconti delle e degli ex deportati, e che passa attraverso l'identificazione - mettere una parte di noi dentro la vita di un altro, far entrare la vita di un altro dentro di noi. Certo, e' una via maestra. Secondo una quantita' di ricerche americane ed europee, a mettere radici sono le storie individuali, le tranches biografiche, che si prestano al registro della narrazione e che possono, a racconto finito, continuare nella mente di chi ha ascoltato, letto, visto. Eppure c'e' chi chiude occhi e orecchie, perche' identificandosi con le vittime si soffre; o perche' un perfetto curriculum di lettore e spettatore non impedisce di trovare piu' seducente il carnefice. Tutto questo non cancella affatto il dovere di sapere, di comunicare, e di farlo sempre meglio, sperimentando ogni strumento possibile; spinge pero' a chiedersi come e dove far circolare la conoscenza, a beneficio di chi. * In un altro bellissimo libro (Fabio Levi, I ventenni e lo sterminio degli ebrei, ed. Zamorani) sono raccolte le risposte date da studenti torinesi del primo anno di Lettere a un questionario aperto sulla persecuzione. Si chiedeva, fra l'altro, come ci si sarebbe comportati con un ipotetico coetaneo negazionista, razzista, odiatore degli ebrei. Una risposta diceva: "Gli racconterei, gli spiegherei, gli direi di leggere Primo Levi. E se continuasse come prima, io lo chiuderei in un sgabuzzino buio". Metafora fulminante della necessita' di isolare socialmente quei discorsi. E preziosa indicazione sui luoghi e modi in cui ha senso agire. Non e' strano che a parlare sia una persona giovane, i giovani sanno quanto conti per il loro benessere mentale e spirituale l'accettazione del gruppo dei pari, della cerchia di amici; quanto sia devastante esserne espulsi. Lo sgabuzzino buio avverte che esistono limiti all'indulgenza, qualunque sia l'eta'; che parole e atteggiamenti chiamano in causa la responsabilita' personale, e per questo hanno un costo. Probabilmente il ragazzo pensava anche che l'esperienza diretta dell'esclusione fosse un buon modo per sollecitare la comprensione di quella altrui. Puo' sembrare poco caritatevole, ma se si pensa a certe ottusita' marmoree e' piuttosto saggio. Il gruppo amicale e' una struttura particolarmente forte, ma il discorso vale per ogni ganglio della coesione sociale, dalle scuole alle reti di parentela alle Chiese, dagli ordini professionali alle associazioni di ogni tipo. E' vero che la cosiddetta societa' civile non va mitizzata, ma e' vero anche che mantiene al suo interno una innervatura di relazioni cruciale per la costruzione del sentire comune. Lo sapevano bene i nazisti, che gia' entro la fine del 1933 avevano soppresso o riassorbito nelle loro organizzazioni tutti i club, le cooperative, le associazioni indipendenti - sportive, religiose, amatoriali, filantropiche, ricreative. "Non c'era piu' vita sociale; non si poteva neanche avere una bocciofila", racconta un protagonista del libro di Allen Come si diventa nazisti. Persino le riunioni familiari e le sere in birreria potevano finire sotto controllo poliziesco, tanto era il terrore dei liberi rapporti fra persone. E' nei gruppi intermedi fra singolo e Stato che dovrebbe esistere uno "sgabuzzino buio"; e che potrebbe trovare concretezza la lotta contro negazionisti, riduzionisti, e sciocchi all'apparenza innocui. Se ricordare non puo' essere un obbligo, non lo e' neppure stringere loro la mano, sedere alla stessa tavola (e allo stesso tavolo), ascoltarli, sopportarne l'ignoranza narcisistica - "io non l'ho mai letto, non l'ho mai sentito". Nella sfera sociale esistono possibilita' di intervento che la sfera politica non conosce. Esistevano persino, e non comportavano rischi terribili, nella Germania anni Trenta: se le cerchie socialmente importanti - degli aristocratici, dei militari, degli industriali - avessero allontanato i nazisti; se chi trovava divertente spaccare le vetrine di un negozio di ebrei fosse stato messo ai margini dal suo gruppo di riferimento; se le persone "rispettabili" avessero manifestamente preso le distanze dal regime. Si dice che la storia non si fa con i se; ma e' con i se che si capisce che le cose potevano andare diversamente, che il nazismo non era scritto nel destino della Germania e non era soltanto il frutto di grandi processi impersonali. In fondo, a proposito di isolamento sociale, non c'e' neppure bisogno dell'appoggio di un gruppo. Chiunque e' padrone di respingere chi vuole, di ritirargli il diritto di cittadinanza nella sua casa, il diritto di accesso ai suoi pensieri, ai suoi amici, ai suoi libri, al suo indirizzo di posta elettronica, al suo telefono. Sarebbe bello poter dire: "se qualcuno non vuol sapere, non vuole condividere, se nega, se mente, peggio per lui". Solo che il peggio non consiste in un processo, dove potrebbe addirittura giocare la parte del martire del libero pensiero. Il peggio deve venire da vicino, dalla quotidianita'. Dallo sgabuzzino buio. Da singole persone che sappiano far circolare conoscenze e cultura, ma facendo leva sul dovere di tradurle nei comportamenti. E in comportamenti visibili: di fronte a un'offesa, tacere in pubblico e solidarizzare in privato e' un escamotage in voga dai tempi delle leggi antiebraiche del '38. * Molti ex deportati puntano da anni ad allargare l'area di risonanza della loro memoria, a moltiplicare le voci. Come se, accanto ai testimoni oculari, si cercasse di far nascere figure nuove, una sorta di "testimoni mentali" che, pur non avendo vissuto l'esperienza, siano in grado di farne propri i significati e di trasformarsi da ascoltatori in narratori. Ora penso che potrebbero in qualche caso avere anche il ruolo del teste di accusa. Contro una menzogna, un insulto, una indifferenza esibita, una scritta sui muri, una battuta pronunciata chissa' dove. Non per la dubbia pretesa di farsi paladini degli ebrei, semplicemente per una questione di decenza, per amore di se', perche' pensano che se non lo fanno loro, forse non lo fara' nessuno. ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 229 del 16 agosto 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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