[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
Voci e volti della nonviolenza. 305
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 305
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 25 Feb 2009 15:15:39 +0100
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 305 del 25 febbraio 2009 In questo numero: 1. Alcuni estratti da "Ernesto Balducci e il dissenso creativo" di Enzo Mazzi 2. Alcuni estratti da "Il mio Novecento" di Angelo Del Boca (parte seconda e conclusiva) 3. Simonetta Fiori presenta "Album Auschwitz" 4. Shlomo Venezia presenta "Album Auschwitz" 5. Angela Merkel: Commemorando le vittime del nazismo 1. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "ERNESTO BALDUCCI E IL DISSENSO CREATIVO" DI ENZO MAZZI [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Enzo Mazzi, Ernesto Balducci e il dissenso creativo, Manifestolibri, Roma 2002] Indice del volume Introduzione; Osare contro ogni speranza; I segni dei tempi; L'Avventura ereticale al potere? Dissenso-esodo-resurrezione; La rivoluzione culturale del dissenso: dall'antagonismo alla convergenza; La rivoluzione nonviolenta; L'uomo planetario; Oltre il tempio; L'esodo-liberazione; Dalla sacralita' alla laicita'; L'immersione della non-storia; Documenti di Ernesto Balducci: Nel travaglio del parto; Le ragioni ecclesiali della mia indignazione; Il matrimonio nel vangelo e nella teologia; O dio liberaci da dio. * Da pagina 7 Il crogiuolo dei fermenti di dissenso creativo Ernesto Balducci e' uno dei testimoni di una Firenze che nei decenni dopo il fascismo e dopo la guerra ha dato un forte contributo alla diffusione planetaria di una nuova speranza nel superamento di tutti i confini, di tutti i nazionalismi e di tutti i razzismi comunque mascherati, nel raggiungimento di crinali storici che si aprivano su orizzonti inediti. E' un testimone di una Firenze trainante, ad opera dei movimenti di base negli anni '60, nel grande sforzo di unificazione del pianeta nel segno del dissenso creativo, dopo che la guerra e l'equilibrio del terrore avevano dato si' al mondo la coscienza della interdipendenza globale, ma nel segno tragico della distruzione e della paura. Balducci e' un testimone di una Firenze dove tante persone hanno pagato prezzi assai alti per il loro impegno in questo tentativo grandioso di transizione dalla globalizzazione della paura e della sottomissione alla globalizzazione del dissenso creativo e della speranza. Un esempio e' l'esperienza del sindaco Giorgio La Pira. E' arduo parlar di dissenso in relazione a La Pira, cosi' ligio al principio di autorita'. Come giudicare pero' il suo andar controcorrente? Le sue contraddizioni ci possono forse impedire di affermare che il suo impegno complessivo si sviluppo' sotto il segno del "dissenso" verso la guerra fredda e verso tutte le strategie di contrapposizione e di demonizzazione reciproca dei due mondi che si contendevano il dominio globale, economico, culturale, ideologico, militare, strategie di cui le chiese cristiane si facevano anima? Altri segni profetici di dissenso creativo, fra i tanti della memoria fiorentina: don Lorenzo Milani, "l'obbedientissimo disobbediente", con la scuola di Barbiana tesa, pur fra tante contraddizioni, alla diffusione mondiale della coscientizzazione delle classi popolari, "uniche capaci - diceva - di raddrizzare il mondo quando l'avranno giudicato e condannato con mente aperta e sveglia come la puo' avere solo un povero che e' stato a scuola", un povero che ha imparato che "l'obbedienza non e' piu' una virtu'"; l'impegno dell'architetto Giovanni Michelucci, il quale in opposizione alla "citta' carcere" progettava "la citta' tenda", la citta' cioe' che si espande accettando dentro di se' il diverso non per puro dovere di ospitalita' ma come speranza progettuale, come cultura superiore rispetto agli equilibri militari e del terrore che ci sovrastano e ci rendono tutti come carcerati; la rivista "Il Ponte" animata da Enzo Enriques Agnoletti; la comunita' della Resurrezione, una delle prime comunita' di base, animata da don Luigi Rosadoni; i preti operai fiorentini fra i primi in Italia a cimentarsi col lavoro in fabbrica; l'esperienza dell'Isolotto in cui, anche qui fra tante contraddizioni, un insieme di culture negate si trasforma in un crogiolo di identita' comunitaria oltre i confini, oltre ogni "tempio", trovando risonanze e affinita' in tutto il mondo. Qui, in questo crogiuolo di "dissenso creativo" si colloca e trova il suo senso piu' pregnante l'esperienza di Ernesto Balducci. Lui chiamava tale crogiuolo "momento aureo". * Da pagina 20 Dissenso e' un termine negativo e in senso negativo viene usato ampiamente a scopo repressivo. In realta' il dissenso presuppone creativita' positiva e la genera. Il dissenso si potrebbe avvicinare al senso critico o al pensiero divergente o al profetismo biblico. Il dissenso e' come l'anima della vita, della storia e non ultimo della fede. Senza dissenso c'e' solo sudditanza, servilismo, dipendenza, idolatria. Senza possibilita' di esprimere dissenso c'e' regime, autoritarismo, dominazione. E' quanto afferma ripetutamente lo stesso Balducci, in particolare in una intervista pubblicata su I nuovi preti di Mario Pancera (Sperling & Kupfer, Milano 1977). L'autore domanda: "Il popolo cattolico puo' allora esimersi dall'obbedire alla gerarchia