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Nonviolenza. Femminile plurale. 256
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 256
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 2 Jul 2009 10:57:34 +0200
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 256 del 2 luglio 2009 In questo numero: 1. Maria G. Di Rienzo: Il regime schiavista 2. Nadia Urbinati: Quel silenzio che ammorba l'aria 3. Umberto De Giovannangeli intervista Nawal El Saadawi 4. Umberto De Giovannangeli intervista Yael Dayan 5. Rossella Battisti ricorda Pina Bausch 6. Anita Desai: Dal silenzio 7. Caterina Ricciardi presenta "La conquista dell'Est: Pearl S. Buck tra Stati Uniti e Cina" di Valeria Gennero 8. Riletture: Marthe Robert, L'antico e il nuovo 9. Riletture: Marthe Robert, Da Edipo a Mose' 10. Riletture: Marthe Robert, Solo come Kafka 1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: IL REGIME SCHIAVISTA [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per questo intervento] Dati delle Nazioni Unite, giugno 2009. L'Italia e' sia destinazione sia transito per donne, bambini ed uomini "trafficati" a livello internazionale per sfruttamento sessuale e lavorativo. Donne e bambine vengono portate a prostituirsi nel nostro paese principalmente da Nigeria, Romania, Bulgaria, Albania, e tutti i paesi dell'ex Unione Sovietica; un numero minore viene dall'America del sud, dall'Africa del nord e dell'est, dal Medio Oriente e dalla Cina. Uomini e donne cinesi arrivano in Italia soprattutto per essere impiegati nel lavoro nero. Bambini romeni sono venduti e comprati ad uso sessuale o per forzarli a mendicare. Il 90% dei lavoratori stagionali in agricoltura, nel sud dell'Italia, non sono registrati come tali, e due terzi di essi sono in Italia "illegalmente", il che li lascia alla completa merce' degli schiavisti: i quali li spostano di frequente, come pacchi, da una zona all'altra al fine di evitare i controlli. I lavoratori stagionali "clandestini" provengono da Polonia, Romania, Pakistan, Albania e Costa d'Avorio. Il rapporto delle Nazioni Unite conclude attestando che il traffico di esseri umani in Italia e' in aumento, e inoltre interessa sempre di piu' settori "privati", nascosti, il che rende maggiormente difficoltoso identificare le vittime e punire i perpetratori. Una vera e propria invasione, uno scandalo, sara' d'accordo il nostro illuminato governo che le vittime le punisce e i perpetratori li esalta, li salva con leggine ad hoc, li promuove a seggi parlamentari. Ho una sola domanda da fare. Queste e questi arrivano in Italia da tutto il mondo, maledizione, a prostituirsi e a lavorare in condizioni di schiavitu': per chi? Chi e' "l'utilizzatore finale" della donna nigeriana, del bambino romeno, dell'uomo pakistano? Chi si ingozza di soldi sulle loro vite? Le prostitute hanno clienti, le piantagioni ed i campi hanno proprietari. Di che nazionalita' sono, di grazia? 2. RIFLESSIONE. NADIA URBINATI: QUEL SILENZIO CHE AMMORBA L'ARIA [Dal quotidiano "La Repubblica" del 30 giugno 2009 col titolo "L'Italia, il potere e il silenzio delle donne"] Non e' facile essere donne in questo tempo di stravolgimento dei valori e dei costumi, di smarrimento del senso comune. Non e' facile trascendere cio' che ci sta intorno e ci offende: vicende di giovani donne che si lasciano abbagliare da vecchi e meno vecchi uomini potenti; che accettano di farsi rimpicciolire fingendosi "bimbe" di un "papi". Non c'e' glamour in questa societa' dei diminutivi. Le ragazze che sono veline, meteorine e ricevono farfalline e tartarughine: un linguaggio che le rimpicciolisce trasformando il serraglio in un parco ludico infantile. Nelle Lettere persiane di Montesquieu si trovano immagini rassomiglianti, rappresentazioni attualissime della vita servile di corte, piu' sordida perfino di quella dell'harem... E' questo l'esito delle fatiche che donne e uomini di piu' generazioni hanno sopportato per poter vivere come eguali nella vita pubblica e in quella privata? Mary Wollstonecraft, la coraggiosa e giovane iniziatrice del femminismo moderno, aveva parole durissime contro una societa' che preparava le ragazze ad un futuro che era perfettamente funzionale alla societa' patriarcale: educate a essere cocotte appetibili mentre erano giovani per poi finire a procreare figli e servire mariti. Pensava, lei illuminista, che tutto cominciasse con l'educazione, che la ragione dell'assoggettamento delle donne fosse da cercare nell'ignoranza e nell'esclusione dalla vita della citta'. In una societa' dove tutto il vivere civile era strutturato e pensato come una succursale allargata della casa, quello che appariva agli occhi delle sue coetanee come un'occasione da sfruttare non era che una dorata prigione. Mary era durissima e severa con le donne del suo tempo perche' remissive e docili; concentrate a sviluppare quelle competenze salottiere che potevano, questa la loro speranza, spianare la strada verso un buon matrimonio; per questo, si facevano complici del serraglio nel quale vivevano, "oggetto