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Voci e volti della nonviolenza. 345
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 345
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 27 Jun 2009 12:32:46 +0200
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 345 del 27 giugno 2009 In questo numero: Alcuni estratti da "La fine dell'utopia" di Herbert Marcuse LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "LA FINE DELL'UTOPIA" DI HERBERT MARCUSE [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Herbert Marcuse, La fine dell'utopia, Manifestolibri, Roma 2008] Indice del volume Avvertenza; Introduzione di Marco Bascetta; La fine dell'utopia: Relazione di Marcuse; Dibattito; Il problema della violenza nell'opposizione: Relazione di Marcuse: Obiettivi, forme e prospettive dell'opposizione studentesca; Dibattito; Morale politica nella sociea' opulenta: Dibattito; Vietnam: il terzo mondo e l'opposizione nelle metropoli: Dibattito. * Da pagina 9 Introduzione di Marco Bascetta L'esperienza puo' essere considerata da due punti di vista diversi, anzi del tutto antitetici. L'uno, per cosi' dire conservatore, poggia su un pessimismo antropologico di fondo e di fronte a ogni prospettiva di cambiamento radicale pronuncia la sua fosca previsione: "sappiamo gia' come andra' a finire, la strada dell'inferno e' lastricata di buone intenzioni". L'esperienza agisce insomma come un principio di prudenza, un limite di velocita', una doverosa diffidenza verso il nuovo. Tutt'al contrario esperienza puo' invece indicare la volonta' di sperimentare, il bisogno di mettere idee e ipotesi a confronto con il proprio vissuto, il desiderio di passare al vaglio il vecchio sapere con un nuovo sapere. In questo caso alla certezza dell'"avere esperienza" subentra l'azzardo del "fare esperienza", al vissuto delle vecchie generazioni, il cantiere esistenziale delle nuove. Se non ci si lascia trarre in inganno dal fatto che le sembianze del nuovo celano sovente un ritorno al passato e che l'innovazione rivesta talvolta panni antichi, come le toghe repubblicane indossate dai rivoluzionari del 1789 o i berretti bolscevichi calcati sulle teste degli studenti del 1968, allora si potra' constatare agevolmente come le diverse stagioni politiche e sociali siano state dominate a fasi alterne dall'una o dall'altra idea di esperienza. In quella attuale prevale una visione dell'esperienza come messa in guardia dal cambiamento, entro una prospettiva che privilegia la difesa dello stato di cose esistente da tutto cio' che potrebbe minacciarlo. L'esperienza ci avrebbe insomma insegnato che non puo' esservi al mondo niente di piu' perfetto del libero mercato e della democrazia reale e che qualsiasi tentativo di superare, o anche solo di correggere sostanzialmente, queste due forme condurrebbe all'ennesima catastrofe. Vista la storia che abbiamo vissuto non possiamo che ragionevolmente augurarci la "fine della storia". La seconda meta' degli anni '60 e quasi tutto il decennio successivo, sono stati invece dominati, in buona parte del pianeta, dalla seconda modalita' dell'esperienza, quella che abbiamo designato come l'azzardo del "fare esperienza", dal tentativo, caparbio e generoso ad un tempo, di segnare una soluzione di continuita', nei modi di vita e di produzione, di prendere commiato da tradizioni e abitudini consolidate. Questo volume, che raccoglie tutti i materiali della discussione tra Herbert Marcuse, gli studenti del movimento tedesco e alcuni professori della "Freie Universitaet", la Libera Universita' di Berlino ovest, svoltasi nel luglio del 1967, costituisce una straordinaria testimonianza dello spirito sperimentale che animo' quella stagione, dell'enormita' degli interrogativi che si ponevano, del campo, pressoche' illimitato, che la critica sociale andava dissodando. Nulla poteva piu' essere ritenuto "indiscutibile", pacifico; ogni struttura, per potente e stabile che fosse, ogni abitudine, anche la piu' apparentemente innocua e radicata, doveva dar conto del proprio senso, del proprio contenuto di repressione, dell'infelicita' che, in una forma o nell'altra, generava. Ogni regola sarebbe stata messa a confronto con il vissuto dei soggetti e sottoposta a una critica che risaliva, per cosi' dire, alle sue spalle, disattendendola e misurandola con le comuni qualita', i bisogni e le caratteristiche specifiche dell'animale umano. Nella relazione introduttiva a quell'incontro, Herbert Marcuse poneva nientemeno che la necessita' di una "nuova antropologia concepita non solo come teoria ma anche come modo di vita, il sorgere e lo svilupparsi di vitali bisogni di liberta' (...) una liberta' capace di esprimere lo sviluppo di bisogni umani qualitativamente nuovi e quindi le esigenze del fattore biologico (giacche' si tratta di bisogni che vanno considerati in termini strettamente biologici)". Bisogni nuovi, dunque, ma anche, in quanto propri della specie umana, anteriori e sovraordinati al "disagio della civilta'" e alla societa' repressiva. E tuttavia, a loro volta, storicamente determinati e storicamente trasformabili dall'azione dei soggetti. Il "fattore biologico" veniva cosi' reintrodotto nella storia di cui sembrava dover costituire l'Altro e il limite, ma conservando, contraddittoriamente, i caratteri di un principio critico e la funzione di motore di un'altra storia possibile. Tra natura umana e storia sociale la "nuova antropologia" procedeva, tuttavia, con non poche difficolta' nel