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La domenica della nonviolenza. 202
- Subject: La domenica della nonviolenza. 202
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 8 Feb 2009 12:11:09 +0100
- Importance: Normal
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 202 dell'8 febbraio 2009 In questo numero: 1. Annamaria Rivera: Il baratro 2. Luciano Bonfrate: Cantata dell'Internazionale dei morti di fame 3. Curzia Ferrari: Konstantin Stanislavskij 4. Marco Dotti presenta "La morte moderna" di Carl-Henning Wijkmark 5. Riletture: Adolfo Bioy Casares, Diario della guerra al maiale 6. Riletture. Adolfo Bioy Casares, L'invenzione di Morel 1. EDITORIALE. ANNAMARIA RIVERA: IL BARATRO [Ringraziamo Annamaria Rivera (per contatti: annamariarivera at libero.it) per averci messo a disposizione il seguente articolo apparso sul quotidiano "l manifesto" del 7 febbraio 2009 col titolo "Un altro passo verso il baratro"] Il culto delle feste in costume sbocco' nel fascismo, scrive Adorno in uno dei frammenti di Minima moralia: aforisma perfetto ad illustrare l'approdo fascistoide del folclore padano e con esso dell'Italia berlusconiana. Approdo perfettamente incarnato da uno degli artefici piu' entusiasti del ddl sicurezza: quel senatore Bricolo che alterna gli interventi in aula in dialetto veneto con l'esaltazione di Mussolini, le vecchie battute da osteria su questioni serie come i matrimoni misti- "Moglie e buoi dei paesi tuoi" - con la trovata della norma che invita il personale sanitario alla delazione contro i "clandestini", ovvero gli "ebrei" di oggi. Un certo Cicchitto trova che evocare gli anni '30 sia fare dell'umorismo involontario. Solo un poveretto ignaro della storia, dimentico della democrazia e della civilta' giuridica, nonche' privo del senso del tragico, puo' non cogliere che in effetti vi e' qualche vaga analogia. C'e' un sentore di fascismo - non piu' solo il consueto razzismo trasandato all'italiana - nelle norme-manifesto approvate dal Senato: al di la' del loro contenuto, pur grave, l'intento e' anzitutto quello d'imbarbarire ancor di piu' il clima del paese, additargli un capro espiatorio, imprimergli lo stigma del reietto, renderlo piu' docile e sfruttabile come forza lavoro, legittimare il sospetto, la discriminazione, la delazione come normali comportamenti di massa. La sollecitazione, di fatto, al personale sanitario perche' denunci gli irregolari che accedono alle cure. La legalizzazione delle ronde padane quantunque non armate. Il reato d'immigrazione clandestina. La gabella fino a 200 euro per il permesso di soggiorno. Il carcere fino a quattro anni per gli irregolari che non rispettino l'ordine di espulsione. Il rafforzamento e l'estensione della possibilita' di sottrarre la potesta' genitoriale (indovinate a chi?). Il divieto d'iscrizione anagrafica e la schedatura non solo dei clochard, come si dice, ma anche di un buon numero di cittadini italiani - rom, sinti e non solo - che, abitando in dimore diverse da appartamenti, saranno schedati in un registro del ministero dell'Interno. Tutto questo configura un intento persecutorio verso migranti e minoranze, dettato piu' che da razionalita' politica, da meschino calcolo economico e demagogico, connesso con quelle forme di psicosi di gruppo - fobia, ossessione, mitomania - che spesso contraddistinguono le elite politiche populiste e autoritarie. C'e' un sentore di fascismo nell'incoraggiamento alla delazione, ora sancito per legge, estendendo cosi' sul piano nazionale cio' che da tempo e' norma e prassi soprattutto nelle repubbliche delle banane governate dalla Lega Nord: per esempio in quel di Turate, monocolore leghista, dove il Comune invita ufficialmente i cittadini alla denuncia, anche anonima, degli stranieri irregolari. A onor del vero, un bell'esperimento di delazione anonima di massa e' anche l'accordo siglato a Torino fra il Comune e la rete delle farmacie, presso le quali dal primo ottobre scorso si raccoglievano (forse si raccolgono ancora) informazioni su rom, poveri, senza-casa, mendicanti, posteggiatori abusivi. A dimostrazione che, davvero, la cultura sicuritaria e razzista egemone nel paese e' trasversale agli schieramenti politici come alla societa' detta "civile" per esagerare. La pratica delle squadre speciali e della delazione, anonima e non, sono, come si sa, strumenti insostituibili di ogni regime dittatoriale. Suvvia, non parliamo di nazismo, dice quel tal Cicchitto. Va bene. Ma certo, se non ci si lascia ingannare da cio' che permane dell'involucro democratico, alcuni elementi che connotano lo stato del paese appaiono allarmanti. Preoccupante e' la saldatura, ormai anche "sentimentale", che lega il discorso e l'operato di istituzioni centrali e locali con il senso comune piu' diffuso o almeno reputato piu' degno di esprimersi: attraverso la delazione e le azioni squadristiche. Insomma, la connessione fra il razzismo di stato e quello popolare, fra la persecuzione e il pogrom, ma anche, benche' piu' sottilmente, fra la cultura politica della destra e quella di buona parte dell'opposizione parlamentare non fanno presagire niente di buono. Chi si e' trastullato con retoriche e misure sicuritarie nel corso della passata legislatura ha evocato mostri che oggi minacciano non solo di rendere l'Italia un paese strutturalmente razzista ma anche di divorarne la democrazia. Lo sfaldamento del tessuto sociale, un ceto politico da operetta, la volgarita' imperante nei mezzi di comunicazione, il degrado profondo della societa' civile, l'avanzare, insieme alla crisi economica, di quella forma di incertezza e di disgregazione morali, oltre che sociali, che accende il desiderio di capi carismatici: no, non siamo nel '29 ne' in Germania, ma di sicuro sull'orlo di un precipizio. Spetta alle minoranze, malgrado tutto disseminate nella societa' italiana, tentare di agire perche' si faccia quel passo indietro che impedisce di precipitare nel baratro. 