di attenzioni triviali da parte di uomini che considerano tali attenzioni un tributo virile da pagare al gentil sesso, quando in realta' essi lo insultano affermando la propria superiorita'". La bella Mary si rivolto' contro quel mondo goldoniano di serve furbette e padroni protervi e rivendico' l'inclusione delle donne nelle scuole e nella vita pubblica; donne protagoniste senza intermediari ma per loro capacita' e con i loro sforzi, non attive da dietro le quinte. Il pubblico invece che l'esilio forzato nel privato; la sfera della politica per via di consenso aperto tra cittadini eguali invece che per via di intrigo di cortigiani; l'arma dei diritti invece e contro quella della forza: questa e' stata dal Settecento la strada percorsa da chi ha difeso la dignita' di uomini e donne; anche degli uomini, perche' la condizione della donna e' sicuramente lo specchio nel quale si riflette lo stato di tutta la societa'. Da qui le donne sono partite nei decenni a noi piu' vicini per rivendicare un'altra fetta di diritto e di potere, quella che avrebbe dovuto sollevare finalmente il velo del privato per mostrare le nicchie di violenza e sopruso che ancora resistevano, non viste, non dette, non considerate: la violenza domestica in primo luogo, ma anche l'abitudine inveterata a leggere come naturalita' cio' che invece era ed e' sempre stato frutto di cultura e societa', dominio e dipendenza. La stagione dei diritti ha rovesciato un modo di leggere i rapporti umani e tra i generi, nel privato e nel pubblico; ha svelato e decostruito l'interpretazione consolidata di cio' che e' sociale e di cio' che e' naturale, ridefinendo il genere e il ruolo dei e tra i sessi. Questa e' stata la grande lezione delle battaglie per i diritti civili combattute con lo slogan "il personale e' politico", "il privato e' pubblico". Decine di anni dopo quelle battaglie per i diritti, le societa' moderne, quella italiana in maniera abnorme, si trovano nella condizione paradossale di veder rovesciata quella logica, per cui tutto il pubblico e' ora privato e il privato ha occupato il pubblico con le conseguenze aberranti per cui da un lato vi e' una legge che mette la privacy sull'altare della religione secolare e dall'altro vi e' una vita politica che e' il palcoscenico sul quale si recita soltanto una parte, quella privata. E se questa parte si mescola (come puo' essere diversamente?) con questioni politiche o di Stato e i cittadini vogliono sapere e i giornali cercano di svelare, allora si evoca la sacralita' della privacy, sulla quale si pretende di inchiodare l'informazione, facendola passare come un'intrusione invece che come un bene pubblico. Il paradosso e' che chi per primo ha cancellato ogni distinzione tra pubblico e privato si fa ora rivendicatore di quella separazione. E' evidente il giuoco delle parti che si cela dietro questa che e' come la magia della stanza degli specchi: confondere tutti i piani per poter usare a piacere l'uno e l'altro a seconda dell'interesse. Allora, le ragioni di Stato sono l'arma per nascondere questioni che con lo Stato nulla hanno a che fare; e le ragioni del privato servono a nascondere cio' che e' di interesse pubblico e che i cittadini hanno diritto di sapere. In gioco, e' stata l'unanime e giusta diagnosi, c'e' la legittimita' e la credibilita' delle nostre istituzioni, non solo di fronte a noi cittadini italiani, ma anche presso gli altri paesi. L'Italia e' una miniatura di se stessa, lo specchio di quel linguaggio di diminutivi che le giovani ragazze si lasciano appioppare con sorprendente indifferenza da profittatori di ogni eta'. La loro presenza sulla scena sociale e' tutta privatissima, proprio come vogliono che sia da tempi immemorabili gli uomini "a mal piu' ch'a ben usi". Le donne sono sempre lo specchio della societa', il segno piu' eloquente della condizione nella quale versa il loro paese: quando muoiono per le violenze perpetrate da un potere tirannico o quando viaggiano con voli prepagati per ritirare un cotillon a forma di farfalla. Nelle loro storie e' riflessa la storia tragica o patetica delle loro case e delle loro citta'. E come nel caso delle donne vittima di violenza del tiranno, anche nell'altro e' urgente che si levino voci di critica, di sconcerto, di denuncia; voci di donne. Questo silenzio ammorba l'aria. 3. RIFLESSIONE. UMBERTO DE GIOVANNANGELI INTERVISTA NAWAL EL SAADAWI [Dal quotidiano "L'Unita'" del 30 giugno 2009 col titolo "Intervista a Nawal El Saadawi. Diamo a Neda e alle sue sorelle iraniane il Nobel per la pace" e il sommario "La scrittrice egiziana: Se quel premio ha ancora un senso va assegnato alla memoria di quella ragazza coraggiosa. Le donne motore della rivolta"] "Se il mondo ha ancora una coscienza, se esiste ancora il diritto-dovere all'indignazione, allora questa indignazione dovrebbe riempire le piazze di tutto il mondo a sostegno degli eroi di Teheran. E se il Nobel per la Pace ha ancora un senso, dovrebbe essere assegnato alla memoria di Neda, la ragazza uccisa dalle squadracce del