ecclesiastica cosi' com'e' ancor oggi intesa?". Balducci non si sottrae alla domanda insidiosa e da' una risposta che certamente non avrebbe data in quegli stessi termini dieci anni prima, negli anni caldi: "L'obbedienza ha rovinato il mondo. L'obbedienza e' diventata uno strumento per l'alienazione della coscienza. E, una volta alienata la coscienza, l'uomo e' in stato di totale soggezione al potere. Il Vangelo invece annuncia la liberazione dell'uomo. [...] Annunciare il Vangelo senza annunciare la liberazione dallo stato di dipendenza significa usare il Vangelo come oppio per i popoli". * Da pagina 55 La rivoluzione culturale del dissenso: dall'antagonismo alla convergenza Settembre 1995. L'Associazione "Ernesto Balducci" di Zugliano mi ha invitato a dare una testimonianza su Ernesto nell'ambito di un tema a lui cosi' caro quale il rapporto fra la fede, le religioni e la citta'. Non solo delle sue idee vorrei parlare, ma della sua esperienza di vita e delle sue relazioni all'interno delle quali hanno valore le ardite intuizioni, le lucide analisi e le luminose prospettive. Non solo della sua singolarita' vorrei parlare ma di quella fucina ribollente e di quel fiume in piena che fu la Firenze dei decenni dopo la guerra e di quella matrice feconda che fu il processo planetario di transizione e di trasformazione complessiva a cui egli fortemente contribui' e che da' senso e pregnanza alla sua singolarita'. Parlando al Convegno fiorentino di "Testimonianze" su La sfida delle citta', nel dicembre 1987, egli delineava con un paradosso il processo di crisi/rinascita della citta': "e' finita l'epoca della citta'; comincia l'epoca della citta'". Quando dice "citta'" egli intende la rete delle relazioni umane, lo spazio del rapporto diretto tra uomo e uomo, tra uomo e societa', tra uomo e natura. Si potrebbe dire che per lui la citta' e' la comunita' umana nella sua essenzialita'. E' un tema che mi e' molto caro perche' sulla rete di relazioni, che noi chiamiamo "comunita' di base", ho scommesso insieme a tanti altri il senso dell'esistenza. L'antinomia enunciata e' giustificata dal fatto che "la citta' che finisce non e' la stessa cosa della citta' che nasce; l'uomo che abita la prima non e' l'uomo che abita la seconda". E li', nel cuore di questa trasformazione antropologica, collocava la pietra fondamentale della sua speranza: "Ecco perche' - diceva - la possibilita' di un futuro e' legata a una condizione, quella della transizione da una cultura di guerra a una cultura di pace". Ma la citta' non e' spettatrice di questa transizione. Non sta li' nella notte della crisi ad aspettare un nuovo sole che le consenta di rivivere. La citta' e' "il laboratorio primo di questa transizione": essa "dovra' reinventare se stessa agendo su due fronti, quello esterno e quello interno". Il fronte esterno e' per Balducci "la formazione di una civilta' planetaria, di una 'Ecumenopoli' come la chiama Toynbee, di una 'citta'-mondo' come la chiama Mumford, che renda sempre piu' desuete le forme aggregative degli Stati ispirate sempre alla volonta' di potenza e alla legge competitiva del mercato". Balducci non e' un sognatore ingenuo: egli si guarda dal contrapporre la diplomazia delle citta' alla diplomazia degli Stati come se questa fosse il passato e quella il futuro. Egli tiene ben presente che la dialettica tra il vecchio e il nuovo attraversa l'intera societa' internazionale nelle sue articolazioni politiche, economiche e religiose. Ma il punto generativo e risolutivo di questa dialettica sono per lui le citta'. E' questo il principio della speranza che egli individua come senso di un processo storico e di un trapasso storico in se' ambiguo. E su questo insiste: sono le citta' il grembo della gestazione, "le citta' in quanto spazi naturali della elaborazione del rapporto diretto tra uomo e uomo, tra uomo e societa' e tra uomo e ambiente". 2. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "IL MIO NOVECENTO" DI ANGELO DEL BOCA (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA) [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Angelo Del Boca, Il mio Novecento, Neri Pozza, Vicenza 2008] Da pagina 405 Si chiude il secolo e il secondo millennio. Un bilancio amaro e inquietante Si chiude quello che lo storico Eric J. Hobsbawm ha definito "il secolo breve". E tuttavia e' stato un secolo denso di avvenimenti, per lo piu' crudeli, come pochi altri. Un secolo che ha visto due guerre mondiali, con un centinaio di milioni di morti. Ha visto l'Olocausto e la proliferazione dei Gulag. Ha visto il massacro degli armeni (1894-1918), dei malgasci (1947), la decimazione degli abitanti di Nanchino (1937), lo sterminio di due milioni di cambogiani (1971-'75). Ha visto una serie quasi ininterrotta di guerre locali, di cui nessuno ha saputo tenere la contabilita' delle vittime. Un secolo che ha assistito a uno sviluppo tecnico immane e inarrestabile, ma non privo di rischi. "Se dovessi dire che cosa ai miei occhi e' stato decisivo", ha dichiarato il filosofo tedesco Hans Georg Gadamer, "risponderei che questo secolo ha inventato un'arma mediante la quale la vita sul pianeta puo' annientare se stessa. Questa e' la situazione inquietante cui siamo esposti. Senza tenere conto di cio', non si capisce nulla dell'attuale politica americana. Possiamo ancora sognare che alla fine una