definire i bisogni vitali destinati a entrare in rotta di collisione con quei "bisogni repressivi" che la societa' capitalistica produce nei singoli e attraverso i quali i singoli riproducono la societa' repressiva. Nel corso del dibattito qualcuno richiamo', sensatamente, l'attenzione di Marcuse sulla difficolta' di definire come bisogni materiali, o addirittura biologici, i desideri di pace, felicita', liberta', creativita'. Cosa c'era in comune tra il bisogno di nutrirsi e il rifiuto della guerra vietnamita? Ma il punto era, per Marcuse, dimostrare che le forze e gli elementi per una trasformazione radicale della societa', per il grande salto di qualita' dalla preistoria alla storia erano gia' interamente dati, nello sviluppo delle forze produttive cosi' come nelle "qualita' erotico-estetiche", naturali e storiche ad un tempo, dei soggetti. Questo significava appunto la "fine dell'utopia": non la rinuncia a immaginare la radicale trasformazione dei rapporti sociali, non la resa di fronte all'esperienza dei fallimenti, ma la consapevolezza che le condizioni per eliminare miseria e repressione, per la resa dei conti tra il principio di prestazione (Leistugsprinzip) e il principio del piacere (Lustprinzip), erano ormai maturate. L'utopia cessava dunque di essere tale in quanto potenzialita' concretamente e pienamente inscritta nella costellazione del presente. E' nello sviluppo della scienza, della tecnologia e dell'automazione che Marcuse vedeva le condizioni di questa maturazione. Uno sviluppo che, sostituendo progressivamente il lavoro mentale a quello fisico e disponendo di una enorme forza produttiva con un impiego decrescente di lavoro umano, avrebbe reso sempre piu' arbitrario, ingiustificato, repressivo, e dunque insostenibile, lo sfruttamento capitalistico e il suo apparato di potere. Tuttavia, a contrastare questa tendenza, l'assetto capitalistico metteva in campo una formidabile capacita' di integrazione che, attraverso la creazione di bisogni fittizi, di consumo, di protezione repressiva, di conservazione, di sicurezza, legava a se' la maggioranza della popolazione, riuscendo addirittura a mettere fuori gioco, corrompendolo, il principale soggetto dei processi rivoluzionari della prima meta' del secolo e cioe' la classe operaia. La politica di opposizione, veicolata nelle metropoli occidentali da soggetti minoritari e marginali, avrebbe dovuto prendere le mosse proprio dalla "negazione determinata" di questi "bisogni repressivi" per affermare nuovi bisogni di liberta'. Le giovani generazioni si sarebbero trovate in prima linea nel condurre questa battaglia, condividendo con le classi subalterne di un tempo il fatto di non aver partecipato alla formulazione delle regole cui avrebbero dovuto sottostare, e sviluppando, in conseguenza, una forte propensione a metterle in questione. Proprio in Germania, poi, la frattura generazionale si presentava abissale e drammatica. E' su questo preciso tema, sulla costruzione concreta di una politica d'opposizione, nel contesto della societa' tecnologicamente avanzata, che Marcuse cercava il confronto con gli studenti berlinesi. A partire dall'esperienza americana, il filosofo offriva una risposta da far tremare alla domanda su quale fosse il bersaglio di questa opposizione. "La domanda - rispondeva - deve essere presa molto sul serio, perche' si tratta di un'opposizione contro una societa' democratica e ben funzionante che, almeno normalmente, non si basa sul terrore. Inoltre questa opposizione lotta contro la maggioranza della popolazione, inclusa la classe operaia, contro tutta la cosiddetta way of life del sistema". Non si contrapponeva, dunque una buona societa' civile a un governo malvagio, all'interesse egoistico dei "poteri forti" (tentazione cui non hanno saputo sottrarsi i movimenti altermondialisti dei giorni nostri), si chiedeva invece a una minoranza intellettualizzata, ma chiamata a occupare un ruolo sempre piu' determinante nella produzione di ricchezza e agli esclusi, messi fuori gioco dalle regole della competizione capitalistica, di allargare le crepe che attraversavano l'ordine dominante (accentuate dal volto brutale che le democrazie occidentali, e gli Usa in primo luogo, erano costrette a mostrare nel terzo mondo), di trasformare il disagio esistenziale e la ruvida aridita' dei rapporti sociali in critica politica, di lavorare, insomma, sul piano simbolico, cosi' come su quello empirico della sperimentazione di diverse forme di vita, a un rovesciamento del senso comune. In questa opposizione contro la maggioranza della popolazione (ogni opposizione, in fondo, si batte contro una maggioranza) era implicita una critica radicale della democrazia, non del suo concetto, ma della sua sostanziale incompiutezza. Democrazia intesa non semplicemente come una delle tre forme di governo della filosofia politica classica, ma come un campo conflittuale in cui si intrecciavano consenso e coercizione, benessere e disagio, violenza e seduzione. Nel ripercorrere i termini di quella discussione il riconoscimento di folgoranti anticipazioni si accompagna alla inevitabile registrazione di una siderale distanza. L'idea che l'automazione completa avrebbe minato le basi stesse del capitalismo, ci si rivela oggi in tutta la sua generosa ingenuita'. Che la tecnologia avrebbe consentito di trasformare il lavoro in gioco, una volta scardinato, attraverso il rischiaramento delle coscienze, il dispositivo di riproduzione dei "bisogni