regime, divenuta il simbolo di un movimento che sfida un potere teocratico e fascista". A parlare e' Nawal El Saadawi, l'autrice egiziana femminista piu' conosciuta e premiata. I suoi scritti sono tradotti in piu' di trenta lingue in tutto il mondo. Per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne e per la democrazia nel mondo arabo, la scrittrice egiziana, 78 anni, compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni integraliste. * - Umberto de Giovannangeli: La brutalita' del regime non spegne l'onda verde di Teheran. Come leggere questo movimento? - Nawal El Saadawi: Quella in atto in Iran e' una rivoluzione di popolo contro dittature interne ed esterne. E' la ribellione eroica contro lo sfruttamento e contro i poteri forti, economici, politici, religiosi. Le donne e gli uomini iraniani, giovani e anziani, stanno combattendo contro l'oppressione, la disuguaglianza, l'ingiustizia. La loro voce e' la voce del popolo iraniano. Nessun potere puo' zittirli prima che gli eroi di Teheran raggiungeranno il loro obiettivo. * - Umberto de Giovannangeli: Al di la' delle proteste formali, il mondo sembra assistere passivamente agli eventi di Teheran. - Nawal El Saadawi: E' una vergogna. Un'assoluta vergogna. Se esiste ancora il diritto-dovere all'indignazione, questo diritto deve riempire le piazze di tutto il mondo a sostegno della rivoluzione iraniana. Nessuno puo' girare la testa da un'altra parte. Nessuno puo' dire: non sapevo. Il silenzio e' complicita' verso un potere che sta reprimendo nel sangue una rivolta democratica. * - Umberto de Giovannangeli: Lei parla di silenzio. Un silenzio che domina nelle capitali arabe. - Nawal El Saadawi: Dica pure complicita'. Perche' a quei leader arabi abbarbicati al potere, a elite che hanno fatto scempio di diritti e di democrazia, a questi satrapi la rivoluzione iraniana fa paura, molto di piu' del regime teocratico di Ahmadinejad e Khamenei. Fa paura perche' hanno il terrore che l'onda verde di Teheran possa propagarsi a tutto il mondo arabo e musulmano. Da qui il silenzio. Il silenzio dei complici. * - Umberto de Giovannangeli: L'Occidente deplora la repressione messa in atto dal regime. - Nawal El Saadawi: Deplora ma continua a fare affari con quel regime. Gli affari contano piu' dei diritti. Il petrolio piu' della liberta' rivendicata dal popolo iraniano. E' la doppia morale dell'Occidente: a parole si esaltano i principi di democrazia, nei fatti si continuano a sostenere, o comunque a non intaccare, regimi che della democrazia fanno scempio quotidiano. * - Umberto de Giovannangeli: Il simbolo di un'onda che non si arresta e' Neda Agha Soltan, la giovane iraniana uccisa in una delle prime manifestazioni di piazza. - Nawal El Saadawi: Ho pianto per Neda. E allo stesso tempo mi sono sentita orgogliosa, come donna, come musulmana. Orgogliosa perche' sono le donne il motore di questa rivolta, sono loro a esprimerne lo spirito piu' alto. Perche' sono le donne ad essere doppiamente vittime di un regime teocratico e sessista come e' quello iraniano. La loro e' una doppia ribellione. Mi lasci aggiungere che se il premio Nobel per la Pace avesse ancora un senso, questo premio dovrebbe essere assegnato a Neda e alle donne iraniane. * - Umberto de Giovannangeli: Perche' le donne fanno paura al potere come ai fondamentalisti? - Nawal El Saadawi: Fin dall'inizio della storia dell'umanita', i governanti, ma anche i fondamentalisti e gli stessi dei maschili, erano contro le donne. Perche' erano contro Eva, la nostra progenitrice. Perche' lei ha mangiato dall'albero della conoscenza, e quindi e' diventata una "peccatrice". Da li' sono cominciate due cose: e' iniziata l'oppressione delle donne, e contemporaneamente la conoscenza veniva proibita. L'oppressione, la schiavitu' sono iniziate con Eva e proseguite con Iside, la divinita' femminile della conoscenza. Tutto questo accade perche' gli uomini - non solo quelli che esercitano la loro protervia maschilista in nome di Allah - hanno paura delle donne, e hanno paura perche' le donne sono piu' intelligenti degli uomini. Eva era piu' intelligente di Adamo... Per questo si ha paura delle donne in una societa' che e', al tempo stesso, patriarcale, capitalista e teocratica. 4. RIFLESSIONE. UMBERTO DE GIOVANNANGELI INTERVISTA YAEL DAYAN [Dal quotidiano "L'Unita'" del primo luglio 2009 col titolo "Intervista a Yael Dayan. Si' al Nobel per Neda. In Israele scopriamo che c'e' un altro Iran" e il sommario "La scrittrice ex deputata laburista: Le donne e i giovani di Teheran lottano contro il regime. Non esiste solo Ahmadinejad con le sue ossessioni"] "Israele sta scoprendo l'esistenza dell''altro Iran'. L'Iran delle donne e dei giovani che hanno sfidato la brutalita' del regime per rivendicare liberta' e diritti. Siamo di fronte a una protesta il cui valore va ben al di la' dello stessa contestazione del risultato elettorale. Quelle donne, quei giovani dicono al mondo che l'Islam non e' sinonimo di integralismo, che in Iran esiste una societa' civile proiettata nel