qualche potenza ci salvera'. Forse questa potenza e' Dio". Il secolo che muore ha visto il trionfo e la caduta delle ideologie. Prime a scomparire, quella fascista e quella nazista, nella grande fornace della seconda guerra mondiale. Ultima a dissolversi, con la caduta del muro di Berlino, quella comunista, che pure ha alimentato le speranze in un mondo migliore di centinaia di milioni di uomini. Dopo il 1989, a dettare le regole, e' rimasto soltanto il capitalismo, che cerca di fare del pianeta un mercato globale. Con la scomparsa dell'Unione Sovietica, che era uno dei due paesi che tutelavano la sicurezza collettiva pur ricorrendo all'equilibrio del terrore, a dominare il pianeta e' rimasto soltanto l'impero americano, il quale spesso si sostituisce alle Nazioni Unite nella funzione di gendarme del mondo. Il crollo delle dittature fascista e nazista e la caduta dell'utopia socialista, per lasciar spazio al villaggio globale, non hanno portato a quei concreti miglioramenti che tutti invocavano. La fine dell'incubo nucleare non ha coinciso con l'avvio di un periodo di pace e di prosperita'. Assistiamo al contrario a una proliferazione di conflitti razziali e di "pulizie etniche". Dopo le stragi nelle ex repubbliche della Jugoslavia, nell'Africa centrale e orientale, nelle repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale, ora si sta combattendo nel Kashmir, nel Dagestan, in Cecenia, nell'Afghanistan, nell'isola di Timor Est [...]. Questo stato precario del mondo e' in parte da imputare all'inefficienza delle Nazioni Unite, che il piu' delle volte giungono in ritardo a spegnere i conflitti, per mancanza di mezzi, ma anche per i veti incrociati che paralizzano il Consiglio di sicurezza. Ma forse si e' fatto troppo affidamento sull'Onu, un organismo ormai segnato dal tempo e che andrebbe perlomeno modificato e potenziato. Tanto piu' da quando gli Stati Uniti, non piu' contrastati dall'Unione Sovietica, impongono ovunque la loro volonta' inseguendo i propri interessi politici, strategici ed economici. Una presenza tanto ingombrante e a volte arrogante da far rimpiangere ad alcuni l'assetto bipolare di un tempo. [...] Un altro dato inquietante che emerge sul finire del XX secolo riguarda la distribuzione della ricchezza nel mondo. Quaranta milioni di persone muoiono ogni anno di fame. Quattrocento milioni di uomini, donne e bambini vivono in uno stato di schiavitu', come nei periodi piu' bui della storia. Oltre un miliardo e trecento milioni di esseri umani sopravvive con meno di un dollaro al giorno. Di rimando, le tre persone piu' ricche del pianeta possiedono beni che superano la somma del Pil (prodotto interno lordo) dei 48 paesi meno avanzati, mentre le 84 persone piu' ricche della terra hanno accumulato ricchezze che superano il Pil della Cina, che ha un miliardo e duecento milioni di abitanti. E cio' significa che nel villaggio globale dominato dalle leggi del libero mercato i ricchi sono destinati a diventare sempre piu' ricchi e i poveri sempre piu' poveri. Nell'agosto 1999 i ministri della Cooperazione e dello sviluppo di quattro fra i paesi piu' ricchi del mondo, Gran Bretagna, Germania, Danimarca e Norvegia, hanno lanciato un appello per combattere fame e sottosviluppo nei paesi del Terzo Mondo. Il primo nodo da sciogliere, per venire in soccorso ai paesi piu' poveri, e' quello del debito estero, che nel 1998 ammontava a 2066 miliardi di dollari, per il quale i paesi indebitati pagano ogni anno 272 miliardi di dollari di soli interessi, pari al 13% del valore delle loro esportazioni. Ma si tratta di una voragine difficilmente colmabile, se si pensa che l'Italia, per esempio, dispensa per la cooperazione soltanto l'1 per mille del Pil [...]. C'e' da augurarsi che ai ripetuti appelli alla generosita' di quel sesto della popolazione che possiede i tre quarti della ricchezza del globo facciano seguito decisioni in grado di incidere veramente sul destino delle popolazioni meno fortunate. Ma non e' soltanto la poverta' che marchia vistosamente questa fine di secolo. Nell'ultimo decennio l'umanita' ha preso coscienza, purtroppo tardivamente, che la salute del pianeta e' in serio pericolo. "Tra un secolo", ha scritto Bili Mckibben, "la gente non ricordera' gli anni Novanta come il decennio della diffusione di Internet, ma come gli anni in cui la temperatura del pianeta si e' elevata, gli anni in cui pioggia, vento, mare e ghiaccio cominciarono in modo irrefutabile a riflettere il potere e la distruzione della nostra specie". Il riscaldamento del globo, con tutti i suoi effetti disastrosi, non e' piu' soltanto un'ipotesi azzardata, ma una realta' acquisita. E tuttavia poco o nulla si fa per salvare lo strato di ozono che protegge il pianeta. Ancora oggi vengono liberati nell'atmosfera, ogni anno, 1400 milioni di tonnellate di clorofluorocarburi. E contemporaneamente vengono distrutti i polmoni del pianeta, le grandi foreste equatoriali del Brasile, dell'Indonesia, dell'Africa centrale. * Da pagina 44 Il 9 novembre 2004, dopo alcuni svenimenti provocati da sincope vaso-vagale, mi veniva impiantato, alla clinica Pinna Pintor di Torino, un pacemaker di fabbricazione americana. L'apparecchio, tarato a cinquanta pulsazioni, sarebbe entrato in funzione soltanto quando il mio cuore sarebbe sceso sotto questa frequenza. La consapevolezza di avere in