repressivi", stride aspramente con un mondo, quello in cui oggi viviamo, che ha trasformato il gioco, la stessa liberta' creativa dei soggetti, in lavoro, competizione, impresa assoggettata alla accumulazione del profitto. Marcuse, e con lui gli studenti berlinesi, vedevano nella manipolazione della coscienze e nella corruzione degli interessi gli strumenti attraverso i quali l'ordine capitalistico riproduceva surrettiziamente la sua propria necessita', fin nell'interiorita' del soggetto. Non potevano immaginare come e quanto lo stesso principio del piacere e gli stessi bisogni di liberta' potessero essere messi al lavoro, trasformati in fattori di produzione, moltiplicatori del profitto e infine in meccanismi di nuova dipendenza. Da quei presupposti discendeva dunque una visione fortemente illuministica della lotta politica. "Io considero - affermava Marcuse nel corso del dibattito - lo sviluppo della coscienza o, se preferite, il lavoro necessario per ottenerlo, insomma questa particolare deviazione idealistica, come uno dei compiti principali del materialismo, del materialismo rivoluzionario". Sulla stessa lunghezza d'onda si muovevano gli studenti berlinesi dell'Sds, guidati da Rudi Dutschke, impegnati a tutto campo contro la manipolazione dell'informazione e il bombardamento ideologico, soprattutto ad opera del gruppo editoriale di Axel Springer, che controllava, all'epoca, il 70 per cento della stampa berlinese, il 31 per cento dei quotidiani nella Rft e l'80 per cento dei fogli domenicali, e aveva condotto una furibonda campagna contro gli studenti, le culture giovanili e la sinistra in generale. E' proprio su questo terreno, prima ancora che si parlasse di fabbriche, di quartieri, di immigrati, che gli studenti rivoluzionari immaginavano l'uscita dall'ambito specifico dell'Universita' per confrontarsi con un problema generale della societa', e cioe' con quella stessa riproduzione ideologica dei "bisogni repressivi" che Marcuse indicava come il dispositivo piu' potente dell'integrazione capitalistica. Seppur del tutto minoritaria, la lotta degli studenti contro l'industria della menzogna culturale, avrebbe contribuito col tempo ad aprire l'orizzonte e a smuovere le acque stagnanti di un senso comune profondamente conservatore. Tuttavia, sebbene oggi le maglie della censura, soprattutto sul piano del costume, siano infinitamente piu' larghe di 40 anni fa, la produzione dei "bisogni repressivi" ha ripreso poderosamente terreno. E lo ha ripreso nella forma di quelle politiche securitarie, dilaganti per ogni dove, che, attraverso una manipolazione non meno sfrontata di un tempo dell'informazione, alimentano una generale sensazione di minaccia volta a favorire, nell'opinione pubblica, una progressiva rinuncia, o comunque un significativo ridimensionamento di quelli che Marcuse aveva battezzato "bisogni di liberta'". Meccanismo di integrazione (in primo luogo dei partiti della sinistra e di chi li ascolta) e di esclusione (di ogni forma di devianza culturale e sociale) ad un tempo: produzione, da un lato, di norme comportamentali uniformi e, dall'altro, di dispositivi repressivi sempre piu' capillari. Come Marcuse aveva pronosticato nella conferenza del '67, di fronte all'indebolimento del bisogno di liberta', le potenzialita' tecniche si traducono in dispositivi sempre piu' raffinati e ineludibili di controllo e di repressione. Il tentativo di espellere il conflitto, quando non anche il semplice attrito, dalla vita sociale, attraverso una mostruosa proliferazione di regole e divieti, sembra voler saldare i conti proprio con le aperture degli anni '60 e '70, catalogate oggi sotto l'infamante etichetta di "permissivismo". "La violenza istituzionalizzata - scriveva Marcuse - e' in grado di fissare discrezionalmente i propri confini e di restringere fino ad un minimo soffocante quelli della legalita', utilizzando leggi riguardanti ad esempio il diritto di stazionare su terreni privati o sul suolo pubblico, le interruzioni del traffico o il disturbo della quiete notturna, ecc. Grazie a questi espedienti, cio' che ieri era legale puo' diventare illegale da un momento all'altro". Come non riconoscere in questi vecchi "espedienti" le attualissime politiche di ordine pubblico e di "decoro urbano", oggi cosi' in voga tra i sindaci italiani di tutti gli schieramenti politici? E come negarsi, allora, nella Berlino del 1968, cosi' come nelle nostre citta' 40 anni dopo, un diritto di resistenza, contro lo spregiudicato opportunismo di un diritto "invasivo" e l'arbitraria moltiplicazione delle sue fonti? Il discorso marcusiano sullo scontro tra i "bisogni repressivi" e i "bisogni di liberta'", ci si ripropone oggi nella partita senza esclusione di colpi tra normazione e autonomia, tra la potenzialita' tendenzialmente indipendente e autodeterminata delle nuove forme di produzione e la volonta' di metterle sotto controllo, attraverso i flussi del reddito e i diritti proprietari. Tutta la discussione berlinese era ampiamente attraversata dal tema della violenza e, a ripercorrerla, balza immediatamente agli occhi quanto poco il movimento di quegli anni lo prendesse alla leggera. Con violenza, da parte del movimento, si intendeva essenzialmente infrazione della legalita' e disobbedienza civile, l'affermazione di un diritto di resistenza contro l'arbitrio del potere esercitato attraverso il diritto positivo, non senza un richiamo diretto alle versioni rivoluzionarie del diritto naturale. Sul