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Nonviolenza. Femminile plurale. 233
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 233
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 5 Feb 2009 12:49:51 +0100
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 233 del 5 febbraio 2009 In questo numero: 1. Natalia Aspesi: La barbarie dello stupro in tv 2. Guido Caldiron intervista Tullia Zevi (2008) 3. Giuliana Sgrena intervista Suad Amiri 4. Viviana Mazza: Aydah Al Jahani, una poetessa in tv 5. Alcuni estratti da "Parole di donne irachene" di Inaam Kachachi (2003) 6. Francesco M. Cataluccio: Opere di Wislawa Szymborska e Julia Hartwig 1. RIFLESSIONE. NATALIA ASPESI: LA BARBARIE DELLO STUPRO IN TV [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "La Repubblica" del 29 gennaio 2009 col titolo "La barbarie dello stupro in tv"] Se lo stupro diventa la prima notizia del piu' importante telegiornale Rai vuole dire che non si tratta piu' solo di un crimine efferato che puo' spezzare la vita di una donna, ma di un'arma politica che non tiene conto del dramma individuale, ma se ne serve per altri fini non tanto occulti. Se infatti i telegiornali dovessero seguire sempre questo modo di informare, non ci sarebbe spazio per altre notizie, ne' internazionali ne' nazionali; visto che nel 2008 i casi di violenza sessuale denunciati (quindi una minima parte) sono stati 4.465, e a voler essere pignoli la massima parte dei criminali era italiana (58%), mentre i rumeni, sempre troppi, erano il 9,2%. A Roma, su 221 stupri denunciati, i piu' inclini a questo tipo di virile passatempo sono stati ancora gli italiani (35%), ma i rumeni li hanno quasi raggiunti (31%). E' da mesi che i nostri telegiornali prima delle stragi belliche, delle risate del premier, della politica estera e italiana, della crisi finanziaria, dei licenziamenti, figuriamoci della miseranda cultura, mettono in primo piano la cronaca nera, con particolare attenzione alle macchie di sangue o anche di eventuale materia cerebrale, senza mancare i funerali di vittime di omicidi particolarmente efferati. Adesso le telecamere, forse per distrarre e invogliare all'ottimismo che viene dall'horror, si dilungano contentissime sulla barbarie degli stupri: e non tanto su quello dei Castelli Romani, (autore un panettiere italiano subito ai domiciliari, malgrado l'indignazione della sua vittima e della sua famiglia), quanto su quello di Guidonia, particolarmente odioso perche' perpetrato da un branco di cinque rumeni su una ragazza di 21 anni, dopo aver picchiato il suo ragazzo (viottolini putrescenti, erbacce, cartacce, alla ricerca dell'estetica del degrado). Ma non basta, adesso i telecronisti alzano il tiro anche sull'altra barbarie, cioe' sul tentativo di linciaggio dei colpevoli, sulle spedizioni punitive a caso contro qualsiasi straniero, raccogliendo dichiarazioni animalesche da parte dei soliti bravi cittadini italiani certi che lo stupro sia un costume esotico perpetrato dai soli stranieri. Perche' se mai capitasse a uno di loro di trovarcisi implicato, sarebbe certamente colpa della stuprata: come del resto sostenevano nei primi processi per violenza carnale negli anni '70 certi principi del foro, puntando il dito indice contro la frastornata disgraziata rea di aver avuto in passato un fidanzato, prova certa della sua disponibilita' carnale, mentre la madre dello stupratore, baciandolo e accarezzandolo, gridava puttana alla povera Circe, anche se sanguinante. Dieci anni fa la storica Barbara Ehrenreich in un suo studio sul rapporto tra guerra e ruolo maschile, osservava che gli stupri sono piu' frequenti dove vi sono norme sociali di accettazione dell'uso della violenza come mezzo legittimo per ottenere cio' che si desidera. Inoltre se sono in corso conflitti violenti, tutte le forme di violenza aumentano, compresa quella sessuale (citato da Daniela Danna in Ginocidio). Se il nostro e' un paese dove l'informazione televisiva da' il massimo spazio, senza la minima replica, al tentativo di linciaggio oltre che allo stupro, se privilegia il clima di violenza della cronaca nera, se alza l'allarme sicurezza senza saperla gestire, se, vista ormai l'abitudine alla virtualita' delle promesse, tutti lanciano ricette antistupro disordinate, inutili e inapplicabili, le donne continueranno a essere violentate: dagli stranieri, dai rumeni, dagli italiani, dai vicini di casa, dai mariti. Del resto, in passato - dice sempre la Danna - "la distinzione tra sesso consenziente e stupro non aveva alcun valore per molti popoli, tra cui i Romani, dai quali abbiamo preso la parola stuprum che allora significava ogni atto sessuale fuori del matrimonio". E' drammatico pensare che forse ha ragione il premier, volendo seguire la sua capacita' di scherzare amabilmente anche sulle tragedie. Le donne non si libereranno mai dal pericolo dello stupro: se brutte e vecchie perche' non avranno diritto al soldato di scorta, se belle perche' anche il soldato e' un uomo, in ogni caso perche' anche se tutti gli uomini si mettessero in divisa, sarebbero sempre meno delle donne. Forse bisognerebbe educare gli uomini sin da piccini al rispetto delle donne, ma questa idea, cosi' poco politica, cosi' domestica, non viene in mente a nessuno. 