futuro". A parlare e' Yael Dayan, scrittrice, piu' volte parlamentare laburista, figlia dell'eroe della guerra dei Sei giorni: il generale Moshe Dayan. "Condivido le aperture al mondo islamico di Barack Obama - rimarca Yael Dayan - ma cio' non deve tradursi nell'accettazione dell'esistente. Di fronte ad un regime autoritario, teocratico, che reprime con la violenza una protesta popolare, occorre dire chiaramente che tra l'Iran di Ahmadinejad e quello che si riconosce in Neda (la studentessa uccisa in una delle prime manifestazioni a Teheran - ndr), ogni coscienza democratica non puo' che stare con chi si batte per la liberta'". * - Umberto De Giovannangeli: Fino a qualche settimana fa, Israele guardava all'Iran come a un Paese ostile, guidato da un presidente, Mahmud Ahmadinejad, che non ha mai nascosto i suoi propositi di annientamento dello Stato ebraico. Ed ora? - Yael Dayan: Ora la percezione diffusa in Israele e' profondamente cambiata. Abbiamo scoperto l'esistenza di un altro Iran. L'Iran delle donne, dei giovani, che hanno detto basta con un regime brutale, che non ha esitato a ordinare di aprire il fuoco contro i suoi stessi cittadini. Questo movimento ci dice che c'e' un Iran che non ha come chiodo fisso la distruzione d'Israele, ma che punta ad una trasformazione interna del Paese, in nome di un Islam coniugato con i diritti e una societa' aperta... * - Umberto De Giovannangeli: Resta il fatto che non ci sono state in Israele mobilitazioni di piazza a sostegno della "Primavera di Teheran". - Yael Dayan: Bisogna fare esercizio d'intelligenza politica. Il regime non aspetta altro che poter mostrare in televisione il "Nemico" israeliano che si schiera a fianco degli "eversori" interni. Gia' vedo tuonare Ahmadinejad o Khamenei: ecco, vedete, i sionisti appoggiano i nemici della Rivoluzione khomeinista, ecco la prova del complotto ordito da America e Israele... Non dobbiamo cadere nella trappola, perche' poi a pagarne il conto sarebbero quanti in Iran si oppongono al regime dei brogli. Questo non vuole dire, pero', non cercare di mandare segnali di solidarieta' e di vicinanza ai manifestanti di Teheran... * - Umberto De Giovannangeli: Uno di questi segnali puo' essere quello indicato dalla scrittrice egiziana Nawal El Saadawi in una intervista a "l'Unita'": "Diamo a Neda e alle sue sorelle il Nobel per la pace"? - Yael Dayan: Mi pare una iniziativa lodevole, da sostenere. Non e' un caso che laddove c'e' da battersi per difendere spazi di liberta', le donne siano in prima fila. Divenendo il simbolo di quanti non si arrendono a dittature brutali, a regimi autoritari e teocratici. Pensiamo ad Aung San Suu Kyi, o alla stessa Ingrid Betancourt... Ed oggi non c'e' dubbio che le "donne in verde" rappresentano una spinta vitale della protesta. * - Umberto De Giovannangeli: Una protesta che qualcuno interpreta come un regolamento interno alle varie anime del regime. - Yael Dayan: Mi sembra una lettura parziale, datata. Le istanze di cui l'"onda verde" di Teheran si fa portatrice, sono istanze di apertura, di diritti, di democrazia sostanziale che appaiono inconciliabili con il regime teocratico iraniano in tutte le sue sfaccettature... * - Umberto De Giovannangeli: La protesta non sembra investire la questione nucleare. - Yael Dayan: Non dobbiamo fare l'esame di maturita' a quel movimento. Una cosa, da israeliana, mi sento pero' di sottolineare: quelle donne, quei giovani che sono scesi in strada non sono animati dall'odio verso Israele. Ed e' significativo che le trasmissioni in farsi della radio israeliana vengono ascoltate da centinaia di migliaia di persone. Il dialogo e' possibile, nel rispetto reciproco. E, da parte d'Israele, senza nessuna strumentalita'. * - Umberto De Giovannangeli: Barack Obama ha usato parole molto dure nel condannare la repressione in atto in Iran, al tempo stesso non ha chiuso le porte a un confronto con l'attuale dirigenza iraniana. - Yael Dayan: Condivido l'approccio del presidente Obama sull'Iran come sul rilancio del processo di pace israelo-palestinese. Ma l'Iran che puo' entrare in sintonia con il "nuovo inizio" da lui evocato, e' l'Iran di Neda, non certo quello di Ahmadinejad. 5. LUTTI. ROSSELLA BATTISTI RICORDA PINA BAUSCH [Dal quotidiano "L'Unita'" del primo luglio 2009 col titolo "Pina Bausch, la rivoluzionaria", il sottotitolo "Muore la signora della danza" e il sommario "Si e' spenta ieri a 68 anni. Del cancro che l'ha portata via erano a conoscenza solo gli amici. Ha fondato nel 1973 il Wuppertaler Tanztheater cambiando i connotati all'arte di Tersicore. Il panorama della danza contemporanea perde una delle sue figure piu' rivoluzionarie: Pina Bausch, fondatrice del Wuppertaler Tanztheater, e' morta ieri. Aveva 68 anni ed era malata di cancro"] Pina Bausch se ne e' andata dalla scena del mondo con un ultimo, tragico coup de theatre, dettato da un'agenzia secca che annunciava la sua morte a 68 anni. Come, perche', il rovescio confuso di domande sulla scomparsa inaspettata della Signora del Tanztheater (del cancro