Voci e volti della nonviolenza. 325



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 325 del 21 aprile 2009

In questo numero:
1. Elena Ribet: Alcuni libri per un mondo migliore
2. Sergio Givone ricorda Franco Volpi
3. Antonio Gnoli ricorda Franco Volpi
4. Bruno Gravagnuolo ricorda Franco Volpi
5. Armando Torno ricorda Franco Volpi
6. Nuccio Ordine intervista George Steiner
7. Tzvetan Todorov: La paura dei barbari che rende barbari

1. LIBRI. ELENA RIBET: ALCUNI LIBRI PER UN MONDO MIGLIORE
[Dal sito di "Noi donne" (www.noidonne.org) col titolo "Desiderio e armonia.
Ricette per un mondo migliore"]

"I rasoi fanno male; i fiumi sono freddi; l'acido macchia; i farmaci danno i
crampi. Le pistole sono illegali; i cappi cedono; il gas fa schifo... Tanto
vale vivere..."
(Dorothy Parker)
*
Al mercato della felicita'
Viviamo in un'economia senza gioia in cui l'unica mossa consentita e'
consumare?
Ma ci sono tanti modi di "andare al mercato, contro la parzialita' della
ragione e a difesa delle 'illusioni' che la poesia e la religione ci aiutano
a intrattenere oltrepassando il livello del conformismo, forti nella
certezza di essere destinati a qualcosa di grande" introduce il risvolto di
copertina dell'ultimo libro di Luisa Muraro: Al mercato della felicita' La
forza irrinunciabile del desiderio (Mondadori, Milano 2009).
Muraro, che nell'introduzione parla di questo suo come di un libro di
congedo, affronta in 171 pagine (indice compreso) grandi temi filosofici
alla portata di (quasi) tutti e tutte. Un'eredita' di pensiero, con ampie
citazioni antiche e contemporanee, in cui si mischiano filosofie, pratiche
ed esperienze in un viaggio di conoscenza e autoconoscenza.
Cosa sarebbe la vita senza grandi desideri? Molte risposte a questa domanda,
a partire da alcune considerazioni sulla mediazione e i compromessi indotti
dal vivere sociale e dal riconoscimento del valore della parola, della
lingua, dei linguaggi, dei movimenti intesi sia come movimenti di pensiero
che come tensione dell'anima e delle persone verso qualcun'altra o qualcosa.
"Non e' forse illusione credere che possiamo sapere e decidere alcunche'
senza sottostare al sistema delle mediazioni in vigore?" si interroga
Muraro, ben sapendo che si deve "obbedire alla necessita', ma non
necessariamente".
Il desiderio ci anima nella ricerca di qualcosa di oltre, un plus che non
sia plusvalore in senso materialistico: "per guadagnare il nostro stesso
essere dobbiamo aprire un passaggio tra il tutto gia' deciso e il non
ancora". Da una parte c'e' il tutto gia' interpretato, gia' detto, gia'
codificato e giudicato, gia' saputo, gia' deciso dai poteri economici e
politici. Dall'altra c'e' il non ancora, "un filo appena, ma, a seguirlo, si
arriva a un mare, un oceano, tre oceani di possibile". E la discriminante
tra loro e' il desiderio di quel "qualcosa di grande" che passa
inevitabilmente per un esercizio di liberta', vista come causa ed effetto di
quell'equilibrio instabile di competenze simboliche, che ci fa andare al di
la' dei sistemi di dominio.
Nel capitolo "Vite di santi, lavoro di artisti, politica delle donne" Luisa
Muraro parla della straordinaria caratteristica delle parole e di ogni
segno, sottolineando "la sproporzione tra la loro fragilita' e la loro
energia. Ci mettono a disposizione tutto quello che siamo e tutto quello che
e', ci liberano dalla servitu' della nostra fisicita' con tutto il suo
pesante corteo di vincoli fra causa ed effetto, azione e reazione, mezzi e
fini, ci fanno passare dalla felicita' alla disperazione e viceversa, ci
introducono nell'irreale e nell'impossibile (pensate ai numeri)... E tutto
questo in poco tempo, con poca fatica, con mezzi materialmente esilissimi,
tipo la voce o quella traccia di nero su bianco che tu leggendo segui con
gli occhi e che puoi conservare e portarti in giro dentro una scatola (anche
il cervello e' una scatola) o una borsetta, e riprodurre".
E' con fiducia che Muraro si affida alle parole (oltre che alle pratiche).
In esergo al libro, a conferma di cio', due poesie: "Mondo, sii, e buono; /
esisti buonamente / fa' che, cerca di, tendi a, dimmi tutto, / ... / Su
bravo, esisti, / non accartocciarti in te stesso, in me stesso" (Andrea
Zanzotto, Al mondo). "Una parola e' morta / quando l'hai detta, / dicono
alcuni. / Io dico invece / che incomincia a vivere / proprio quel giorno"
(Emily Dickinson, A word is dead).
*
Entusiasmo, furore, ironia
Questi i temi dei tredici saggi pubblicati in Studi sullíentusiasmo, a cura
di Amalia Bettini e Silvia Parigi (Franco Angeli, Milano 2001). Una
ricognizione seppur non esaustiva di momenti e figure rilevanti nella storia
della filosofia dal V secolo a. C. al Novecento. Il concetto di entusiasmo
in ambito etico-religioso ed estetico e' ricco di significati anche ambigui
e contraddittori. Nel volume citato si affrontano i diversi modi di
intendere l'entusiasmo in autori e periodi della storia della filosofia, la
difficolta' di definire questo concetto, anche da un punto di vista
etimologico e linguistico, la distinzione tra lo statuto teoretico
dell'entusiasmo, da un lato, la sua fenomenologia (cause scatenanti,
sintomi, effetti) e la sua tassonomia (il genio, l'artista, l'amante, il
profeta, l'ossesso, il sognatore, il demente, il malinconico, il folle),
dall'altro. Dall'analisi delle sue accezioni positive e negative, si
esplorano temi quali l'ispirazione, l'ironia, la trascendenza; l'entusiasmo
puo' essere quella voce segreta che rivela la propria missione nel mondo,
che suscita poteri profetici, poetici ed erotici.
*
La via dell'amore
A ogni persona le sue vie d'amore, ma Luce Irigaray nel suo libro La via
dell'amore (Bollati Boringhieri, 2002), esplora poeticamente e
filosoficamente le relazioni, le differenze, un nuovo modo di vivere e
pensare che coinvolga arte, religione e filosofia. Nel dialogo di anime e
corpi sta la ricetta di una felicita' possibile: per condividere la parola,
essere con l'altro e ricostruire il mondo.
*
Le sette regole dell'arte di ascoltare
Ci insegna, anche con esercizi pratici e piccoli trucchi, le basi della
gestione creativa dei conflitti. Ironia e capacita' di ascoltare possono
dare buoni frutti, parola di Marianella Sclavi, insegnante di etnografia
urbana e antropologia culturale.
"1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la
parte piu' effimera della ricerca.
2. Quel che vedi dipende dalla prospettiva in cui ti trovi. Per riuscire a
vedere la tua prospettiva, devi cambiare prospettiva.
3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha
ragione e chiedergli di aiutarti a capire come e perche'.
4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai
comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come
guardi.
5. Un buon ascoltatore e' un esploratore di mondi possibili. I segnali piu'
importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al
tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti perche'
incongruenti con le proprie certezze.
6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della
comunicazione. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un
campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti.
7. Per divenire esperto nell'arte di ascoltare devi adottare una metodologia
umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l'umorismo viene da se'".
(Da Marianella Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce
dalle cornici di cui siamo parte, Bruno Mondadori, Milano 2003).