2. MEMORIA. GUIDO CALDIRON INTERVISTA TULLIA ZEVI (2008) [Dal quotidiano "Liberazione" del 26 gennaio 2008 col titolo "Tullia Zevi: Quel giorno del 1938 in cui scoprimmo di essere diversi" e il sommario "Alla vigilia della Giornata della memoria del 27 gennaio e nell'anniversario delle Leggi razziali varate dal fascismo. A colloquio con una delle grandi figure dell'ebraismo italiano, prima donna nel ruolo di presidente dell'Ucei per quindici anni"] "Quel giorno abbiamo scoperto la diversita'. Cosa volesse dire essere considerati e apparire come 'diversi'. E direi che abbiamo misurato sulle nostre vite, quasi sui nostri corpi, questa sensazione: ci e' entrata nella pelle". Tullia Zevi ricorda cosi' l'estate del 1938 e il momento in cui apprese che il regime fascista aveva promulgato le leggi razziali. Per lei, poco piu' che maggiorenne, la vacanza che stava trascorrendo in Svizzera con la famiglia si tramuto' cosi' nell'inizio di un lungo esodo forzato che l'avrebbe portata, fino alla fine della guerra, prima a Parigi e quindi negli Stati Uniti. E' stata la prima donna a diventare presidente dell'Unione delle Comunita' Ebraiche Italiane, che ha guidato per oltre quindici anni. Ha conosciuto e frequentato molti antifascisti, partecipato alla vita del Partito d'Azione ed e' stata legata da una profonda amicizia con Amelia Rosselli. Giornalista, ha seguito per la stampa americana il processo di Norimberga ai gerarchi nazisti e piu' tardi quello contro Adolf Eichmann che si e' svolto a Gerusalemme, ed e' stata per molti anni corrispondente del quotidiano israeliano "Ma'ariv". Tullia Zevi non ha mai smesso di animare la vita culturale e politica italiana continuando a rappresentare un punto di riferimento per l'ebraismo e per la cultura laica e progressista. La sua storia l'ha affidata recentemente a Ti racconto la mia storia (Mondadori), un libro intervista realizzato da sua nipote Nathania Zevi che attraversa oltre settant'anni di storia a partire dalle Leggi razziali dell'estate del 1938. Alla vigilia della Giornata della Memoria che ricorda il 27 gennaio la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz avvenuta nel 1945 le abbiamo chiesto di riflettere per "Liberazione" sul significato di questa data e sul valore della memoria storica per combattere il razzismo che ha attraversato l'Europa e l'Italia e che torna oggi nel dibattito pubblico e nella nostra societa'. * - Guido Caldiron: Signora Zevi, ricordando l'anniversario della liberazione di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio del 1945, il Presidente Napolitano ha spiegato come la strada per i campi nazisti si e' aperta con le leggi razziali del 1938. Come ricorda quel momento? - Tullia Zevi: Non potro' mai dimenticare l'estate del 1938. Ero in vacanza in Svizzera con i miei genitori e i miei tre fratelli. Seduto davanti a me, mio padre leggeva i giornali italiani a voce alta, al tempo stesso sconvolto e incredulo. Quasi non credeva a cio' che stava leggendo: "Ma che cos'e' questa storia, vogliono farci fare la fine dei topi?". La sensazione di paura e di pericolo comincio' a insinuarsi in me: dovevo temere che mi potesse accadere qualcosa solo perche' ero ebrea. Ero "diversa" e per questo ero in pericolo. Non c'era soltanto la sensazione di essere emarginati, ma quella ancora piu' terribile di non essere proprio considerati degli esseri umani. * - Guido Caldiron: All'epoca, pur costretta all'esilio, come percepi' la reazione della societa' italiana alle leggi razziali? - Tullia Zevi: All'epoca avevo l'impressione che nel resto della societa' non ci fosse percezione di quanto stava accadendo, come se chi non era direttamente coinvolto non si rendesse conto dell'impatto concreto di quelle decisioni, di quelle norme, sulle vite di tante persone. Credo di poter dire che il concetto di "razza" non era radicato nella cultura italiana e questo salto improvviso lascio' molti quasi increduli. Certo il fascismo esisteva gia' da molti anni e le guerre in Africa avevano gia' mostrato tutta la brutalita' del colonialismo italiano, ma con le leggi razziali si apri' una nuova profonda ferita nella nostra societa'. * - Guido Caldiron: Dopo la guerra lei rientro' nel nostro paese solo nel 1946. Quale realta' trovo' nella comunita' ebraica, una delle piu' antiche