versante del "sistema" si denunciava invece la possibilita', sempre presente, che, di fronte a questa o quella emergenza, alla violenza latente e impercepita della manipolazione si sostituisse l'esercizio fisico di una violenza pienamente dispiegata o che, attraverso un progressivo restringimento dei diritti democratici, alimentato dallo sviluppo dei "bisogni repressivi", potesse svilupparsi una qualche forma di nuovo fascismo. Dalla discussione sulla violenza, discendevano poi una quantita' di problemi correlati, ampiamente dibattuti nel movimento: come impedire che lo scontro con l'avversario degenerasse in crudelta' e terrore; se la radicalizzazione della lotta non rischiasse di favorire la stabilita' del potere, spaventando la maggioranza dei cittadini; se giudicare o meno una forma di violenza l'indottrinamento mediatico delle masse, (gli studenti tedeschi avrebbero considerato i giornali di Axel Springer come i mandanti diretti dell'attentato contro Rudi Dutschke nell'aprile del 1968), ecc. Ma il punto decisivo in tutta quella discussione era questo: la violenza vi veniva razionalmente concepita come una relazione, un rapporto che metteva in gioco, entro un determinato contesto, la qualita' morale e la natura di entrambi i contendenti. Si trattava dunque di un problema che, di volta in volta, doveva essere affrontato e in qualche modo risolto. Questa lucidita' e' andata oggi completamente perduta, il tema e' stato escluso dal discorso pubblico o confinato nella vuota retorica d'ordine della classe dirigente. Tanto che, nelle banlieues parigine per esempio, la violenza delle rivolte, viene imputata a una pura e semplice inclinazione irrazionale alla distruzione e all'autodistruzione. E, in generale, della violenza, (estesa, nel frattempo agli episodi piu' insignificanti come una scritta murale o una bordata di fischi) si disquisisce come di una propensione individuale al male, o tutt'al piu' una cattiva ideologia ereditata dal passato. Il resto e' tabu'. In quell'estate del '67, su ogni discussione e argomentazione politica, su qualsiasi prospettiva di movimento e analisi delle tendenze nel mondo, non poteva non incombere la guerra vietnamita. Era laggiu', nel sudest asiatico che, raccogliendo l'eredita' del colonialismo francese, la piu' potente democrazia del pianeta rivelava la sua natura aggressiva e violenta. Sotto il sole dei tropici il suadente potere di convinzione dei media e delle comodita' domestiche, lasciava il campo a quello del napalm. Tanto stridenti apparivano quegli orrori con la buona coscienza della democrazia americana del dopoguerra, da metterla radicalmente in questione. E, per quanto potentemente potesse agire il sentimento anticomunista, avendo come interlocutore una classe politica corrotta e senza scrupoli, come quella dei Diem e dei Van Thieu, Washington non poteva certo mettere in scena l'"esportazione della democrazia". L'escalation del conflitto aveva portato con se' una crescita parallela della protesta e della rivolta etica contro le ragioni e le modalita' di quella guerra nei campus universitari e nell'opinione pubblica liberal, sebbene Marcuse non si stancasse mai di ribadire che la maggioranza degli americani appoggiava la guerra e molti di quelli che la criticavano, se la prendevano esclusivamente con la sua conduzione sconsiderata e la crescita eccessiva dei suoi costi. Dallo sfruttamento del terzo mondo, garantito da un'alleanza con i ceti privilegiati tradizionali, o cresciuti durante l'occupazione coloniale - cosi' recitava l'analisi dell'opposizione radicale - il capitalismo occidentale traeva le risorse per corrompere e integrare l'avversario di classe, rendendolo cosi' suo complice. Tuttavia l'intensita' dello sfruttamento dei paesi poveri e la necessita' di perpetuarlo con mezzi sempre piu' brutali avrebbe alla fine minato la base di consenso del sistema e reso evidenti i dispositivi di repressione e condizionamento della vita di tutti, celati dietro la facciata della democrazia. In questo senso l'opposizione radicale, in America cosi' come in Germania, si poneva come alleato delle lotte di liberazione e interprete privilegiato di entrambi i lati dello sfruttamento capitalistico e dei nessi che li collegavano, quello oscuro dei colpi di stato e dei bombardamenti e quello luminoso dei consumi e del soddisfatto conformismo della maggioranza. Tuttavia questo rapporto con il terzo mondo, nel ragionamento di Marcuse e nelle domande degli studenti berlinesi, appare tutt'altro che ingenuo e trionfalistico. Ci si rendeva ben conto della difficolta' di conciliare le aspirazioni della lotta di liberazione vietnamita con i nuovi bisogni vitali delle metropoli, l'antiautoritarismo e il rifiuto dell'organizzazione di fabbrica in occidente con la disciplina industriale perseguita in Nordvietnam. Che le lotte di liberazione avrebbero potuto generare realta' sociali tutt'altro che idilliache non veniva affatto escluso dal novero delle possibilita'. Nel clima della guerra fredda, gli Usa giustificavano il conflitto indocinese con il cosiddetto "effetto domino" e cioe' con il rischio che, una volta caduta Saigon, tutti gli altri paesi del sudest asiatico finissero col cadere come birilli nelle grinfie del blocco comunista. L'argomento dell'espansione comunista aveva una sua forza, ma certo non poteva costituire una minaccia diretta allo stile di vita dei cittadini americani. Il bisogno di una protezione repressiva dai nemici della democrazia