2. LUTTI. SERGIO GIVONE RICORDA FRANCO VOLPI
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 15 aprile 2009 col titolo "Addio a
Franco Volpi. Da Nietzsche a Heidegger la filosofia come passione critica" e
il sommario "Ha tenuto lezioni da Padova agli Usa. Tra i suoi volumi quello
dedicato al nichilismo. Il suo lavoro ha permesso l'edizione di testi
fondamentali. Studioso, curatore, esegeta dei maestri della modernita'. E'
scomparso ieri, vittima di un incidente stradale"]

Raramente, come in Franco Volpi, il filosofo italiano a cui tutti dobbiamo
tantissimo, sia come esegeta e curatore di grandi testi del pensiero moderno
e contemporaneo, sia come indagatore di problemi storici e di questioni
speculative, la passione e l'intelligenza si intrecciano cosi' bene nel
difficile lavoro dell'interpretazione. In lui l'acribia piu' rigorosa e'
tutt'uno con lo sguardo capace di portare alla luce non solo l'intenzione
profonda dell'autore ma, al di la' di essa, la parola non detta, la domanda
nascosta, l'apertura di un nuovo orizzonte critico. Esemplari sono le sue
curatele, per Adelphi, di molte delle piu' importanti opere heideggeriane,
alcune delle quali, e in particolare Segnavia, L'essenza della verita', e,
in ultimo, i Contributi alla filosofia, rappresentano un modello insuperato
di edizione da tutti i punti di vista: traduzione, note, apparati. Geniali
le sue proposte, sempre per Adelphi, di opere minori di Schopenhauer, da cui
ha saputo trar fuori quella accattivante miscela di filosofia popolare e
filosofia alta che era nascosta in esse. Preziosa la sua monografia per
Villegas Editores che accompagna l'Opera Omnia di un eccentrico di talento
come Nicolas Gomez Davila.
Allievo di Giuseppe Faggin, l'indimenticato studioso di Plotino, Volpi ha
imparato fin dagli anni del liceo che quanto piu' si e' interpreti fedeli e
attenti, tanto piu' si e' pensatori originali e in proprio. Appunto secondo
l'esempio fornito da colui che piu' e meglio di chiunque altro trasmise
all'occidente cristiano il lascito della filosofia classica. Plotino, che
era greco di formazione, insegnava a Roma. Le sue lezioni si svolgevano per
lo piu' in forma di commento e discussione delle tesi dei maestri del
passato. Ma da quel suo esporre il pensiero altrui senza presunzione
d'originalita' sapeva ricavare approfondimenti che lasciano stupefatti per
forza innovativa e capacita' di penetrazione. Qualcosa di simile si deve
dire di Volpi. Ovunque egli tenesse cattedra (titolare in quelle di Padova e
di Witten/Herdecke, oltre che visiting professor in alcune delle principali
universita' europee e nordamericane), sempre si presentava quale in effetti
era: storico della filosofia. Verrebbe da dire: filologo della filosofia. Ma
filologo che sa la potenza e lo smalto della parola, oltre che la sua
fallibilita': cio' che impone un di piu' di scrupolo, di dedizione, di
"amore per il logos". Sono precisamente questi i tratti che caratterizzano
l'impegno di Volpi, il suo limpido argomentare, il suo instancabile leggere
e rileggere i testi. Cio' di cui il suo Dizionario delle opere filosofiche
(Bruno Mondadori) e' un'eloquente testimonianza.
E quando gli accade di confrontarsi con i grandi temi che abbracciano intere
epoche storiche, allora il risultato inevitabilmente e' di quelli che
costringono a sostare e a riflettere. Si potra' non essere d'accordo con
lui. Impossibile pero' ignorare le sue indicazioni.
Prendiamo ad esempio il volume da lui dedicato ormai qualche anno fa a Il
nichilismo (Laterza). E' ancora attualissimo. Volpi sa bene che il
nichilismo e' un fenomeno tipicamente moderno, sviluppatosi quasi
interamente fra Ottocento e Novecento, e in quanto tale da indagare
specialmente lungo l'asse Nietzsche-Heidegger. Ma sa anche che questo
fenomeno viene da lontano, visto che alla sua radice c'e' l'esperienza del
nulla. Si puo' ignorare questa esperienza? O chi la ignorasse - chiede Volpi
citando uno dei suoi maestri - non si metterebbe senza speranza fuori della
filosofia?
C'e' tutto Volpi, in questo rilanciare le grandi questioni. E cioe' nel suo
restare in ascolto delle voci che parlano dalle profondita' di una
tradizione tutt'altro che finita. Ma anche nel suo coraggioso riproporcele.
E pensando a lui, al suo pensiero cosi' aperto e vero, ci viene naturale
farlo al presente, non al passato.