d'Europa? - Tullia Zevi: Era una realta' sconvolta, ferita dal marchio di diversita' che le leggi razziali avevano cercato di imporle. Gli ebrei erano e si sentivano italiani. La mia famiglia era italiana da sempre e non avremmo saputo dove trovare altrove la nostra origine. Eravamo talmente integrati, ci sentivamo a tutti gli effetti "oriundi", che quando si apri' questa sorta di enorme spartiacque tra noi e il resto della societa' fu prima di tutto una terribile e drammatica sorpresa. L'ebraismo era talmente radicato nella cultura italiana che non si riusciva nemmeno a immaginare cio' che invece era accaduto. Certo, prima delle leggi razziali e di Auschwitz c'erano state le misure contro gli ebrei assunte dalla Germania e l'intera politica di Hitler fin dall'inizio. Quindi nel 1946 trovai le tracce visibili di questa ferita e del dolore che aveva lasciato dietro di se'. * - Guido Caldiron: A tanti anni di distanza da quella tragedia nel nostro paese c'e' chi arriva a parlare di popoli geneticamente propensi a delinquere o di altri che non si possono integrare. Che effetto le fanno queste parole? - Tullia Zevi: Il razzismo come il nazionalismo sono come virus dai quali ci si deve difendere. Sempre. L'unica razza che conosco e' la razza umana. E l'unico orizzonte che conosco e che giudico possibile e' quello del confronto e dell'integrazione. Percio' quando nella civilissima Europa, la stessa nella quale si e' realizzata la Shoah, sento che qualcuno torna a inoculare il veleno della razza non posso che preoccuparmi. Ma torno ancora una volta a essere vigile. Credo che ciascuno di noi debba farsi custode del grado di civilta' espresso dalla societa' in cui vive. Dobbiamo vigilare perche' la societa' in cui viviamo sia davvero multiculturale, perche' la diversita' non diventi un marchio infamante. * - Guido Caldiron: Quella diversita' che veniva agitata, e viene agitata ancora oggi, dai razzisti come un pericolo puo' diventare percio' anche il luogo dell'incontro, della convivenza? - Tullia Zevi: Il concetto di diversita' deve essere sviluppato e accolto. La consapevolezza delle diversita' deve rimanere ma come elemento di liberta' dell'individuo. Sono pero' la coesistenza e l'integrazione delle diversita' che vanno curate e sviluppate. E in un certo senso arriverei a dire anche amate. Credo che una societa' civile metta al centro della sua esistenza l'integrazione armonica delle diversita' che si nutrono l'un l'altra e insieme crescono. * - Guido Caldiron: Da questo punto di vista quale puo' essere oggi il significato della Giornata della memoria? - Tullia Zevi: Noi ebrei sopravvissuti alla Shoah abbiamo dovuto imparare a coesistere con questa ferita. Ma la ferita si riapre ad ogni sollecitazione. Ci sono cose nella vita che non vanno dimenticate e non per un desiderio di vendetta, ma perche' la conoscenza del passato e' l'unico antidoto per la tutela dei diritti umani. E nuovi campi di concentramento possono tornare a esistere dovunque se i diritti di tutte le minoranze non trovano un terreno fertile sul quale attecchire. Per questo credo si possa affermare che gli ebrei ricoprono lo scomodo ruolo di cartina di tornasole e coscienza critica della democrazia. 3. DOCUMENTAZIONE. GIULIANA SGRENA INTERVISTA SUAD AMIRI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 28 gennaio 2009 col titolo "La rabbia di Ramallah, la pochezza dell'Anp. Parla la scrittrice Suad Amiri"] Qual e' stata la reazione dei palestinesi della West bank di fronte al massacro perpetrato da Israele a Gaza? Lo chiediamo alla scrittrice palestinese Suad Amiry, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah, a Roma per presentare il suo ultimo libro Niente sesso in citta'. "Per due giorni tutti i palestinesi sono rimasti incollati davanti alla televisione, senza nemmeno andare al lavoro, paralizzati dalle immagini trasmesse dalla tv al Jazeera", ci risponde. "C'e' stata fin dall'inizio grande solidarieta' umana, senza politica. La politica ha cominciato a emergere con l'intervista rilasciata dal leader di Hamas Khaled Meshal a Damasco che, con un tono molto arrogante, invitava a manifestare a favore di Hamas. Questo appello ha allarmato le autorita' palestinesi. Va aggiunto che Abu Mazen si trovava all'estero e, sbagliando, non e' rientrato subito". * - Giuliana Sgrena: La gente era ammutolita dagli eventi, ma quando ha cominciato a scendere in piazza? - Suad Amiri: Fin dalla prima sera, il 27 dicembre, vi e' stata una fiaccolata, tutte le chiese hanno sospeso le loro cerimonie. Il giorno dopo, alle 13, senza nessuna convocazione, ci siamo ritrovati tutti in piazza, nel centro di Ramallah: c'erano tutti i partiti con le loro bandiere, ma non c'era nessun leader politico. C'era molta polizia e quando dal check point di al