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Minime. 832
- Subject: Minime. 832
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 26 May 2009 01:05:31 +0200
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 832 del 26 maggio 2009 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Tutti i diritti umani per tutti gli esseri umani 2. Giobbe Santabarbara: Umoristi 3. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento 4. Jolanda Insana: Sono molte 5. Alcuni estratti da "La pensabilita' del mondo" di Sebastiano Maffettone (parte prima) 6. Vanna Vannuccini presenta alcune opere di scrittrici iraniane 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. TUTTI I DIRITTI UMANI PER TUTTI GLI ESSERI UMANI Occorre opporsi al regime dell'apartheid. Occorre opporsi alle deportazioni. Occorre opporsi ai campi di concentramento. Occorre opporsi allo squadrismo. Occorre opporsi al razzismo. Occorre opporsi alla guerra. Occorre opporsi a tutte le uccisioni. * La vita e' una cosa meravigliosa, se a tutti gli esseri umani si riconoscono tutti i diritti umani. La nonviolenza e' la via. 2. LE ULTIME COSE. GIOBBE SANTABARBARA: UMORISTI Mentre l'Italia partecipa alla guerra afgana ci vuole un bel senso dell'umorismo per pretendere di spacciare per "candidati pacifisti" personaggi che, tradendo il loro stesso passato, si sono prestati durante gli anni del governo Prodi-Bertinotti a votare e a propagandare la guerra. Corruptio optimi pessima. * Mentre l'Italia partecipa alla guerra afgana ci vuole un bel senso dell'umorismo per certi partiti e partitini che quando erano al governo si prostituirono alla guerra per un piatto di lenticchie e violarono la Costituzione votando all'unisono e in combutta con tutta la destra dell'eversione berlusconiana, a pretendere oggi di spacciarsi per "impegnati per la pace". * Ogni voto ai guerrafondai nostrani e' un aiuto ad assassinare gli afgani, e' un aiuto al terrorismo internazionale tanto dei potenti quanto dei miseri dai potenti sopraffatti e travolti e alienati all'estrema disperazione. Noi non votiamo per gli assassini. Noi siamo ancora dell'idea della Prima Internazionale. 3. APPELLI. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO [Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo il seguente appello] Anche con la prossima dichiarazione dei redditi sara' possibile sottoscrivere un versamento al Movimento Nonviolento (associazione di promozione sociale). Non si tratta di versare soldi in piu', ma solo di utilizzare diversamente soldi gia' destinati allo Stato. Destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e' facile: basta apporre la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il numero di codice fiscale dell'associazione. Il Codice Fiscale del Movimento Nonviolento da trascrivere e': 93100500235. Sono moltissime le associazioni cui e' possibile destinare il 5 per mille. Per molti di questi soggetti qualche centinaio di euro in piu' o in meno non fara' nessuna differenza, mentre per il Movimento Nonviolento ogni piccola quota sara' determinante perche' ci basiamo esclusivamente sul volontariato, la gratuita', le donazioni. I contributi raccolti verranno utilizzati a sostegno della attivita' del Movimento Nonviolento e in particolare per rendere operativa la "Casa per la Pace" di Ghilarza (Sardegna), un immobile di cui abbiamo accettato la generosa donazione per farlo diventare un centro di iniziative per la promozione della cultura della nonviolenza (seminari, convegni, campi estivi, eccetera). Vi proponiamo di sostenere il Movimento Nonviolento che da oltre quarant'anni, con coerenza, lavora per la crescita e la diffusione della nonviolenza. Grazie. Il Movimento Nonviolento * Post scriptum: se non fate la dichiarazione in proprio, ma vi avvalete del commercialista o di un Caf, consegnate il numero di Condice Fiscale e dite chiaramente che volete destinare il 5 per mille al Movimento Nonviolento. Nel 2007 le opzioni a favore del Movimento Nonviolento sono state 261 (corrispondenti a circa 8.500 euro, non ancora versati dall'Agenzia delle Entrate) con un piccolo incremento rispetto all'anno precedente. Un grazie a tutti quelli che hanno fatto questa scelta, e che la confermeranno. * Per contattare il Movimento Nonviolento: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: redazione at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org 4. POESIA E VERITA'. JOLANDA INSANA: SONO MOLTE [Da Jolanda Insana, Tutte le poesie (1977-2006), Garzanti, Milano 2007, p. 415] Sono molte le cose che la notte fanno lume ma ci vuole piu' chiaro lume perche' si possa vedere la notte. 5. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "LA PENSABILITA' DEL MONDO" DI SEBASTIANO MAFFETTONE (PARTE PRIMA) [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Sebastiano Maffettone, La pensabilita' del mondo. Filosofia e governanza globale, il Saggiatore, Milano 2006] Indice del volume Prefazione; 1. La pensabilita' del mondo: 1. La situazione storica; 2. Riconoscimento identitario e principi normativi; 3. Liberalismo critico e multiculturalismo; 4. Il problema e il metodo; 5. Liberta', eguaglianza, identita'; 6. Globalizzazione, governanza, etica pubblica; 7. Sovranita' e basic structure; II. La fragile trama della ragione pubblica: 1. "11 settembre"; 2. La perdita del senso; 3. La trama della ragione pubblica; 4. Violenza identitaria e pluralismo culturale: l'integrazione pluralistica; 5. Excursus 1: Cultura islamica e ragione pubblica; 6. Excursus 2: L'argomento filosofico-politico; 7. Tramonto della sovranita' e dispersione della ragione; III. Psiche e polis: 1. Identita' e identificazione; 2. L'identita' del soggetto; 3. L'identita' culturale; IV. Diritti umani e diversita' culturale: una visione filosofica: 1. Diritti umani e relativismo culturale; 2. Questione empirica e questione filosofica; 3. Il problema della diversita' culturale e l'integrazione pluralistica; V. Guerra giusta e intervento armato in Iraq: 1. I movimenti per la pace nel 2003 e l'idea di guerra giusta; 2. In equilibrio riflessivo; 3. La teoria classica della guerra giusta; 4. La teoria moderna e contemporanea; 5. Guerra giusta come guerra difensiva (in senso stretto o lato); 6. Giustificazione, legittimazione, legalita'; 7. Perche' la guerra in Iraq e' una guerra ingiusta; VI. Sviluppo sostenibile e filosofia politica: 1. Sviluppo sostenibile: alle origini di un'idea; 2. Una filosofia politica per lo sviluppo sostenibile; 3. Una visione compatibilista dello sviluppo sostenibile; 4. In prospettiva globale; 5. Lo sviluppo sostenibile come politica economica; VII. E' il capitalismo moralmente accettabile? 1. Capitalismo e morale; 2. Business ethics; 3. Benchmarking; 4. Giustificare o legittimare il capitalismo? 5. Etica e analisi degli stakeholder; 6. Il cambiamento delle preferenze; VIII. La rivoluzione genetica: 1. Premessa; 2. Gen-etica? 3. La responsabilita' della scienza; 4. Problemi per una giustificazione bioetica; 5. Positivo-negativo e somatico-germinale; 6. Addendum: il caso del referendum del 2005 in Italia; IX. In che modo il futuro ha bisogno di noi? 1. Evoluzione naturale e Intelligenza Artificiale; 2. Impossibilita' logica e problema morale; 3. A proposito di Unabomber; 4. La posizione dell'etica pubblica; Note; Indice analitico. * Da pagina 11 Prefazione "Pensabilita'" allude a cio' che puo' essere pensato. La pensabilita' del mondo, come recita il titolo di questo libro, ha come oggetto i modi e le categorie di pensare il mondo come si presenta oggi ai nostri occhi. Questo compito immodesto puo' essere svolto, a mio avviso, cercando di concepire mentalmente un ordine mondiale che non esiste ancora in re. E' come se dietro i movimenti spesso caotici di cose e persone si potesse intravedere una trama sottile e talvolta interrotta. La lanterna che dirada il buio da cui siamo circondati e', nel mio caso, l'esercizio della filosofia politica. Che da molti anni ormai applico ai problemi della convivenza globale. Lo faccio con una convinzione che aiuta ad affrontare le difficolta' dell'impresa: noi filosofi politici siamo abituati a partire dal centro di imputazione della responsabilita' politica. Questo era per Aristotele la polis e per Hobbes lo Stato. E, oggi, dovrebbe essere la comunita' globale. Anticipare nel pensiero le forme della comunita' globale in una struttura per ora in parte assente puo' costituire cosi' l'unico modo per venire a capo dei problemi che essa pone. Se il compito che il libro si pone e' immodesto, il modo in cui esso e' svolto lo e', invece, molto meno. E non dico solo nei risultati intellettuali, che lascio giudicare al lettore, ma anche nella maniera di affrontare i problemi teorici lungo il percorso del libro. Dal primo capitolo introduttivo in poi, ho cercato di farlo presentando una visione teorica che procede per accumulazioni successive. Questa visione e' caratterizzata da un metodo e da una tesi sostanziale. Il metodo e' basato sulla convinzione che liberta', eguaglianza e identita' siano nozioni chiave irriducibili l'una all'altra nello studio di una filosofia delle relazioni internazionali. L'etica pubblica globale e' la teoria normativa della politica che consente di trattare queste nozioni congiuntamente e in maniera non puramente eclettica, ma teoricamente orientata. La tesi sostanziale, all'interno dell'etica pubblica cosi' concepita, e' imperniata attorno all'idea di "integrazione pluralistica". L'integrazione pluralistica