difficilmente avrebbe potuto varcare certi limiti. L'avanzata del comunismo asiatico, la renitenza alla leva e i movimenti di protesta interni non sarebbero stati sufficienti a far digerire quel drastico ridimensionamento dello stato di diritto che sarebbe invece seguito all'11 settembre, all'invasione dell'Afghanistan e dell'Irak. Concetti come quelli di guerra preventiva e permanente avrebbero faticato a farsi strada. E' con l'irruzione del terrorismo internazionale sulla scena globale che i "bisogni repressivi" conoscono una nuova rigogliosa fioritura. Sebbene i guerriglieri talebani e la resistenza irachena appaiano assai meno mediabili con i "bisogni di liberta'" nelle societa' avanzate dell'occidente, di quanto non lo fosse la lotta di liberazione vietnamita, ben si prestano, invece, a rinsaldare quell'ideologia occidentale che pretende di difendere la liberta' restringendola e la tolleranza riducendola a zero. Lo stile di vita dell'occidente sviluppato si presenta oggi, nel rifiuto di ogni convinta proiezione verso il futuro, come una fortezza assediata da forze oscure, societa' insidiata da una minaccia ubiqua e indeterminata, che procede sulle gambe dell'immigrazione e degli indici demografici. E, per questo, insofferente verso qualsiasi forma di critica, nonche' indirizzata verso quella stessa dimensione integralista che pretende di combattere. Le opposizioni che incontra, al suo interno, sono forse meno minoritarie di quelle degli anni '60, e tuttavia lo spazio che vien loro concesso appare addirittura piu' ristretto. Per i "bisogni di liberta'" la partita si annuncia difficile. * Da pagina 21 Relazione di Herbert Marcuse Iniziando con una verita' ovvia, diro' che oggi qualunque forma nuova di vita sulla terra, qualunque trasformazione dell'ambiente tecnico e naturale e' una possibilita' reale, che ha il suo proprio luogo nel mondo storico. Noi possiamo fare del mondo un inferno, anzi come sapete siamo sulla strada. Ma possiamo anche farne l'opposto. Questa fine dell'utopia, e cioe' il rifiuto delle idee e delle teorie che si sono ancora servite di utopie per individuare determinate possibilita' storico-sociali, oggi possiamo anche concepirla in termini molto precisi come fine della storia; nel senso cioe' (ed ecco appunto il tema su cui vi invito a discutere) che le nuove possibilita' di una societa' umana e del suo ambiente non possono piu' essere immaginate come prolungamento delle vecchie ne' essere pensate nel medesimo continuum storico (col quale anzi presuppongono una rottura). Emerge ora in primo piano quella differenza qualitativa tra le societa' libere di domani e le societa' non ancora libere di oggi che (dopo Marx) ci induce a concepire tutto lo sviluppo storico svoltosi fino a questo momento come semplice preistoria dell'umanita'. Ma io credo che anche Marx sia rimasto troppo attaccato al concetto di continuita' del progresso, che anche la sua idea del socialismo non rappresenti ancora, o forse non rappresenti piu', quella negazione determinata del capitalismo che dovrebbe in realta' rappresentare. Cio' significa che l'idea di una fine dell'utopia implica se non altro la necessita' di porre in discussione una nuova definizione del socialismo e di chiedersi se la teoria marxiana del socialismo non appartenga ad uno stadio di sviluppo delle forze produttive ormai superato. Secondo me questa ipotesi risulta confermata nel modo piu' chiaro dalla famosa distinzione tra regno della liberta' e regno della necessita'. Il fatto che il regno della liberta' possa essere pensato e possa sorgere solo al di la' del regno della necessita' significa che quest'ultimo e' destinato a rimanere tale, estraniazione del lavoro compresa. Quindi, come dice Marx, qualunque cosa accada in questo regno, quale che sia il grado di razionalizzazione e la stessa riduzione del lavoro, quest'ultimo rimane sempre un'attivita' compiuta nel regno della necessita' e per il regno della necessita', e dunque non libera. Io credo che una delle nuove possibilita' in cui si esprime la differenza qualitativa tra una societa' libera e una societa' non libera consista precisamente nella ricerca del regno della liberta' gia' all'interno del lavoro e non al di la' di esso. Se proprio desiderate una formulazione assolutamente provocatoria di questo concetto speculativo, allora diro': noi dobbiamo almeno perseguire l'idea di una via al socialismo che dalla scienza porti all'utopia e non, come ancora credeva Engels, di una via che dall'utopia porti alla scienza. Il concetto di utopia e' un concetto storico e si riferisce a progetti di trasformazione sociale di cui si ritiene impossibile la realizzazione. Ma per quali ragioni questi progetti vengono considerati irrealizzabili? Generalmente, quando si discute sul concetto di utopia si parla di irrealizzabilita' come impossibilita' di tradurre in fatti concreti il progetto di una nuova societa', in quanto i fattori soggettivi e oggettivi di una data situazione sociale si oppongono alla sua trasformazione. Si tratta della cosiddetta immaturita' delle condizioni sociali che ostacola la realizzazione di un determinato fine. Esempio: i progetti comunisti durante la Rivoluzione francese; oppure, per riferirci ad un caso forse attuale: il socialismo nei paesi capitalistici altamente sviluppati. Entrambi questi esempi riguardano forse una reale o supposta assenza dei fattori soggettivi e oggettivi che rendono possibile la realizzazione di un determinato