Bireh sono arrivati un centinaio di militanti - molte donne - di Hamas con le loro bandiere, la polizia voleva fermarli, ma gli altri gruppi lo hanno impedito urlando slogan unitari. C'era chi proponeva di eliminare le bandiere di partito e portare solo quelle palestinesi. Piccoli scontri sono scoppiati tra Hamas e Fatah, per i vecchi rancori. C'era molta depressione, finche' Amal Khreshe, ex militante comunista, e' riuscita a rianimarci urlando slogan unitari e dietro a lei, in prima fila le donne, un corteo ha percorso la citta'. * - Giuliana Sgrena: Pero' alla televisione abbiamo visto la polizia che attaccava i manifestanti. - Suad Amiri: Si', i giovani che volevano dirigersi ai check point dove c'erano gli israeliani sono stati bloccati, picchiati e anche arrestati. * - Giuliana Sgrena: Perche' non c'era nessun leader politico? - Suad Amiri: Perche' in Palestina non esiste nessuna leadership, Fatah si e' disintegrata, e questo e' il risultato prima degli attacchi e dei bombardamenti di Israele contro Arafat nel 2002-2003 e poi della "guerra civile" scoppiata a Gaza. La gente e' confusa, l'impressione era che Abu Mazen non volesse opporsi, solo dopo cinque giorni ha chiamato tutti a manifestare imponendo la partecipazione dei dipendenti pubblici. La brutalita' di Israele era contro il popolo palestinese e la solidariet‡ era con il nostro popolo, non con Hamas. * - Giuliana Sgrena: Si puo' dire che il massacro compiuto da Israele, al di la' delle dichiarazioni di intenti, alla fine abbia rafforzato Hamas? - Suad Amiri: Hamas adesso ha una grande responsabilita', quella della ricostruzione, che sicuramente non potra' fare senza l'aiuto internazionale e per ottenerlo dovra' fare concessioni. Quale percorso si puo' immaginare? Ci sono due strade possibili: o un governo unitario con Abu Mazen, oppure Hamas ripercorre la strada fatta dall'Olp negli anni '70 per arrivare al riconoscimento di Israele. * - Giuliana Sgrena: Il problema degli aiuti pero' e' urgente, c'e' chi propone una forza di controllo alla frontiera egiziana... - Suad Amiri: Israele e' riuscito a spostare l'attenzione dal blocco del valico di Erez, che doveva essere tolto dopo l'accordo per la tregua con Hamas, a quello dei tunnel che invece aveva tollerato. L'Europa con il boicottaggio imposto al popolo palestinese ha assunto un atteggiamento stupido e ora si propone di controllare la frontiera di Rafah invece di controllare il valico di Erez da dove provengono tutti i prodotti consumati dai palestinesi. Cosi' tutta la pressione si trasferisce sull'Egitto come se il responsabile non fosse Israele. * - Giuliana Sgrena: Qual e' il futuro di Abu Mazen? - Suad Amiri: Non potra' restare al potere senza un processo di pace che peraltro Hamas ha eluso. Forse l'elezione di Obama potra' aiutarci, il modo di pensare nel mondo puo' cambiare a partire dalla maggiore potenza. Altrimenti saranno gli islamisti fondamentalisti a guadagnare terreno perche' sono gli unici che resistono all'occupazione e i giovani conoscono solo quel modo di resistere. Noi laici abbiamo perso gli strumenti per sostenere una giusta causa, non abbiamo articolato un modo di resistere che non sia violento, la resistenza pacifica e' considerata da Israele violenza e repressa allo stesso modo, il prezzo da pagare e' troppo alto. * - Giuliana Sgrena: Ma Israele vuole il processo di pace? - Suad Amiri: No, sono convinta che Israele voglia tutta la nostra terra, ma siccome non puo' buttarci a mare deve fare di tutto per farci sentire degli sconfitti - questo e' l'obiettivo dichiarato da diversi esponenti politici e militari israeliani - umiliandoci e istituzionalizzando il sistema dell'apartheid. 4. MONDO. VIVIANA MAZZA: AYDAH AL JAHANI, UNA POETESSA IN TV [Dal "Corriere della sera" del 30 gennaio 2009 col titolo "Peccatrice, ti uccideremo. Minacce alla poetessa in tv" e il sommario "Ma la saudita Aydah si avvia alla finale dello show"] La sagoma nera sta seduta su una grande poltrona rossa e dorata. Invisibile il volto - pure gli occhi. Si vedono solo le mani bianche, che tagliano l'aria con gesti ampi, e il microfono che spunta all'altezza della bocca. Dalla sagoma nera proviene una voce decisa, che recita i versi di una poesia: "Mi hanno imposto il burqa, ma io sono libera come un uccello. Anche la spada nascosta nel fodero non e' meno tagliente". Aydah Al Jahani, quarantenne saudita, e' l'unica partecipante donna rimasta in gara nel concorso della tv di Abu Dhabi "Il poeta milionario". Il popolarissimo show, nato nel 2006, giunto alla terza edizione, vede 8 professionisti e dilettanti fronteggiarsi ogni giovedi' sera recitando nel dialetto del Golfo composizioni da loro scritte di poesia nabati, un genere di tradizione beduina. Erano 48 all'inizio (altre due donne, entrambe