corpo uno strumento che impediva il ripetersi di fastidiose lipotimie, mi restituiva la serenita' e la voglia di lavorare. Il 28 dicembre cominciavo infatti a scrivere l'Introduzione di Italiani, brava gente, la parte piu' difficile, per la quale avevo dovuto acquistare una montagna di libri di viaggiatori stranieri che avevano percorso l'Italia a partire dal Seicento. Leggo nel mio Diario, alla data del 12 gennaio 2005: "Stamane mi sono svegliato affogato nel peggior pessimismo. Addirittura ho pensato che non avrei potuto condurre a termine il libro che sto scrivendo. Poi, pero', dopo un paio di ore di lavoro, mi sono ripreso. Non e' la prima volta che, all'inizio di un libro, sono preso dal panico. Questa volta, poi, c'e' la consapevolezza che mi sto mangiando gli 80 anni. Non e' piacevole giungere a questa eta' e accorgersi che quasi tutti i tuoi amici se ne sono gia' andati e non puoi piu' confidarti con nessuno". Il 26 gennaio si spegneva anche Frederick William Deakin, il primo grande storico della Repubblica sociale italiana. "Se ne va un altro amico, un altro prezioso collaboratore di 'Studi piacentini'" scrivevo nel Diario. "Dei vecchi, non mi restano che Basil Davidson, Enrico Serra e Vittorio Lanternari. In vent'anni ho dovuto cancellare dal comitato scientifico una quindicina di nomi. Addio William!". Nonostante il difficoltoso avvio, il 14 giugno finivo di scrivere il libro. Trecento pagine in meno di sei mesi, un record anche per me. A caldo mi sembrava un buon lavoro, specie per l'impianto storico, un po' meno per quello ideologico. Comunque, come sempre mi accade quando concludo un libro, navigavo nei dubbi, e certo non avrei mai pensato che avrebbe avuto otto edizioni, venduto piu' di trentamila copie e ottenuto due premi di risonanza nazionale, l'Acqui Storia e il premio Omegna della Resistenza. Scrivevo nell'Introduzione: "Nel ripercorrere, in questo libro, la storia d'Italia dalla guerra al brigantaggio al secondo conflitto mondiale, prenderemo in esame alcuni episodi, particolarmente efferati, accaduti in Italia, in alcuni paesi europei occupati dalle forze dell'Asse e nelle colonie italiane d'oltremare, e ne illustreremo la dinamica nel preciso contesto storico. Possiamo pero' gia' anticipare che non esistono attenuanti per i protagonisti di questi episodi, perche' le colpe evidenziate sono troppo palesi, inconfutabili. Il mito degli 'italiani brava gente', che ha coperto tante infamie, e anche queste che esporremo, appare in realta', all'esame dei fatti, un artificio fragile, ipocrita. Non ha alcun diritto di cittadinanza, alcun fondamento storico. Esso e' stato arbitrariamente e furbescamente usato per oltre un secolo e ancor oggi ha i suoi cultori, ma la verita' e' che gli italiani, in talune circostanze, si sono comportati nella maniera piu' brutale, esattamente come altri popoli in analoghe situazioni. Percio' non hanno diritto ad alcuna clemenza, tantomeno all'autoassoluzione". Nel descrivere gli episodi di inaudita violenza, che ho selezionato fra quelli accaduti tra il 1861 e il 1946, pur rifiutandomi di porre l'Italia liberale e fascista in cima alla classifica dei paesi piu' brutali, non ho pero' usato alcuna indulgenza, poiche' ritengo che il libro possa avere, specie nei riguardi delle piu' giovani generazioni, anche una funzione educativa e informativa, viste le rilevanti lacune nei testi scolastici. Un libro severo, dunque, in qualche parte spietato. E tuttavia l'ho pero' chiuso con una nota di speranza: "Noi siamo persuasi che un giorno, forse neppure lontano, quando cesseranno del tutto le rimozioni e le false revisioni; quando non ci saranno piu' carte da nascondere in qualche 'armadio della vergogna' e tramontera' la leggenda del 'fascismo buono' e del confino di polizia gabellato da Mussolini come un luogo di villeggiatura; allora si potra' finalmente seppellire anche il falso mito degli 'italiani brava gente', che ha coperto e assolto troppe infamie. [...] "Ma [...] c'e' anche un esercito, in Italia, che non indossa divise, che non porta armi, che non ha caserme. Un esercito di milioni di giovani e di non piu' giovani, che si va ingrossando ogni anno e che e' tenuto insieme dall'amore verso il prossimo, da una grande, infinita, disponibilita' a lenire i patimenti e le angosce degli altri. E' l'esercito dei quattro milioni di volontari, che ogni giorno, in silenzio, quasi in segreto, scende nelle strade dell'Italia e del mondo per combattere la sofferenza nei suoi mille aspetti. E' un esercito composto da 38.000 organizzazioni, che opera nell'ambito della sanita', della protezione civile, del servizio ambulanze, dell'assistenza domiciliare ai malati e ai disabili, del doposcuola ai bambini e del sostegno agli immigrati. Un esercito senza generali, senza mostrine, senza medaglie, senza fanfare, che non percepisce salari e il cui solo compenso si esaurisce e si esalta nel gesto d'amore. Se ci sono italiani che meritano di essere definiti 'brava gente', nell'accezione vera, non autoassolutoria, non mitizzata, questi sono proprio gli splendidi e umili operai del volontariato". 