che l'ha portata via erano a conoscenza solo i fedelissimi), della coreografa che ha cambiato i connotati alla danza contemporanea, si dissolve su un fermo immagine, su quel volto scavato, lo sguardo struggentemente triste, i capelli liscissimi e raccolti in una perenne coda di cavallo. Il suo look di sempre, da sempre, come se negli occhi avesse impresso una fine presagita. Nel silenzio. Di parole ce n'erano tante nei suoi spettacoli, i danzatori del Wuppertaler Tanztheater che la Bausch aveva fondato nel 1973 recitavano monologhi, cantavano, declamavano in scena poesie o confessioni intime. Ma erano frammenti di un flusso di coscienza interiore che si mescolava a memorie del quotidiano, un diario minimo della vita che parlava di un'assetata nostalgia di amore. Suoni di solitudine, interni di anime screpolate tra le sedie abbandonate di un bar (Cafe' Mueller del 1978, tra i primi e piu' celebri spettacoli), sentimenti stropicciati come foglie secche (il precedente Blaubart), danze declinate per piu' stagioni (Kontakthof, di cui ha fatto tre versioni per eta' differenti). Philippine Bausch detta Pina era nata a Solingen nel 1940, adolescente nel buio dopoguerra tedesco frequenta la Folkwang Hochschule di Essen, dove Kurt Jooss, erede della danza espressionista e degli insegnamenti di Laban, e' tornato dall'esilio per lavorare alle sue concezioni di teatrodanza. Grazie a una borsa di studio, Pina conosce anche la frizzante realta' americana degli anni '60 nella prestigiosa Juilliard School di New York, con la modern dance di Jose' Limon e i balletti "psicologici" di Tudor che la scrittura per i suoi lavori. Anche Jooss la vuole e Pina torna in Europa. E' un richiamo controverso alle sue radici, in una Germania cupa e grigia, stretta nella morsa del senso di colpa. Sono gli stessi anni e le stesse atmosfere e la stessa terra desolata che Fassbinder descrive nei suoi film. E che Pina riassume con altrettanta visionarieta' nei suoi lavori. Stuecke, "pezzi", comincia a chiamarli a partire dal 1980, portando a maturazione con una personalissima cifra l'eredita' del Tanztheater espressionista che aveva assorbito da allieva prima e da direttrice del medesimo centro di Essen dal '68. Bausch e' l'orchestratrice geniale di un teatro di danza assoluto, costruito sullo spunto bizzarro di domande con le quali la coreografa sollecita "confessioni" dai suoi danzatori tra privato e immaginario. L'apparire in scena di queste opere-collage dove gli interpreti piangono, ridono, trascinano con veemente passionalita' schegge di se stessi sotto i riflettori, sorprende e sconcerta il tradizionale pubblico dei ballettofili ma appassiona il mondo del teatro e del cinema. Fellini la immette di peso nel suo E la nave va del 1983 nel ruolo di una duchessa cieca, anni dopo anche Almodovar la reclamera' per il suo Parla con lei del 2000. Ma nel corso degli anni Ottanta e Novanta si e' gia' celebrata la "santificazione" di un'artista rimasta di temperamento schivo e taciturno. Mentre la danza e' tornata ad appropriarsi di una delle sue piu' innovatrici e geniali creature e i direttori dei teatri fanno a gara per assicurarsi un suo debutto, meglio: di opere ad hoc nate da periodi di residenza. E' l'ultimo, fertile filone cavalcato dalla Bausch, che fruga nell'identita' segrete delle citta' per ricavarne profili inediti, col suo sguardo curioso, la sua capacita' di fiutare recondite (dis)armonie, da Vienna alla California, da Los Angeles a Lisbona (a giugno doveva debuttare il lavoro dedicato al Cile). Per l'Italia, che molto l'ha amata, ha creato "pezzi" indimenticabili come Palermo, Palermo, Viktor dell'86 e O Dido del '99 per la capitale. Proprio in quest'ultimo compariva una sfumatura di inedita e colorata allegria a cui Pina sembrava approdare dopo l'intensita' drammatica e squarcia-anima che l'aveva caratterizzata nel tempo. Un piacere della vita che l'aveva presa di sorpresa, che accostava alle eterne sigarette un buon bicchiere di vino rosso, un piatto di tagliatelle, un chiarore di sole napoletano. Forse era per esorcizzare il male oscuro. Forse per l'amore istintivo che ogni tedesco da Goethe in poi ha provato per il paese dei limoni. L'ultimo appuntamento sara' qui, a Spoleto dove la sua compagnia presentera' Bamboo Blues. Sara' un caso, ma e' anche il luogo dove all'alba di se stessa diva futura, Pina Bausch danzo' con Jean Cebron piu' di quarant'anni fa. 6. RIFLESSIONE. ANITA DESAI: DAL SILENZIO [Dal quotidiano "L'Unita'" del 30 giugno 2009 col titolo "La scrittura viene dal silenzio come la forma dalla pietra e la luce dal buio della notte", il sommario "La scrittrice indiana riflette sul metodo letterario a partire dagli antichi Veda, ognuno dei quali era, assieme, incipit e frammento di un racconto generale. Il narrare e' come la musica e la solitudine dello scrittore e' l'indispensabile nulla che precede l'emissione del suono", la nota redazionale "L'intervento qui pubblicato verra' letto da Anita Desai oggi alle ore 21 alla Milanesiana, il festival di