giordane, sono state eliminate). Aydah ha superato la prima selezione a dicembre (partecipando con una poesia sui diritti delle donne), e ieri ha passato la seconda: e' stato il pubblico da casa (oltre 7 milioni di spettatori) a sceglierla, con il 59% dei voti inviati via sms nel corso di una settimana. Ora e' una dei 20 poeti rimasti nella fase finale (ancora 6 settimane) a contendersi i 5 milioni di dirham (1 milione di euro) in palio (e altri ricchi premi). La tribu' Al Jahani, cui Aydah appartiene, e il suo stesso padre pero' non sono d'accordo. Il sito saudita Elaph scrive che l'avrebbero minacciata di morte, perche' poco importa che Aydah nasconda il proprio corpo: la voce femminile e' in se' erotica e sufficiente a suscitare pensieri peccaminosi. Secondo un aneddoto sulla vita del Profeta, Maometto l'avrebbe definita awra e cioe' un'onta, raccomandando a un fedele dal quale era andato a pranzo di far abbassare la voce alla moglie che lo chiamava gridando dal reparto delle donne. Hana Al Hirsi, Pr della compagnia Pyramedia che produce lo show, conferma che Aydah "ha ricevuto pressioni dalla sua tribu'", ma non minacce di morte. "Proviene dalla regione del Golfo. La tribu' e' come una grande famiglia e molti sono contrari che partecipi al programma. Ma il fatto stesso che lo abbia fatto e' una conquista", dice Al Hirsi al "Corriere". "E d'altra parte ci sono anche molti che l'appoggiano e che si sono sintonizzati ieri sera solo per vedere lei". Aydah ha cominciato a comporre poesie da bambina, unendo dialetto e lingua colta. A 5 anni pubblico' la prima sul mensile culturale del Kuwait "Al Yaqdha" (il risveglio). La poetessa si definisce "wahida saudiya" (l'unica saudita) nella sua prima raccolta del 1999. Da allora ha conquistato premi letterari e alcuni cantanti del Golfo hanno messo in musica le sue poesie. Diverso pero' e' apparire di persona in tv davanti a milioni di persone, con quella "voce incantevole" e quei "modi raffinati", scrive Elaph. Ma Aydah ha due alleati: il pubblico e il marito. I giurati in studio (cinque uomini) selezionano ogni giovedi' un poeta che passa al round successivo: in nessuno dei due round hanno scelto lei. Ma anche gli spettatori possono dire la loro: sono stati loro a promuoverla. Ieri tre quarti della platea in studio era composta da donne, rigorosamente sedute in una sezione separata rispetto agli uomini. Aydah ha accolto la notizia di essere passata al terzo round (l'ultimo prima della finale del 26 marzo) dicendosi orgogliosa a nome di tutte le donne. La poetessa non scrive pero' solo sui diritti femminili, ma anche di questioni che riguardano tutti. "Molte delle composizioni in gara sono su Gaza, sul nazionalismo, sulla guerra, sulle difficolta' economiche", spiega Al Hirsi. L'ultima poesia recitata da Aydah, "Dedicato al piccolo Basem", e' la storia vera di un bambino povero morto di fame e di freddo nel nord dell'Arabia Saudita. E mentre lei siede sulla scena, nascosta nel suo involucro nero, il marito seduto tra il pubblico applaude. Prima di poetare, come tutti i partecipanti Aydah ringrazia sempre Dio. Poi, con quella sua voce matura e forte, rivolge al compagno parole tenerissime: "Mi inchino, con rispetto, con gratitudine e con amore, al piu' coraggioso degli uomini, mio marito". 5. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "PAROLE DI DONNE IRACHENE" DI INAAM KACHACHI (2003) [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Inaam Kachachi, Parole di donne irachene. Il dramma di un Paese scritto al femminile, Baldini & Castoldi, Milano 2003 (ed. orig.: Paroles d'Irakiennes, 2003)] Indice del volume Premessa; Prefazione; Introduzione; Parole di donne irachene. Quando i giorni diventano crepuscolo, di Hayat Sharara; Desideri... di Rim Qais Kobba; Il ritorno del prigioniero, di Buthaina Al-Nassiri; Lee Anderson, di Lamea Abbas Amara; Voci da paradisi temporanei, di Lotfiya Al-Dilaimi; Le gallerie della memoria, di Haifaa Zangana; Stoffe, di Gulala Nouri; La ragazzina, di Alia Mamdouh; Memorie di un'onda fuori dal mare, di Dunya Mikhall; Vietato entrare - Vietato uscire, di Salam Khayyat; Gli amanti, di May Mudhaffar; Un uomo dietro la porta, di Maysaloun Hadi; Cronache di Baghdad, di Noha Al-Rahdi; Postfazione. * Da pagina 9 Premessa Dice la leggenda che Sherazade, nella Baghdad delle Mille e Una Notte, abbia ingannato la morte con un racconto. La sera, incominciava una storia e smetteva all'aurora, fino a quando le era permesso parlare. Le sue nipoti, oggi, usano praticamente la stessa astuzia: ingannano il destino con racconti che dicono la verita' piu' di tutti i bollettini del mondo. Ho voluto trasmettervi i loro racconti inganna-destino. Meritano di essere letti, come se fossero gli inni che da sempre i dannati della Terra cantano