3. LIBRI. SIMONETTA FIORI PRESENTA "ALBUM AUSCHWITZ" [Dal quotidiano "La Repubblica" del 20 gennaio 2008 col titolo "Auschwitz mai vista" e il sommario "Una giornata nel lager. Per la prima volta viene pubblicato in Italia uno straordinario documento fotografico: l'arrivo e l'eliminazione degli ebrei, le ultime immagini prima del buio. E' la primavera del 1944. Due ufficiali nazisti scattano centinaia di foto agli ebrei sottoposti alla 'Selektion' per documentare l'efficienza della loro macchina di morte. Ora l'Album Auschwitz, dopo una storia rocambolesca, viene pubblicato in Italia da Einaudi. E svela i volti e i gesti di uomini, donne e bambini sull'orlo dell'abisso. Lili Jacob cercava una coperta e trovo' le immagini di gente che conosceva bene. Solo nel 1980 Lili si decise a separarsi dall'album per darlo allo Yad Vashem"] Cercava una coperta per riscaldarsi, ma nel vecchio armadio dell'infermeria Lili Jacob trovo' un album spiegazzato. Non era il momento per guardare le fotografie - nel campo di concentramento di Dora erano appena arrivati gli alleati - ma alla giovane deportata basto' un attimo per capire che quelle immagini le appartenevano. C'erano i suoi fratellini la' dentro, Sril e Zelig, nei loro cappottini impreziositi dagli alamari, e il nonno Abraham con la nonna Sheindele leggermente ricurvi sui bastoni, guarda c'e' anche il cugino Mendel con quella sua aria da signorino, e la zia dall'espressione un po' corrucciata. Erano foto di famiglia, anzi di famiglie, con il rabbino e suo fratello, l'avvocato Hegedush in doppiopetto e borsalino, la signora Falkovics nel suo tailleur impeccabile nonostante il viaggio sul carro bestiame, e tutti quei bambini accalcati lungo i binari, le manine intrecciate a quelle dei grandi, lo sguardo perso tra incredulita' e timore. E le gigantesche stelle gialle, ingombranti e fuori misura, surreali come tutto il resto. Lili ricordava bene quella giornata di maggio ad Auschwitz, il loro arrivo nel campo di Birkenau nella primavera del 1944. Erano le ultime ore trascorse con i suoi. Avevano viaggiato per giorni stipati in soffocanti vagoni dalla Rutenia carpatica, una regione dell'Ungheria. Sulla banchina centrale, affollata di gente e bagagli, tutto sembrava incomprensibile e folle. Ma era ancora vita, pur nei suoi ultimi residui di dignita'. I gesti premurosi delle madri, la complicita' tra le donne, i sorrisi incerti dei piu' vecchi, anche la curiosita' verso quell'obiettivo che li riprendeva. Vite sospese, non ancora sfigurate dallo sterminio. Una marcia inconsapevole verso le camere a gas. Lei no, Lili s'era salvata, unica sopravvissuta della sua famiglia. "Abile al lavoro", aveva decretato il Caronte in divisa, con la pacata sicurezza di chi svolge il suo ufficio di ogni giorno. Il braccio elevato verso sinistra significava la Lagerstrasse e la Zentralsauna, ossia i campi di lavoro. Il gesto contrario indicava i forni crematori. Prima pero' c'era la sosta nel bosco di betulle, l'ultimo inganno. Ecco tra le fotografie scattate nel verde del Birkenwald la piccola Gertel Mermelstein, la bambina infiocchettata, che fa le polpettine con la terra. Un momento di sollievo all'aria aperta, penso' Lili mentre sfogliava le pagine, una "scampagnata" proprio davanti alle "docce". La giovane donna strinse a se' quell'album e il segreto che custodiva. Gli ultimi istanti prima del buio. Mostra la vita, non la morte, questa testimonianza visiva senza precedenti sullo sterminio, quasi duecento fotografie pubblicate ora per la prima volta in Italia. Ed e' forse questo slittamento a toccare le corde piu' profonde. "Un senso di disagio interiore molto forte", confessa Marcello Pezzetti, curatore dell'Album Auschwitz e direttore del nuovo Museo della Shoah in allestimento a Roma. Non piu' volti scarnificati, cumuli di scarpe ed occhiali, uomini senza capelli e senza nome da cui ci si ritrae perche' altro da se'. Non piu' il disumano di Primo Levi o l'Urlo di Munch. Sotto l'obiettivo professionale di due ufficiali nazisti, incaricati del reportage dalla fabbrica della Shoah, scorrono scene di vita quotidiana. Cittadini europei che marciano ignari verso i forni crematori. "Ci appartengono, sono parte di noi", dice Pezzetti. In loro riconosciamo i nostri gesti piu' ordinari, espressioni d'amore o d'angoscia, anche inattese solidarieta', i figli piu' grandi che badano ai piu' piccoli, i bambini con le mani in bocca, le nonne che vegliano. E soprattutto gli sguardi: occhi pieni di stupore e innocenza, occhi che interrogano, occhi che non sanno - commenta con sottigliezza Simone Veil - e dunque non possono comprendere le lacrime di noi che li guardiamo, testimoni muti e consapevoli. Nato per documentare la straordinaria efficienza della macchina della morte, l'Album Auschwitz finisce per ritrarre la vita. Quei momenti preziosi a un passo dall'inferno. Della "Selektion" e' documentata ogni fase, dall'arrivo sulla rampa alla confisca dei beni e alla condanna finale, ma la macchina fotografica degli ufficiali Bernhard Walter ed Ernst Hofmann si ferma davanti al cancello del crematorio. No, li' non si entra, e' meglio non mostrare. Si fa finta che sia una doccia di disinfestazione, e anche gli ebrei si illudono. "Ricordatevi il numero dell'appendiabito", suggerisce gentile il medico nazista, lo stesso che li ha selezionati, "cosi' dopo ritroverete la vostra roba". In dieci minuti e' finito tutto. Le macchine della Top & Soehne di Erfurt fanno il resto. Ma quello nell'album non si vede, non e' buona propaganda. Non traspare violenza ne' aggressivita' in queste foto. Le Ss hanno messo via fruste ed armi, non urlano piu', anche i loro corpi appaiono distesi. "Siamo nella fase piu' alta e perfetta della soluzione finale", dice Pezzetti. "I nazisti avevano capito che, per uccidere il maggior numero di ebrei nel minor tempo possibile, c'era bisogno d'ordine. E l'ordine si otteneva non con la forza ma con la finzione, con le parole ingannevoli". E' la filosofia espressa da Maximilien Aue, il ripugnante ufficiale delle Einsatzgruppen ritratto da Jonathan Littell in Le Benevole. "Una donna vedendomi mi domando' indicandomi suo figlio 'Herr Offizier! Potremo restare insieme?'