letteratura, musica e cinema, ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi e promosso dalla Provincia di Milano, con il Comune di Milano e la Regione Lombardia" e la postilla bibliografica essenziale "Dai romanzi ai racconti per bambini la scrittrice e la sua India. Anita Desai, nata nel 1937 da madre tedesca e padre bengalese, ha compiuto gli studi a Delhi. I suoi libri pubblicati includono tra gli altri Fuoco sulla montagna (2006), che si aggiudico' il Royal Society of Literature's Winifred Holtby Memorial Prize e il National Academy of Letters Award. Ha scritto anche due libri per bambini, The Peacock Garden (1979) e Il villaggio sul mare (2002), che vinse il Guardian Award for Children's Fiction e da cui e' stato tratto un film. Il suo ultimo romanzo, Digiunare, divorare, tradotto in Italia nel 2005, e' stato selezionato per il Booker Prize". La traduzione e' di Anna Nadotti] Ne La terra desolata, T. S. Eliot scriveva: "Chi e' il terzo che ci cammina sempre accanto?/ Quando conto, ci siamo soltanto tu e io insieme,/ Ma quando guardo avanti alla strada bianca/ C'e' sempre un altro che ti cammina accanto/ Scivolando ravvolto in un mantello bruno,/ incappucciato/ Non so se uomo o donna/ - Ma chi e' che ti sta all'altro fianco?". E in una nota a pie' di pagina Eliot aggiungeva che quei versi gli erano stati suggeriti dal resoconto di una spedizione in Antartide: "Vi si riferiva che il gruppo degli esploratori, allo stremo delle forze, aveva continuamente l'illusione che ci fosse una persona in piu' di quante non se ne potessero effettivamente contare". Per chi viene dall'India e' una sensazione familiare. In India i bambini crescono in compagnia di antichi miti e leggende prima di saper leggere o scrivere, e perfino prima di essere consapevoli di conoscerli. Sono li', nelle voci di genitori e nonni, sono la materia stessa delle feste che celebriamo, le immagini sono sparse ovunque, ubique come i corvi e le mosche. Oggi schizzano fuori dai fumetti e dai cartoni animati, e si riversano fuori dagli schermi televisivi. Tutti sappiamo che l'albero sul ciglio della strada che ci da' ombra nelle giornate calde e' anche l'albero sotto il quale pregava il Buddha e in cui si nascondeva Krishna. La scimmia che si dondola dai rami non e' soltanto un primate giocherellone ma anche il dio Hanuman. Il fiume melmoso che pigramente si dirige fuori dalla citta' non e' soltanto la fogna urbana che sembra ma anche il fiume che dopo la nostra morte portera' le nostre ceneri al mare e nell'eternita'. Cosi', per uno scrittore indiano, i personaggi che crea sono meri simboli di concetti piu' vasti che sono sempre esistiti. Un albero rappresenta tutti gli alberi, un fiume tutti i fiumi, un amante tutti gli amanti. Allo stesso modo gli eroi e le eroine del cinema non sono soltanto le formose tentatrici che vedete, o i baffuti criminali o la vedova in lacrime vestita di bianco; essi rappresentano cio' che gia' sappiamo dalla nostra mitologia. A loro non chiediamo di essere unici e originali, ma semplicemente di interpretare il proprio ruolo, e poi sparire per ricomparire altrove. Nel pionieristico romanzo di Salman Rushdie, I figli della mezzanotte, il protagonista Saleem non si considera un individuo. Dice: "E ci sono tante storie da raccontare, troppe, un tale eccesso di linee eventi miracoli luoghi chiacchiere intrecciati, una cosi' fitta mescolanza d'improbabile e di mondano! Sono stato un inghiottitore di vite; e per conoscermi, dovrete anche voi inghiottire tutto quanto". Il metodo narrativo usato e' lo stesso usato millenni or sono quando i Veda vennero messi per iscritto per la prima volta, su strisce di foglie di palma, dopo secoli di recitazione orale. Su ogni striscia era iscritta una porzione del tutto. Se ne poteva scegliere una qualunque come incipit al resto. Un intero pubblico, o un singolo ascoltatore, poteva entrare e ascoltare un episodio, e poi andarsene e tornare per sentirne un altro. Il tempo era tutto sincronico, simultaneo. Per un indiano il tempo e' un ciclo, una ruota, che passa dalle tenebre alla luce e ritorna alle tenebre, dal silenzio al suono e di nuovo al silenzio. Per l'induismo, vedere le cose come separate, differenziate, e' avidya, ignoranza, mentre la vera conoscenza, vidya, e' conoscenza unitaria. Io ritrovo lo stesso credo nella festa messicana del Dia de los Muertos, quando ogni famiglia erige altari per i propri morti, e vi posa gli oggetti piu' cari ai defunti, una chitarra, per esempio, o una bottiglia di pulque, o una sella; in modo che i defunti, qualora tornassero, ne possano godere di nuovo. Nei cimiteri, le famiglie trascorrono la notte raggruppati intorno alle tombe, portando i cibi che un tempo piacevano ai loro morti, suonando e cantando le canzoni che essi amavano. E nel buio spesso della notte, pieno di guizzi e fumo di candele, i morti sono di nuovo presenti anche se invisibili. Forse la musica esemplifica meglio questo credo. Non la musica in se', ma il silenzio che la precede. Prima del suono c'e' il silenzio, il vasto