2. LE ULTIME COSE. LUCIANO BONFRATE: CANTATA DELL'INTERNAZIONALE DEI MORTI DI FAME Non le catene, ma il fiore vivo. Non la barbarie: la civilta'. Abbiamo scritto sulla nostra rossa bandiera le parole pane e rose. Siam la sinistra degli sfruttati che sa che la vita non e' la morte sa che la forza di tutte piu' forte e' sempre e solo la verita'. Abbiamo scritto sulla nostra rossa bandiera: giustizia e misericordia. Siam la sinistra degli storpiati che sa che la vita e' una lotta infinita e questa lotta e' la gioia stupita cui diamo nome di fraternita'. Abbamo scritto sulla nostra rossa bandiera: uguaglianza di diritti. Siam la sinistra dei carcerati che sa che la morte e' comune nemica e contrastarla e' suprema fatica ma e' la nostra unica liberta'. Abbiamo scritto sulla nostra rossa bandiera: a ciascun secondo i suoi bisogni. Siam la sinistra dei fucilati che sa che resistere occorre al male ed aiutare il piu' debole e frale e' la speranza della pieta'. Abbiamo scritto sulla nostra rossa bandiera: salvare le vite. Non le catene, ma il fiore vivo. Non la barbarie: la civilta'. 3. PROFILI. CURZIA FERRARI: KONSTANTIN STANISLAVSKIJ [Dal mensile "Letture", n. 653 del gennaio 2009 col titolo "Konstantin Stanislavskij. Un uomo alle basi del teatro moderno" e il sommario "Attore, regista, scrittore ma soprattutto teorico teatrale, Konstantin Stanislavskij con l'omonimo metodo ha posto le basi della recitazione moderna. Una figura imprescindibile nella cultura mondiale del Novecento"] Forse e' eccessivo dire che Konstantin Stanislavskij ha "inventato" il teatro. Certamente pero' ha abolito cio' che faceva dell'azione scenica rappresentata uno spettacolo di saltimbanchi, sia in arene private sia in teatrini di corte, conferendo all'arte del reggere le fila di un dramma e del recitare basi cosi' solide che passarono alla storia. Nessun regista, dopo di lui, ne ando' immune; e sul "metodo Stanislavskij" nacquero, in tutte le lingue, volumi e volumi. L'Actor's Studio di New York, proliferato dalla sua costola, e' l'esempio piu' eclatante della rivoluzione compiuta da Stanislavskij. Naturalmente non mancarono, sin dall'inizio, fra i suoi allievi, gruppi di fanatici che, presi dall'idea del nuovo, tentarono di trasformare i concetti del maestro in un esercizio esoterico. Racconta un tale Gorcakov, che si era aggregato alla compagnia di un pedagogo, seguace delle lezioni del maestro nel periodo in cui teneva cattedra al Bol'soj: "Ci esercitavamo al prana [il prana e' uno degli elementi dello joga], cioe' a emettere, tendendo la mano, un raggio che doveva uscire dalla punta delle dita. Occorreva che il compagno, verso il quale si proiettava questo raggio, lo sentisse arrivare: il compagno, anche lui, doveva concentrarsi a riceverlo. L'attenzione veniva anche convogliata e fissata sull'uno e sull'altro oggetto, fin che si sentiva qualcosa che poi bisognava descrivere. Si dava molta importanza alle tecniche di rilassamento dei muscoli e al contatto che si stabiliva tra i compagni". Fra queste tecniche e la ricchezza creativa degli insegnamenti di Stanislavskij correva l'abisso. Ma forse e' opportuno mettere l'accento sulla persona di Stanislavskij e sull'"occasione" che gli diede modo di ribaltare il mondo della cultura teatrale, e non solo quello. * Galeotto fu "Il gabbiano" Konstantin Sergeevic Stanislavskij, il cui vero cognome era Alekseev, nacque a Mosca il 5 gennaio 1863 in seno a una famiglia borghese, che intratteneva rapporti con un'illuminata schiera di industriali, mecenati delle arti. La madre, francese, era una fine pianista e trasmise al figlio un precoce quanto smisurato amore per la musica e per il teatro. Tutti gli Alekseev, del resto, erano vocati all'arte. Sin da piccolo, Konstantin veniva accompagnato al Bol'soj insieme ai suoi nove fratelli, genitori, balie, lacche' in livrea, "portandosi nelle carrozze caraffe d'acqua bollita, bicchieri, ceste di frutta, di leccornie e vettovaglie... Come cominciava lo spettacolo, eccoli tutti attoniti, intenti, inquadrati nel vano dei palchi come un ritratto di famiglia" e niente poteva distogliere Konstantin e l'intero gruppo degli Alekseev da quell'universo illusorio, ammaliati dai numeri di giocoleria, dai sortilegi, le marionette, le piroette dei ballerini, dall'odore di acetilene delle lampade per l'illuminazione. Stanislavskij-Alekseev comincio' infatti la sua carriera di enfant prodige come attore, e attore rimase, sia