Minime. 828



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 828 del 22 maggio 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Cinque considerazioni sulle elezioni europee
2. Maria G. Di Rienzo: Un occhio solo
3. Una lettera aperta al Presidente della Repubblica
4. Guglielmo Ragozzino: F-35
5. "Sbilanciamoci" e "Controllarmi": Una lettera al governo
6. Per la solidarieta' con la popolazione colpita dal terremoto
7. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento
8. Michele Ranchetti: Sul riserbo di Franco Fortini
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. CINQUE CONSIDERAZIONI SULLE ELEZIONI EUROPEE

La prima considerazione: si puo' e si deve votare contro l'eversione
dall'alto berlusconiana.
Il voto italiano alle elezioni europee puo' indicare una massiva complicita'
con l'azione golpista del governo italiano, o puo' segnalare la presenza di
una resistenza democratica fedele alla Costituzione della Repubblica
Italiana. Un'ampia vittoria di Berlusconi favoreggerebbe un ulteriore passo
avanti del golpe della P2, comporterebbe un'ulteriore procedere
dell'aggressione alla democrazia da parte del governo dei fascisti, dei
razzisti e dei mafiosi.
Votare quindi occorre contro l'eversione dall'alto berlusconiana.
*
La seconda considerazione: si puo' e si deve votare contro il razzismo.
Si puo' e si deve respingere il tentativo del governo golpista di introdurre
in Italia il regime dell'apartheid; si puo' e si deve far cessare la pratica
nazista delle deportazioni; si puo' e si deve ottenere l'abolizione dei
campi di concentramento; si puo' e si deve impedire la legittimazione dello
squadrismo fascista.
Votare quindi occorre contro il razzismo.
*
La terza considerazione: si puo' e si deve votare contro la guerra.
E in primo luogo contro la partecipazione italiana alla guerra afgana.
Contro il riarmo e il militarismo. Contro tutti i poteri omicidi. Per il
diritto di ogni persona a non essere uccisa.
Votare quindi occorre contro la guerra.
*
La quarta considerazione: si puo' e si deve votare contro la devastazione
della biosfera.
Che e' l'unica casa comune di tutte le persone passate, viventi e venture.
Votare quindi occorre contro la devastazione della biosfera.
*
La quinta considerazione, che tutte le precedenti riassume: si puo' e si
deve votare contro il maschilismo e il patriarcato.
Votando le candidate donne impegnate per i diritti umani delle donne; e
quindi contro il fascismo e i poteri criminali, contro il razzismo e contro
la guerra, per la difesa della biosfera e della civilta' umana.
Votare quindi occorre contro il maschilismo e il patriarcato.
*
Un voto utile e responsabile, nitido e intransigente, coerente con la scelta
della nonviolenza.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

2. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: UN OCCHIO SOLO
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo intervento]