prevede una dialettica di locale e globale. Il quasi-ordine del mondo non esiste in un luogo centrale, e quindi non puo' essere esportato e tanto meno imposto, ma si afferma in modi diversi in luoghi differenti. Diritti umani, pace, sostenibilita' e giustizia sociale ne sono elementi fondamentali. Ma bisogna ricondurli nell'alveo di tradizioni e culture parzialmente incommensurabili. Nel gergo della filosofia politica contemporanea, sosterro' nelle pagine che seguono che qualcosa del genere avviene attraverso un connubio di legittimazione e giustificazione. La legittimazione proviene dal basso e dal locale. La giustificazione, invece, e' piu' tipicamente universale e normativa. Entrambe devono essere presenti in un processo politico ben riuscito. In questo modo, cerco anche di applicare strumenti tipici delle teorie politiche liberali a problemi che invece tipici non sono. Con l'ulteriore consapevolezza che il mutamento di oggetto teorico - non piu' la comunita' nazionale ma quella globale - imponga anche un mutamento teorico coerente. Queste tesi teoriche sono difese nei nove capitoli del libro. Il primo capitolo, che serve anche da introduzione a tutto il libro, presenta in maniera unitaria l'argomento che poi sara' svolto analiticamente nel corso del volume. Il secondo capitolo parte dall'11 settembre per proporre, in termini di ragione pubblica, una ricostruzione del dialogo tra culture drammaticamente interrottosi in quella data. Il concetto di ragione pubblica trae sicuramente ispirazione da Kant prima, e da Rawls poi, ma viene qui riformulato nell'ottica di un pluralismo culturale coerente con la teoria dell'integrazione pluralistica dal basso. Il secondo capitolo, strettamente collegato al primo, approfondisce la questione del metodo che, a mio avviso, e' indispensabile fare proprio per discutere la tesi principale. Tale metodo viene legato a un'etica pubblica liberale ed egualitarista, alla luce della nozione di identita'. Quest'ultima viene, oserei dire imprevedibilmente, trattata nel capitolo terzo in un'ottica ispirata a Freud e alla psicoanalisi. La ragione di questo detour, solo apparente, consiste, oltre che nell'interesse intrinseco della psicoanalisi per chi discute questi temi, nel fatto che Freud, come chi scrive, non e' essenzialista sull'identita', non la vede cioe' come un aspetto immutabile e definitivo dell'essere che in effetti siamo. Proprio per cio', Freud adopera prevalentemente "identificazione" piuttosto che "identita'", dove il primo termine lascia spazio maggiore alla possibilita' di essere diversi l'uno dall'altro, pur essendo dotati all'origine delle medesime caratteristiche ascrittive. Questo stesso capitolo finisce con il proporre una rilettura di Hegel, come del filosofo che piu' di ogni altro ha cercato di coniugare il dizionario dell'identita' in termini di una riconciliazione possibile tra ragione e storia. Il quarto capitolo cerca di discutere sistematicamente il tema dei diritti umani in una prospettiva filosofico-politica. Il che vuol dire riconoscere che in alcune aree i diritti umani sono diritto positivo e in altre no, ma al tempo stesso vuol dire che non ci si deve accontentare di questo livello iniziale. Concedere ampio spazio all'interpretazione basata su principi alla luce di un approccio etico-politico rappresenta il modo migliore per fare qualcosa del genere. Ma, cosi' facendo, insorge il problema del pluralismo culturale, che viene affrontato nella seconda parte del capitolo. A mio avviso, il multiculturalismo, rettamente inteso, non e' antindividualista e comunitarista. Presuppone al contrario il liberalismo e, in qualche modo, lo invera. Il quinto capitolo verte sul tema della guerra, centrale per ogni teoria delle relazioni internazionali. Questo capitolo parte dalla guerra in Iraq, per condannare moralmente l'intervento americano. Il suo intento e' pero' piu' generale, e consiste principalmente nell'applicare la teoria generale presentata nella prima parte del volume alla questione della guerra. Sesto e settimo capitolo trattano questioni di base della comunita' internazionale, a cominciare dallo statuto del capitalismo e dalla possibilita' di darne una valutazione etica coerente con la teoria della giustizia preferita. In particolare, il capitolo sesto tratta - in termini di giustizia sociale - il tema ormai divenuto essenziale della sostenibilita', che riguarda sia l'impresa singola sia il sistema economico nel suo complesso. Il capitolo settimo si interroga sulla moralita' del capitalismo a livello macro - partendo dai teoremi a livello micro - dell'etica degli affari. La tesi di fondo che vi si sostiene e' che il capitalismo non e' eticamente giustificabile in quest'ottica, anche se e' legittimabile