pure a intermittenza, per il resto della sua vita. Anche il fratello Kostja tento' la carriera del cantante lirico, e due sorelle interpretarono un'operetta. Afferrati dal raptus della teatralita', gli Alekseev acquistarono addirittura due teatrini di travi e di teli per potervisi esibire in un singolare e un po' folle sodalizio, scrivendo talora essi medesimi i testi della recita. Nel 1882 l'abolizione del monopolio dei teatri imperiali aveva causato a Mosca un proliferare di sale private, arene, tende da circo in cui si tenevano recite dal repertorio multiforme, senza unita' di indirizzo. Era rimasto, a far da guida, il Malyj (il Piccolo), dove recitavano mirabili interpreti, purtroppo in una sequela di commedie e drammi scelti a caso e non dovutamente preparati. Altro nobile superstite della liberazione dall'esclusiva degli zar, fu l'Aleksandrinskij di Pietroburgo. Li' crollo' miseramente Il gabbiano di Cechov nell'autunno del 1896, lasciando annichilito l'autore. "La commedia e' caduta e ha fatto un fiasco solenne", scrisse Cechov al fratello Michail. "C'era nell'aria una penosa tensione di perplessita' e di vergogna. Gli attori recitavano in modo abominevole e sciocco. Di qui la morale: non si devono scrivere commedie". Stanislavskij incontro' quella notte l'umiliato Cechov vagante per le vie della citta' in preda a una sorta di isteria, e gli promise che avrebbe risuscitato Il gabbiano facendolo volare nei cieli che gli erano dovuti. Il gabbiano ha un ritmo "d'acqua dormiente, una lentezza ipnotica". Ci vollero due anni perche' Stanislavskij entrasse e facesse entrare attori e sceneggiatori nell'atmosfera cechoviana: e fu un trionfo. I semitoni, le voci sommesse, le pause, esprimevano alla perfezione il lirismo vagheggiato dall'autore che descriveva pacatamente cio' che sentiva drammaticamente. Formidabile osservatore, Cechov aveva alle spalle una fitta serie di pubblicazioni: novelle, racconti di viaggio (era stato anche in Italia per curarsi la tbc), romanzi brevi. Il gabbiano era il suo primo dramma. Egli si trovava all'alba della maturita', ma la sua linea non avrebbe subito mutazione, tutto cominciava con forza per estinguersi poco a poco nelle nebbie della vita. Un banco di prova per qualsiasi regista. Ed ecco. Nato con la vena naturale della teatralita', Stanislavskij, grazie (in parte) ai testi di Cechov, impose all'istinto una disciplina da monaco medioevale. * Una sfida al consueto Gia' come attore, insieme all'amico umanista e grammatico Vladimir Nemirovic-Dancenko, aveva scardinato i principi della tradizione, imponendo la fedelta' al vero interiore. E questa novita' era piombata nella Russia delle scene, della letteratura e dei salotti come un colossale petardo. In un Paese dove giocare a carte e andare a teatro figuravano tra le attivita' fondamentali, sussurri e grida coprirono il nome di Stanislavskij, ma non eravamo che all'inizio del sovvertimento. I burocrati avevano smesso di esercitare il loro influsso sulla scelta dei testi, tuttavia - riciclati in altre vesti - favorivano spettacoli negletti e refrattari a ogni impegno intellettuale; tutto doveva continuare a essere arrugginito, vecchio, sterile. L'attrice Marija Ermolova dice che Ibsen era guardato come un pericolo, e La pulzella d'Orleans di Schiller fini' per suscitare grande comicita' per i fondali di cartone che vacillavano e la spada dell'eroina piegata in due nel momento in cui si sarebbe dovuta alzare in segno di vittoria. Sara' pur vero cio' che ha scritto Fabrizio Cruciali, e cioe' che e' un errore credere nell'esistenza di alcuni teatri-laboratorio. Tutti i teatri sono laboratori; in tutti si sperimenta qualcosa che non e' reale, ma in vista della cosiddetta realta'. Anche Strehler la pensava cosi', precisando pero' che non si scende in un laboratorio due o tre volte l'anno. Il laboratorio e' sempre. E questa fu la scienza di Stanislavskij, il demone della sua vita. Comincio' a predicare questo vangelo nella compagnia di famiglia Alekseev, quando ancora frequentava il ginnasio, benche' il suo universo teatrale fosse al principio olfattivo, di un sentore ubriacante, come ha scritto nell'Autobiografia: "[...] con uno dei miei fratelli, tornavo dalla scuola nella nostra villa per lo spettacolo. Tenevo sulle ginocchia una scatola di cartone di enormi proporzioni, abbracciandola come la vita di una donna grassa. Nella scatola c'erano le parrucche e gli arnesi per truccarsi. Il loro specifico odore filtrava dalle fessure della scatola e mi batteva nel naso. Mi inebriavo sin quasi alla nausea di questo odore di teatro, di attore, di quinte, e per poco non precipitai in un fossato dalla carrozza". Il nemico giurato della teatralita', il mistico dell'intelletto che aveva in odio i gesti declamatori, le formule pronte e gli stracci polverosi dei clown, ricordo' sempre con nostalgia gli anni in cui stava avvolto come una larva nel baco da seta dell'adolescenza. Tutto cio' non va sopravvalutato per amor di leggenda. Pero' anche all'apice dei suoi mitici corsi, Stanislavskij non dimentico' mai il brulichio delle ciarle familiari e il falso pathos dei testi inventati a molte mani nel tanfo dei teatrini Alekseev, la stridula