3. LUTTI. ANTONIO GNOLI RICORDA FRANCO VOLPI
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 15 aprile 2009 col titolo "Spirito
inquieto e antiaccademico" e il sommario "Cinquantasette anni, visse
l'universita' con insofferenza, estraneo al potere. Comincio' a collaborare
a 'Repubblica' con un articolo sull'autore dello Zarathustra"]

Franco Volpi e' morto. E il primo pensiero va alla lunga amicizia che ci ha
legato nel corso degli anni. Guardo con gratitudine a quel legame che e'
stato intenso e singolare. Il professore e il giornalista. C'eravamo
conosciuti in occasione di una polemica che aveva diviso la scena filosofica
italiana e che riguardava Nietzsche e il suo presunto testo La volonta' di
potenza. Mi colpi' l'intervento che Volpi fece su queste pagine: demoliva i
colpevolisti - coloro che imputavano a Nietzsche la sciocchezza di essere un
nazista ante litteram - con garbo e competenza. Dietro lo stile preciso e
l'argomentazione esauriente si scorgeva un'inquietudine antiaccademica che
col tempo imparai a conoscere. Gli chiesi se avesse voglia di collaborare
con "Repubblica" e mi rispose che per lui sarebbe stato come evadere da una
gabbia.
Visse l'universita' con insofferenza: si sentiva estraneo alle beghe
accademiche, ai rapporti di potere, ai programmi normalizzanti. Eppure era
all'apparenza un tradizionalissimo filosofo venuto su con il pane di
Aristotele e di Plotino, con i timidi affacci in Germania, dove aveva
cominciato a specializzarsi su Heidegger. Del filosofo della Selva Nera
sapeva tutto, aveva letto tutto, frugato negli archivi, conosciuto le
persone che gli erano state vicine e che potevano offrire una testimonianza
di prima mano. Come il figlio Hermann, che andammo a trovare in una giornata
di sole pallido, mentre tornavamo da Wilflingen, dove il giorno prima
avevamo incontrato Ernst Juenger. Lungo la strada Volpi mi disse: "Sai, da
queste parti abita il figlio di Heidegger. Non c'entra nulla con la
filosofia, pero' gestisce l'intera eredita' spirituale del padre". Gli
chiesi se si poteva intervistare. Rispose che era molto difficile, e che
aveva sempre rifiutato di incontrare i giornalisti. "Forse fara'
un'eccezione se sei tu a chiederglielo", replicai. Ci fermammo a pochi
chilometri da Friburgo davanti a una cabina telefonica. Volpi lo chiamo' e,
con sorpresa di entrambi, Hermann Heidegger ci ricevette il giorno dopo.
Quell'intervista fece il giro del mondo.
Se ripenso ai nostri viaggi, in Germania, in Francia, in Italia, mi torna in
mente la sua velocita' di pensiero. Sembrava un elfo contagiato
dall'inquietudine. Credo si sentisse libero solo in movimento. Poteva
coprire in macchina migliaia di chilometri su e giu' per l'Europa - ha
insegnato in molte universita' - o in aereo al di qua e al di la' degli
oceani, senza risentirne. Non so come facesse: un seminario a Nizza, una
lezione a Jena, un convegno a Buenos Aires. Era un filosofo poliglotta. Non
ho mai conosciuto nessuno che avesse la versatilita' per le lingue che aveva
Volpi.
Di tutti i viaggi fatti, di tutte le persone incontrate, di tutte le
esperienze condivise - i luoghi, gli individui, i libri - mi resta
chiarissima una frase che amava ripetere: "Sbagliano quelli che pensano che
la vita si spiega con la filosofia. Per quanti sforzi il pensiero faccia, il
risultato e' sempre lo stesso: la filosofia arranca dietro la vita che se la
ride". Volpi pensava da filosofo, ma agiva da uomo che vede il mondo andare
in tutt'altra direzione. Era convinto che i filosofi avessero perso la
curiosita', il gusto di meravigliarsi, di lasciarsi sorprendere, di gioire
del nuovo. Credevano di avere in pugno il mondo e avevano in pugno solo se
stessi.
Pochi giorni fa ci sentimmo per un articolo sulle posizioni espresse dal
papa su Nietzsche. Fu puntuale come al solito. La nostra amicizia comincio'
con Nietzsche e si e' interrotta con lui. Continueremo a seguire da lontano
gli amici che se ne vanno. La loro morte e' parte della nostra morte che si
annuncia attraverso il lutto e il dolore. Ma e' anche la vita che ci donano
come esempio e ricordo. E' l'immagine che si fa traccia, che supera il
pianto e ci fa dire: ho avuto la fortuna di conoscerti.