Le donne sono al centro di tutti i progetti fondamentalisti. I corpi delle
donne, la loro sessualita', i ruoli e le relazioni di genere sono i
capisaldi del controllo sociale: una volta che lo si sia ottenuto in questi
campi muoversi verso altri soggetti, gruppi, o istanze, e' molto piu'
facile.
E' tipico il modo in cui le agende fondamentaliste definiscono se stesse
tramite le donne, costruendo una "donna ideale" che incorpora non solo una
nozione di femminilita', ma elementi specifici rispetto a cultura, nazione e
religione, elementi che servono a distinguere le "nostre" donne dalle donne
degli "altri". Ovviamente non tutte le donne possono conformarsi allo
stereotipo, nonostante le pressioni esercitate in modo formale ed informale
su di esse, ma la cosa ha importanza relativa, perche' la verita' e' che lo
stereotipo serve a costruire l'identita' del gruppo.
Tramite la donna ideale, si traccia una linea netta tra i concetti di
pubblico e privato, stabilendo momenti/soggetti legittimi e rispettabili per
la partecipazione pubblica delle donne e momenti/soggetti non leciti.
Spesso, per esempio, le donne possono divulgare e propagandare le politiche
fondamentaliste, ma non discuterle o trasformarle. Possono occuparsi delle
cosiddette "questioni femminili" definite di volta in volta dagli uomini, ma
non di altre. Possono essere istruite se questo contribuisce all'affermarsi
della causa, e tolte dalle scuole quando cio' non e' piu' necessario.
Percio', l'oppressione sperimentata dalle donne nei progetti fondamentalisti
non e' uniforme: alcune "donne ideali" rivestiranno cariche pubbliche, o
sara' loro conferito lo status di "predicatrici" o di "guerriere
rivoluzionarie" o di "figlie/madri predilette della nazione" e cosi' via,
ottenendo il duplice scopo di indicare un modello e di prendere per i
fondelli la comunita' internazionale.
La costruzione del modello ideale crea simultaneamente l'immagine di cio'
che ideale non e', e cioe' delle devianti "altre" donne, le donne cattive e
pericolose verso cui violenza, discriminazione e stigmatizzazione diventano
legittime. I crimini di massa contro le donne sono un'estensione logica di
questo pensiero, sia all'interno della comunita' data sia all'esterno: il
massacro e gli stupri delle donne musulmane a Gujarat nel 2002 ed il
massacro e gli stupri delle indo-fijane dopo il colpo di stato nelle Fiji
del 2000, sono la concretizzazione dell'ideologia che vede le donne come
custodi dell'onore del gruppo. I loro corpi e la loro sessualita' sono i
campi di battaglia in cui denigrare ed umiliare il gruppo rivale.
Cio' che i fondamentalismi cercano di rendere invisibile all'interno dei
gruppi sono le gerarchie basate su classe/casta sociale, sesso, eta',
disabilita', di modo che la collettivita' venga rappresentata da una singola
voce. Questo processo naturalmente non ha niente a che fare con il rispetto
delle "diverse culture", essendo il suo fine di spegnere tutte le voci
tranne una per utilizzare la comunita' come attrezzo politico. La
manipolazione di sentimenti religiosi o nazionalisti, in contesti di
marginalizzazione o poverta', fa miracoli nel guadagnare sostegno all'agenda
fondamentalista, cosi' come l'offrire carita' su larga scala: un'attivita'
che non mette in questione le ineguaglianze strutturali ne' avvia il
cambiamento sociale necessario a dissolverle. Id est: puoi avere la pagnotta
in grazioso dono, ma non mettere in discussione le scelte politiche ed
economiche che hanno creato la tua poverta'. Il biasimo e la rabbia vengono
diretti verso bersagli piu' facilmente raggiungibili dei leader
politici/religiosi, e le donne servono in modo egregio alla bisogna.
Molte organizzazioni fondamentaliste dichiarano che il loro lavoro e' solo
di promuovere insegnamenti religiosi. Questo mito fornisce loro l'immagine
di una forza sociale legittima, e nient'affatto coinvolta con istanze di
potere. Suggerisce anche che e' semplicemente naturale per i "buoni" seguaci
di una religione seguire i precetti fondamentalisti, e che chi non lo fa non
e' un "vero credente". Piu' del 40% delle attiviste per i diritti umani
delle donne sono state classificate come atee o non credenti durante il loro
lavoro, e circa il 60% ha testimoniato aggressioni verbali o fisiche verso
persone che condividevano la stessa religione degli aggressori
fondamentalisti, ma con opinione politica differente. Sono cosi' estranei
alla politica, i progetti fondamentalisti, che i loro propagandisti si sono
presentati alle elezioni locali e nazionali praticamente in tutto il mondo,
sia attraverso partiti la cui base religiosa e' esplicita, sia esercitando
una pesante influenza interna su partiti formalmente laici. Il primo e' il
caso ad esempio della Fratellanza musulmana, di Jamaat-i-Islami, di Agudat
Israel e Buhay (cattolici filippini), nell'altro si puo' osservare senza
grossi sforzi l'influenza che la "destra cristiana" ha sul Partito
repubblicano negli Usa, e sara' utile sapere che numerose figure chiave del
partito indiano Janata sono anche membri dell'organizzazione fondamentalista
hindu Rashtriya Swayamsevak Sangh, che alcuni ministri del Nicaragua
post-sandinista fanno riferimento piu' all'Opus Dei che alle leggi del loro
paese, e che il partito Jathika Hela Urumaya dello Sri Lanka promuove la
supremazia buddista. Il conquistare spazi pubblici ha per i progetti
fondamentalisti lo scopo di dominare l'ambito politico locale e nazionale
per cancellare ogni visione che non sia la propria. La chiesa serba
ortodossa ha lavorato con successo alla fine della separazione fra chiesa e
stato: oggi non e' soggetta a nessuna delle restrizioni e a nessuno dei
controlli che invece interessano altre organizzazioni sociali non
governative.
"Operano attraverso la classe politica. Se non lo facessero, non sarebbero
cosi' efficaci. Le donne nelle loro vite quotidiane non fanno sempre cio'
che la gerarchia religiosa chiede loro, ad esempio usano contraccettivi
anche se la religione lo proibisce, e restano cattoliche, protestanti, o
quant'altro. Il problema comincia quando queste direttive religiose
diventano politiche pubbliche" (Ana Maria Pizarro, Nicaragua).
Giusto. E' di questi giorni (maggio 2009) la notizia che lo sceicco saudita
Muhammad al-Habadan ha chiesto un provvedimento in materia di salute
pubblica: sarebbe bene, ha detto tramite la tv satellitare al-Majd, che alle
donne fosse permesso di mostrare un solo occhio. Il niqab, cioe', che ora
copre interamente il corpo delle donne ad eccezione degli occhi, dovrebbe
essere modificato. Avere tutti e due gli occhi liberi, ha spiegato il
signore, incoraggia le donne a truccarli a scopo seduttivo. Lo sceicco e'
considerato un esperto in materia religiosa. Se ha un canale diretto con la
divinita', oltre all'accesso sconsiderato a quelli satellitari, lo pregherei
di chiedere a Dio di prendere in considerazione l'idea di un secondo diluvio
che spazzi via tutte le donne e le bambine (non pretendo di salvarmi).
Staremo meglio in Sua compagnia, credo, che in quella degli uomini che ci ha
dato come eguali compagni. E credo che potremo guardarlo con ambo gli occhi
senza timore.