alla luce di una prospettiva di business ethics. Gli ultimi due capitoli sono, a mio parere, solo apparentemente extravaganti rispetto al tema principale. L'ottavo e il nono affrontano infatti questioni inerenti ai diritti umani dell'ultima generazione, come qualcuno li chiama. Il capitolo ottavo, in particolare, ritorna sul leitmotiv legittimazione-giustificazione, per vedere come questo prenda senso, nel dominio della genetica, nella sua prospettiva etico-politica. Il capitolo nono discute, invece, i limiti e i problemi etici e sociali dell'Intelligenza Artificiale. * Da pagina 22 La pensabilita' del mondo "Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca D'Auge sali' in cima al torrione del suo castello per considerare la situazione storica. La trovo' poco chiara" (da I fiori blu di Raymond Queneau, traduzione italiana di Italo Calvino) La situazione storica Il mondo parzialmente globalizzato in cui viviamo e' un mondo complicato. Talvolta anche contraddittorio. Al suo interno, l'impiego di Internet convive con la pratica dell'infibulazione, la liberta' postcoloniale va a braccetto con il ritorno di usi primitivi che sembravano ormai dimenticati, la crescente presenza di donne emancipate non annulla le tradizioni basate sulla differenza di genere sessuale, la nuova ricchezza prodotta fa aumentare la forbice delle diseguaglianze, la scienza e la tecnica assicurano progresso ma creano anche incubi da "Grande Fratello", la telematica non vince l'ignoranza e l'analfabetismo, cosi' come il progresso della medicina e quello della genetica non evitano l'impatto mortifero di pestilenze neomedievali, il diffondersi della democrazia e del pacifismo non cancella le tragedie della guerra e del genocidio, la fine del ricatto atomico globale legato alla guerra fredda lascia spazio a uno scenario per nulla rassicurante, popolato di crudeli guerre locali ed etniche. Come a dire che la crescita economica, scientifica e democratica non si traduce sistematicamente in maggiore benessere spirituale e materiale dell'intero pianeta. Probabilmente siamo del tutto consapevoli di queste vicende, ma sicuramente facciamo fatica a renderne conto in maniera coerente. Si comprendono, cosi', le resistenze diffuse, emotive non meno che intellettuali, a concepire un ordine mondiale dotato di senso e quindi aperto all'analisi razionale. Queste resistenze animano a loro volta visioni cupe e spesso anche sciatte dell'ordine mondiale, presentato talora come un impero vagamente kafkiano in cui si aggirano personaggi postumani, magari somiglianti agli eroi di Blade Runner e ai cyberpunk che animano i racconti di William Gibson, o talaltra come una sorta di informe ectoplasma postmoderno in cui il senso dell'essere rappresenta poco piu' che una fastidiosa nostalgia da liquidare alla luce di una ragione cinica. Misticismo in salse varie, autoritarismo, di destra o di sinistra non importa, estetismo esotizzante, scientismo acritico, rivoluzionarismo da weekend sono i frutti maturi di questa pigrizia concettuale che si avvantaggia senza dubbio della difficolta' del compito. Questo libro intende presentare una visione profondamente diversa dell'ordine mondiale, una visione al cui interno l'analisi razionale non si arrende alla complessita' dei problemi. Questo e' il senso de La pensabilita' del mondo. Nelle pagine che seguono, prendo le mosse dal paradigma dell'etica pubblica - che negli anni ho inaugurato e difeso - per formulare una filosofia politica delle relazioni internazionali, il cui scopo diretto e' evidentemente teorico, ma che non vuole essere per questo estranea a conseguenze pratiche. La tesi centrale, nell'ambito di questa teoria, sostiene che esiste un ordine mondiale, anche se un ordine debole e parziale, che possiamo comprendere, e sulla cui base potremmo agire sicuramente meglio di quanto non facciamo di solito. Dal punto di vista del metodo, come vedremo nella seconda parte di questo capitolo, la tesi sostanziale de La pensabilita' del mondo poggia sulla non-riducibilita' reciproca di concetti fondamentali dell'analisi della governanza globale, quali liberta', eguaglianza e identita'. L'illusione che, partendo da uno solo di questi concetti, si possa spiegare l'insieme e' destinata, a mio avviso, al fallimento. Piuttosto, essi vanno coerentemente reinterpretati all'interno di un paradigma unitario di etica delle relazioni internazionali. Questo paradigma implica, a sua volta, una rilettura originale di alcune nozioni di base della teoria delle relazioni internazionali come governanza, sovranita', globalizzazione e la stessa etica. Il fine intellettuale e pratico di questa teoria etica delle relazioni internazionali - di cui si parla nella prima parte di questo