4. LUTTI. BRUNO GRAVAGNUOLO RICORDA FRANCO VOLPI
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 16 aprile 2009 col titolo "Franco Volpi,
storico delle idee che non fece sconti a Heidegger"]

Il miracolo non c'e' stato. E i medici dell'ospedale di Vicenza hanno
dichiarato la sua morte clinica. Franco Volpi, storico della filosofia, se
ne e' andato. A seguito di un tragico incidente in bicicletta nel giorno di
Pasquetta sui colli Berici a due passi da Vicenza, dove era nato nel 1952.
Una perdita davvero dolorosa per chi lo ha conosciuto, per gli allievi della
sua cattedra di Storia della filosofia a Padova. E anche per i tanti cultori
di filosofia e lettori (collaborava a "Repubblica") che ne apprezzavano la
freschezza intellettuale, la capacita' divulgativa e il temperamento vitale
e curioso di tutto.
Grazie a Volpi, massimo traduttore di Heidegger in Italia di cui curava
l'Opus per Adelphi, e' stato possibile percorrere tutti gli angoli del
filosofo di Messkirch. Guadagnando alla conoscenza rigorosa un pensatore
controverso e ambivalente. Verso il quale Volpi non serbava nessun timore
reverenziale, e nessuna fascinazione subalterna. Impegnato come era a
fornirne, tramite una traduzione impeccabile, un'interpretazione originale.
Allievo di Giuseppe Faggin e di Enrico Berti, aveva cominciato sui testi di
Plotino e di Aristotele la sua avventura di storico della filosofia,
inseparabile dall'ermeneutica e dal tradurre. E anello di congiunzione tra
gli esordi e gli interessi della maturita' era stato Brentano. Con la sua
psicologia trascendentale intessuta ai temi della temporalita' e della
"coscienza del tempo". Temi "pre-fenomenologici" e husserliani, che stanno
alle origini della formazione di Heidegger. E alle fonti del problema
dell'Essere, da Heidegger riversato e risolto in Essere e Tempo, la celebre
opera del 1927.
Heidegger (oltre a Nietzsche e Schopenhauer) come fulcro dell'ermeneutica di
Volpi, di cui restano come exempla le numerose curatele e i saggi che andava
raccogliendo attorno alle sue traduzioni. Essere e tempo appunto, il
glossario di Segnavia, la postfazione al Nietzsche heideggeriano e quelle
alla Fenomenologia dela vita religiosa e al Principio di ragione, per
citarne alcuni. Ne risultavano schiarimenti fondamentali. Sullo Heidegger
"analitico esistenziale" prima della "Svolta", e lo Heidegger del "dopo",
che sceglie di far parlare líEssere sulle rovine della tradizione filosofica
e del Moderno. In un costante tentativo da parte del filosofo tedesco di
"risignificare" - come diceva Volpi - quella tradizione, liberando la
percezione originaria del Sein. Oltre la "deiezione" della Tecnica e del
Nichilismo.
E pero' Volpi era un "heideggerista" non heideggeriano. Che non faceva
sconti al suo autore, che pure amava. E non li faceva sia sul tema della sua
compromissione col nazionalsocialismo ("Heidegger si illudeva di poterlo
plasmare - ci disse nel 2002 su "l'Unita'" - cavalcando la tigre e
inserendolo nella sua ontologia... Equivoco di breve durata anche se non
s'avvide subito del suo errore..."). Sia sul punto chiave del "superamento"
heideggeriano della tecnica. Sul che Volpi affermava: "Era un ontologo che
all'operare antepone l'Essere, dove il primo discende inevitabilmente dal
secondo. Ma a ben guardare era anche un espressionista, un avanguardista del
pensiero. Come Lucio Fontana in arte". E ancora: "Il discorso dell'ultimo
Heidegger sull'impianto globalistico della tecnica e' suggestivo e pero'
inarticolato. Benche' concettualmente coerente" (sempre su "l'Unita'" del 19
aprile 2002). Ma Volpi non fu solo eccellente storico della filosofia. Fu
giramondo e visitig professor tra due continenti. E con Antonio Gnoli di
"Repubblica", ci ha regalato splendidi libri insoliti. Eccone alcuni.
L'ultimo sciamano, conversazioni su Heidegger (Bompiani), Il dio degli acidi
(Bompiani, con l'inventore dell'Lsd Hofmann). E una celebre intervista
Adelphi con Juenger del 1997: I prossimi titani. Ben piu' che briciole, ma
vere gemmme a riprova del suo invincibile stupore per la meraviglia delle
idee e della vita.