per la liberta'. Inaam Kachachi Parigi, gennaio 2003 * Da pagina 15 Introduzione Il nipote che consuma una matita ogni due mesi Scrivere non e' certamente facile. Ma oggi scrivere in Iraq diventa una vera impresa, quando si conoscono le innumerevoli difficolta', materiali ed etiche, causate dalla guerra - le guerre - e soprattutto dall'embargo. D'altronde, l'attivita' dell'editore e' quasi una missione impossibile in un Paese dove manca carta, inchiostro, pezzi di ricambio per stampanti. E soprattutto manca quella bella rosa dai petali splendenti, ovunque agognata: la liberta' di espressione. Laggiu', dopo aver messo a letto i bambini, le donne scrivono nell'oscurita' di eterne interruzioni di elettricita'. L'ispirazione raggiunge occhi affaticati e spenti. Occhi che non possono permettersi una matita di kajal importata, perche' ha un prezzo esorbitante: come cento biro, tre polli o ottanta gallette di pane. Insomma, l'intero stipendio di un mese! Gli iracheni scrivono su fogli di carta scura, scarti di stampa, fogli gia' usati, vecchi quaderni di scuola. Scrivono una strofa di poesia o il passaggio di un romanzo su tutto cio' che sia utilizzabile: una vecchia ricevuta, una fattura non pagata, un sacchetto di carta spiegazzato che una volta e' servito per portare frutta a casa (per coloro che allora potevano permetterselo). Scrivono anche sul retro delle ricette mediche... Una mia vecchia collega giornalista mi ha raccontato che un giorno aveva dovuto punire il suo nipotino e poi si era ritirata in camera a piangere. Gli aveva dato una botta sulla mano perche' temperava troppo la matita, incurante della fatica che a lei costava comprare il prezioso articolo: anche le matite sono sottoposte all'embargo, poiche' i Signori delle commissioni Onu sostengono che "la grafite contenuta nelle matite potrebbe essere usata per scopi bellici" (sic). La mia amica giornalista dirige ormai una rubrica in un quotidiano del governo. Per l'equivalente di un pugno di euro al mese. Lei, che ha terminato l'universita' da una trentina di anni, non ha potuto far continuare gli studi alla sua unica figlia per mancanza di mezzi: iscrizione, trasporti, abbigliamento, materiale necessario... tutto questo e' inaccessibile. La ragazza si e' sposata prima di compiere vent'anni. Ha messo al mondo un bambino, un monello che consuma un'intera matita ogni due mesi. Che spreco! Intrattengo ancora con lei un'assidua corrispondenza. In ogni lettera aggiungo un foglio bianco per permetterle di rispondermi. Sarebbe troppo rischioso spedirle un intero quaderno: un plico pesante attirerebbe l'attenzione e rischierebbe di essere rubato prima della consegna; la mia lettera non giungerebbe mai a destinazione e sarebbe un vero peccato. Il mezzo migliore e' ancora quello di affidare il necessario a un viaggiatore che si reca a Baghdad. E l'accezione di necessario e' consegnata al giudizio di noi privilegiati, incredibilmente fortunati che abbiamo potuto trasferirci all'estero. Per loro, laggiu', il necessario puo' andare da un sacchetto di cotton-fioc o una confezione di aspirina fino all'ultima raccolta del poeta palestinese Mahmoud Darwish. La mia amica, per esempio, preferirebbe il libro di Darwish. Si tratta, in ogni caso, di un rimedio contro l'emicrania. Gli ambienti culturali iracheni accolgono i libri entrati di nascosto dall'estero con un entusiasmo paragonabile a quello della terra assetata nei confronti delle poche gocce di una pioggia avara e sporadica. In Iraq esiste un sistema parallelo, non ufficiale - che riesce spesso a sfuggire al controllo delle autorita' - consistente nell'impadronirsi dei libri provenienti dall'estero, "clonarli" su piccole fotocopiatrici d'occasione arrivate da poco via mare dagli Emirati Arabi Uniti, e rivendere poi le copie a scrittori, appassionati di arte e letteratura, universitari o studenti. Queste copie hanno un prezzo sostenibile per un bilancio medio. E comunque questo sistema di libreria parallela offre anche un servizio di prestito di copie a chi non puo' acquistarle. Grazie a quella che comunemente a Baghdad si chiama "cultura della fotocopia", il popolo iracheno ha potuto conoscere le opere (di autori stranieri o nazionali) che non erano state approvate dalle istituzioni pubbliche, le stesse che da trentacinque anni monopolizzano in Iraq il novanta per cento del mercato editoriale e della distribuzione. * Da pagina 75 Il ritorno del prigioniero, di Buthaina Al-Nassiri Per cominciare: la casa cui faceva ritorno non era piu' la sua; ne' sua moglie era piu' la sua; ne' i suoi figli erano piu' i suoi. L'auto lo deposito' davanti a una casa a un piano, dipinta di bianco e circondata da un grande giardino. Non aveva mai messo piede prima in questo quartiere alla periferia della citta'. Sulla