capitolo e che viene perseguito complessivamente nel libro - consiste nel collegare l'ingiustizia socioeconomica al deficit liberaldemocratico, nello scenario globale, in maniera diversa - e ovviamente, a mio avviso, piu' utile - dall'usuale. Coniugare diritti e opportunita', equita' in materia di beni primari e liberta' pubblica rappresenta, infatti, l'obiettivo abituale delle teorie della giustizia sociale, cosi' come si sono sviluppate negli ultimi trent'anni sulla scia dell'opera di John Rawls. Non c'e' dubbio che questo libro continui a muoversi nell'orizzonte cosi' tracciato. Tuttavia, io ritengo che, quando ci si sposta dall'ambito dello Stato-nazione a quello della giustizia globale, una teoria normativa della giustizia debba fare i conti con questioni parzialmente diverse e che, percio' stesso, debba assumere forma e struttura differenti. L'ordine mondiale parziale e debole, di cui si e' detto, non si costituisce attraverso un processo costituzionale standard, e non procede dall'alto al basso e dal centro alla periferia. Si costituisce piuttosto attraverso una serie complessa di aggregazioni e assimilazioni di soggetti culturalmente e strutturalmente diversi tra loro e da quelli che popolano la tradizione della filosofia politica classica. La critica dell'ingiustizia, e cioe' il cuore del programma di ricerca basato sull'etica pubblica, poggia percio' - se abbiamo in mente lo scenario globale - sull'estensione graduale di principi etici interculturali e non sull'imposizione centralistica di un pacchetto eurocentrico di diritti e opportunita' a chi non li condivide per ragioni di tradizione e civilta'. Da questo punto di vista, al centro dell'etica pubblica rimane il liberalismo filosofico nella mia peculiare versione. Ma questo liberalismo va, a mio avviso, interpretato in maniera sui generis. Il liberalismo filosofico crea - in questa prospettiva - per tutti noi obblighi morali anche al di fuori della comunita' politica nazionale. E, proprio per cio', e' possibile estenderne il paradigma al tema della giustizia globale. Ma al tempo stesso il tema della giustizia globale ci costringe a mutare la struttura del liberalismo filosofico. In questo modo, il nucleo normativo di una teoria della giustizia viene modificato oltre quanto lo consentirebbe l'adozione di correttivi standard della dottrina liberaldemocratica, come quelli del "liberalismo politico" (Rawls) o della "democrazia deliberativa" (Habermas), in direzione di un piu' profondo senso del pluralismo basato sull'identita' culturale. Questo pluralismo e' convintamente multiculturale, partendo dall'idea che principi di giustizia globale costituiscono una sorta di area di convergenza di culture e identita' differenti nella prospettiva del valore politico. Che una convinzione del genere risponda a esigenze di natura pratica e politica rappresenta - a mio parere - un fatto evidente. Nella misura in cui non siamo tanto interessati all'espansione di un impero, sia pure democratico, quanto all'affermarsi di una societa' globale comprensibile e quindi governabile, e' chiaro che dobbiamo prendere sul serio i percorsi alternativi in cui differenti culture e civilta' costituiscono la loro visione della giustizia. Che cio' non sia empiricamente facile, non dovrebbe poi creare grandi problemi, essenzialmente per la mancanza di alternative praticabili: all'ascolto degli altri si puo' sostituire solo l'imposizione agli altri. Ma quest'ultima e', direi per definizione, proprio cio' che non vogliamo, perlomeno se teniamo fermo il quadro liberaldemocratico di sfondo. * Riconoscimento identitario e principi normativi Il punto non e' dunque, o almeno non e' principalmente, pratico. E' piuttosto teorico. Il delicato equilibrio tra ragione normativa e tradizioni culturali rischia di spezzarsi ogniqualvolta le tradizioni culturali medesime vanno in direzione diversa, se non opposta, ai principi teorico-normativi. Gli esempi possibili di questa ipotetica rottura sono praticamente infiniti, e sono di solito esempi in cui per ragioni svariate non ce la sentiamo di seguire fino in fondo gli esiti di tradizioni culturali diverse dalla nostra, perche' tali esiti ci sembrano, a torto o a ragione, orribili e comunque infrequentabili. Vorremmo, in altre parole, avere botti piene e mogli ubriache, che poi, nel caso in questione, significa condividere lo charme di un multiculturalismo politically correct senza soffrirne gli ovvi limiti, per cui - pur essendo in linea di principio pluralisti convinti - non ce la facciamo poi di fatto a tollerare il trattamento abusivo delle donne da parte di qualche musulmano, la convivenza di efficienza di tipo occidentale con i resti di "dispotismo orientale" in Asia, o la sostituzione, nei