progetto. Peraltro, il progetto di una trasformazione sociale puo' essere considerato irrealizzabile anche quando si trova in contraddizione con ben conosciute leggi scientifiche, biologiche, fisiche e cosi' via. Esempio: l'antichissima idea di una eterna giovinezza dell'uomo; oppure: l'idea di un ritorno ad una supposta eta' dell'oro. Io credo che si possa parlare di utopia solo in quest'ultimo caso, e precisamente quando un progetto di trasformazione sociale si trova in contraddizione con leggi scientifiche realmente determinate e determinabili. In senso stretto solo i progetti di questo genere sono utopistici, vale a dire extrastorici. I progetti del primo gruppo, per i quali non esistono i fattori soggettivi e oggettivi, possono essere definiti irrealizzabili tutt'al piu' in senso provvisorio. Per una definizione della loro irrealizzabilita' i criteri di Karl Mannheim sono, ad esempio, insufficienti, per la semplicissima ragione che possono essere applicati sempre e soltanto a posteriori. In effetti non e' affatto raro che si definisca irrealizzabile un progetto di trasformazione sociale solo perche' non se ne conoscono precedenti realizzazioni storiche. In secondo luogo il criterio di irrealizzabilita', inteso in questo senso, e' inadeguato perche' puo' darsi benissimo che la realizzazione di un progetto rivoluzionario venga impedita da controtendenze e da movimenti contrastanti potenzialmente superabili e spesso di fatto superati nel corso stesso del processo rivoluzionario. Il criterio secondo cui l'assenza di determinati fattori soggettivi e oggettivi e' una prova della impossibilita' di realizzare una certa trasformazione, e' quindi assai discutibile. In particolare, e questo e' il problema di cui dobbiamo occuparci oggi, l'impossibilita' di individuare una classe rivoluzionaria nei paesi capitalistici a piu' elevato sviluppo tecnologico non significa affatto una trasformazione del marxismo in utopia. I portatori sociali della trasformazione (e questo e' marxismo ortodosso) si formano nel corso dello stesso processo di trasformazione e non si puo' mai contare sulla esistenza di forze rivoluzionarie per cosi' dire ready-made, bell'e pronte, quando ha inizio il movimento rivoluzionario (situazione in fondo fortunata e non molto facile a verificarsi). Secondo me pero' un criterio valido c'e', e consiste nello stabilire se le forze materiali e intellettuali necessarie per realizzare la trasformazione siano tecnicamente presenti malgrado gli impedimenti frapposti ad una loro razionale utilizzazione dalla organizzazione delle forze produttive. Io credo anzi che sia questo il senso in cui oggi si puo' effettivamente parlare di una fine dell'utopia. Oggi esistono tutte le forze materiali e intellettuali necessarie per realizzare una societa' libera. Il fatto che non vengano utilizzate e' da ascrivere esclusivamente ad una sorta di mobilitazione generale della societa', che resiste con ogni mezzo alla eventualita' di una propria liberazione. Ma questa circostanza non basta assolutamente a rendere utopistico il progetto della trasformazione. Possibile, nel senso indicato, e' l'eliminazione della poverta' e della miseria; possibile l'eliminazione del lavoro estraniato; possibile l'eliminazione di cio' che io ho chiamato surplus repression. Io credo che su questo giudizio possiamo considerarci relativamente d'accordo anche con i nostri avversari. Nessun economista borghese di una certa serieta' e' oggi in grado di contestare la effettiva possibilita' di eliminare la fame e la miseria con le forze produttive materiali e intellettuali gia' tecnicamente esistenti, e di negare che quanto accade oggi e' un risultato della organizzazione socio-politica del mondo. Tuttavia, pur essendo tutti d'accordo su questo punto, non abbiamo invece idee sufficientemente chiare (e anzi vorrei fare di questo problema il tema dell'attuale discussione) sulle implicazioni di tale eliminazione, ormai tecnicamente possibile, della poverta', della miseria e del lavoro, e piu' precisamente sulla necessita' di pensare codeste possibilita' storiche in termini di rottura piuttosto che di continuita' con la storia passata, come un elemento di negazione piu' che di affermazione, come un salto netto anziche' un progresso continuo. E cio' per mettere in risalto un aspetto decisivo: la liberazione di una dimensione della realta' e della vita umana situata al di qua della base materiale, l'attivizzazione della dimensione biologica della vita. Cio' che conta e' l'idea di una nuova antropologia concepita non solo come teoria ma anche come modo di vita, il sorgere e lo svilupparsi di vitali bisogni di liberta', dei bisogni vitali di una liberta' non piu' fondata sulla (ne' limitata dalla) scarsita' dei mezzi e sulla necessita' del lavoro estraniato, ma capace di esprimere lo sviluppo di bisogni umani qualitativamente nuovi e quindi le esigenze del fattore biologico (giacche' si tratta di bisogni che vanno considerati in termini strettamente biologici). Il bisogno di liberta' infatti non si configura (o non si configura piu') come un bisogno vitale in gran parte della popolazione integrata dei paesi a capitalismo sviluppato. Nello spirito di questo bisogno vitale la nascita della nuova antropologia implica anche il sorgere di una nuova morale come eredita' e negazione della morale giudaico-cristiana che finora ha determinato, in misura preponderante, la storia della civilta' occidentale. La societa' repressiva continua