soglia c'era una donna, le vene del collo le pulsavano per il nervosismo. Il sorriso finto sulle sue labbra nell'accogliere colui che tornava non riusci' a dissimulare il cipiglio della fronte aggrottata. Quando l'uomo mise piede in casa, si precipito' verso di lui, poi, all'improvviso, come trattenuta da una forza invisibile, si fermo' di colpo, contentandosi di tendergli la mano. I bambini erano rimasti immobili, seduti sui divani del salone. Il loro imbarazzo era palese, come se fossero costretti a comportarsi bene e a mostrarsi educati durante la visita di un ospite sconosciuto che presto se ne sarebbe andato. Tre li conosceva. Al momento pero' doveva fare uno sforzo per ricordarne i nomi e sapere chi era chi. Quanto al quarto, il piu' piccolo, non l'aveva mai visto: non era ancora nato dieci anni prima, quando era andato via, lasciando sua moglie incinta. Le presentazioni cominciarono con domande di ordine generale da parte sua e con risposte evasive da parte loro. Terminarono in un silenzio imbarazzato e pesante. Senza osare guardarla negli occhi, domando' alla moglie: "Quando avete comprato la casa?". La voce della donna cambio', si fece piu' grave: "Non l'abbiamo comprata bell'e fatta. L'ho fatta costruire pezzo per pezzo. Avevo venduto la casa vecchia e preso un prestito in banca. Ho sorvegliato di persona i lavori tutti i giorni. Sono stati momenti difficili, con quattro bambini da tirare su". "Hai fatto un lavoro magnifico", disse lui alzando gli occhi verso il soffitto. "Ho pagato l'ultima tratta l'anno scorso". "Non ti avrei mai creduta capace di occuparti di cose concrete. La donna che conoscevo contava su di me per tutto. Quando pensavo a voi, laggiu', quest'idea mi tormentava". "Sono stati momenti difficili. E poi, dieci anni non sono pochi". "No, in effetti". "Col tempo, uno cambia...". "Si', effettivamente". "Vuoi vedere la casa?" disse lei con entusiasmo. "Come vuoi". I mobili della camera da letto non erano cambiati. Era l'unico ricordo della loro vita passata rimasto intatto - e ne provo' un sentimento di gratitudine verso di lei. L'armadio era li', con le sue quattro ante, e le sue decorazioni a fiori e uccelli. Anche la toeletta con lo specchio quadrato era li', quello specchio in cui non riconobbe i tratti che vi aveva visto per l'ultima volta dieci anni prima. Adesso vedeva un volto smagrito e ossuto, una testa canuta, delle spalle spioventi... La sua vera eta' era stata appesantita da falsi anni supplementari. Al momento di coricarsi, scopri' lo stesso letto che, un tempo, aveva ospitato i loro sogni insieme. Quando era prigioniero, aveva spesso sognato l'attimo in cui vi si sarebbe infilato di nuovo. Ma l'uomo e la donna erano divenuti estranei. Bado' a non sfiorare il corpo allungato al suo fianco nel grande letto matrimoniale; aveva notato che lei si teneva discosta, rannicchiata su se stessa. Fisso' il soffitto illuminato dalla luce della luna che penetrava dalla finestra. I suoi pensieri presero a viaggiare a migliaia di chilometri da li', attraversando le frontiere, fino al campo di detenzione. Vide i compagni che erano rimasti laggiu', li immagino' immersi in un sonno profondo per compensare la fatica dello star svegli durante il giorno. Rivide i loro sorrisi furtivi nel fantasticare del ritorno a casa. Ricordo' il cigolio delle massicce porte di ferro, l'ordine urlato dei guardiani: "Sveglia". Strappati ai loro sogni, vengono condotti a suon di bastone in cortile e lui cerca di farsi piccolo in mezzo alla lunga fila di prigionieri. La voce monotona di un ufficiale senza volto martella: "Il vostro Paese vi ha abbandonato. Resterete qui, con noi, fino a marcire". I raggi del sole si fanno sempre piu' cocenti. Le braccia e le gambe sono come paralizzate, la bocca riarsa. Non ne puo' piu': cade a terra. I guardiani si accaniscono su di lui tirandolo per le braccia, cosi' forte che per un attimo crede che si strapperanno. La porta di una piccola cella sepolcrale si apre. Lo gettano dentro. Lo scatto della porta che si richiude gli rimbomba a lungo nel cranio. Si accorge che l'altezza della cella lo costringe a chinarsi per sedersi. * Da pagina 99 I primi incontri, di Haifaa Zangana Intorno a un camino orfano, eccoci riunite. Cerchi e cerchi di donne costrette alla coabitazione. Cerchi di corpi sformati e di pelli flaccide, sfibrate dalla paura del futuro, putrefatte dall'incertezza. Cerchi di un silenzio improbabile, immutabile, beato. Lineamenti svuotati, occhi che fissano il medesimo punto. Talvolta le vedevo svegliarsi in piena notte, come per gettare un ultimo sguardo, ai loro giorni e alla Terra. Un addio ai figli e alla casa, un addio perfino a quella penosa afflizione che strappava la membrana del cuore e vi si sostituiva. "Buongiorno". "Una visita per te". Oum