3. INIZIATIVE. UNA LETTERA APERTA AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Lettera aperta al Presidente della Repubblica affinche' non ratifichi le
incostituzionali e criminali misure razziste contenute nel cosiddetto "ddl
sicurezza"
Signor Presidente della Repubblica,
qualora dopo la Camera dei Deputati anche il Senato della Repubblica dovesse
approvare le misure razziste ed incostituzionali contenute nel cosiddetto
"ddl sicurezza", con la presente la preghiamo di non ratificare lo
scellerato tentativo di introdurre nel nostro paese il regime dell'apartheid
e di legalizzare lo squadrismo.
La preghiamo di voler adempiere rigorosamente al suo ruolo istituzionale, ed
in tal veste respingere il protervo e barbaro tentativo governativo di
violare la legalita' costituzionale per imporre norme razziste, criminali e
criminogene.
Sia difensore e garante della Costituzione della Repubblica Italiana, e
quindi della legalita' democratica, della civilta' giuridica, dei diritti
umani.
Respinga il razzismo, crimine contro l'umanita'.
Distinti saluti,
Il "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo
Viterbo, 15 maggio 2009

4. RIARMO: GUGLIELMO RAGOZZINO: F-35
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 20 maggio 2009 riprendiamo pressoche'
integralmente il seguente articolo dal titolo "F35, un aereo da perdere" e
il sommario "Sbilanciamoci e Controllarmi: l'Italia acquistera' dalla
Lockeed 131 cacciabombardieri per 13 miliardi"]

Se in uno dei prossimi anni sentiremo un rumore fortissimo, senza vedere
niente, si sara' trattato probabilmente del passaggio in cielo di uno dei
primi 131 cacciabombardieri Joint Strike Fighter, Jsf, supersonici e
invisibili (classe Stealth) acquistati felicemente dal ministero della
difesa italiano a un prezzo che potrebbe raggiungere perfino 150 milioni di
euro. 150 milioni e' il prezzo non di tutti gli invisibili (e assordanti)
velivoli insieme, ma di uno soltanto, se corredato di tutti gli optional
previsti in catalogo e di altri, fuori catalogo e ancora misteriosissimi, ma
voluti fortemente da generali e intermediari di ogni risma e grado. Stiamo
in effetti comprando, noi italiani, 131 cacciabombardieri che costeranno non
meno di 13 miliardi secondo la cautissima valutazione emersa dalla
conferenza stampa di Massimo Paolicelli di Controllarmi e Giulio Marcon di
Sbilanciamoci, che si e' svolta alla Fondazione Basso, nel bel mezzo tra
Camera e Senato.
E' interessante la location. Camera e Senato hanno infatti molto
sbrigativamente dato nelle commissioni apposite il via libera al governo per
i prossimi passi. La fragile opposizione del Pd non ha votato. Avrebbe
voluto discuterne con imprese e sindacati, senza dire di no. In effetti la
storia del Jsf dimostra che il parlamento italiano e' piuttosto compatto,
quando si tratta di legarsi mani e piedi al Pentagono e alla Lockheed. Il
primo progetto e' del ministro della difesa di Romano Prodi, Beniamino
Andreatta, nel 1996; il primo impegno, memorandum of agreement, e' del
governo D'Alema, l'antivigilia di natale del 1998. E D'Alema aveva in quegli
anni una certa propensione per i bombardieri... Il progetto e' poi
confermato due volte, nel 2002 e 2004 dal governo Berlusconi e infine
ripreso in mano dal successivo governo Prodi nel gennaio del 2007 con uno
stanziamento di 903 milioni di dollari.
Senza sventolare l'articolo 11 della nostra Costituzione ("l'Italia ripudia
la guerra"), e' paradossale che anche il ministero italiano detto della
Difesa, comperi mortali aerei d'attacco. Ma del resto anche il Pentagono si
chiama Dipartimento della difesa. Il contratto che verra' completato,
definitivamente, a fine anno, impegna l'Italia in armi fino al 2026. Si
tratta come sempre in questi casi di un progetto costosissimo ma dai costi
ambigui e crescenti, resi anche piu' oscuri per il segreto imperante.
L'eventuale nemico contro il quale ci si arma tanto pesantemente, deve
essere tenuto all'oscuro di ogni diavoleria militare che quindi nessuno,
alleato compreso, deve conoscere. La Lockheed si e' impegnata a costruire
3.500 aerei di cui 700 acquistati da aviazioni alleate agli Usa. Ci sono
alleati di primo - Regno Unito -, secondo - noi - e terz'ordine. Noi
italici, siamo in classe business, cioe' in seconda, assai cara, ma senza
gloria.
Il costruttore, in una con il Pentagono, ottiene tre vantaggi: ripartisce
gli altissimi costi dei prototipi, caricandoli sulle spalle degli alleati.
Per ora ha volato solo un Jsf, qualche anno fa; prima di andare in
produzione devono esserne messi a punto una quindicina, uno dopo l'altro.
Inoltre Lockheed scompagina, da un punto di vista industriale e insieme
strategico, la filiera del caccia europeo, l'Eurofighter, prodotto da
Italia, Germania, Spagna e Regno Unito. E in effetti l'aviazione italiana
che ne doveva comprare una seconda fetta di 46 ne comprera' solo 21. C'e'
poi un terzo aspetto, anch'esso messo in evidenza da Paolicelli. Il
Pentagono tratterra' per se' ogni evoluzione dell'aereo, "i codici sorgenti
che permettono di modificare gli aeroplani o integrarne gli armamenti".
Tanto per fare un esempio, non saremo in grado di fare riparazioni,
inevitabili nel corso di due decenni. Per cui le aviazioni militari di
classi inferiori, compreranno, pagando caro, ma dovranno sempre dipendere
dall'alleato, cio' che forse non e' sempre e comunque rassicurante.
Gli esperti hanno anche insistito su un altro punto. Questi aerei
probabilmente non voleranno mai, perche' i tagli al ministero della difesa,
attuali e previsti, non daranno neppure modo di comperare il carburante.
Soldi buttati, dunque. Tra l'altro Lockheed ha una cattiva fama in Italia,
per via di un misteriosissimo Anthelope Cobbler che trenta e piu' anni fa
era il nome in codice di un esponente democristiano che aveva accettato
tangenti dalla casa americana per comprarne aerei (che ironia della sorte!
svolgono ancora un onorato servizio)...