. 'Non si preoccupi signora, non sarete separati'. L'importante era rasserenarli, non suscitare reazioni agitate". E infatti non c'e' disperazione nei volti di questi deportati, solo occhi che chiedono una risposta. Non sara' facile, nel dopoguerra, persuadere Lili a cedere l'album avventurosamente ritrovato. Era la sua storia, e quella della sua famiglia. Era la storia della sua comunita', un gruppo di ebrei ungheresi cresciuti nelle campagne, piccoli artigiani e commercianti, ma anche avvocati, medici, farmacisti, cantanti riconoscibili dagli spolverini eleganti, una comunita' catapultata un giorno di primavera nell'anticamera dell'inferno. Solo col tempo Lili comprendera' il valore pubblico di quelle immagini, grazie alle quali nel 1964 una ventina di carnefici furono condannati all'ergastolo. Ma anche li', sul banco dei testimoni al processo di Francoforte, Lili si oppose alla richiesta del presidente di separarsi dall'album: era un pezzo della sua vita. Fu Serge Klarsfeld, celebre cacciatore di nazisti, a convincerla a regalare le foto allo Yad Vashem di Gerusalemme. Nell'agosto del 1980 Lili si decise a fare il gran passo. "Mi sono tolta un peso dal cuore", disse la donna mentre con le mani tremanti consegnava l'album al museo della Shoah. Il "documento sacro" di Auschwitz non era piu' solo una storia sua, era storia di tutti. 4. TESTIMONIANZE. SHLOMO VENEZIA PRESENTA "ALBUM AUSCHWITZ" [Dal quotidiano "La Repubblica" del 20 gennaio 2008 col titolo "Io, per sempre dentro quel lager"] Ero ad Auschwitz-Birkenau gia' da un mese quando nel maggio del 1944 arrivarono gli ebrei ungheresi dalla Rutenia carpatica. Lavoravo nel Crematorio III, un grande edificio che in queste fotografie s'intravede sul fondo, una torretta alta sulla destra rispetto alla rampa d'arrivo. Facevo parte del Sonderkommando, la squadra speciale addetta ai forni, e sono stato uno dei pochissimi deportati ebrei a essere uscito vivo da li'. Ho visto l'inferno, ma per cinquant'anni me lo sono tenuto dentro, anche per paura di non essere creduto. L'Album Auschwitz ha il potere di riportarmi la' dentro, tra i gironi dell'Ade, anche se in fondo non ne sono mai venuto via. Tento di proteggermi da queste immagini sfiorandole appena con gli occhi, pero' riconosco ogni dettaglio, anche il piu' minuto, perfino i bastoni degli anziani, che tra le nostre mani divennero macabri utensili di lavoro. Ritrovo i volti ignari di quella gente, gli sguardi innocenti di chi va alla morte senza saperlo. Riconosco i loro poveri sacchi, preparati con l'illusione di trovare a Birkenau una nuova casa. Sento le loro voci lontane, un chiacchiericcio indistinto che mi sorprese, nei primi giorni di lavoro nel campo, tra le foglie d'argento del bosco di betulle. Avevo vent'anni, quando arrivai ad Auschwitz dalla Grecia. Fui selezionato per il lavoro nel Crematorio, il peggiore che mi potesse capitare. Naturalmente non avevo idea di cosa mi aspettasse, finche' non ebbi la curiosita' di dare un'occhiata all'interno del fabbricato: rimasi come paralizzato, e ancora quell'immagine di morte mi tormenta. Il primo giorno mi chiesero di ramazzare fuori dall'edificio, togliere le erbacce e pulire un po' il terreno, forse per tenermi ancora distante dall'orrore. L'indomani mi fu consentito di varcare il cancello, per poi scendere nel sottosuolo. La', nello spogliatoio, una sorta di anticamera della camera a gas, erano ammucchiati i panni dei deportati, che dovevano essere consegnati agli uomini del Kanada Kommando. Finito il turno, verso le prime ore del pomeriggio, fummo condotti in un boschetto di betulle, lo stesso che fa da sfondo ad alcune di queste foto. Ricordo ancora la sensazione di sollievo, il profumo del verde e uno strano silenzio interrotto appena dal fruscio delle foglie: era come una pausa nella devastazione interiore prodotta dalla mia recente scoperta. D'improvviso, alle nostre spalle, avvertimmo un gran vociare. Erano i nuovi deportati, centinaia di vecchi, donne e bambini che erano stati portati tra gli alberi in attesa della "doccia". Il Kapo ci costrinse in un angolo, bisognava evitare qualsiasi contatto. Ma io mi sporsi di lato e vidi intere famiglie mettersi in coda davanti a un piccolo bunker, le prime camere a gas di Auschwitz. Un serpente umano animato da un fervore bizzarro. Era stato loro promesso che, dopo la "disinfestazione", sarebbero stati trasferiti in un campo per famiglie e che li' avrebbero ritrovato i loro cari al rientro dal lavoro. Di conseguenza si fidavano, anzi avevano fretta di entrare per poter riabbracciare prima i loro affetti. Qualcuno ha scritto che non ci sara' mai nessuno tanto innocente quanto le vittime sulla soglia delle camere a gas. Questo fu Auschwitz-Birkenau, e