imitazione di Adelina Patti da parte di una sorella, il lento spegnersi di questa societa' pseudo cultural-teatrale nell'anno 1888 con una commedia di Moliere. Nell'aprile 1889 Konstantin Sergeevic recito' una tragedia di Schiller in un teatro di seconda classe, ma il risultato fu cosi' mediocre che Schiller verra' letteralmente cancellato dal repertorio del "Teatro dell'Arte", la grande creatura del regista russo, perito-settore, in quel primo tempo della sua attivita', soprattutto di Ibsen e di Cechov. Il "Teatro dell'Arte" fu, all'inizio, un acconciamento del vecchio e cadente Ermitage: tre anni dopo sorgeva, al suo posto, un edificio elegante con una compagnia stabile di cui faceva parte, tra gli altri, Alla Nazimova, futura diva del cinema americano. Ma il "Teatro dell'Arte" non era solo un "luogo", era una scuola e un carrozzone viaggiante (venne in Europa nel 1906 per una tournee trionfale), era una sfida al consueto dove Stanislavskij metteva in mostra la sua inesauribile fantasia e la sua meticolosita'. Basti pensare che per mandare in scena uno spettacolo che si svolgeva a Mosca verso la fine del XVI secolo, intraprese con i suoi compagni un giro in antiche citta' russe affinche' l'odore dei tempi remoti penetrasse nelle loro carni. Lui stesso si fece rinchiudere per una notte nelle putride e rudimentali vesti di un antico boiaro, all'interno del Palazzo Bianco di Rostov. Voleva tutto vedere e tutto provare. Non a caso un giorno della primavera del 1922, un allievo che stava passeggiando accanto al maestro e che gli chiese precisamente cosa fosse un regista, si ebbe questa risposta: "Guardati intorno e dimmi quello che vedi". Ascoltata la replica dell'allievo, si mise a enumerare un'infinita' di cose che il giovane non aveva visto, lo spinse a immaginare chi fossero gli uomini che passavano, a ricordare quali notizie portava il giornale del mattino, perche' le carrozze e i tacchi facessero rumori diversi... "Il regista e' colui che sa guardare e farsi guardare". Il suo "sistema" era prassi pedagogica, "trasmissione di un'esperienza attraverso l'azione, non teoria". Stanislavskij e Cechov, abbiamo detto. Un binomio strano, che' il teatro del grande drammaturgo e' un teatro di stasi, in quanto e' l'atmosfera che determina l'azione e il valore dei personaggi e c'e' quindi una grande difficolta' a stabilire un rapporto con lo spettatore. Non per nulla sua moglie, l'attrice Olga Knipper Cechova, sosteneva che per amare Cechov bisogna amare la creatura umana "con tutte le sue debolezze e i suoi difetti". In realta' Cechov amava la creatura umana "attraverso" l'habitat in cui veniva collocata. Dell'Italia, dove fu due volte, rammentava soprattutto l'aura. "La Lombardia mi stupi' tanto che mi pare di ricordarne ogni albero, e Venezia mi basta chiudere gli occhi per vederla...". Dunque Stanislavskij volle, pretese, che i personaggi di Cechov vivessero sulla scena "a nervi scoperti": il testo talora veniva dimenticato, mutato. "Zio Vania appare impaziente, irascibile, sfibrato dalla scontentezza e dalla nausea; batte i pugni sul tavolo, si agita, ammazza zanzare (le famigerate zanzare stanislavskiane), ride nervosamente, si strofina la fronte e si scompiglia i capelli, rovescia le sedie, si strugge in pianti... Suoni strazianti, il calpestio dei cavalli su un ponte di legno, lo stridore dei grilli nella stufa, sottolineano la differenza tra la purezza dei sogni e la banalita' della vita quotidiana". Quando Strehler, la cui storia e' scandita dall'aprirsi e dal chiudersi di infiniti sipari, istitui' - dopo il Piccolo Teatro - il Teatro Azione e il Teatro d'Europa, pose come pietra di base il metodo Stanislavskij. Mise cioe' in pratica questa difficile operazione. Gordon Craig l'aveva riassunta anni prima con una delle sue locuzioni paradossali eppur veritiere: "Per creare il teatro bisogna uccidere il teatro: gli attori e le attrici devono morire di peste". A imitazione del pittore, "costretto" a superare la materia. * La vera rivoluzione russa Le impalpabili atmosfere di Cechov furono rivissute da Stanislavskij attraverso un "realismo psicologico". E tutto il vastissimo repertorio da lui affrontato (lo attestano i suoi scritti) fu filtrato dalla coscienza che egli aveva dei pericoli di ogni cristallizzazione, di ogni irrigidimento, delle cosiddette "vecchie ricette". Nella vetrina delle rappresentazioni di Stanislavskij brilla come un gioiello la prima in Russia di un'opera di Ibsen, Casa di bambola. Incarnazione quanto mai difficile quella del testo ibseniano, che gli consentiva di vedere (o lo costringeva a vedere) cio' che l'occhio comune non vede. Era accanto a lui da qualche anno la giovane attrice Maria Petrovna Lilina, sposata nel 1889, che gli fu fedele per tutta la vita e collaboro' fattivamente alle sue ricerche. I vecchi teatranti, considerati istrioni, diranno del "Teatro dell'Arte" che era una piovra, dove "ogni trasgressione veniva considerata un delitto". C'era un registro, detto il "libro dei protocolli" sul quale venivano segnati ritardi, assenze, infrazioni. Questo rigore fu ripreso da Lee Strasberg quando Stanislavskij si reco' negli Stati Uniti a divulgare il suo verbo, nel 1923. All'inizio del secolo Stanislavskij, mentre elaborava il suo "metodo" sull'attore, fece anche una rivoluzione di ordine estetico. Aboli' le musiche che rallegravano il pubblico fra un atto e l'altro, ed erano sempre in dissidio con il testo, cosa intollerabile. Sostitui' lo sfarzoso sipario di velluto con delle porte scorrevoli che dovevano subito richiudersi al rintocco del gong finale, affinche' l'illusione non venisse vanificata. Gli interpreti non avrebbero ringraziato ne' durante la recita ne' in ultimo. Gordon Craig, che fu a Mosca una prima volta dal 1908 al 1911, e una seconda nel 1919, dice che questo sistema conferiva all'ambiente del teatro una specie di misticita'. Fu durante la sua lunga permanenza iniziale che strinse amicizia con il braccio destro di Stanislavkij - alle prese con L'uccellino azzurro di Maeterlinck - il fedele Leopold Sulerzickij e con lui comincio' a elaborare la possibilita' di mettere in scena l'Amleto nel "Teatro dell'Arte". Tutti gli intellettuali del tempo sognavano di lavorare con il grande innovatore russo. L'idea dell'Amleto di Craig intrigo' Stanislavskij al punto che il regista inglese fu costretto a cimentarsi per circa due anni con i disegni delle scene: ma cio' che premeva di piu' al maestro era il dissidio fra il mondo della corte e quello del principe danese. Le anime contavano, bisognava andarci dentro. E Ofelia? Che cosa farne? E' bella e stupida. No, il filosofo Belinskij la crede pura e innocente come Desdemona: una vittima. Ma Shakespeare, come la vede? E' una piccola creatura insignificante? Non e' possibile. Amleto non sarebbe innamorato di lei. La discussione non approdo' al risultato che Stanislavskij si aspettava, cosi' non "presto'" a Craig la propria moglie Lilina per il ruolo di Ofelia. In quel periodo, oltretutto, egli si ammalo' seriamente di tifo, e i preparativi per lo spettacolo furono interrotti. La fatica di ottenere l'Amleto secondo i propri canoni ando' in parte vanificata. "Ho parlato per due giorni e due notti, da solo, con i personaggi principali dell'Hamlet. Al terzo giorno abbiamo riunito tutta la compagnia e Nemirovic -Dancenko ha spiegato il mio sistema. Io penso che su dieci attori, al massimo cinque abbiano capito qualcosa", scrisse. In effetti le descrizioni dell'atmosfera che regnava sul Primo Studio, aperto nel 1912 - tre stanze sopra un cineteatro nella periferia di Mosca - sono quasi raccapriccianti. L'attrice Serafina Birman lo defini' "un'assemblea di credenti nella religione di Stanislavskij"; Suler disse che si trattava di un monastero, una scuola all'acqua benedetta, dove la concentrazione ascetica non doveva essere scheggiata nemmeno dal ronzare di una mosca; altri definirono il Primo Studio un'officina dove si lavorava, a volte, dalle dieci del mattino alle due di notte, soffrendo il freddo e la fame. Le circostanze della vita privata dovevano rimanere tutte fuori dalla porta. Il compito principale del "metodo Stanislavskij" era estirpare dal teatro gli antichi calchi, i virtuosismi, la separazione fra teatro e vita. Facile a dirsi, ma questo richiedeva un'etica (Etica e' infatti il titolo del suo ultimo libro, rimasto incompiuto). Per entrare in comunione con il genio di Shakespeare, di Puskin, Ibsen, Gogol, Moliere, bisogna strapparsi dall'animo ogni possibile meschinita', calunnie, invidie, intrighi, pettegolezzi, superficialita', egoismo, altrimenti il teatro diventa una "sputacchiera". Tutto era basato sull'autocontrollo, sulla presa di contatto con l'atmosfera comune, con la propria parte, con la volonta' accanita di apprendere. Stanislavskij fa provare Il Tartufo non per rappresentarlo, ma per studiare. I suoi allievi non erano esentati pero' dal lavoro manuale. Se gli occorreva acquisire la conoscenza di una scena di zotici, li mandava a zappare. Quando mise in scena La potenza delle tenebre si porto' dalla regione di Tula due mugiki perche' lo "assistessero" con i loro dettami, non si lavassero e continuassero a indossare i loro puzzolenti stracci. E' vero che raccogliera' nei libri le sue lezioni, i risultati delle sue ricerche, che fara' nascere dalla sua costola registi geniali (Vanchtangov, Mejerchol'd, Ejzenstejn - per parlare solo dei russi - e molto di lui passera' attraverso i filtri di Chaplin e di Marceau), tuttavia non si puo' negare in Stanislavskij uomo il senso dell'eccesso. * La genesi dell'Actor's Studio Al tempo della Rivoluzione (1918-1922) il maestro teneva le sue lezioni al Teatro Bol'soj. Era un grande sostenitore della danza libera di Isadora Duncan che, senza capir niente di politica, si diceva sovietica. In lei vedeva riflessa l'azione organica interiore. "Perche' l'arte e' la sintesi di tutte le conquiste dell'uomo nel suo io spirituale, cioe' nel lavoro del suo cuore. Chiamiamo queste conquiste la cultura del cuore. E diciamo che tutti i tentativi dell'osservazione, tutti i tentativi di abituare a qualcosa il corpo e i pensieri sono la cultura della consapevolezza". Si faceva aiutare dal fratello Vladimir e dalla sorella Zinaida che stenografavano le sue lezioni ed erano diventati sacerdoti del suo metodo. A essi affido', in quel periodo traballante, la continuazione della sua opera, mentre lui girava per l'Europa e per l'America. In Italia - a Sorrento, presso Gorkij -, soggiorno' a lungo nel 1924 per studiare, insieme all'autore, la possibilita' di mettere in scena I bassifondi. L'aria balsamica del Mediterraneo gli addolciva i ricorrenti effetti di un'antica tisi mai debitamente curata, e casa Gorkij era cosi' accogliente: un pezzo di Russia trapiantata tra il profumo degli aranceti che non erano rigidi e oleografici come quelli del Mar Nero. "Torquato Tasso era di Sorrento, e qui lo capisci molto bene", diceva Gorkij. Fu in quel periodo che Konstantin comincio' a scrivere il suo libro piu' famoso: La mia vita nell'arte, terminato solo nel 1925. Alla sosta negli Usa si deve la "costruzione" successiva di personaggi mitici quali Clark Gable e, sembrera' strano, James Dean, usciti da quell'Actor's Studio che arrivo' a educare ben 500 attori tra superfamosi, famosi e comunque di livello. Vediamo un po' di fare il punto su questo exploit americano. Quando Stanislavskij giunse a New York (dopo aver messo per qualche mese le ancore a Praga), comincio' a insegnare in una chiesa al centro della citta'. In America ogni attore lavorava per conto proprio, non esisteva alcun indirizzo, chi si poneva domande non trovava risposte. Tra questi sbandati e scontenti c'era Lee Strasberg, un polacco ebreo nato nel 1901. Rimase affascinato dalle lezioni del maestro russo. Il lungo dialogo che intrecciarono nacque, si dice, da una interrogazione basilare di Strasberg: "L'attore sul palco prova sentimenti reali o sta semplicemente imitando?". Tutto il cinema d'autore americano trasse il suo succo da quella frase, dal lavoro dell'Actor's Studio, fondato da Strasberg nel 1947 (nove anni dopo la morte di Stanislavskij) e, in seguito, dal viaggio di Lee in Russia a raccogliere dagli eredi diretti del fondatore del sistema, le testimonianze, a volte sbalorditive, sul modo di trovare la chiave per introdursi nella psicologia del personaggio, della vicenda, dell'autore. Alcuni sostenevano che qualcosa di simile avessero fatto in Scandinavia Ibsen e Strindberg, i "padri del realismo psicologico moderno". Altri dissero che, data la sua sapienza e la sua continua evoluzione culturale, Stanislavskij fosse il nemico primo del "metodo Stanislavskij". Ne temeva l'immobilizzazione. Che invece non avvenne, grazie anche a coloro che ne spiccarono i precetti, rielaborandoli, a cominciare da Vsevolod Mejerchol'd. Una vita cosi' intensa, scavata nel profondo, incise sul cuore di Konstantin, che si diede a regie d'opera, considerate piu' lievi, quasi abbozzi affidati alle cure di solleciti allievi. In casa propria allesti' un piccolo teatro dove mise in scena l'Oneghin di Cajkovskij. Anche Strehler, negli ultimi anni, dara' il proprio apporto registico all'opera lirica. Si ammalo' seriamente nel 1935. Ma il vecchio leone non si dava tregua. Ancora nel '36 inauguro' un nuovo Teatro Studio per l'Opera lirica e il Dramma. Ha scritto un cronista del tempo: "Se non poteva alzarsi raccoglieva gli attori, talvolta con il trucco e il costume, intorno al suo letto. Quando non era in grado di riceverli, si attaccava al telefono. Le sue telefonate duravano ore e ore. Ascoltava intere parti al telefono". Era posseduto da una tale smania di trasmettere le proprie esperienze che invocava: "Venite a derubarmi! I miei armadi si spezzano per i troppi libri, e la testa per i troppi pensieri! Prendete da me, fin che sono vivo". Sapeva che alla sua morte, avvenuta il 7 agosto 1938, i burocrati sovietici avrebbero imbalsamato la sua arte mutevole e inquieta, e gli avrebbero eretto una marmorea cappella destinata al piu' cupo oblio. Del resto era quella l'epoca delle grandi purghe, Gorkij era morto (misteriosamente) nel '36, per Sostakovic era pronta la bolla di "scompigliatore" della musica, il teatro d'avanguardia di Majakovskij era andato in soffitta da un pezzo. Il grande allievo, antagonista e, in fondo, devoto amico di Konstantin, Vsevolod Mejerchol'd, tentava di portare a termine le regie incompiute del tenacissimo mago, I lupi e le pecore di Ostrovskij, il Rigoletto e l'Edipo re. Ma neppure un anno piu' tardi sarebbe stato arrestato e deportato, fucilato nel 1941: mentre sua moglie, l'attrice Zinaida Raich veniva rinvenuta sgozzata nella cucina della loro casa. In quell'aria di filisteismo bolso e livellatore, bastava un niente perche' un artista venisse accusato di tradimento. Stanislavskij lasciava comunque il suo testamento al mondo. Sarebbe sopravvissuto ai crolli delle ideologie e dei muri. Tant'e' che ancora se ne discute, per gloriarlo, "usarlo" o, in taluni rari casi, per demistificarlo. Sempre ritenendolo termine di confronto. * Figlio della grande madre Russia Konstantin Sergeevic Stanislavskij (pseudonimo di Konstantin Sergeevic Alekseev) nacque a Mosca il 5 gennaio 1863, e' ricordato come attore, regista, scrittore molto fecondo, teorico del teatro. E' famoso per essere stato l'ideatore dell'omonimo "metodo Stanislavskij" da lui descritto in una serie impressionante di lezioni in Russia, in Europa e in America. Veniva da una famiglia medio-borghese, con la passione degli spettacoli, della musica e della vita cultural-mondana. La