5. APPELLI. "SBILANCIAMOCI" E "CONTROLLARMI": UNA LETTERA AL GOVERNO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 20 maggio 2009 col titolo "Sbilanciamoci
e Controllarmi hanno anche proposto di inviare una lettera al governo
italiano. Ecco il modello da inviare"]

Caro governo,
considerato che:
- siamo in un momento di grave crisi economica e finanziaria che colpisce le
famiglie e i lavoratori, cosa che richiede massicci interventi contro la
poverta' e la disoccupazione;
- e' necessario trovare risorse economiche in tempi rapidi per la
ricostruzione dell'Abruzzo;
- un solo cacciabombardiere costa come 300 asili nido o come l'indennita'
annuale di disoccupazione per 15.000 precari;
- l'art. 11 della Costituzione ripudia la guerra come mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali;
accogliendo le proposte della Rete italiana per il disarmo e della campagna
Sbilanciamoci, chiedo al governo italiano di bloccare la costruzione dei
cacciabombardieri Jsf (F-35) e di utilizzare le risorse stanziate - pari a
circa 13 miliardi di euro - per finanziare ad esempio: la ricostruzione in
Abruzzo; la produzione di 8 milioni di pannelli solari per l'energia pulita;
la messa in sicurezza delle scuole italiane; un assegno di disoccupazione
per tutti i precari che perdono il posto di lavoro.

6. RIFERIMENTI. PER LA SOLIDARIETA' CON LA POPOLAZIONE COLPITA DAL TERREMOTO

Per la solidarieta' con la popolazione colpita dal sisma segnaliamo
particolarmente il sito della Caritas italiana: www.caritasitaliana.it e il
sito della Protezione civile: www.protezionecivile.it, che contengono utili
informazioni e proposte.

7. APPELLI. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO
[Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo il
seguente appello]

Anche con la prossima dichiarazione dei redditi sara' possibile
sottoscrivere un versamento al Movimento Nonviolento (associazione di
promozione sociale).
Non si tratta di versare soldi in piu', ma solo di utilizzare diversamente
soldi gia' destinati allo Stato.
Destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e'
facile: basta apporre la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il
numero di codice fiscale dell'associazione.
Il Codice Fiscale del Movimento Nonviolento da trascrivere e': 93100500235.
Sono moltissime le associazioni cui e' possibile destinare il 5 per mille.
Per molti di questi soggetti qualche centinaio di euro in piu' o in meno non
fara' nessuna differenza, mentre per il Movimento Nonviolento ogni piccola
quota sara' determinante perche' ci basiamo esclusivamente sul volontariato,
la gratuita', le donazioni.
I contributi raccolti verranno utilizzati a sostegno della attivita' del
Movimento Nonviolento e in particolare per rendere operativa la "Casa per la
Pace" di Ghilarza (Sardegna), un immobile di cui abbiamo accettato la
generosa donazione per farlo diventare un centro di iniziative per la
promozione della cultura della nonviolenza (seminari, convegni, campi
estivi, eccetera).
Vi proponiamo di sostenere il Movimento Nonviolento che da oltre
quarant'anni, con coerenza, lavora per la crescita e la diffusione della
nonviolenza. Grazie.
Il Movimento Nonviolento
*
Post scriptum: se non fate la dichiarazione in proprio, ma vi avvalete del
commercialista o di un Caf, consegnate il numero di Condice Fiscale e dite
chiaramente che volete destinare il 5 per mille al Movimento Nonviolento.
Nel 2007 le opzioni a favore del Movimento Nonviolento sono state 261
(corrispondenti a circa 8.500 euro, non ancora versati dall'Agenzia delle
Entrate) con un piccolo incremento rispetto all'anno precedente. Un grazie a
tutti quelli che hanno fatto questa scelta, e che la confermeranno.
*
Per contattare il Movimento Nonviolento: via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803, fax: 0458009212, e-mail: redazione at nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org