incessantemente a riprodurre nei suoi membri i bisogni che essa stessa stimola e soddisfa, sicche' a loro volta gli individui continuano a riprodurla nei loro bisogni, e persino attraverso e oltre la rivoluzione. Questa continuita' dei bisogni repressivi e' dunque l'ostacolo che finora ha impedito il salto dalla quantita' alla qualita' di una societa' libera. Un giudizio di questo genere parte naturalmente dalla premessa che i bisogni umani rivestano un carattere storico; che, oltrepassato il livello animale, tutti i bisogni umani incluso quello sessuale siano storicamente determinati e storicamente trasformabili; e che la rottura della continuita' dei bisogni in cui e' racchiuso il principio repressivo (il salto nella differenza qualitativa) non sia un fatto speculativo, ma un evento implicito nello stesso sviluppo delle forze produttive. In effetti quest'ultimo ha ormai raggiunto un livello che puo' impedire ogni nostro adeguamento alle condizioni della liberta' se non nascono nuovi bisogni vitali. Da che cosa e' caratterizzato questo stadio di sviluppo delle forze produttive che rende possibile il salto dalla quantita' nella qualita'? Soprattutto dalla struttura tecnologica del potere che scalza le fondamenta del potere stesso, dalla progressiva riduzione della forza-lavoro fisiologica all'interno del processo produttivo (del processo produttivo materiale) e dalla sua graduale sostituzione con un lavoro fondato sull'erogazione di energie mentali e nervose, nonche' dalla progressiva concentrazione del lavoro socialmente necessario nella classe dei tecnici, degli scienziati, degli ingegneri, ecc. Si tratta chiaramente solo di tendenze, di tendenze incipienti, che tuttavia a mio parere non si limitano a sorgere ma continuano a svilupparsi, direi per intima necessita', proprio perche' esprimono l'aspirazione a sopravvivere della stessa societa' capitalistica. Se il capitalismo non riuscira' ad utilizzare queste nuove possibilita' delle forze produttive e della loro organizzazione, non potra' reggere nel tempo lungo alla concorrenza delle societa' in cui lo sviluppo in tal senso e soprattutto nel senso dell'automazione non e' ostacolato da esigenze di profitto e da altri condizionamenti. Dobbiamo tuttavia aggiungere subito che il confine estremo del capitalismo si trova anche al lato opposto di questa problematica, e cioe' nella compiuta utilizzazione dell'automazione. Come Marx ha giustamente osservato nel Capitale, un'automazione completa del lavoro socialmente necessario e' inconciliabile con la conservazione del capitalismo. Riferito a questa tendenza, il termine "automazione" non e' che una formula abbreviata. L'automazione comporta una progressiva estromissione del lavoro fisico socialmente necessario (lavoro estraniato) dal processo produttivo materiale, e ci impone (arrivo cosi' al problema delle possibilita' "utopiche" con cui ci dobbiamo misurare per capire cosa e' in gioco) un esperimento totale a livello e nel quadro della societa'. Con l'eliminazione della miseria, questa tendenza ci spinge a confrontarci con le potenzialita' della natura umana e extraumana in quanto contenuto del lavoro sociale, stimolando cosi' la nascita di un fecondo potere di immaginazione come forza produttiva scientificamente determinata, di una fertile facolta' fantastica destinata a progettare e a delineare liberamente i possibili sviluppi delle forze produttive. Perche' queste potenzialita' della tecnica non diventino potenzialita' repressive e perche' possano assolvere alla loro funzione liberatoria e pacificatrice, esse devono essere sostenute e ottenute da bisogni di liberazione e di pacificazione. La' dove non esiste il bisogno vitale di eliminare il lavoro ed esiste invece il bisogno di conservarlo anche se non e' piu' socialmente necessario; la' dove non esiste il bisogno vitale del godimento, della gioia in buona coscienza, ma esiste piuttosto la necessita' di guadagnarsi ogni cosa nella piu' miserabile delle vite possibili; insomma la' dove questi bisogni vitali non insorgono o vengono soffocati da quelli repressivi, ci si puo' aspettare soltanto una riconversione delle nuove potenzialita' tecniche in potenzialita' repressive. Oggi sappiamo gia' quale contributo possano offrire la cibernetica e i computer all'istaurazione di un controllo totale sulla vita umana. I nuovi bisogni, che sono in realta' la negazione determinata dei bisogni esistenti, possono forse sommarsi fino a comporre la negazione dei bisogni su cui si sostiene l'attuale sistema di potere e dei valori che ne stanno alla base. Ad esempio, possono diventare la negazione del bisogno di lottare per l'esistenza (che oggi e' ancora una necessita', tanto che tutte le idee e le fantasie sulla possibilita' di eliminare questa lotta si scontrano con i fattori naturali e sociali da cui e' condizionata la vita umana); oppure la negazione del bisogno di guadagnarsi la vita, della battaglia per il pane quotidiano, del principio produttivistico, della concorrenza; o ancora la negazione del bisogno - oggi immensamente forte - di conformismo, del bisogno di non dare nell'occhio, di non diventare degli outsiders, del bisogno di una produttivita' fondata sullo spreco e sulla distruzione (e quindi da questi indissociabile), nonche' di una menzognera soppressione degli istinti. Tutti questi bisogni trovano la loro negazione nel bisogno di pace (che oggi, come purtroppo voi sapete anche troppo bene, non e' un bisogno della maggioranza), nei bisogni di calma, di solitudine, di privacy (che, come ci dicono i biologi, sono bisogni indispensabili all'organismo), nel bisogno di tranquillita' e di gioia, intesi tutti non come bisogni individuali ma come forze produttive della societa', come bisogni sociali in grado di esercitare un'influenza determinante sull'organizzazione e sulla direzione delle forze produttive. Questi nuovi bisogni vitali rendono possibile, in quanto forze produttive sociali, una totale trasformazione tecnica del mondo della vita, e io credo che nuovi rapporti umani, nuovi legami tra gli uomini possano realizzarsi solo in un mondo cosi' trasformato. Trasformazione tecnica, ho detto; anche qui intendo riferirmi ai paesi capitalistici ad alto sviluppo tecnologico, nei quali una tale trasformazione significa eliminazione degli orrori della industrializzazione e della commercializzazione capitalistica, totale ricostruzione delle citta' e restaurazione della natura. Spero non sia necessario precisare che, parlando della eliminazione degli orrori della industrializzazione capitalistica, non intendo spezzare una lancia in favore di una romantica regressione al di qua della tecnica; al contrario io credo che i benefici della tecnica e dell'industrializzazione possano risultare evidenti e reali solo rimuovendo l'industrializzazione e la tecnica di tipo capitalistico. A mio parere, il dibattito sul concetto di socialismo non ha ancora convenientemente posto in luce le nuove qualita' cui ho accennato. Anche da noi il concetto di socialismo e' stato inteso prevalentemente come un concetto riguardante lo sviluppo delle forze produttive e l'incremento della produttivita' del lavoro, secondo una tendenza piu' che legittima rispetto al livello produttivo in cui venne elaborata l'idea del socialismo scientifico, ma oggi per lo meno contestabile. Il nostro compito attuale e' di discutere e definire, senza alcuna inibizione e a costo di apparire brutali, la differenza qualitativa che intercorre tra la societa' socialista come societa' libera e le societa' esistenti. Ed e' precisamente a questo punto che, nella ricerca di formule in grado di sintetizzare le qualita' nuove della societa' socialista, ci si imbatte quasi naturalmente (a me, almeno, e' successo cosi') nelle qualita' erotico-estetiche. Il fatto che la differenza qualitativa della societa' libera consista proprio in questo accoppiamento di concetti (nel quale il concetto di estetico e' preso in senso originario e cioe' come sviluppo della sensibilita', come modo di esistere) suggerisce a sua volta una tendenziale convergenza tra tecnica e arte e tra lavoro e gioco. Non e' sicuramente un caso se oggi tra gli intellettuali d'avanguardia della sinistra stia ritornando d'attualita' Fourier, e che una nuova edizione dell'opera omnia di questo autore sia apparsa recentemente a Parigi presso la casa editrice Anthropos. Come gli stessi Marx e Engels riconobbero, fu appunto Fourier a mettere in evidenza, per la prima e unica volta, questa differenza qualitativa tra una societa' libera e una societa' non libera, senza tirarsi indietro spaventato (cosa che fece invece Marx, almeno in parte) di fronte alla necessita' di ipotizzare una societa' in cui il lavoro diventi gioco, in cui persino il lavoro socialmente necessario possa venire organizzato in armonia con i bisogni istintuali e con le inclinazioni degli uomini. Permettetemi di concludere con una osservazione. Ho gia' accennato alla necessita' che la teoria critica che ancora oggi mi ostino a chiamare marxismo accolga in se' le possibilita' estreme della liberta', lo scandalo di quel salto qualitativo cui ho sommariamente accennato sopra, onde evitare di limitarsi al problema della correzione delle magagne esistenti. Il marxismo deve avere il coraggio di elaborare una definizione del concetto di liberta' che possa far sentire e riconoscere quest'ultima come un bene non ancora mai goduto dagli uomini. E proprio perche' le cosiddette possibilita' utopistiche non sono affatto utopiche, ma rappresentano invece una determinata negazione storico-sociale dell'esistente, la loro coscienzalizzazione, e l'individuazione consapevole delle forze che ne impediscono la realizzazione e che le negano, richiedono da parte nostra una opposizione molto realistica e molto pragmatica, una opposizione libera da tutte le illusioni ma anche da ogni disfattismo, una opposizione che con la sua semplice esistenza sappia rendere manifeste le possibilita' della liberta' nell'ambito stesso della societa' esistente. * Da pagina 108 Non ho nessuna intenzione di chiedermi se cio' di cui stiamo discutendo sia romanticismo o metafisica perche' le etichette non mi interessano. Se e' romanticismo o metafisica, allora devo dire di essere favorevole al romanticismo e alla metafisica. Vorrei dire invece qualcosa a proposito di una frase che ho sentito ripetere piu' volte. E' stato detto e ripetuto che il radicalismo mette in forse la realizzazione delle riforme possibili. Io credo invece che oggi ci si debba chiedere se non sia vero anche il contrario, e cioe' se le riforme oggettive che si e' riusciti alla fine a introdurre e a imporre al sistema non debbano ascriversi in gran parte allo sviluppo di un grande movimento radicale. A me pare che la storia dimostri appunto questo. ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 345 del 27 giugno 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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