5. LUTTI. ARMANDO TORNO RICORDA FRANCO VOLPI
[Dal "Corriere della sera" del 15 aprile 2009 col titolo "Franco Volpi, la
filosofia al di la' del nichilismo" e il sommario "Lo studioso di Heidegger,
travolto in bicicletta da un'auto, si e' spento ieri sera a Vicenza"]

Franco Volpi era nato a Vicenza nel 1952 e insegnava Storia della filosofia
all'Universita' di Padova. E' morto in un incidente stradale (lunedi' era in
bicicletta sui monti Berici, e' stato travolto da un'auto), come Roland
Barthes. Al suo nome sono legati, oltre a libri di alta e buona
divulgazione, gli studi sul nichilismo, sul pensiero tedesco moderno e
contemporaneo, e soprattutto il corpus delle opere di Martin Heidegger
pubblicate da Adelphi. Volpi ha fatto molto per la cultura italiana e per la
diffusione della filosofia in un periodo in cui l'antica disciplina di
Platone e Aristotele e' diventata una passione popolare. Cerchiamone il
ritratto aprendo semplicemente i suoi libri.
Fu uno dei migliori allievi dell'"aristotelico" Enrico Berti, anzi e' stato
il piu' contemporaneista tra loro: ha esordito con il saggio Heidegger e
Brentano (Cedam, 1976) e con il suo maestro ha firmato il terzo volume di
una Storia della filosofia (Laterza, 1991) che conobbe una certa fortuna nei
licei italiani. Aveva la vocazione dell'organizzatore oltre che quella dello
studioso. Sotto questo aspetto va elogiato per il Dizionario delle opere
filosofiche (Bruno Mondadori, 2000) che reca il suo nome al frontespizio, ma
si avvale di decine e decine di collaboratori per le singole voci. Di piu':
Volpi, insieme ad altri, curo' nel 1988 l'edizione tedesca di questo Lexicon
der philosophischen Werke, poi ampliata nel 1999; infine la sistemo' per gli
italiani. Le polemiche corse all'uscita sono ormai evaporate e oggi ci
rendiamo conto che l'aver dimenticato - o volutamente non ospitato - i
Principles of Mathematics di Bertrand Russell, non e' peccato che richiede
assoluzioni speciali. Del resto, la sua eccellente conoscenza del tedesco lo
porto' a realizzare l'edizione italiana di alcune tra le piu' importanti
opere di Heidegger. Se oggi riusciamo a leggere - e in Italia i professori
che possono permettersi la lingua originale sono davvero pochi - pagine
fondamentali di questo filosofo, dobbiamo ringraziare Franco Volpi. Senza di
lui non avremmo nella prestigiosa "Biblioteca filosofica" Adelphi opere di
Heidegger quali Segnavia, Parmenide, L'essenza della verita'. Sul mito della
caverna e sul Teeteto di Platone, gli importanti Contributi alla filosofia o
I concetti fondamentali della filosofia antica.
Certo, c'e' stato anche un Volpi che si impegnava a diffondere, attraverso
la collaborazione a "Repubblica", le idee filosofiche (e con Antonio Gnoli
firmo', tra l'altro, L'ultimo sciamano, Bompiani) o quello che si concedeva
il lusso di arricciare il naso dinanzi alla nuova traduzione di Essere e
tempo di Heidegger realizzata da Alfredo Marini (Mondadori), e riproponeva
la vecchia versione di Pietro Chiodi, limitandosi ad aggiungere degli
apparati critici alla fine.
Franco Volpi rimarra' per il suo saggio su Il nichilismo (Laterza). Si legge
facilmente e insegna che la crisi della ragione, la perdita del centro, la
decadenza dei valori si presentano a noi ogni giorno con il proprio nome o
sotto altre sembianze. Nietzsche definiva tutto cio' "ospite inquietante".
Si aggira in casa nostra ed e' quasi impossibile metterlo alla porta. Anche
se Volpi era convinto che prima o poi se ne sarebbe andato e preparava, per
questo, una prospettiva "oltre il nichilismo".

6. MAESTRI. NUCCIO ORDINE INTERVISTA GEORGE STEINER
[Dal "Corriere della sera" del 19 aprile 2009 col titolo "I rimpianti di
Steiner: non ho capito il femminismo" e il sommario "Giovedi' 23 aprile il
grande critico letterario George Steiner compira' 80 anni. E racconta al
'Corriere' idee, passioni e rimpianti: Mi rimprovero di non aver capito
subito l'importanza del movimento femminista, il grande ruolo delle donne
nella politica e nella societa'. Rimpianti e passioni di un grande critico.
Compresi tardi il ruolo politico e sociale delle donne. L'autore delle
Antigoni compie 80 anni. Leggete D'Arrigo, un gigante"]

"Non avrei mai pensato di arrivare al traguardo degli ottant'anni. E solo
adesso godo della sorprendente gioia di vedere che i miei libri, nel corso
dei decenni, mi hanno regalato l'occasione di stringere amicizie, affetti,
dialoghi inattesi...". George Steiner festeggera' una tappa importante
giovedi' 23 aprile. E mentre una serie di convegni in suo onore e di sue
conferenze si annunciano in varie universita' europee - in Inghilterra, a
Nantes, a Firenze e a Roma tra fine aprile e maggio - il grande comparatista
ci riceve nella sua casa di Cambridge, dove sul tavolo dello studio
campeggiano le prime copie del nuovo libro: una raccolta di articoli apparsi
sul "New Yorker" tra il 1967 e il 1997. "Questo volume - osserva
compiaciuto, alludendo al suo amore per l'Italia - e' gia' in cantiere da
Garzanti. Si tratta di una storia, a ritroso, che documenta trent'anni della
mia attivita' di critico. Non potro' mai dimenticare che un giorno mi
telefono' un redattore del 'Times Literary' per chiedermi se Paul Celan
fosse uno pseudonimo: il mio articolo fu uno dei primi in inglese su uno dei
piu' grandi poeti del Novecento, allora completamente sconosciuto".
L'episodio di Celan apre lentamente la strada, come una proustiana
madeleine, a una serie di ricordi in cui assieme alle grandi soddisfazioni
convivono nostalgie e rimpianti. "Proprio in questi ultimi anni - aggiunge
Steiner - mi capita sempre piu' di riflettere su alcune cose che avrei
voluto fare e non ho fatto. Avrei voluto, per esempio, intraprendere una
carriera scientifica, bloccata sin dall'inizio dalla difficolta' a superare
i primi esami di matematica. Avrei voluto continuare a studiare l'ebraico,
che abbandonai da ragazzo per imparare greco e latino. E, adesso, alla fine
del mio percorso, questa lingua mi manca, perche' la cultura ebraica ha
segnato tutta la mia esistenza". "E soprattutto - sottolinea con una smorfia
l'autore delle Antigoni - mi rimprovero di non aver capito subito
l'importanza del movimento femminista. Ho letto Simone de Beauvoir, ma non
ho compreso il grande ruolo che le donne avrebbero avuto nella politica e
nella societa'. Ne' ho saputo prevedere il peso che la rivoluzione
elettronica avrebbe avuto nel linguaggio e nella comunicazione, fino al
punto da mettere in crisi il libro e la lettura...".
Ma quando si tracciano bilanci e' inevitabile il confronto con scelte ed
errori che hanno condizionato il corso di una vita. "Partendo dal
presupposto che e' sempre difficile distinguere con chiarezza se abbiamo
scelto o se siamo stati scelti - riprende Steiner, accarezzando
affettuosamente il suo cane Benn - mi sono spesso interrogato su decisioni
che hanno tormentato un po' tutta la mia vita. Avrei dovuto accettare di
ritornare in America, dove vivono i miei figli e i miei nipoti? Sono stato
tentato piu' volte di farlo. Ma due ragioni mi hanno spinto a restare in
Europa. La prima riguarda l'amore per le lingue che io pratico. La seconda,
molto piu' profonda e decisiva, e' legata alle mie origini ebraiche: andare
in una grande universita' americana, mi diceva mio padre, avrebbe
significato far vincere quei nazisti che avevano giurato che nessun piccolo
Steiner avrebbe insegnato in una universita' europea. Pero' talvolta, di
fronte al declino morale e politico di questo nostro vecchio continente dove
la speranza sembra spegnersi, mi assale il dubbio di aver commesso un
errore".
George Steiner, la cui voce da decenni e' al centro del dibattito sulla
letteratura e sul destino della critica, non ha nessuna difficolta' a
ricordare anche le sconfitte assieme alle battaglie vinte. "Spesso mi
rimprovero di non essere riuscito a far comprendere la grandezza di un
gigante come Stefano D'Arrigo. Se si legge Joyce non si puo' non leggere
Horcynus Orca. Purtroppo, nonostante i miei sforzi, anche in Italia solo in
pochi hanno letto questo capolavoro. In altre occasioni, invece, il tempo mi
ha dato ragione. Quando mostrai il mio entusiasmo per Il quartetto di
Alessandria di Lawrence Durrell mi presero in giro: adesso pero', quasi
all'improvviso, e' scoppiato il successo e le sue opere occupano un posto di
rilievo nelle librerie. Un discorso a parte merita Walter Benjamin. Oggi e'
un mostro sacro. Ma io ho lottato per lui, verso la fine degli anni
Quaranta, in un momento in cui i suoi testi non circolavano. Per caso, da un
antiquario, trovai la sua tesi sulla tragedia: capii subito che si trattava
di un genio...".
Adesso, tra i libri non scritti, Steiner aggiungerebbe al suo penultimo
lavoro (I libri che non ho scritto, edito lo scorso anno da Garzanti) un
nuovo capitolo dedicato al premio Nobel. "Ho sempre desiderato riprendere e
sviluppare un mio vecchio articolo, apparso negli anni Cinquanta sul 'New
York Times', con un titolo sarcastico: 'Nobel oblige'. Ho sempre avuto
profondi dubbi sulla sezione dedicata alla letteratura. La lista dei giganti
esclusi lascia senza parole - Joyce, Musil, Kakfa (l'aggettivo kafkiano
viene usato in piu' di cento lingue!) - mentre hanno ricevuto il premio
anche scrittori di terzo e quart'ordine. Credo che in questo campo contino
molto le pressioni politiche e gli intrighi. Un discorso a parte meritano i
Nobel assegnati nel campo scientifico. Molti miei colleghi titolati di
Cambridge mi dicono che, su quattrocento Nobel, si possono avere dubbi in
tre o quattro casi. Nelle scienze e' piu' facile misurare il valore delle
scoperte".
Un posto particolare nei ricordi di Steiner occupano i seminari del
giovedi', tenuti per diversi decenni all'Universita' di Ginevra. "Mi manca
tantissimo l'insegnamento. Ricordo con commozione quella scena: io, un
gruppo di fedelissimi e un classico sul tavolo. Ancora oggi ho un calendario
pieno di conferenze e di convegni. Ma non e' la stessa cosa. Manca
l'elemento dialettico della lettura assieme. E una delle piu' grandi
ricompense per me e' stato vedere alcuni di questi allievi diventare
illustri professori in prestigiose universita'".
Adesso la conversazione scivola velocemente sugli incontri con alcuni grandi
protagonisti del Novecento che hanno condizionato la storia del pensiero.
"Confesso che talvolta, per una paura interiore, ho evitato di incontrare
studiosi che mi affascinavano. Non volevo che mi deludessero. Piu' volte
avrei avuto la possibilita' di incontrare Heidegger, ma non ne ho avuto il
coraggio. In altre situazioni, invece, le conversazioni con Levi-Strauss o
con Scholem, solo per citare qualche nome, hanno lasciato un segno
indelebile...". Ma George Steiner e' abituato a smentire se stesso. E,
nonostante i suoi ottant'anni, non ha nessuna intenzione di rinunciare a
scrivere. "Adesso sarebbe troppo arduo - dice sulla soglia di casa, un
momento prima del saluto - concepire un progetto organico. Ma sto
riflettendo sulla poetica del pensiero astratto. Sogno di pubblicare un
libro con un'epigrafe tratta da una frase di Wittgenstein: 'Tutto questo
avrebbe dovuto essere detto in versi'".

7. MAESTRI. TZVETAN TODOROV: LA PAURA DEI BARBARI CHE RENDE BARBARI
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 13 marzo 2009 col titolo "Le nuove paure
dell'Occidente", il sommario "I barbari e noi. A vent'anni dal crollo del
Muro, il mondo conosce inedite partizioni. Ci sono i paesi 'dell'appetito',
quelli del risentimento e chi vive nell'angoscia. Nei paesi ricchi si teme
di subire il predominio di chi per secoli e' stato mortificato. Ma il timore
diventa un pericolo a sua volta e induce a comportamenti spesso disumani" e
la nota editoriale "Anticipiamo parte dell'introduzione al libro La paura
dei barbari. Oltre lo scontro delle civilta' (Garzanti, pp. 288, euro
16,50)"]

Il XX secolo e' stato dominato, in Europa, dal conflitto tra regimi
totalitari e democrazie liberali. All'indomani della seconda guerra
mondiale, dopo la disfatta del nazismo, questo conflitto ha assunto la forma
di una guerra fredda globale, rafforzata in periferia da alcuni confronti
"caldi" ben delimitati... Si trattava di una suddivisione della terra
secondo criteri politici, anche se si aggiungevano altre caratteristiche: il
terzo mondo era povero, l'Occidente ricco, mentre nei paesi comunisti
l'esercito era ricco e la popolazione povera (ma non poteva dirlo).
La situazione e' rimasta immutata per piu' di mezzo secolo. Mi stava molto a
 cuore, perche' sono nato nell'Europa dell'Est, in Bulgaria, dove sono
cresciuto prima di trasferirmi in Francia all'eta' di ventiquattro anni.
Questa ripartizione dei paesi del mondo mi sembrava destinata a durare in
eterno - o almeno per tutta la mia vita. Questa convinzione spiega, forse,
la gioia da me provata quando, intorno al 1990, i regimi comunisti europei
sono crollati, uno dopo l'altro. Non c'era piu' motivo di opporre l'Est
all'Ovest, ne' di contendere per il dominio universale, percio' ogni
speranza era lecita...
A distanza di circa vent'anni, siamo costretti a constatare che si trattava
di una speranza illusoria: sembra che tensioni e violenze tra paesi non
debbano scomparire dalla storia mondiale. Il grande confronto tra l'Est e
l'Ovest aveva messo in secondo piano ostilita' e opposizioni, che in breve
tempo sono tornate di attualita'. I conflitti non potevano svanire come per
incanto, perche' le loro cause profonde erano ancora presenti e forse si
erano perfino intensificate...
Oggi e' possibile dividere i paesi del mondo in diversi gruppi, a seconda di
come reagiscono alla nuova congiuntura... Per descrivere questa
ripartizione, prendero' le mosse da una tipologia recentemente proposta da
Dominique Moisi, completandola e adattandola al mio scopo, senza dimenticare
le semplificazioni che impone.
Definiro' il sentimento dominante di un primo gruppo di paesi come
l'appetito. La loro popolazione ha spesso la convinzione, per i motivi piu'
diversi, di essere stata esclusa dalla ripartizione delle ricchezze; oggi e'
venuto il suo turno. Gli abitanti vogliono approfittare della
mondializzazione, del consumismo, degli svaghi e per raggiungere tale scopo
non badano a mezzi. E' stato il Giappone, sono ormai trascorsi alcuni
decenni, ad aprire questa via, nella quale e' stato seguito da molti paesi
del Sud-est asiatico, ai quali si sono recentemente aggiunti Cina e India.
Altri paesi, altre parti del mondo hanno la medesima intenzione: il Brasile,
domani senza dubbio il Messico, il Sudafrica...
Il secondo gruppo di paesi e' quello in cui il risentimento gioca un ruolo
essenziale. Questo atteggiamento deriva da un'umiliazione, reale o presunta,
che sarebbe stata loro inflitta dai paesi piu' ricchi e piu' potenti. E'
diffuso, a livelli diversi, in buona parte dei paesi che hanno una
popolazione in maggioranza musulmana, dal Marocco al Pakistan. Da un po' di
tempo, e' presente anche in altri paesi asiatici o dell'America latina. Il
bersaglio del risentimento sono gli antichi paesi colonizzatori d'Europa e,
in maniera crescente, gli Stati Uniti, considerati responsabili della
miseria privata e dell'impotenza pubblica...
Il terzo gruppo di paesi si distingue per il ruolo che occupa in loro la
paura. Sono i paesi che costituiscono l'Occidente e che hanno dominato il
mondo per molti secoli. La loro paura riguarda i due gruppi che abbiamo
descritto prima, ma non e' della stessa natura. Dei "paesi dell'appetito" i
paesi occidentali, soprattutto quelli europei, temono la forza economica, la
capacita' di produrre a minor costo e dunque di fare man bassa sui mercati,
insomma, hanno paura di subirne il predominio economico. Dei "paesi del
risentimento" temono invece gli attacchi fisici che ne deriverebbero, gli
attentati terroristici, le esplosioni di violenza; e poi le misure di
ritorsione di cui questi paesi sarebbero capaci sul piano energetico, dal
momento che i piu' grandi giacimenti di petrolio si trovano nei loro
territori.
Un ultimo quarto gruppo di paesi, distribuiti su diversi continenti,
potrebbe essere indicato come quello dell'indecisione: un gruppo residuale i
cui membri rischiano di farsi dominare un giorno dall'appetito o dal
risentimento, ma che per il momento rimangono estranei a questi sentimenti.
Nel frattempo, le risorse naturali di questi territori sono razziate dai
residenti degli altri gruppi di paesi, con la complicita' attiva dei loro
dirigenti corrotti; a cio' si aggiunge la desolazione causata dai conflitti
etnici. Alcuni strati della loro popolazione, spesso ridotti in miseria,
tentano di introdursi nei "paesi della paura", paesi piu' ricchi, per
cercare di condurre una vita migliore...
I paesi occidentali hanno tutto il diritto di difendersi dalle aggressioni e
dagli attacchi ai valori sui quali hanno scelto di fondare i loro regimi
democratici. Soprattutto devono combattere con fermezza ogni minaccia
terroristica e ogni forma di violenza. Peraltro, hanno tutto l'interesse a
non lasciarsi coinvolgere in una reazione sproporzionata, eccessiva e
abusiva, che darebbe luogo a risultati contrari a quelli attesi.
La paura diventa un pericolo per coloro che la provano, percio' non bisogna
lasciarle giocare il ruolo di sentimento dominante. E' anche la principale
giustificazione dei comportamenti spesso definiti "disumani". La paura della
morte che minaccia la mia incolumita' o, peggio ancora, persone a me care,
mi rende capace di uccidere, mutilare, torturare. In nome della protezione
delle donne e dei bambini (i nostri), sono stati massacrati un gran numero
di uomini e donne, di anziani e bambini (degli altri). Quelli che vorremmo
definire come dei mostri molto spesso hanno agito mossi dalla paura per i
loro cari e per se stessi... E una volta accettato di uccidere, si approvano
anche i passi successivi: la tortura (per ottenere informazioni sui
"terroristi"), la mutilazione dei corpi (per mascherare gli omicidi con
crimini a scopo di rapina o esplosioni accidentali): ogni mezzo e' buono per
ottenere la vittoria - e, cosi' facendo, allontanare la paura.
La paura dei barbari e' cio' che rischia di renderci barbari. E il male che
ci faremo sara' maggiore di quello che temevamo di subire. La storia
insegna: il rimedio puo' essere peggiore del male. I totalitarismi si sono
presentati come un mezzo per guarire la societa' borghese dai suoi vizi,
eppure hanno dato vita a un mondo piu' pericoloso di quello che
combattevano. La situazione attuale senza dubbio non e' cosi' grave, ma
rimane inquietante; c'e' ancora tempo per mutare orientamento.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 325 del 21 aprile 2009

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