l'Album ne e' la piu' straordinaria testimonianza visiva: una gigantesca e atroce finzione, il piu' grande inganno della storia. Ho lavorato per quasi un anno dentro la macchina dello sterminio, chissa' quante volte ho chiuso la pesante botola di cemento sulle camere a gas invase dal micidiale Zyklon B, e c'e' ancora chi mi chiede se ho sensi di colpa. Bisogna esserci stati la' dentro, per comprendere. Non avevamo scelta, al primo rifiuto i tedeschi erano pronti a sopprimerci. Talvolta m'illudevo di portare conforto ai condannati, anche con semplici gesti. Non posso dimenticare lo sguardo mortificato d'una giovane donna, scesa giu' nello spogliatoio insieme ai suoi due bambini. Una signora elegante, dai modi ricercati, come se ne scorgono anche nelle fotografie dell'Album. Sembrava una statua di cera nella gran confusione dei dannati. Non accennava un gesto, tanto meno quello di togliersi il vestito. Prima che intervenisse una Ss con la frusta, mi avvicinai con garbo e in francese le dissi di affrettarsi. Se provava vergogna, avrei fatto io da paravento. Mi scruto' incerta tra umiliazione e gratitudine, poi scivolo' silenziosa dentro la camera a gas. Anche i prigionieri del Kanada Kommando, riconoscibili per la divisa a righe, suggerivano parole rasserenanti, anche consigli di sopravvivenza. Talvolta, prima della selezione, riuscivano a salvare qualche vita. "Quanti anni hai?", chiedevano non visti ai piu' giovani. "Quattordici". "No, ne hai diciotto. Capito, devi dire diciotto...". Nell'anagrafe poteva esserci condanna o salvezza. Sempre loro, gli uomini del Kanada Kommando, toglievano i figli dalle braccia delle donne, per affidarli premurosamente alle nonne: era un modo per salvare la vita delle madri. Ne avevano il diritto? Per decenni hanno continuato a chiederselo. Sfoglio l'Album e mi ballano in testa mille ricordi. Quando arrivarono gli ebrei ungheresi, sul finire di maggio, i binari entravano fin dentro il campo: i deportati, in questo modo, potevano raggiungere ordinatamente a piedi i loro patiboli. Io invece ero sceso un po' prima, sulla Judenrampe, a qualche centinaio di metri dall'ingresso di Birkenau. I nazisti non avevano ancora terminato i lavori ferroviari, progettati per rendere il piu' efficiente possibile la fabbrica dello sterminio. C'era una gran confusione sulla rampa, cumuli di bagagli abbandonati. "Alle runte! Alle runte! Tutti giu', tutti giu'", urlavano i nazisti, ma non era facile saltare dai vagoni sulla piattaforma. M'ero voltato per aiutare mia madre, quando la vista improvvisamente s'annebbio': il manganello d'una Ss era piombato violentemente sulla mia testa. Basto' un attimo per perdersi. Mia madre non l'avrei piu' rivista, ne' lei ne' due sorelline. Se penso ad Auschwitz, risento l'odore della morte. Per tanto tempo l'ho trattenuto tra le mani. Al fetore della carne bruciata che ti avvolgeva appena arrivato a Birkenau si mescolarono ben presto i miasmi delle camere a gas. In tanti anni non me ne sono liberato. Qualsiasi cosa faccia e qualsiasi cosa veda, tutto mi riporta nel campo. Lo dico sempre ai ragazzi che incontro nelle scuole: non si esce mai davvero dal Crematorio. Quella torretta in fondo a destra, nelle prime pagine dell'Album: la' e' rimasta la mia anima. 5. DOCUMENTAZIONE. ANGELA MERKEL: COMMEMORANDO LE VITTIME DEL NAZISMO [Dal quotidiano "La Repubblica" del 26 gennaio 2008 col titolo "Se torna l'antisemitismo in giacca e cravatta"] Ogni anno in una forma diversa, la commemorazione delle vittime del nazionalsocialismo ci riporta vivo davanti agli occhi il volto del capitolo piu' buio della storia tedesca, e ci ricorda le sue conseguenze: un'ondata di guerra, odio e violenza che si abbatte' sull'Europa e sul mondo, l'annientamento a sangue freddo e sistematico dell'insieme della vita ebraica. Nelle mani di noi contemporanei resta lo sconvolgimento per quanto accadde, ma anche la responsabilita' che ne deriva. Anche a nome del governo tedesco, posso dire che ci assumiamo appieno questa responsabilita'. E che naturalmente affrontiamo la questione aperta: come potremo, di generazione in generazione, essere all'altezza di questa responsabilita'? Come potremo esserne all'altezza, quando i testimoni di allora non saranno piu' tra noi? Trovare vie e forme giuste per questo compito e' una responsabilita' del tutto speciale anche per chi oggi ha responsabilita' politiche. Ma al tempo stesso c'e' una molteplicita' di iniziative di persone, voci di tutta la societa' civile, che a fianco del mondo politico fanno proprio questo tema. E cio' e' sempre molto, molto incoraggiante. In questi giorni, ho premiato i giovani vincitori di un concorso, la cosiddetta "Azione macchie bianche": giovani di oggi che nelle loro patrie sono andati a ricercare le piu' piccole tracce, memoria, ricordi storici del rogo dei libri e dei campi di concentramento, ricordi che non sono al centro dell'attenzione e anzi sono quasi dimenticati. E' incoraggiante. C'e' un miracolo, di cui noi tedeschi possiamo solo essere grati: la vita e la comunita' ebraica sono tornate in Germania. Sono sorte tante nuove sinagoghe. A Berlino penso alla sinagoga della Rykestrasse. Vita e cultura ebraica da noi hanno assunto un volto del tutto nuovo attraverso gli ebrei venuti dalla Russia a vivere da noi. E' un compito incredibile, enorme, per la comunita' ebraica