e incoato magma fuso - il nulla - ed e' quel silenzio, quel nulla, che da' origine al suono. Per il credo indu', quel suono primigenio e' la sacra sillaba Om. Ma una volta pronunciato, quel suono ritorna al silenzio. Cosi' formando un cerchio, o un ciclo, la ruota che rappresenta anche la vita; la vita non e' lineare, ne' sequenziale, bensi' ciclica, circolare, finisce dov'era cominciata, e ricomincia la' dove finisce. Dal silenzio nasce il suono. Dalla notte, il giorno. Dalla pietra, la forma. Ancor oggi un cantante classico in India lascia che il silenzio sia riempito dal ronzio indifferenziato del tanpura, e da tale ronzio lui o lei estrae la nota primaria del raga, dalla quale verranno le altre. Queste note - e sono suoni, non parole - nelle loro diverse combinazioni, sequenze e intonazioni andranno a comporre il raga. Si ritiene che, pronunciate correttamente, abbiano poteri magici. E lo scrittore che maneggia le parole, il linguaggio, questo lo sa istintivamente. E' dal buio, dall'invisibilita', che emerge cio' che si vede e cio' che si sente. Molti scrittori l'hanno testimoniato. Proust diceva che i libri veri non sono figli della luce del giorno e delle chiacchiere, bensi' del buio e del silenzio. Rilke scrisse: "Questo solo e' cio' che abbisogna: solitudine, grande intima solitudine. Penetrare in se stessi e per ore non incontrare nessuno, questo si deve poter raggiungere". E Walter de la Mare: "Lo scrittore deve ritrarsi dalle pressioni e dai vezzi della convenzione, ancora e ancora. Deve costantemente ricatturare il silenzio". E il profeta americano Henry David Thoreau: "Amo avere ampi margini alla mia vita... Come grano di notte crebbi in quelle stagioni. Esse non furono un tempo sottratto alla vita, ma molto sopra e al di la' della consueta razione". E Virginia Woolf cosi' descrisse la scrittrice: "La immagino in un atteggiamento di contemplazione, come una donna che pesca, seduta sulla riva di un lago con la lenza protesa sull'acqua. Non stava pensando, ne' riflettendo, ne' costruendo un intreccio; lasciava che la sua immaginazione s'immergesse nelle profondita' della coscienza mentre lei restava seduta li' aggrappandosi a un sottile ma indispensabile filo di ragione. Lasciava scorrere incontrollata l'immaginazione dietro ogni roccia, dentro ogni fessura del mondo che giace sommerso nelle profondita' del nostro essere inconscio". 7. LIBRI. CATERINA RICCIARDI PRESENTA "LA CONQUISTA DELL'EST: PEARL S. BUCK TRA STATI UNITI E CINA" DI VALERIA GENNERO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 28 giugno 2009 col titolo "Lo sguardo alla Cina di Pearl Buck" e il sommario "Saggi. Un libro di Valeria Gennero sull'autrice americana"] Valeria Gennero, La conquista dell'Est: Pearl S. Buck tra Stati Uniti e Cina, Aracne, pp. 190, euro 13. * Quando nell'agosto del 1900 esplose la rivolta dei Boxer e una milizia internazionale di 16.000 soldati entro' a Pechino con l'ordine di "non usare pieta'" nemmeno verso i civili (parole del Kaiser riportate da Guenter Grass), Pearl S. Buck aveva otto anni, e sebbene nata in Virginia, viveva in Cina. La memoria di quel massacro, filtrata attraverso le testimonianze del suo maestro Kung e del padre missionario, e' registrata in My Several Worlds, la sua autobiografia, e nella biografia/romanzo, Donna imperiale, da lei dedicata a Tzu Hsi (Cixi), l'ultima imperatrice cinese. A quanto si diceva e a quanto riporta anche Pearl Buck, Tzu Hsi "voleva cacciare via tutti i bianchi, sbarrandoci per sempre le porte della Cina. Era difficile biasimarla, sosteneva mio padre con solennita', per la sua rabbia o per il desiderio di liberare la Cina dagli invasori e dai ladri". Naturalmente, fra quei ladri e invasori, la "bambina bionda cresciuta in Cina" non includeva gli americani, certa, com'era allora, che i cinesi "avrebbero visto quanto eravamo diversi dagli altri bianchi". La bambina si sbagliava. Dopo Tzu Hsi, fra il 1908 e il 1912, la Cina, disgregata, avrebbe provato ad arginare danni e assalti ponendo fine alla dinastia mancese e scegliendo la repubblica. Ma gia' da molto tempo, con lenta intrusione, la sovranita' del millenario Impero Celeste veniva erosa dalle mani avide degli occidentali, americani inclusi. Dopo le ottocentesche Guerre dell'Oppio, e vari trattati, con l'appoggio di Tzu Hsi, i Boxer si esposero, per l'ultima volta, nella difesa del loro paese dalla colonizzazione economica e dall'evangelizzazione attivate dall'Occidente. Pearl S. Buck, ennesimo discusso Premio Nobel del 1938 (il primo americano), tornera' in patria solo nel 1932, dopo la pubblicazione dei due acclamati romanzi di esordio, e vivra' fino al 1973, continuando a proporre i suoi libri sulla Cina che, nel frattempo, era passata da Chiang Kai-Shek al comunismo e a Mao, un passaggio ricordato da Buck, quando ormai era negli Stati Uniti, come la "perdita della Cina". Superata la fase dei primi grandi successi, la nuova produzione di Pearl Buck cadeva tuttavia in tempi difficili, ovvero in quegli esecrati anni '50 del maccartismo che, com'e' noto, seminarono tante vittime fra gli intellettuali. Buck - sospettabile di comunismo e di antipatriottismo - in ragione del suo amore per la Cina perduta, non ne usci' indenne. Il suo nome venne presto emarginato, e registrato negli archivi dell'Fbi, nonostante la persistenza della sua fortuna all'estero. Anche in Italia, un paio di generazioni di giovani lettori scopriva la Cina grazie a Vento dell'Est: vento dell'Ovest (1930), La buona terra (1931) e Stirpe di drago (1942). A ricostruire questo sfondo storico-culturale, e a recuperare dall'oblio la figura letteraria e il peso intellettuale di Pearl Sydenstricker Buck (Buck e' il cognome del primo marito), provvede ora Valeria Gennero con La conquista dell'Est: Pearl S. Buck tra Stati Uniti e Cina, una accurata monografia che a tratti si fa leggere come un racconto appassionato. La "conquista dell'Est" ammicca non soltanto all'ideale del "destino manifesto" che, nella seconda meta' dell'800, porto' gli Stati Uniti all'espansionismo a Ovest fino al Pacifico, ma anche alla loro graduale colonizzazione - sulla scia di quella piu' datata delle potenze europee - proprio della Cina, avvicinata con l'invio di schiere di missionari, per lo piu' presbiteriani, sulle cui tracce si incamminavano, come spesso accade, mercanti e investitori, e magari sogni territoriali. Attraverso la carriera di una scrittrice restia a farsi piegare alla "cultura del consenso", qual era Pearl Buck, Valeria Gennero ricostruisce essenzialmente due storie: quella delle ambizioni imperialiste dell'Occidente verso la Cina, Stati Uniti compresi; e quella del declino di Buck nel suo paese - e poi, per ragioni inverse e controverse, in Cina -, un declino avviato a causa della inquisizione ideologica dilagante, di cui si rese anche protagonista - nonostante il Nobel (o forse anche a causa del Nobel) - l'establishment letterario, che non ebbe remore a confinare Pearl Buck "nel purgatorio della scrittura popolare" (e femminile), prima di lasciarla "sprofondare nell'oltretomba del midcult". Era, dunque, opportuno tornare, anche in Italia, sul caso Buck, e riesaminarlo al di fuori dei vecchi processi di lettura del mito americano, con gli strumenti della ricognizione contestuale e della ricezione critica, del postcolonialismo, dell'attenzione postmoderna agli stili "etnografici", della revisione degli "orientalismi", e delle censure e oblique autocensure. Emerge ora, fra l'altro, una cifra chiave della scrittura di Buck - persona e artista ibrida, oltre che mediatrice della comunicazione interculturale -, una cifra strategica che e' quella della "doppia focalizzazione". Detto altrimenti, Pearl Buck - nella lettura che ce ne restituisce Valeria Gennero - appare capace di gestire, con l'uso di duplici registri e stilistiche mascherature, una rappresentazione di prima mano della realta' cinese in tempi storici diversi: gli anni '30 della crisi economica e di un paese che andava ancora rifinendo i termini ideologici della sua "Rivoluzione", e gli anni '50 della Guerra Fredda, in cui la Cina, ormai allineata sul modello del comunismo sovietico, era diventata un tema scomodo. Questo "stile obliquo", applicato a situazioni politiche ormai distanti, e unito al dissenso radicale dal colonialismo occidentale, costituisce il "filo rosso che attraversa per intero" la produzione di Pearl Buck, la quale, da vera patriota americana, credeva fermamente che la tentazione imperialista fosse contraria ai principi democratici posti a fondamento della nascita del suo paese. Dunque, se nelle sue opere degli anni '50 bisogna imparare a leggere fra le righe, e cogliere i messaggi lontani dal "consenso" vigente, in quelle precedenti, assieme al dato antropologico o etnografico, va riconosciuta l'esaltazione di valori spesso condivisibili, quali l'ideale contadino e la fede nella bonta' della "terra", gli stessi antichi sogni jeffersoniani messi in crisi anche dalle devastazioni rurali della Grande Depressione, valori comuni che i nuovi cinesi post-rivoluzionari a loro volta andavano ormai abbandonando con l'intervenuto processo di modernizzazione e di urbanizzazione. E allora: studiata duplicita', strategie discorsive, "sguardo bifocale" a vari livelli, sono le chiavi suggerite per chi volesse rileggere oggi Pearl Buck. 8. RILETTURE. MARTHE ROBERT: L'ANTICO E IL NUOVO Marthe Robert, L'antico e il nuovo, Rizzoli, Milano 1969, pp. 288. Marthe Robert legge il Chisciotte cervantino e il Castello di Kafka. Un libro illuminante. 9. RILETTURE. MARTHE ROBERT: DA EDIPO A MOSE' Marthe Robert, Da Edipo a Mose'. Freud e la coscienza ebraica, Sansoni, Firenze 1981, pp. 176. Marthe Robert legge Freud. Un libro illuminante. 10. RILETTURE. MARTHE ROBERT: SOLO COME KAFKA Marthe Robert, Solo come Kafka, Editori Riuniti, Roma 1982, pp. X + 214. Marthe Robert legge Kafka. Un libro illuminante. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 256 del 2 luglio 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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