8. MAESTRI. MICHELE RANCHETTI: SUL RISERBO DI FRANCO FORTINI
[Dal sito www.ospiteingrato.org riprendiamo il testo del seguente intervento
letto a Napoli nella primavera del 2001]

1. Quando e' morto, Fortini? Mi sono posto questa domanda cominciando a
scrivere questo breve intervento sul "riserbo" di Fortini. Non ricordo,
quando sia morto, e ho cercato fra i miei libri di lui e su di lui la data
della sua morte, senza trovarla. Eppure ero presente, a Milano, al funerale
fra i pochi amici, nella squallida periferia milanese. Faceva freddo, ma
poteva essere un improvviso freddo d'estate.
Mi sono chiesto se non ricordare la data della sua morte "storica" (il
giorno, il mese, l'anno del cosiddetto "trapasso" - la lingua conserva la
trascendenza) potesse attribuirsi al mio desiderio di non voler contare
sulla sua morte e di volerlo presente, per sempre. Ma non e' cosi'. Anzi,
che sia morto, per sempre morto, mi sembra la condizione per lui piu'
naturale. Nel senso proprio del "riposa in pace" o meglio del "requiescat in
pace" nel latino della devozione. Del resto, l'aveva scritto, quasi come in
una lapide riassuntiva e testamentaria, e infine augurale, nel titolo della
sua ultima opera: Composita solvantur a suggerire non solo per se' ma per
gli altri, in quella attribuzione di verita' agli altri, piu' che a se
stesso, che costituisce, contrariamente forse al giudizio corrente, gran
parte della sua "poetica".
Non ho piu' cercato l'anno, e ho pensato che la cronologia, i calendari, gli
orari, le scansioni, non hanno davvero rapporto alcuni con l'ordinamento di
un'esistenza. In questo caso, lasciare aperto il tempo (non chiudere la
porta dietro Fortini) poteva significare per me ricercare un ordinamento
diverso, piu' corrispondente al senso delle ragioni di un percorso che si
snoda secondo l'oscillazione di fissazioni e di spostamenti in un arco la
cui naturalita' non coincide con la storia del singolo. Mi sono venuti in
mente, piuttosto, i meridiani di cui parla Celan, ad indicare linee di
differenziazione e zone di appartenenza secondo cui orientare se stessi e
riconoscere gli altri.
Ho cercato queste linee immaginarie nella vita e nell'opera di Fortini.
*
2. Non ricordo quando ho visto Fortini per la prima volta. Credo che sia
stato ad Ivrea, dove io mi trovavo da qualche mese, per svolgervi un compito
che non potevo immaginare con chiarezza: quello di segretario personale di
Adriano Olivetti. Dopo qualche giorno di lavoro improbabile (nessuno di noi
due sapeva che cosa potesse ripromettersi dall'altro al di la' del rapporto
di dipendenza "operativa"), Olivetti si era ammalato e aveva dovuto lasciare
la fabbrica. Ero rimasto io solo, senza di lui, a non sapere cosa fare. In
mio aiuto era intervenuto in un primo tempo con la sua giovialita' generosa
e cattivante, Geno Pampaloni, che mi aveva fatto collaborare ad iniziative
vagamente culturali (schedare libri nella biblioteca accanto alla fabbrica,
presentare poetesse di provincia inguaribilmente minori in letture di poesia
per i benestanti locali e accattivarsi cosi' un consenso per progetti ben
piu' significativi, nella prospettiva di un movimento politico che avrebbe
dovuto tener conto anche di questi "valori", non si sa bene perche' e come).
Qualche mese dopo era rientrato in fabbrica Franco Momigliano che mi aveva
voluto con se' alla direzione delle relazioni interne (questo era il nome),
ossia alla direzione del personale e ai rapporti con le organizzazioni
sindacali allora distinte in Cgil, Uil e Cisl, come anche ora, del resto.
Erano i primi mesi, per me, di questo nuovo lavoro, per cosi' dire, di
fabbrica. Di fabbrica ma anche, come e' stato descritto molte volte, di
guarnigione. Vivevamo infatti la condizione di avamposti privilegiati di una
straordinaria, cosi' credevamo, rivoluzione culturale che vedeva affiancati,
ciascuno secondo i propri compiti, operai e intellettuali, tecnici e
politici, sindacalisti e urbanisti, sociologhi e letterati, in un insieme
non omogeneo che si riprometteva fertilita' e successo innovatore anche
dalla propria disomogeneita' e dai contrasti (non dalle lotte) fra le
diverse componenti (come allora si diceva). A concorrere al progetto
venivano anche, in visita gradita, quasi ispettori dall'esterno viventi
nelle colonie del reame, quelli che avevano preso parte ai primi tempi del
grande progetto, i tempi del giornale di fabbrica, ad esempio, e della
costituzione del consiglio di gestione, gli inventori dello stile grafico
come parte integrante della "civilta' industriale", gli scrittori che
avevano il compito di illustratori e inventori del linguaggio aziendale, e
che portavano con se', talvolta, come esemplari unici, esponenti della
critica e della poesia, anch'essi in visita guidata. Ricordo di aver visto,
tra questi, Rocco Scotellaro e Ernesto De Martino, che ci fece ascoltare il
disco delle registrazioni appena realizzate nel suo famoso viaggio in
Lucania.
Credo di aver incontrato Fortini allora, nel 1950, o meglio di esser stato
incontrato da lui. Allora Fortini viveva gia' a Milano ma a Ivrea aveva
abitato, ed era stato parte costitutiva dei primi tempi, quelli
dell'origine, dove confluivano, a costituire quella esperienza unica e
irripetibile, fattori ed interessi diversissimi, motivazioni utopiche ed
occasioni reali di mutamento. Ma, appunto, in una situazione per cosi' dire
esterna e costruita per essere diversa ed esemplare. Anche chi non lavorava
in fabbrica ma faceva parte della dirigenza i cui compiti era difficile
distinguere e in parte giustificare, discuteva tutto il giorno, infatti, dei
compiti, dei diritti e doveri, dei difetti e dei meriti dell'ingegner
Adriano e finiva per attribuire a se' e agli altri privilegiati come lui una
sorta di responsabilita' generale nei confronti della societa' e dei destini
del mondo. Vi era in realta' in tutti la persuasione di costituire un
modello, forse l'unico e il vero, proprio per il fatto che in esso potevano
riconoscersi come necessarie vocazioni diverse, da quella dell'ingegnere e
del tecnico a quella del poeta. Ricordo, ad esempio, che si parlava
dell'Einaudi come di una forma minore e parziale della Olivetti, un luogo
preistorico dove la cultura si faceva solo con i libri, e che Pampaloni
considerava necessario persuadere Olivetti ad acquistare per la biblioteca
di fabbrica il fondo di pubblicazioni anarchiche di Fedeli, come poi
avvenne. Del resto una piccola migrazione di anarchici in fabbrica si era
gia' avuta e fra qualche anno vi sarebbe giunto Delfino Insolera.
*
3. Non ricordo di che cosa abbiamo parlato allora, con Fortini, anche se e'
probabile che mi abbia chiesto di leggere le poesie che venivo scrivendo, in
un certo senso da privato e quasi di nascosto dal grande progetto innovativo
di cui facevamo parte. Ricordo pero' il mio incontro con lui nella cornice
di quella esperienza perche' ritengo che essa abbia costituito forse la sola
"appartenenza" della sua vita. Uno, appunto, di quei meridiani di
appartenenza che ha sempre cercato senza successo. Fortini era stato in
guerra, ma le memorie della sua vita militare e soprattutto del suo esilio
in Svizzera testimoniano, a me sembra, piuttosto della formazione dell'uomo
solo durante la sua ricerca di trovar posto in un compito che trascenda
l'esercizio di una e una sola professione, come di una e una sola virtu'. Ed
e' forse da riconoscere nella differenza fra la prigionia di Sereni e
l'esilio di Fortini uno dei nodi del carattere della diversa produzione
poetica tra il mito esile e il rifiuto della gioventu'. Piu' in generale, e
semplificando, a me pare che nella frustrazione di quegli anni di guerra si
sia come depositato un accumulo di risentimento affettivo e orgoglioso nei
confronti di chi "faceva parte", anche "parte sbagliata". Vi potevano anche
concorrere le origini di Fortini: figlio di ebreo ma non ebreo, convertitosi
al protestantesimo ma non praticante se non nell'amicizia con alcuni
esponenti della confessione religiosa (Spini, in particolare), laureato in
legge e solo in un secondo tempo in lettere, letterato ma ostile ai
letterati delle Giubbe Rosse, autore da subito pseudonimo, per cosi' dire
"in veste narrativa", consapevole fino all'ostentazione ossessiva della sua
appartenenza alla piccola borghesia, Fortini ha sempre e soprattutto cercato
di distruggere l'insanabile differenza fra tempo biografico e tempo storico,
figurandosi un'esperienza "civile" e politica a colmare una propria
solitudine e nutrendosi di esempi a lui del tutto estranei o almeno per
nulla congeniali. Brecht, in particolare. Come se potesse recuperare dalla
letteratura affrontata in modo rigorosamente non specialistico il senso di
una partecipazione necessaria e dirimente "alle cose del mondo", ai "destini
generali", appunto.
Faro' solo un esempio, al riguardo. Fortini scrive: "Leggo, annoto, rileggo;
fuori, per la via, gridano i trucidati, bruciano le biblioteche". Siamo,
eravamo, nel 1992. La conversazione si svolgeva, credo, a Milano. Mi chiedo:
chi mai saranno, questi trucidati, e quali mai biblioteche bruciavano,
allora? E', evidentemente, un'esagerazione retorica, l'uso sapiente di
un'iperbole. Ma e' anche, non letterariamente, non sulla pagina, una sorta
di ricatto, di velata minaccia. Fortini non dice chi fossero quei trucidati,
e quelle biblioteche brucianti: si serve di questo riferimento generico, e,