in Germania, un compito in cui noi abbiamo il dovere di portare aiuto, dovere legato alla comune responsabilita' verso la societa' intera. Se guardiamo a quale lavoro d'integrazione dei nuovi arrivati viene affrontato dalla comunita' ebraica tedesca, sappiamo che non possiamo in nessun caso lasciarla sola. Nell'ora del ricordo, come oggi, nel momento in cui le vergogne della Germania sono davanti ai nostri occhi, tanto piu' e' spaventosamente inconcepibile che antisemitismo, xenofobia e razzismo esistano oggi nel nostro Paese e si mostrino presenti nella pratica. E non serve dire che cio' accade anche in altri paesi: occorre un regolamento dei conti con questa realta'. Certo, e' lecito dire che affrontiamo questa responsabilita'. Credo che lo facciamo davvero. Combattiamo contro le violenze razziste e le ideologie dell'estrema destra con gli strumenti dello Stato di diritto. A volte discutiamo, e ci dividiamo, su quali strumenti di lotta siano i migliori, se vietare un partito sia possibile o no, se cio' rafforzi o no uno Stato di diritto. Ci sono programmi d'azione e informazione contro l'estremismo di destra, e abbiamo reagito alla violenza d'estrema destra aumentando gli aiuti finanziari a questi programmi. Ma mentre ricordo questo, non voglio nascondere che facendo cio' non abbiamo ancora, minimamente, trovato la ricetta-panacea per affrontare queste sfide. Dobbiamo guardare in faccia una realta'. Cioe' il fatto che di fronte alle paure provate verso la globalizzazione, o verso un presunto eccesso di apertura delle societa' democratiche, l'estremismo di destra e l'antisemitismo ritrovano una possibilita' di farsi strada nelle menti di persone da cui piuttosto non ci si aspetterebbe che cadano vittima di queste tendenze. Un modello di spiegazione di questo fenomeno e' a volte - e bisogna seguirlo - quello che ci dice che naturalmente il pericolo di questa seduzione e' specialmente grande quando le persone stesse che vi sono coinvolte vivono in una situazione sociale difficile. Cio' nonostante, sottolineo che io chiedo sempre di non giustificare mai certe scelte evocando quelle difficolta' sociali. Eppure, ancora, e' certo che le societa' che vengono percepite come giuste sono difese da anticorpi piu' forti contro simili sfide. Insisto, tensioni e problemi sociali non sono mai una scusa per certe derive. Ma a volte io ho anche l'esperienza diretta del fatto che negli strati sociali e ceti piu' istruiti della popolazione si manifestano chiaramente crudi, duri modi di pensare, e un antisemitismo molto ben mascherato, che non e' facilmente riconoscibile. Ma con questa forma di antisemitismo si torna sempre a tentare di definire fenomeni sociali di gruppo, e in base a quelle definizioni dei fenomeni sociali si puo' dichiarare l'emarginazione in un modo o nell'altro. Una delle realta' piu' insostenibili e' il fatto che in Germania non esiste nessuna istituzione o sede ebraica che possa vivere senza protezione della polizia. Nessun Kindergarten ebraico, nessuna scuola ebraica e' priva di agenti schierati sul posto per proteggerla. Cio' non riguarda solo le sinagoghe. Quello che quasi mi preoccupa di piu', e' il fatto che anche in vasti strati della popolazione, malgrado tutta la formazione e l'istruzione sulla Storia, e malgrado tutto quanto e' accaduto, regna una certa Sprachlosigkeit, una tendenza e voglia di silenzio, a proposito della nostra propria storia. E dove c'e' voglia di silenzio, c'e' sempre anche il pericolo che non si parli di temi e problemi, che si taccia o si minimizzi. Per esempio: si puo' criticare Israele? Criticare Israele e' antisemitismo? Alcuni si spingono persino fino a dire "la cosa migliore e' non parlare piu' degli ebrei, cosi' almeno non fai nulla di sbagliato". Questo e' il fenomeno con cui noi dobbiamo fare i conti nel modo piu' urgente nell'educazione politica. Dobbiamo incoraggiare la gente a parlare. Perche' quel modo di pensare che spinge al silenzio, a non discutere piu', puo' trasformarsi e rafforzarsi con il volto dell'antisemitismo e del razzismo. Gia' vediamo diversi fenomeni di questo tipo: dagli episodi di violenza, fino alle forme davvero borghesi dell'antisemitismo. Per questa ragione questa conferenza internazionale sul problema qui a Berlino e' cosi' importante. Perche' ci puo' aiutare nello scambio di idee e testimonianze, specialmente in Germania, ci puo' aiutare a riflettere su cosa si possa fare al meglio e su come al meglio si possa dare una testimonianza, senza cadere nelle accuse e nei sospetti di colpa reciproci. Per questo auspico un dialogo franco e onesto, in cui nessuno nasconda qualcosa sotto il tappeto. Ho menzionato i problemi, ma non per dare un umore depressivo. Pero' mi auguro che riusciremo - e con la nostra societa' democratica abbiamo questa possibilita', se riusciremo ad avere un po' piu' coraggio e a non schivare piu' i confronti - a rendere tabu' e mettere al bando l'antisemitismo e la violenza e a chiarire bene tutto cio' anche alle giovani generazioni, con la nostra azione. ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 305 del 25 febbraio 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/ L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
- Prev by Date: Minime. 742
- Next by Date: Minime. 743
- Previous by thread: Minime. 742
- Next by thread: Minime. 743
- Indice: