Minime. 848



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 848 dell'11 giugno 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Contro le deportazioni
2. Contro la guerra
3. Oggi a Roma per i diritti dei popoli nativi dell'Amazzonia
4. Francesca Caferri intervista Vandana Shiva
5. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento
6. Alcuni estratti da "Il lavoro non e' una merce. Contro la flessibilita'"
di Luciano Gallino
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. CONTRO LE DEPORTAZIONI

Contro le deportazioni, contro i campi di concentramento, contro il regime
dell'apartheid, contro lo squadrismo, contro il razzismo, per i diritti
umani di tutti gli esseri umani. E' la lotta da condurre.
Vi e' una sola umanita'.

2. LE ULTIME COSE. CONTRO LA GUERRA

La guerra terrorista e stragista in Afghanistan.
La guerra cui l'Italia partecipa in violazione del diritto internazionale e
della legalita' costituzionale.
La guerra che uccide gli esseri umani.
E' mai possibile che in Italia solo questo foglio si opponga a questo
mostruoso crimine in corso?

3. INIZIATIVE. OGGI A ROMA PER I DIRITTI DEI POPOLI NATIVI DELL'AMAZZONIA
[Da Survival International (per contatti: info at survival.it) riceviamo e
diffondiamo]

Survival risponde agli appelli della societa' civile e delle organizzazioni
indigeni peruviane e aderisce alle manifestazioni pacifiche di solidarieta'
indette in tutto il Peru' e in varie parti del mondo per giovedi' 11 giugno.
Insieme ad "A sud" e altre associazioni, Survival invita a partecipare a un
sit-in che si terra' a Roma davanti all'Ambasciata del Peru' in Italia
giovedi' 11 giugno, dalle ore 12 alle 15, in via Francesco Siacci 2B.
L'appuntamento a Milano e' invece previsto dinanzi al Consolato del Peru',
dalle ore 11 alle ore 13, in via Benigno Crespi 15.
Informazioni e materiali di documentazione sono disponibili nel sito
www.survival.it
Survival International e' un'organizzazione mondiale di sostegno ai popoli
tribali. Difende il loro diritto a decidere del proprio futuro e li aiuta a
proteggere le loro vite, le loro terre e i loro diritti umani. Non riceve
fondi governativi e dipende dalle donazioni del pubblico. Per ulteriori
informazioni o aiuti: www.survival.it oppure info at survival.it

4. RIFLESSIONE. FRANCESCA CAFERRI INTERVISTA VANDANA SHIVA
[Dal quotidiano "La Repubblica" del primo giugno 2009 col titolo "La tribu'
dei nuovi schiavi" e il sommario "L'Amazzonia non e' solo una foresta. Non
e' solo del Brasile. E', prima di tutto, il piu' grande deposito di
biodiversita' del mondo"]

Da oltre tre decenni il suo nome e' in cima alla lista dei difensori
dell'ambiente in tutto il mondo. Indiana, 57 anni, vincitrice del Right
Livehood Award (meglio noto come il Nobel alternativo), Vandana Shiva e' uno
dei volti piu' famosi del movimento mondiale contro la globalizzazionee per
uno sviluppo eco-compatibile. Per questo, unirsi alla campagna di Greenpeace
per proteggere la foresta amazzonica le e' sembrata la cosa piu' naturale
del mondo. "Qualcuno dice che e' una questione brasiliana - spiega al
telefono da Delhi -, io voglio dire che non lo e'. L'Amazzonia non
appartiene al Brasile, ma al mondo intero. E la necessita' di proteggerla
dovrebbe essere una questione che riguarda il mondo intero. I governi ma
anche i consumatori finali. Per questo quello che ha scoperto Greenpeace e'
cosi' importante e chiama in causa tutti. Me che sono indiana cosi' come voi
che siete italiani".
*
- Francesca Caferri: Signora Shiva, perche' questa e' una questione globale?
- Vandana Shiva: L'Amazzonia non e' solo una foresta. Non e' solo del
Brasile. E', prima di tutto, il piu' grande deposito di biodiversita' del
mondo. Il piu' importante contributo alla stabilita' climatica e
idrogeologica che ci sia rimasto sulla terra. Per questo e' una questione
mondiale. E posso dire, per averlo visto con i miei occhi, che la
distruzione che sta avvenendo li' e la lotta impari degli indigeni contro le
imprese che vogliono legno e materie prime e a cui non importa nulla di
loro, e' una questione globale e come tale andrebbe trattata. Dai governi
per primi.
*
- Francesca Caferri: Cosa dovrebbero fare?
- Vandana Shiva: Dovrebbero innanzitutto dimenticare la parola profitto
quando si parla di questa zona del mondo. Gli unici investimenti in
Amazzonia dovrebbero essere diretti a garantirne la sopravvivenza e la
protezione. Questo da solo dovrebbe essere considerato un guadagno, in
termini di stabilita'. Quello che mi aspetto concretamente e' la formazione
di un'alleanza globale fra i paesi in nome della conservazione
dell'Amazzonia.
*
- Francesca Caferri: Il G8 che si svolgera' fra qualche settimana in Italia
ha la tutela dell'ambiente e il cambiamento climatico fra i punti principali
della sua agenda. Crede che il discorso sull'Amazzonia potrebbe essere
affrontato li'?
- Vandana Shiva: Francamente non mi aspetto molto dal G8. Mi aspetto molto
di piu' dal G20, il vertice allargato a cui prendono parte i paesi
cosiddetti emergenti e, in questo caso, il Brasile. E' quella la sede per
spingere verso un cambiamento. Quello che e' successo dal settembre dello
scorso anno ad oggi - il crollo dei mercati, lo scoppio della bolla dei
mutui, la crisi finanziaria globale - avrebbe dovuto insegnarci qualcosa.
Che il modello di sviluppo cieco, che distrugge tutto intorno a se', che
punta solo al profitto, non funziona. Non funziona piu'. Eppure questo e' il
modello di sviluppo che sta distruggendo l'Amazzonia. Per guardare al futuro
dobbiamo pensare a un modello diverso, illuminato lo definirei. Dove l'idea
di futuro e quella di sviluppo convivano.
*
- Francesca Caferri: In questo modello che ruolo hanno i consumatori finali?
Come lei sa bene il rapporto di Greenpeace li chiama in causa direttamente,
mettendo sul patibolo marchi che sono fra i piu' conosciuti al mondo...
- Vandana Shiva: I consumatori possono molto. La prima cosa da fare sarebbe
stabilire una moratoria internazionale su qualunque bene che sia collegato
in qualche modo alla distruzione dell'Amazzonia. Questo spetta ai governi,
ma poi devono scendere in campo anche i consumatori. Pensiamo a quello che
e' accaduto con l'influenza suina in Messico: colti dal panico, i
consumatori hanno imposto ai supermercati di tutto il mondo di non vendere
piu' carne arrivata dal Messico. Le esportazioni sono crollate nel giro di
qualche giorno. O pensiamo al movimento che si e' sviluppato in molti paesi
d'Europa contro gli organismi geneticamente modificati: le proteste hanno
imposto alle catene di distribuzione di essere "Ogm free", almeno in parte.
Ora, lo stesso si puo' fare per l'Amazzonia: i consumatori possono fare
pressioni sui negozi perche' non vendano nessun prodotto che non sia "Amazon
free". Rispettoso dell'Amazzonia, non derivato dalle sue materie prime. E
poi dovrebbero chiedere di consumare solo carne locale: in questa maniera le
importazioni dal Brasile crollerebbero.
*
- Francesca Caferri: Tutto questo pero' creerebbe un danno grave
all'economia del Paese: e non possiamo dimenticare che parliamo di uno stato
in cui buona parte della popolazione vive ancora in poverta'...
- Vandana Shiva: La maggior parte delle coltivazioni e degli allevamenti in
Amazzonia sono illegali. Da questa economia guadagna solo chi commercia in
modo illegale, non il paese.
*
- Francesca Caferri: Parliamo delle popolazioni indigene: come lei sa, molti
sostengono che la vicinanza con la "civilta'" sia per loro un bene. Qual e'
la sua opinione?
- Vandana Shiva: Io non sono d'accordo. Se guardiamo al futuro e a quello
che ci serve per andare avanti, capiremo che l'elemento fondamentale e' una
relazione bilanciata con la terra. Un sistema di conoscenza e di vita che
non sia basato sullo sfruttamento ma sull'armonia. In questa materia gli
indigeni hanno molto da insegnarci, non sono certo dei primitivi. Primitivi
mi sembrano piuttosto quelli che li vogliono cacciare.

5. APPELLI. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO
[Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo il
seguente appello]

Anche con la prossima dichiarazione dei redditi sara' possibile
sottoscrivere un versamento al Movimento Nonviolento (associazione di
promozione sociale).
Non si tratta di versare soldi in piu', ma solo di utilizzare diversamente
soldi gia' destinati allo Stato.
Destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e'
facile: basta apporre la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il
numero di codice fiscale dell'associazione.
Il Codice Fiscale del Movimento Nonviolento da trascrivere e': 93100500235.
Sono moltissime le associazioni cui e' possibile destinare il 5 per mille.
Per molti di questi soggetti qualche centinaio di euro in piu' o in meno non
fara' nessuna differenza, mentre per il Movimento Nonviolento ogni piccola
quota sara' determinante perche' ci basiamo esclusivamente sul volontariato,
la gratuita', le donazioni.
I contributi raccolti verranno utilizzati a sostegno della attivita' del
Movimento Nonviolento e in particolare per rendere operativa la "Casa per la
Pace" di Ghilarza (Sardegna), un immobile di cui abbiamo accettato la
generosa donazione per farlo diventare un centro di iniziative per la
promozione della cultura della nonviolenza (seminari, convegni, campi
estivi, eccetera).
Vi proponiamo di sostenere il Movimento Nonviolento che da oltre
quarant'anni, con coerenza, lavora per la crescita e la diffusione della
nonviolenza. Grazie.
Il Movimento Nonviolento
*
Post scriptum: se non fate la dichiarazione in proprio, ma vi avvalete del
commercialista o di un Caf, consegnate il numero di Condice Fiscale e dite
chiaramente che volete destinare il 5 per mille al Movimento Nonviolento.
Nel 2007 le opzioni a favore del Movimento Nonviolento sono state 261
(corrispondenti a circa 8.500 euro, non ancora versati dall'Agenzia delle
Entrate) con un piccolo incremento rispetto all'anno precedente. Un grazie a
tutti quelli che hanno fatto questa scelta, e che la confermeranno.
*
Per contattare il Movimento Nonviolento: via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803, fax: 0458009212, e-mail: redazione at nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org

6. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "IL LAVORO NON E' UNA MERCE. CONTRO LA
FLESSIBILITA'" DI LUCIANO GALLINO
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Luciano Gallino, Il lavoro non e' una merce. Contro la flessibilita',
Laterza, Roma-Bari 2007]

Indice del volume
Prefazione; 1. Le molte facce (e i tanti numeri) della flessibilita'; 2.
Alle origini della richiesta di lavoro flessibile da parte delle imprese; 3.
I dubbi rapporti tra flessibilita' e occupazione; 4. Il ruolo della
legislazione sul lavoro; 5. Dalla flessibilita' del lavoro alla precarieta'
della vita; 6. Costi umani della flessibilita' in differenti sistemi
lavorativi; 7. L'economia globale e le Ict non eliminano i lavori
tradizionali; 8. Societa' flessibile e integrazione sociale; 9. La
flessicurezza, o come curare gli effetti ignorando le cause; 10. Contro la
precarieta', una politica del lavoro globale; Note.
*
Da pagina 3
Le molte facce (e i tanti numeri) della flessibilita'
Nel nostro paese come in altri dell'Unione Europea, Francia e Germania in
testa, organizzazioni e personaggi autorevoli chiedono ogni giorno, ormai da
alcuni lustri, che sia accresciuta la "flessibilita' del lavoro". La
richiesta si presenta in ogni contesto immaginabile. La avanzano o la
difendono, nel corso dell'intero periodo, i saggi dei maggiori centri di
ricerche economiche; i discorsi del governatore della Banca d'Italia, non
importa se quello in carica o quello di prima; le dichiarazioni dei
presidenti della Confindustria; gli articoli di fondo dei maggiori
quotidiani; le pagine dei piu' reputati organi economici, a partire dal
"Sole-24 Ore"; le interviste tv degli uomini politici del centrodestra come
del centrosinistra; le dichiarazioni di ministri economici e di presidenti
del Consiglio d'una dozzina di governi almeno. Visto che sono citatissimi
dalle suddette fonti - di solito con il codicillo che una maggior
flessibilita' del lavoro "ce la chiede l'Europa", oppure "ce la chiedono i
mercati" -, si dia anche un'occhiata ai documenti della Commissione europea,
dell'Ocse (l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) o
del Fondo monetario internazionale. Una volta compiuta una simile rassegna,
piu' o meno esaustiva in funzione del tempo disponibile, non ci si potra'
sottrarre alla conclusione che l'aumento della flessibilita' del lavoro -
con il quale s'intende una maggior diffusione dei lavori flessibili -
rappresenti in assoluto uno dei bisogni piu' seri e urgenti dell'economia
italiana, nel quadro delle crescenti interdipendenze tra questa e l'economia
mondiale.
Ma qual e' propriamente il senso dell'espressione "flessibilita' del
lavoro", che nei testi di cui sopra non sempre viene esplicitato? Si usano
definire flessibili, in generale, o cosi' si sottintendono, i lavori o
meglio le occupazioni che richiedono alla persona di adattare ripetutamente
l'organizzazione della propria esistenza - nell'arco della vita, dell'anno,
sovente perfino del mese o della settimana - alle esigenze mutevoli della o
delle organizzazioni produttive che la occupano o si offrono di occuparla,
private o pubbliche che siano. Tali modi di lavorare o di essere occupati
impongono alla gran maggioranza di coloro che vi sono esposti per lunghi
periodi un rilevante costo umano, poiche' sono capaci di modificare o
sconvolgere, seppure in varia misura, oltre alle condizioni della
prestazione lavorativa, il mondo della vita, il complesso dell'esistenza
personale e familiare.
Allo scopo di poter discutere con qualche rigore sia di flessibilita' che
del suo costo umano, occorre pero' cercar di precisare quel che sovente,
quando si legge o si sente parlare di flessibilita', rimane nel vago.
Anzitutto, occorre stabilire quali sono le particolari forme che essa puo'
assumere e quante sono realmente le persone che vi sono esposte. Per contare
queste ultime occorre far fronte a numerose difficolta' di ordine
metodologico e statistico. In secondo luogo, va rilevato che i costi umani
del lavoro flessibile variano notevolmente, come entita' e tipologia, in
funzione dei sistemi lavorativi, o modi di lavorare, nel cui ambito si
applica al lavoratore un dato tipo di flessibilita'. Infine, e' possibile
che lo stesso tipo di flessibilita' configuri per una persona oneri
notevolmente diversi a seconda del suo livello di qualificazione, della
professione, della fascia di eta', del genere, dello stato di salute, della
storia lavorativa, perfino delle sue origini etniche. Questi diversi aspetti
della flessibilita' sono trattati nei successivi capitoli; in questo ci si
sofferma invece su definizione e numeri della flessibilita'.
Negli studi e in una parte delle statistiche relative al lavoro flessibile
si usa distinguere tra due specie principali di flessibilita', che gli
esperti sogliono denominare, in modo alquanto criptico, numerica oppure
funzionale, quantitativa oppure qualitativa, esterna o interna. Per maggior
chiarezza converrebbe invece parlare per un verso di flessibilita'
dell'occupazione, per l'altro di flessibilita' della prestazione. La
flessibilita' dell'occupazione consiste nella possibilita', da parte di
un'impresa, di far variare in piu' o in meno la quantita' di forza lavoro
utilizzata, ossia il numero dei lavoratori cui paga a un dato momento un
salario, in relazione stretta con il proprio ciclo produttivo; cio' che
dovrebbe avvenire idealmente in tempo reale, ovvero con un ritardo minimo,
approssimantesi a zero, rispetto al profilarsi dei picchi e delle valli del
ciclo stesso. Detta possibilita' si realizza al meglio quando sussista
un'ampia liberta' di licenziare o, in mancanza di questa, la possibilita' di
occupare salariati (di proposito non scriviamo qui "assumere") facendo
fronte al minor grado concepibile, nel contesto locale, di norme del diritto
del lavoro che tendono a rendere duratura l'occupazione.
In effetti, codeste norme sono viste in generale da molte imprese, e dalle
loro maggiori associazioni, quali la Confindustria, come un preoccupante
fattore di rallentamento del flusso di lavoratori in entrata e in uscita da
un'azienda. Tra il polo della liberta' di licenziamento e quello del divieto
di licenziare se non per gravi motivi, la possibilita' di avere a
disposizione buon numero di lavoratori occupabili con un grado elevato di
flessibilita' rappresenta per le imprese un compromesso accettabile, che
molte di esse provano, ad ogni buon conto, a sospingere verso il primo polo.
La flessibilita' dell'occupazione si traduce prevalentemente, allorche'
rientra nel quadro del diritto del lavoro - cio' che per molte persone non
avviene, come vedremo subito -, in una variegata tipologia di contratti
lavorativi, che sono detti atipici per distinguerli dal normale o tipico
contratto di lavoro di durata indeterminata e a tempo pieno. Vanno percio'
considerati come indicatori di flessibilita' dell'occupazione anzitutto i
diversi contratti per dipendenti di durata determinata, o a termine, che
possono variare da pochi mesi a due-tre anni; poi i contratti a tempo
parziale; i contratti di lavoro in affitto, che un tempo si chiamava
interinale, mentre il decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276,
attuativo della legge 30/2003, lo chiama "in somministrazione", e puo'
applicarsi a individui o a gruppi di lavoratori; i contratti di
collaborazione coordinata e continuativa, che sotto il profilo giuridico
configurano un lavoro autonomo, pero' designato sovente "parasubordinato"
per distinguerlo dal lavoro realmente indipendente dell'artigiano o del
professionista; di lavoro a progetto (idem); i contratti di lavoro ripartito
(in questo caso due persone si dividono nel giorno o nella settimana un
unico posto di lavoro a tempo pieno); ancora, i contratti di lavoro
intermittente e di prestazione occasionale. Tutti questi contratti atipici
coesistono in numerose imprese a fianco dei contratti a tempo indeterminato,
che continuano ad applicarsi alla maggioranza dei lavoratori dipendenti in
attivita', mentre per quanto riguarda i nuovi ingressi al lavoro, come media
nazionale, dal 2005 in poi, i contratti atipici hanno rappresentato oltre la
meta' del totale.
La flessibilita' della prestazione si riferisce per contro all'eventuale
modulazione, da parte dell'impresa, di vari parametri della situazione in
cui i salariati che al suo interno operano - a cominciare dai dipendenti a
tempo indeterminato e orario pieno, ma compresi pure gli atipici - prestano
la loro attivita'. Sotto questa rubrica vengono quindi collocati:
l'articolazione differenziale dei salari, praticata per ancorarli ai meriti
individuali o alla produttivita' di reparto o di impresa; le modificazioni
degli orari, intese ad accrescere vuoi l'utilizzazione degli impianti, vuoi
l'aderenza alle singolarita' del ciclo produttivo, su archi temporali che
vanno da poche ore durante il giorno (come nel caso degli orari che
permettono di scegliere l'ora di ingresso o di uscita) sino a un intero anno
(come nel caso della cosiddetta annualizzazione, degli orari pluriperiodali,
delle "banche del tempo").
Rientrano quindi nella rubrica delle prestazioni flessibili l'introduzione,
le diverse tipologie e le variazioni cicliche di modalita' quali: il lavoro
a turni; gli orari slittanti, per cui capita ogni tot settimane di dover
lavorare il sabato e la domenica; gli orari pluriperiodali o annualizzati,
in base ai quali la media "normale" delle 40 ore settimanali puo' venire
raggiunta, nell'anno, lavorando per tot settimane con orari molto piu'
lunghi e per altre con orari molto piu' brevi; lo straordinario e le sue
ricorrenti variazioni; le improvvise variazioni d'orario comprese entro una
fascia di ore e/o giorni in cui il lavoratore ha dato la propria
disponibilita' (comuni nella grande distribuzione, dove si cerca di far
coincidere il numero di addetti presenti con il flusso quotidiano della
clientela); le variazioni delle condizioni di lavoro, ivi compresa la
condivisione del posto o dei mezzi di produzione (macchina utensile,
scrivania, sportello o pc in rete che siano); le improvvise variazioni del
ritmo, del tipo e del luogo di lavoro che appaiono necessarie per fare
fronte a occasionali disfunzioni del ciclo produttivo; i trasferimenti di
personale tra reparti o tra sedi; gli spostamenti del luogo di lavoro (come
nel telelavoro) ovvero la soppressione d'un luogo definito in cui il lavoro
debba venire svolto (come nei casi piu' avanzati di "ufficio mobile", ma
anche in molti casi piu' tradizionali di attivita' di trasporto).
La flessibilita' della prestazione viene regolata vuoi dai contratti
collettivi imprese-sindacati a livello nazionale e a livello integrativo,
vuoi dalle norme inserite in ciascuna tipologia di contratto atipico. I
lavoratori toccati da queste forme di flessibilita' qualitativa sono
parecchi milioni, posto che esse si applicano tanto a molti lavori a tempo
pieno e durata indeterminata quanto a gran parte delle occupazioni
flessibili di genere quantitativo menzionate prima. Peraltro le
sovrapposizioni delle diverse modalita' di organizzazione del lavoro - per
cui puo' capitare, ad esempio, che un certo numero di lavoratori facciano un
turno di notte, con un paio d'ore di straordinario, nella notte tra una
domenica e un giorno festivo, numero che il mese dopo puo' essere maggiore o
minore - rendono difficile pervenire a una stima piu' precisa della
quantita' di persone coinvolte in forme di flessibilita' della prestazione.
Di certo e' provato che anche questa forma di flessibilita' lavorativa
comporta per chi vi e' esposto costi rilevanti, in specie quando succede che
essa si combini, in capo alla stessa persona, con la flessibilita'
dell'occupazione. E' altresi' noto che molte imprese, piccole e grandi,
impongono dosi addizionali di flessibilita' della prestazione facendo capire
a coloro i quali hanno un contratto a termine, come dipendenti o
parasubordinati, che dalla disponibilita' ad accettarla puo' dipendere il
rinnovo del contratto in essere. E' forse questo l'incubo principale dei
lavoratori che hanno un'occupazione sottoposta alle leggi economiche e alla
legislazione della flessibilita'.
Nel seguito si trattera' soprattutto dei temi connessi alla flessibilita'
dell'occupazione, poiche' e' su questi ultimi che si e' concentrata da anni
l'attenzione delle famiglie e dei sindacati da un lato, delle imprese, della
politica e degli esperti di economia e di diritto del lavoro dall'altro.
Nondimeno, visto che la flessibilita' della prestazione, quella che incide
direttamente sulle condizioni in cui si trova a operare chi un lavoro ce
l'ha, si cumula sovente con la flessibilita' dell'occupazione a carico delle
stesse persone, e che tra le due vi sono rapporti di scambio - poiche' in
molti casi se non si accetta quella si rischia maggiormente di cadere sotto
questa - saranno spesso introdotti anche riferimenti alla prima.
Sin qui abbiamo parlato di occupazione instabile o discontinua perche' i
relativi contratti, regolati dalle leggi vigenti, presentano una scadenza o
un'altra atipicita', come il part time, a prescindere dal fatto che
riguardino un dipendente a termine o un parasubordinato. Esiste pero' anche
l'instabilita' o discontinuita' dell'occupazione dovuta al fatto che il
contratto non esiste, ovvero e' soltanto verbale o implicito. Mi riferisco a
quell'universo parallelo di lavori flessibili costituito dall'economia
sommersa, che per sua natura non e' ne' regolato ne' regolabile. Comprende
milioni di persone che non soltanto lavorano totalmente o parzialmente in
situazioni irregolari, dal punto di vista contributivo e fiscale, ma sono
anche - e questo e' l'aspetto cui andrebbe attribuito un maggior peso -
totalmente prive di diritti.
Nell'economia sommersa concetti quali ferie, festivita', assistenza
sanitaria, misure di sicurezza e tutela della salute sul luogo di lavoro,
previdenza, condizioni che l'ambiente lavorativo deve rispettare, protezioni
e vertenze sindacali, lavoro e compenso ordinario e straordinario, sono
tutte parole prive di senso. In essa e' estrema la subordinazione al datore
di lavoro, che ogni singolo giorno puo' esercitare la facolta' di assumere o
licenziare, chiedere piu' o meno ore, aumentare o diminuire la retribuzione.
Inoltre, e' ben noto a chi lo osserva da vicino - a cominciare dagli
ispettori del lavoro, ma anche da molti imprenditori - che esso e'
strettamente intrecciato con l'economia formale. A tal punto che, ove simile
universo venisse improvvisamente a mancare, l'economia regolare entrerebbe
in crisi entro breve tempo.
Appare insomma del tutto improprio discutere di flessibilita', quando non si
prenda in considerazione sistematica questa larga parte del mercato del
lavoro che della flessibilita' italiana e' elemento inseparabile. Non da
ultimo, tale considerazione congiunta appare necessaria perche' sono
massicci e rapidi i passaggi da un bacino all'altro del mercato del lavoro,
il regolare e l'irregolare, il formale e l'informale; passaggi da cui
derivano cospicue opacita' e ambiguita' delle statistiche sull'occupazione.
Tra il 1992 e il 1994, ad esempio, scomparvero dalle rilevazioni dell'Istat
1.300.000 occupati. Tutti disoccupati? Non proprio. Gran parte di essi erano
semplicemente migrati nell'economia sommersa. Erano o lavoratori autonomi
che avevano buttato alle ortiche la partita Iva o dipendenti che avevano
scelto di aumentare la loro retribuzione netta della quota formata da
imposte e contributi obbligatori mettendosi a lavorare in nero.
Inversamente, tra il 2001 e il 2006 gli occupati rilevati sono aumentati di
circa un milione, benche' sistema economico e Pil fossero in stagnazione.