in un certo senso, improbabile, per avvalorare cio' che sta dicendo,
immaginando ed evocando un esterno tragico per il proprio presente, in una
sorta di captatio veritatis, come se non fossero sufficienti le ragioni
reali, storiche e immediate di lui che scrive e conversa, legge e rilegge,
se non come un momento di un teatro tragico. Ossia, e' come se Fortini
volesse provocare, per se' e per cio' che viene dicendo e  scrivendo,
quell'attenzione che si produce in occasione di un incidente: tutti
accorrono, mossi dall'esaltazione di essere presenti al fattaccio, al
verificarsi della violenza in atto, del partecipare all'evento. Ma non e'
mai lui a provocarlo, l'evento e' sempre e rimane esterno. E tuttavia la sua
ratio si vuole extrema. Vi e' quindi, a me pare, un divario, una forbice fra
l'occasione che e' e rimane letteraria, scritta, e l'esclamazione
provocatoria, quasi un grido "al lupo al lupo" dove non vi sono ne' lupo ne'
pecore.
Naturalmente si puo' riconoscere in questo il carattere narcisistico ed
esibizionistico che e' proprio di ogni espressione letteraria,
l'appropriazione indebita che inerisce ad ogni forma di produzione estetica.
Ma nel caso di Fortini, a me sembra, questa presenza, sempre ineliminabile,
e' sorretta da un desiderio quasi inconsapevole e infantile, da una
tenerezza e da una sorta di fragilita' emotiva, da una fondamentale
ingenuita', parallela al rigore moralistico di un'eletta e vaga tradizione
protestante. Fortini accorre all'evento e si prodiga ad illustrarlo e a
ragionare con gli altri, sforzandosi di prenderne atto in tutte le sue
conseguenze. Anche, forse e soprattutto, letterarie, ma non trascurandone le
implicazioni politiche. In questo i suoi scritti, davvero numerosissimi,
testimoniano una partecipazione quasi eccessiva anche ai particolari della
storia minore, letteraria e politica, come se ciascuno di essi fosse
meritevole di quella attenzione che e' il primo segno dell'onesta'
intellettuale. Testimoniano, inoltre, della sua volonta' di dare espressione
letteraria e dignita' di pensiero (o meglio, di ragionamento) agli
accadimenti dell'ordine politico, quasi che la conversione di essi alla
forma fosse un primo passo verso la conoscenza di essi, il primo modo di
appropriazione. Ma naturalmente, e questo risulta visibile a distanza di
anni, questo procedimento non poteva non comportare una conversione alla
retorica del fatto stesso, quasi un suo annullamento nel genere letterario
della sua espressione sino a non rendere distinguibili fra loro forma ed
evento e, soprattutto, ad equipararli all'origine.
*
4. A me sembra che all'origine di questo vi sia come una supplenza del dato
"letterario" sul dato di esperienza, come se Fortini intervenisse a cose
fatte unicamente sulla base di un di piu' di "erudizione", ossia di una
elaborazione della esperienza altrui appresa dalle fonti scritte, in un
secondo momento, per cosi' dire. E, in un certo senso, non in proprio,
scrivendo e ragionando non dal vero, come di chi riferisce o dice degli
altri. E mai di se', o solo raramente. A me sembra, a volte, che
l'interrogazione su se stesso si interrompa proprio la' dove poteva
diventare determinante ai fini del giudizio, che e' sempre o un giudizio di
realta' o un giudizio di verita'. Come se si desse in lui, permanente, un
rinvio, una misurata prudenza, appunto un riserbo. Anche nelle interviste,
dove piu' parla di se', Fortini parla poco di se'. Della sua vita sappiamo
poco, e anche le maledizioni e gli scatti d'ira, frequenti negli epigrammi e
nella conversazione, e' come se rinviassero a una forma musicale, ad un
"fortissimo", indicato nella sua partitura. Delle sue sofferenze sappiamo da
altri, dei suoi mesi di ospedale vissuti da povero per non voler accedere a
un trattamento piu' umano grazie alla corruzione di qualche mancia. Cosi'
della sua vita difficile per l'apparente disastro della sua pedagogia
familiare. Dei suoi affetti, in generale, nel senso delle sue affezioni,
degli affectus; che pure lo avranno colpito, come si percepisce da qualche
ragazza di troppo nelle sue prose narrative della giovinezza: che appare,
fra le righe della riflessione, quasi a distrarre chi scrive e chi legge con
una apparizione non prevista di brevissima durata. Un riserbo, dunque, quasi
assoluto, dovuto alle ragioni non estreme della sua vita e protetto da un
atteggiamento oracolare.
*
5. Vi e' pero' un episodio che non corrisponde al profilo tracciato e alle
motivazioni che ho addotto. E' un episodio per cosi' dire sgradevole,
un'occasione in cui Fortini ha mostrato la sua sofferenza. Forse e' l'unico
episodio pubblico, al di la' delle controversie, dei furori fra amici, dei
"musi" che lo oscuravano in disparte come il combattente ferito. E'
l'episodio, anch'esso di un'origine letteraria, ma solo in apparenza, della
recensione per "il manifesto" del Doppio diario di Giaime Pintor, del maggio
1979. Questa volta Fortini rivendica se stesso con una violenza e una
acredine che va ben oltre l'occasione di un confronto fra un testo e, tutto
sommato, un recensore critico. Qui Fortini rivendica le sue frustrazioni di
piccolo borghese, le sue origini di letterato fiorentino, le sue scarse
risorse finanziarie, come se questi dati di fatto fossero dei valori o
almeno dei fatti di cui tener conto per illustrare e capire la storia
d'Italia, nel fascismo, nello stesso antifascismo dei pochissimi, ragioni e
tragedie ignote o sorvolate dall'arroganza di chi sa a priori, chi ha il
sapere innato nei lombi nobiliari. Di chi e' nato ricco di spirito e di
censo e puo' limitarsi, se crede, a trasmettere questo sapere dosandolo
secondo le opportunita' e il capriccio, ma riserbando per se' la parte
migliore, quella disciplina arcani che e' proprieta' appunto esclusiva del
ceto sacerdotale. Non e' particolarmente rilevante giudicare legittimo o
meno il livore di Fortini a proposito di Giaime Pintor e del suo diario
inedito, del resto pubblicato con reticenza dal fratello Luigi, destinatario
della famosa lettera. E' ben piu' rilevante osservare che Fortini, nel 1979,
mette in discussione, con questo attacco, ben piu' del suo credito di
critico e di collaboratore di un giornale, la sua persona di critico non
destinato da una dotazione originaria alla gestione dei poteri della
cultura, di uno che si e' costruito da se' attraverso un apprendimento
graduale e difficile. Ho l'impressione che Fortini, leggendo il Diario,
abbia visto con sgomento, come in un'allucinazione, quale sarebbe stata la
sorte di Pintor se non fosse saltato per aria per lo scoppio di una mina e
avesse dovuto rileggere la propria lettera, del resto mirabile, durante uno
dei pomeriggi di siesta operosa fra gli inviti dei salotti romani. E abbia
voluto lacerare quella lettera mirabile che iscrive giustamente Pintor fra
gli eroi, lacerarla per se' e per lui.
Quello scritto, poi pubblicato perche' respinto dal "manifesto" sui
"Quaderni piacentini", in un luogo cioe' protetto dagli amici, un luogo
minore, un piccolo gruppo la cui incidenza era pur sempre modesta, ha
fornito a me, leggendolo e rileggendolo ora, un altro di quei meridiani di
cui parlavo all'inizio, il discrimine fra due appartenenze: una pubblica,
dei "competenti" a priori, che possono valersi di tutti i guizzi del potere
e parallelamente delle ricorrenti fortune degli spiritualismi, e una
privata, anche se condivisa da pochi amici, incapace, per natura, per
vocazione e destino, di farsi adulta e riconosciuta. E abbia scelto la
seconda. Il suo enorme lavoro, da allora, si sarebbe svolto in questo
meridiano, avrebbe avuto questi e non altri referenti. Anche il Partito
comunista, gli sarebbe parso, talvolta, come intellettuale collettivo, ben
simile agli intellettuali della Normale di Pisa, allevati ad essere
dirimenti nelle patrie lettere, destinati, appunto, a esercitare il potere
nelle accademie, un potere di competenze ineccepibili e in apparenza
neutrali, in realta' frutto di un'arroganza appresa e trasmessa da grandi
maestri a grandi allievi in una successione ereditaria, persone che,
incontrandosi, non si chiedono: come stai?, ma: di che cosa ti occupi?, in
una concezione della cultura come territorio distinto in feudi da assegnare.
*
6. Ho dovuto riconsiderare, allora, quello che ho chiamato "il riserbo" di
Fortini e mi sono chiesto se il rifiuto o almeno la reticenza di Fortini a
parlare di se', a esporsi in prima persona, non facesse parte o non fosse
dovuto a un rigore morale che esige il rispetto dell'anima individuale e
mette in discussione solo le forme. Intendo, le forme pubbliche, in cui si
scontrano i destini generali. Se il suo riferimento ad un esterno politico e
civile non costituisse per lui stesso una garanzia di verita' nella quale
misurare i propri scritti e le proprie idee. Una verita' non affidata alle
istituzioni della cultura e della politica, non ai partiti, per cosi' dire,
riconosciuti, e se quel di piu' di enfasi, che talvolta contraddistingue le
sue poesie e le sue prose, non fosse un espediente per "difendere le nostre
verita'". E credo che sia cosi'.

9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

10. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 828 del 22 maggio 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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