programmi di letteratura, di Dante o Shakespeare con i poeti dell'Africa Nera, che pure talvolta amiamo (anche se, naturalmente, non bisogna far coincidere questo tipo di polemica con una distinzione tra civilta'. La tolleranza, ci ha detto tra gli altri Amartya Sen, ha antiche origini asiatiche e la pena di morte si pratica anche negli Stati Uniti). Simili conflitti tra generosi principi, da un lato, e atteggiamenti concreti prudenti, dall'altro, fanno parte dell'esistenza vissuta e capitano - suppongo - a molti. Ma per un filosofo rappresentano una sfida peculiare, quasi un test irrinunciabile della serieta' della sua impresa teorica. Il modo in cui questo libro raccoglie tale sfida consiste nel rivedere sostanzialmente la teoria politica normativa, che dall'ambito dello Stato si vuole estendere al sistema-mondo. La complessita' dei fenomeni, che sono richiamati di solito sotto l'etichetta piu' o meno felice di "globalizzazione", richiede necessariamente una revisione non di facciata dell'impianto filosofico-politico che siamo abituati a maneggiare. Questa revisione avviene, nel corso del libro, attraverso una congiunzione strutturale tra due apparati teorici originariamente assai diversi tra loro, e per alcuni - di sicuro - apparentemente incompatibili. Le categorie etico-politiche squisitamente normative di liberta' ed eguaglianza - quelle che caratterizzano le contemporanee teorie della giustizia - trovano un limite, nel mio modello teorico, nei processi di identificazione che costituiscono l'essenza delle costruzioni periferiche di identita'. A questi processi va riconosciuta un'autenticita' e una verita' che la struttura delle tradizionali teorie della giustizia non e' pronta a recepire. Alla luce della categoria dell'identita', solo il riconoscimento attuale (nel senso di wirklich) dei soggetti collettivi diversi, che insieme costituiscono il sistema-mondo, legittima un forma storica di comunita'. Cio', pero', non equivale a proclamare la validita' indifferente di tutti i processi di identificazione locale. Questi possono, infatti, aspirare a una certa legittimazione, qualora si svolgano secondo itinerari procedurali ragionevoli e coerenti. Ma non per questo possono essere considerati giustificabili. La validita' teorica, e quindi la giustificabilita' filosofica delle diverse forme di riconoscimento identitario che si presentano sullo scenario mondiale, dipende, infatti, a sua volta dalla capacita' dei processi di identificazione di essere compatibili con gli imperativi normativi di liberta' ed eguaglianza. * Da pagina 28 Il rilievo dell'identita' culturale - d'altra parte - e' abbastanza evidente quando si pensa alle vicende piu' significative della recente politica internazionale. Dal Ruanda al Medio Oriente e alla ex Jugoslavia, infatti, il deflagrare di conflitti tragici e' apparso legato come non mai alle vicende profonde del riconoscimento identitario. Il Rapporto delle Nazioni Unite del 2004 sottolinea questo fatto in maniera convincente. Da questo punto di vista - come ha sottolineato qualche anno fa l'"Economist" in un ampio reportage dedicato alla geopolitica - il credere che le guerre, e piu' in generale la competizione internazionale, siano basate su divergenze economico-politiche di natura sistemica e' un errore che diviene evidente non appena si ragioni nell'ambito di una prospettiva storica un po' piu' vasta. I conflitti economico-sociali di un sistema politico caratterizzano, infatti, solo una vicenda peculiare del "secolo breve" in una prospettiva eurocentrica. Il Novecento europeo e nordatlantico ci ha forzato a credere che questa vicenda costituisca la normalita' dei rapporti internazionali, ma chiaramente cosi' non e'. Prima e dopo il cuore del Novecento, e sempre fuori dai confini del primo mondo, la guerra e' nata per ragioni diverse da queste, spesso ragioni religiose, etniche e culturali che e' facile far rientrare nell'ambito dell'identita'. * Liberalismo critico e multiculturalismo Lo sfondo teorico-politico de La pensabilita' del mondo poggia saldamente su un retroterra democratico in un'interpretazione "liberal" (cioe' piu' o meno socialdemocratica). Naturale quindi chiedersi in che senso questo orizzonte liberaldemocratico cambia allorche' ci si pone dal punto di vista della giustizia globale. In linea di massima, il mutamento del paradigma liberaldemocratico e' duplice. Da un lato riguarda, infatti, la struttura stessa della teoria politica liberaldemocratica, e dall'altro il rapporto con lo sfondo delle teorie delle relazioni internazionali. Nella prima prospettiva, si e' gia' visto come la questione della giustizia globale forza uno spostamento di enfasi teorica e metodologica dall'individualismo normativo in direzione