nonna materna era un'attrice francese, Marie Varlet, sbarcata a Pietroburgo per fare la soubrette. Lasciato il teatro, sposo' un architetto, ma trasmise alla figlia la vocazione alla musica. La madre di Stanislavskij era infatti un'ottima pianista, fortunatamente andata sposa a un uomo, Sergej Vladimirovic Alekseev, che assecondava la sua passione e, anzi, fini' per dilatarla all'intera sua famiglia composta di ben dieci figli. Alcuni fratelli e sorelle di Stanislavskij furono di volta in volta attori e cantanti. La vita di quest'uomo geniale si svolse in un periodo molto difficile per la Russia, ma anche eccezionalmente denso di grandi nomi. Dal 1880 al 1893 erano nati Aleksandr Blok, Andrej Belyj, Sergej Esenin, Anna Achmatova, Boris Pasternak ed era in piena attivita' Anton Cechov, nato vent'anni prima, il quale sarebbe rimasto legato a doppia corda al teatro di Stanislavskij. Nel 1889 Konstantin sposo' l'attrice Maria Petrovna Lilina, e fu un matrimonio di reciproca dedizione. Era un uomo bello, alto, gentile di indole, di una severita' monastica verso se stesso e verso gli altri. Si dice che comincio' a elaborare il suo "sistema" dopo aver visto recitare nel 1885 e nel 1890 la compagnia Meininger del duca di Sassonia, in tournee in Russia. La sua esistenza privata fu semplice. Nel 1928 comincio' ad avvertire i sintomi del mal di cuore che lo porto' alla tomba nel 1938. Fra le sue interpretazioni rimase memorabile l'Otello. Maria Petrovna Lilina gli sopravvisse dieci anni, ma non calco' piu' le scene. * Quei "Lavori" fondamentali Tra le pubblicazioni di Stanislavskij citiamo: La mia vita nell'arte (1926); Lezioni al Teatro Bols'oj (1918-1922); Il lavoro dell'attore su se stesso (1936); Il lavoro dell'attore sul personaggio (1937); Etica (1938, non terminato). Nel 1954 usci' a Mosca l'Opera completa in otto volumi. L'Autobiografia, pubblicata nel 1926, fu tradotta in tutto il mondo. In essa Stanislavskij non parla solo di se' e del proprio metodo, ma disegna in modo incomparabile la vita culturale moscovita a cavallo tra l'Ottocento e i primi tre decenni del Novecento. Di lui attualmente in commercio troviamo: Le mie regie. Vol. 1: Tre sorelle - Il giardino dei ciliegi, Ubulibri, 1986, pp. 356 ill., euro 20,66. Le mie regie. Vol. 2: Zio Vanja, Ubulibri, 1996, pp. 149 ill., euro 15,49. Le mie regie. Vol. 3: Il gabbiano, Ubulibri, 2002, pp. 168 ill., euro 15,90. Lezioni al Teatro Bol'soj, Audino, 2004, pp. 176, euro 16,90. Il lavoro dell'attore sul personaggio, Laterza, 2007, pp. 324 ill., euro 19,50. Il lavoro dell'attore su se stesso, Laterza, 2007, pp. 600 ill., euro 34. Su di lui, reperibili in libreria o su Internet: Angelo Maria Ripellino, Il trucco e l'anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento, Einaudi, 2002, pp. 424, euro 23. Vasilij O. Toporkov, Stanislavskij alle prove. Gli ultimi anni, Ubulibri, 2003, pp. 152, euro 19. Fausto Malcovati, Stanislavskij. Vita, opere e metodo, Laterza, 2004, pp. 213, euro 10. Mel Gordon, Il sistema di Stanislavskij. Dagli esperimenti del Teatro d'Arte alle tecniche dell'Actor's Studio, Marsilio, 2004, pp. 195, euro 18. Gioacchino Palumbo, I pionieri del teatro del Novecento. Stanislavskij, Mejerchol'd, Artaud, Grotowski, Bonanno, 2005, pp. 102, euro 16. Ombretta De Biase, Da Konstantin Stanislavskij a... Marlon Brando, Editoria & Spettacolo, 2006, pp. 144, euro 10. Franco Ruffini, Stanislavskij. Dal lavoro dell'attore al lavoro su di se', Laterza, 2006, pp. 184, euro 16. Jean Benedetti, Stanislavskij. La vita e l'arte. La biografia critica definitiva. Vol. 1: Dalla nascita alla creazione del "sistema" (1863-1908), Audino, 2007, pp. 223, euro 19. Jean Benedetti, Stanislavskij. La vita e l'arte. La biografia critica definitiva. Vol. 2: Dalla diffusione del "sistema" alla morte (1908-1938), Audino, 2007, pp. 219, euro 19. Edo Bellingeri, Stanislavskij prova Otello, Artemide, 2008, pp. 302, euro 20. 4. LIBRI. MARCO DOTTI PRESENTA "LA MORTE MODERNA" DI CARL-HENNING WIJKMARK [Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 febbraio 2009 col titolo "Indurre all'eutanasia, questo e' l'obiettivo" e il sommario "Discussioni immaginarie in un simposio inventato"] Carl-Henning Wijkmark, La morte moderna, Iperborea, pp. 119, euro 11. * A meta' strada fra l'operetta morale e il pamphlet, La morte moderna, dello scrittore svedese Carl-Henning Wijkmark descrive una giornata "qualunque", in un centro congressi "qualunque", nei pressi dello stretto dell'Oresund, durante un simposio organizzato dal Fater, inquietante "comitato interno" del Ministero degli Affari esteri. Il tema e' "La fase terminale della vita umana", e il libro, scritto nel 1978, e' stato da poco tradotto anche in Italia per le edizioni Iperborea. A dettare l'agenda del simposio e a occupare la scena sono le controverse "opzioni" di politica sociale di un certo Caspar Storm, "esperto di bioetica" che nemmeno troppo velatamente si dichiara figlio di un positivismo giuridico e di un realismo politico estremi. Preoccupato dall'allungarsi dei tempi della vita media, dalla crescente disoccupazione e da un possibile conflitto fra generazioni, Storm e' uno spin doctor che propone le proprie "ricette" lanciando le sue parole d'ordine all'interno delle istituzioni, mascherandole dietro altre parole all'apparenza piu' rassicuranti come "riformismo", "progresso" e "assunzione di responsabilita'" e, soprattutto, lasciando che, con il mutare dei tempi, maturino e diano i loro frutti. Si tratta, pero', di frutti avvelenati, difficili da digerire a cuor leggero e non solo per Aksel Ronning, l'intellettuale (sorta di alter ego di Carl-Henning Wijkmark) che nel racconto si fa carico del ruolo di antagonista rispetto alle idee e al sistema di valori di Storm. Come evitare, si chiede Storm, che le nuove generazioni non garantite ne' sul piano economico ne', tantomeno, su quello sociale e soprattutto assillate da problemi di precarieta' e disoccupazione, si scontrino con schiere informi di anziani ex-lavoratori che non la vogliono smettere di consumare senza produrre e di attivissimi pensionati i quali, oltre ad essere garantiti da iperprotezioni sanitarie e pensionistiche, continuano a rivendicare un ruolo attivo all'interno della societa'? Uno svedese su quattro, osserva il "moderatore" che prepara il campo alle proposte di Storm, e' in pensione di anzianita', mentre uno su otto pur trovandosi in eta' produttiva e' in pensionamento anticipato, infine ben il settantacinque per cento delle risorse sanitarie viene letteralmente "sprecato" per la cura di malati cronici o senza speranza. E' compatibile tutto questo, ci si chiede, con una moderna politica di assistenza sociale? Il problema, per Caspar Storm e i membri del Fater e' capire come operare all'interno di un sistema socialdemocratico senza incorrere negli eccessi ideologici di un Mogens Glistrup - il politico danese che, per anni, ha sostenuto la soppressione di ogni forma e tipo di assistenza sociale - o dei sostenitori di Milton Friedman che, proprio negli anni in cui Wijkmark dava alle stampe La morte moderna, proproneva le proprie ricette per la riforma di societa' e mercato. Se per Friedman "nessun pasto e' gratis", per Caspar Storm gratis non lo e' neppure la morte. E, dal suo punto di vista, fa parte delle piu' amare ma assolutamente "naturali" verita' il fatto che i piu' deboli, gli "inadatti", gli "inadattabili" - in uno spettro che va dai portatori di handicap ai malati terminali, dai lavoratori in pensione ai nullafacenti - non dovrebbero essere di peso alla societa' e, data la scarsita' delle risorse, dovrebbero possibilmente togliersi di mezzo da se'. La sacralita' del valore umano, per Storm, regge finche' ci sono i mezzi, ma in un frangente storico-economico in cui la scarsita' delle risorse si erge a sistema, allora la realta' "va guardata in faccia". Nessuna idea di sovversione politica, pero', anima Storm e i suoi accoliti. La riforma proposta da Storm riguarda, soprattutto, l'ambito della "mentalita'" e del comportamento dell'uomo comune e si propone di "aumentare la domanda di eutanasia all'interno della societa'" preparando cosi' il terreno a quelle riforme che, altrimenti, verrebbero percepite come radicali e contrarie alla dignita' umana. Il problema, per i membri del Fater, e' individuare e far condividere dalla coscienza dell'uomo medio la logica che presiede al cosiddetto "human value che non e' equivalente a valore umano, anzi il contrario, l'utilita' che un certo individuo continui a vivere valutata in denaro". Mascherandosi dietro il paravento della laicita', della scienza e delle sue sorti (sempre magnifiche e progressive), il Fater propone due precisi strumenti di riforma: il marketing dell'idea di eutanasia come "obbligo volontario" e il "lobbing" sulla sua opportunita' pubblica e sulla sua praticabilita' sociale. "Recht ist vas dem deustschen Volke nuetzt", diritto e "rettitudine" coincidono con la volonta' e il bene del popolo, sosteneva Adolf Hitler. E questo positivismo giurico estremo, debole ma non necessariamente inconcludente, e' esattamente quello che l'umanista e giusnaturalista Ronning rimprovera a Storm, con una differenza: se in Hitler la volonta' di ingannare si legava a una catastrofica megalomania arrivata chissa' come e chissa' perche' nelle stanze del potere, nel caso dei membri del Fater - e dei loro epigoni di ogni ordine e grado - quella volonta' si coniuga con una non meno catastrofica e sconcertante ignoranza della natura perversa del potere stesso. Si possono non condividere molte delle critiche che, attraverso la voce di Ronning, Carl-Henning Wijkmark rivolge alla societa' del suo e del nostro tempo, ma questo non toglie che La morte moderna sia un libro di straordinaria e, per troppi versi, perturbante attualita'. 5. RILETTURE. ADOLFO BIOY CASARES: DIARIO DELLA GUERRA AL MAIALE Adolfo Bioy Casares, Diario della guerra al maiale, Bompiani, Milano 1971, pp. 248. Parla anch'esso di noi oggi, chi lo ha letto sa perche'. 6. RILETTURE. ADOLFO BIOY CASARES: L'INVENZIONE DI MOREL Adolfo Bioy Casares, L'invenzione di Morel, Bompiani, Milano 1966, 1974, pp. 152. Parla anch'esso di noi oggi, chi lo ha letto sa perche'. ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 202 dell'8 febbraio 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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