L'aumento fu dovuto in massima parte al passaggio dall'economia sommersa
all'economia regolare di immigrati i quali gia' lavoravano, ma che, non
essendo iscritti alle anagrafi comunali, non venivano captati dalle
procedure di campionamento dell'Istat.
Passate in rassegna le definizioni, occorre chiedersi quanti siano i
lavoratori coinvolti dalle due maggiori tipologie di occupazione flessibile:
quella formale, regolata dalla legge, e quella informale o irregolare, che
ha luogo al di fuori della legge. La cifra complessiva cui perviene l'autore
e' di 10-11 milioni di persone, di cui 5-6 milioni sono lavoratori regolari.
Il complicato percorso seguito per elaborare tale stima e' esposto nella
parte restante di questo capitolo. La lettrice o il lettore che non
gradiscano affrontare le inevitabili tortuosita' di tale percorso possono,
se credono, passare direttamente al capitolo successivo. Tengano pero'
presente che le cifre relative a occupazione e disoccupazione, entita' dei
lavoratori flessibili, ripartizione dei contratti atipici e altro,
presentate di solito come se fossero inscritte nel granito, sono, non meno
che elementi della statistica, un mezzo di persuasione di massa e uno
strumento politico. Comprendere quanto la loro costruzione sia al tempo
stesso complessa e vulnerabile, e quante opzioni di metodo e di sostanza
sono ad esse sottese, e' quindi un passo importante per potersi formare,
sull'intera questione della flessibilita', un'opinione autonoma.
*
Da pagina 135
Contro la precarieta', una politica del lavoro globale
Non v'e' dubbio che tentar di affrontare le cause della flessibilita' del
lavoro al posto di curare i suoi effetti, pur ammettendo che la seconda
opzione sia meglio del restare inerti dinanzi alla precarieta' delle vite
che essa ingenera, e' un compito tale da apparire, sulle prime, al di fuori
della portata di qualsivoglia azione politica. Una volta riconosciuto che la
flessibilita' deriva in ultimo da un immane processo economico globale che
non esclude nessun paese, vien naturale chiedersi come possa un singolo
governo, o Stato, cercare di contrastarla intervenendo sulle sue cause. Di
certo siamo dinanzi a un impegno di lungo periodo, nulla meno di un compito
storico che non si puo' affrontare redigendo diligentemente un elenco piu' o
meno lungo di provvedimenti contro la precarieta' del lavoro, da introdurre
e spuntare poi di volta in volta nel corso del quinquennio che intercorre
tra un'elezione e l'altra.
Nonostante tale difficolta', se si prova ad approfondire un poco i termini
della questione, essa non sembra cosi' intrattabile come si suole
presentarla. Al fine di accostarvisi con efficacia e' opportuno scomporre la
questione in due piani, quello internazionale e quello interno. Cominciamo
dal primo. Sappiamo che le cause dell'insistita domanda di lavoro flessibile
da parte delle imprese dei paesi piu' sviluppati sono soprattutto da
ricercare nella permanente ristrutturazione su scala globale del processo
produttivo che esse perseguono dagli anni Ottanta del Novecento. Essa ha tra
i suoi maggiori obiettivi quello di andare a produrre qualsiasi genere di
bene e di servizio in quei paesi dove il costo del lavoro e' minimo, e al
tempo stesso sono minimi o inesistenti i diritti reali di cui godono i
lavoratori.
Una chiara indicazione delle dimensioni e della direzione di tale processo
la forniscono gli investimenti diretti all'estero (Ide), in gran prevalenza
destinati ai paesi in via di sviluppo (Pvs): sono migliaia di miliardi di
dollari, dai primi anni Novanta e durante gli anni 2000, di cui oltre il 70
per cento e' andato alla Cina. In media, si puo' stimare che meno della
meta' del prodotto proveniente dai nuovi insediamenti industriali realizzati
grazie agli Ide e' indirizzato al mercato interno del paese dove una
societa' insedia le sue controllate; oltre la meta' ritorna sotto forma di
esportazioni nei paesi di origine. Nel caso cinese, si stima che piu' del 55
per cento delle merci esportate in Occidente non siano affatto merci
fabbricate originariamente e autonomamente da industrie della Cina, bensi'
merci prodotte in tutto o in parte entro quel paese, per i vantaggi ad esse
offerte, da imprese americane ed europee, sia con impianti propri che
attraverso un gran numero di controllate.
E' evidente che di caso in caso la quota effettiva destinata al mercato
locale, oppure all'esportazione, dipende dalla natura del prodotto.
McDonald's localizza le sue sussidiarie in Cina perche' intende vendere
hamburger che saranno consumati sul posto. Invece Intel e Texas Instruments
sono andati a fabbricare microprocessori in Malesia col fine di esportare
quasi il 100 per cento della loro produzione. Poiche' nei Pvs le imprese del
ricco Occidente possono permettersi di pagare i lavoratori, e soprattutto le
giovani lavoratrici, anche meno di 50 centesimi di dollaro l'ora, senza
oneri sociali aggiuntivi e con orari di 60 ore la settimana e oltre, accade
che i prezzi delle merci reimportate nei paesi dove le imprese hanno sede
giuridica siano o inverosimilmente bassi, si' da spingere fuori mercato i
relativi produttori occidentali, oppure permettano ricarichi, e quindi
profitti, pur essi inverosimili.
Battendo codeste vie le imprese americane ed europee, come si e' gia'
notato, hanno notevolmente contribuito a porre in concorrenza tra loro poco
piu' di mezzo miliardo di lavoratori aventi retribuzioni elevate e ampi
diritti, con un miliardo e mezzo di lavoratori aventi retribuzioni
irrisorie, anche per gli standard locali, e diritti minimi, se non
inesistenti. Per le sue dimensioni e la rapidita' con cui e' avvenuta - si
e' quadruplicata in poco piu' di vent'anni - la formazione d'una simile
massa globale di nuovi salariati e' un fenomeno senza precedenti nella
storia. Al confronto, la formazione del proletariato indotta in Europa e
negli Stati Uniti dalla rivoluzione industriale si estese per oltre un
secolo e coinvolse, nel corso dell'Ottocento e nei primi decenni del
Novecento, poco piu' di 100 milioni di persone. I loro discendenti diretti
sono oggi circa mezzo miliardo. Sommati ai nuovi venuti, l'insieme dei
lavoratori del mondo alle dipendenze di un'impresa arriva oggi a superare i
2 miliardi di persone. Non solo ad onta, bensi' a irrisione delle previsioni
relative sia alla fine del lavoro, sia all'avvento in massa di nuovi
lavoratori autonomi di diritto o di fatto, il XXI secolo si distingue per
essere l'epoca della massima diffusione del lavoratore salariato,
subordinato, totalmente dipendente, sottomesso all'impresa in ogni aspetto e
momento temporale della sua attivita'. Piu' precisamente, triplamente
alienato, che vuol dire estraneo e infine privo di qualsiasi potere: nei
confronti dei mezzi di produzione, perche' ne e' totalmente privo; dei fini
produttivi cui questi sono adibiti; delle condizioni in cui deve utilizzarli
agli ordini della proprieta'.
Ai nostri giorni le condizioni di vita e di lavoro conquistate da quello che
fu il proletariato europeo e americano sono sfidate dal proletariato
globale, che da esse si vede e si sente lontanissimo. Nella situazione che
e' venuta per tal via determinandosi, la flessibilita' del lavoro e'
soltanto una componente della pressione che sui redditi e sui diritti della
parte alta della scala viene esercitata dalle imprese globali, utilizzando
quale strumento i redditi e i diritti della parte bassa delle forze di
lavoro mondiali. Un geografo - cioe' uno studioso attento a quella
strutturazione spaziale dei processi economici che sovente sfugge a politici
ed economisti - ha cosi' riassunto la questione: "La pressione volta ad
abbassare i salari e le condizioni di lavoro nell'ultimo quarto di secolo
[in Usa come in altri paesi] e' ben piu' d'un riflesso della competitivita'
crescente, del declino americano, o di mercati del lavoro ingolfati [...] E'
in parte il risultato d'una strategia concertata del capitale, del governo e
della destra politica per tagliare i guadagni ottenuti dal movimento dei
lavoratori a meta' del XX secolo. Il mito del neoliberalismo dice che si
tratta d'una politica per liberare il capitale dai ceppi dell'interferenza
statale, in modo che possa competere piu' agilmente sui mercati globali. Il
fatto e' che si tratta invece d'una strategia per liberare il capitale dalle
restrizioni cui lo ha assoggettato il movimento dei lavoratori e la
regolazione sociale. Noi parliamo di continuo del vantaggio competitivo e
della concorrenza del lavoro a basso costo, ma chi ha il coraggio di parlare
di una politica del lavoro? Il termine 'lotta di classe' e' oggi considerato
un triste relitto d'un sistema comunista per sempre morto e sepolto"...

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 848 dell'11 giugno 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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