di una visione istituzionalistica, sia pure sui generis. Nel mio caso, il perno fondazionale, attorno a cui ruota la versione preferita della liberaldemocrazia, e' costituito dal cosiddetto "liberalismo critico", una tesi liberale, in cui il liberalismo funge da sfondo teorico e la democrazia da strumento pratico per una coerente realizzazione di un regime liberaldemocratico. In questo ambito, il liberalismo critico presume una differenza sostanziale tra scelta e preferenza, nel senso che le scelte effettive degli attori politici non testimoniano, una volta e per tutte, le loro autentiche preferenze. Per ragioni complesse, il menu delle scelte reali, entro cui avviene la selezione effettiva di un comportamento politicamente significativo, puo' essere ridotto oltre misura, e quindi la semplice registrazione della scelta effettuata non equivale a preferenza plausibile. In questo modo, il liberalismo critico accetta i meccanismi di scelta collettiva, come il mercato e il voto, che da un punto di vista empirico realizzano la priorita' della scelta tipicamente liberale, ma per cosi' dire lo fa con riserva. Esiste uno spazio delle ragioni, entro il quale e' possibile criticare le scelte effettive in nome di quelle idealizzate. Questa possibilita' apre alla distinzione tra i concetti di "legittimazione", che io leggo in chiave strettamente procedurale, e "giustificazione", che invece viene vista in termini etico-sostanziali. Il liberalismo critico non si scandalizza a interpretare alcuni fenomeni come legittimati ma non giustificati, o viceversa. Cio' avviene ogniqualvolta la correttezza delle procedure non corrisponde alla ragionevolezza morale dell'esito decisionale. Quest'opzione presuppone una forte ipotesi normativa in senso filosofico, e cioe' la possibilita' che una critica degli equilibri realmente esistenti in nome di principi etico-politici, derivati dalla teoria, sia fruttuosa. All'obiezione mossa da chi vede proprio in questo spirito normativo un pericolo autoritaristico, insito nella teoria, il liberalismo critico risponde con quello che io chiamo "principio di separazione". Secondo il principio di separazione, un'ipotesi teorico-politica ha come obiettivo non direttamente la prassi ma piu' semplicemente l'arricchimento del menu di scelta di ognuno di noi. In altre parole, il principio di separazione fa si' che la migliore tesi normativa arricchisca l'intelligenza critica senza sacrificare la liberta' di scelta. Spostato sullo scenario mondiale, il liberalismo critico deve affrontare il problema del multiculturalismo, cioe' della difficolta' nel far valere gli stessi principi fondamentali attraverso le culture. Indipendentemente da come si interpreti il rapporto tra pluralismo, tipicamente liberale, e multiculturalismo, non c'e' dubbio che esporre una teoria etico-politica a un panorama multiculturale implichi una riduzione delle pretese normative della teoria stessa. Cio' puo' essere fatto tramite una riduzione del lato prettamente etico della teoria a favore di un'enfasi concessa agli aspetti procedurali del modello. Quest'ultima e' all'incirca la soluzione prescelta da Juergen Habermas. Oppure, puo' essere fatto tramite l'elaborazione di un liberalismo piu' politico che morale, in cui la pratica del dissidio intellettuale sia normalizzata alla luce di un interesse collettivo permanente dei soggetti a rimanere entro i limiti di un conflitto ragionevole, che consenta il perdurare di un duraturo "overlapping consensus". Questo e' il nocciolo della tesi sostenuta da John Rawls. La tesi, da me sostenuta, dell'integrazione pluralistica dal basso critica entrambe queste soluzioni, giudicate insufficienti rispetto alla complessita' del compito. E, come si e' gia' detto, propone una strategia normativa piu' articolata, basata sostanzialmente su una dialettica complessa centro-periferia. (Parte prima - segue) 6. LIBRI. VANNA VANNUCCINI PRESENTA ALCUNE OPERE DI SCRITTRICI IRANIANE [Dal quotidiano "La Repubblica" del 25 maggio 2009 col titolo "Se le scrittrici sfidano i mullah" e il sommario "Dalla Nafisi alla Djavann, le donne raccontano soprusi e violenze. Iran, quei romanzi contro il silenzio. Il fenomeno e' cominciato con Leggere Lolita a Teheran. Ora esce La muta: l'autrice e' esule in Francia. Il passaggio dalla poesia alla prosa e' il segno di una emancipazione. Il libro e' il diario di una quindicenne vittima di una societa' chiusa e repressiva"] "Tra pochi minuti m'impiccano, aiutatemi!". E' difficile non ricordare le ultime parole di Delara Darabi leggendo il libro di Chahrdortt Djavann, La muta, il diario della quindicenne Fatemeh, condannata a morte per essersi ribellata agli infiniti soprusi di un vecchio mullah e avergli infilato un coltello un gola mentre lui le infilava il suo sesso nella vagina. Una storia di brutalita', disperazione e solitudine quella di Fatemeh e di una sua giovane zia muta, in un povero villaggio dove il mullah e' onnipotente. Una impiccagione reale e' invece quella di Delara Darabi, 23 anni, mandata a morte dal tribunale di Rasht dopo cinque anni di carcere per un omicidio di cui si era sempre proclamata innocente, e in spregio della norma internazionale che vieta la condanna a morte per delitti commessi da minorenni. Notizie di questo tipo, censurate dai giornali nazionali, emergono qua e la' nei giornali locali iraniani e vengono rilanciate dai blog. Donne che uccidono a sangue freddo un marito dopo aver subito abusi senza fine da lui e dalla suocera. Donne che mutilano il parente che sta per stuprarle, oppure che vengono condannate per adulterio dopo essere state stuprate. La legge e' contro di loro. Da sempre, ma soprattutto da quando con la rivoluzione islamica la legge per la protezione della famiglia fu abolita e si torno' alla sharia, che riduceva l'eta' per il matrimonio a nove anni, limitava il diritto al divorzio per le donne, toglieva loro la custodia dei figli e imponeva a tutte il velo. Ma l'Iran e' un paese di paradossi e uno di questi e' stata l'esplosione di donne scrittrici dopo la rivoluzione islamica. Ad essa le donne parteciparono, lottando per la giustizia e la liberta' senza neanche immaginare che il paese sarebbe precipitato poco dopo nel bigottismo e nella teocrazia, e questa lotta dette loro fiducia in se stesse. Dice Mehrangiz Kar, con Shirin Ebadi una delle piu' importanti giuriste iraniane: "Con tutti i sacrifici che avevano fatto durante la rivoluzione, ormai sapevano quanto i governanti fossero in debito verso di loro, e sapevano che la parita' dei diritti era tra cio' che era loro dovuto. La richiesta di parita' non viene piu' da un piccolo gruppo ma da tutte le donne, e il regime islamico sa di non poterla eludere senza rischiare una brutale separazione tra Stato e religione". "Per sopravvivere dobbiamo distruggere il silenzio", scrive Simin Behbahani, la piu' famosa delle scrittrici iraniane (A cup of sin: selected poems, Syracuse University Press). Anche questo apparentemente un paradosso: nei regimi repressivi sopravvive di solito chi nasconde il proprio pensiero. Prima della rivoluzione, sposata a un uomo non amato, Simin Behbahani aveva scritto soprattutto poesie d'amore nella forma classica, anche se modernizzata, del ghazal. Ma dopo, come molte altre poetesse, scelse la prosa, per parlare delle esperienze traumatiche della storia recente. Il passaggio dalla lirica alla prosa e' anche la storia di una emancipazione. La poesia era stata per secoli il genere letterario privilegiato perche' con le sue metafore, i suoi simboli, era stata anche un vero e proprio codice di resistenza contro i potenti, Lessan al Gheib, il lessico del segreto come dicono gli iraniani. Ma ora le donne decidevano di uscire allo scoperto. Di scrivere sulla guerra, gli arresti, le partenze di coloro che erano stati spinti all'esilio, mentre gli uomini spesso non avevano altrettanto coraggio di affrontare la realta'. La sessualita' e' ancora una linea rossa che non puo' essere superata, ma anche qui molte scrittrici hanno provato a uscire dal labirinto obbligato della purezza. Lo ha fatto soprattutto chi vive in esilio come Chahdortt Djavann o Azar Nafisi, autrice del bestseller Leggere Lolita a Teheran (Adelphi). Le scrittrici rimaste in Iran - Simin Daneshvar (i cui lavori piu' noti sono un romanzo, Siavushun, su una famiglia iraniana travolta dalla storia e Il tramonto di Jalal in ricordo del marito, noto critico letterario), Shahrnush Parsipur, Forugh Farrokhzad (che provoco' uno scandalo per aver lasciato figlio e marito per un grande amore, di cui parla nella bellissima raccolta di poesie Prigioniera), e Fereshteh Sari, restano un modello di coscienza di se' per le piu' giovani: "Adesso sono/ in posizione da poter/ spaccare il sole come fosse un melograno/ e con il succo farne inchiostro per la mia penna...", (Fereshteh Sari, L'attimo, citato da Figlie di Shahrazad, di Anna Vanzan, Bruno Mondadori, pp. 216, euro 18). In un blog ho letto di recente: "I miei guardiani sono uomini, sorvegliano le loro sostanze, i loro beni, il loro onore. Chi sono io? Sono l'onore di mio fratello, mio padre, marito, zio, perfino del figlio dei vicini. Nemmeno dopo morta mi onoreranno, al posto della mia fotografia metteranno una rosa, perche' la vista di una donna puo' turbare un uomo...". 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 832 del 26 maggio 2009 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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