Wahid gridava con la sua voce penetrante. Non camminava, correva, gesticolando con le braccia e le mani per aggiustarsi il velo sulla testa e impedire che cadesse, benche' fosse fissato con un piccolo spillo d'oro... 6. LIBRI. FRANCESCO M. CATALUCCIO: OPERE DI WISLAWA SZYMBORSKA E JULIA HARTWIG [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo apparso su "Il sole 24 ore"del 18 gennaio 2009 col titolo "Le signore della poesia"] Czeslaw Milosz e Zbigniew Herbert, i due maggiori poeti del dopoguerra polacchi (paese che, come ebbe modo di ricordare il russo Iosif Brodskij e' sempre stato straordinariamente ricco di grandi poeti) sono ormai scomparsi, lasciandoci molte poesie stupende e il dispiacere di non poter piu' sentire la loro voce. Restano per fortuna ancora attive e, in quanto innamorate dell'Italia, spesso presenti nel nostro paese, le due maggiori poetesse polacche: Wislawa Szymborska (1923), che abita a Cracovia (e che nelle prossime settimane tornera' in Italia), e Julia Hartwig (1921), che vive a Varsavia. A differenza di molti poeti loro connazionali, non hanno conosciuto l'esilio, sopportando con caparbieta' e ironia le mille difficolta' della vita e della creazione artistica nel socialismo reale (che, in Polonia, non voleva dire, salvo i primi anni del dopoguerra, sottostare ai dettami della propaganda del regime, ma fare i conti quotidiani con la censura). La Hartwig ha comunque avuto modo di trascorrere due lunghi soggiorni all'estero: dal 1947 al 1950 in Francia, dal 1970 al 1974 negli Stati Uniti, al seguito del marito, anch'egli poeta, Artur Miedzyrzecki. Frutto di questi due soggiorni sono state le splendide traduzioni dei maggiori poeti francesi e americani, che molto l'hanno influenzata. La Szymborska invece, almeno fino al Premio Nobel (1996), si e' mossa pochissimo, preferendo la vita ritirata e solitaria, in ascolto e in cura della propria malinconia: "Di solito mi descrivono come una persona allegra (...) perche' quando ho dei crolli, delle preoccupazioni, non frequento la gente per non mostrare un volto cupo. E sembra che abbia vissuto come una farfalla, come se la vita non avesse fatto altro che accarezzarmi sul capo". La Szymborka e' stata famosa nella sua citta' per essere l'organizzatrice di miracolose lotterie a casa sua. Pomposi ricicli di oggettini, come i suoi buffi collage, nei quali nessuno, alla fine, se ne andava a mani vuote. Per ognuno c'era una dedica, una piccola verita' ad personam. Cosi', quando ci si trova tra le mani un prezioso volume di oltre mille pagine, come quello che racchiude le Opere di Wislawa Szymborka, curato da Pietro Marchesani, nelle lettura delle poesie la cosa migliore e' lasciarsi andare al caso, lasciando per un momento da parte la meta' dedicata alle brevi, e fulminanti, prose. Se si e' fortunati, ma lo si e' praticamente sempre, perche' tutte le poesie sono molto belle, puo' capitare di leggere, in questo tragico inizio d'anno: "Dopo ogni guerra /c'e' chi deve ripulire. / In fondo un po' d'ordine / da solo non si fa. // C'e' chi deve spingere le macerie / ai bordi delle strade / per far passare / i carri pieni di cadaveri // (...) Non e' fotogenico, / e ci vogliono anni. / Tutte le telecamere sono gia' partite / per un'altra guerra". E poi il finale amarissimo sull'ineluttabile necessita' di metterci una pietra sopra: "Chi sapeva / di che si trattava, / deve far posto a quelli / che ne sanno poco. / E meno di poco. / E infine assolutamente nulla. // Sull'erba che ha ricoperto / le cause e gli effetti, / c'e' chi deve starsene disteso / con una spiga tra i denti, / perso a fissare le nuvole". Questa e' La fine e l'inizio (1993), che Brodskij tradusse in inglese nel dicembre dello stesso anno per il "Times Literary Supplement", definendola "una delle cento migliori poesie del secolo". La Szymborska, sembra non giudicare mai. Descrive con freddezza, e tagliente ironia, mettendo a fuoco particolari della realta': ingrandisce cose che appaiono piccole, ma sono determinanti, smaschera le nostre meschinerie che vorrebbero farci apparire grandi e sicuri. Ogni suo verso e' una "microfisica" della vita quotidiana e del potere. Il lettore si ritrova tra le mani, alla fine della lettura, una realta' scarnificata, priva di orpelli e sovrastrutture, illuminata da una luce finalmente chiara e distinta. Il risultato di questa poesia pura, che si potrebbe definire "cartesiana", si trova riassunta nella breve poesia Tutto (2002): "(...) una parola sfrontata e gonfia di boria. / Andrebbe scritta tra virgolette. / Finge di non tralasciare nulla, / di concentrare, includere, contenere e avere. / E invece e' soltanto / un brandello di bufera". Il fatto che Szymborska tratti in apparenza di cose quotidiane non deve far pensare che abbia un "angusto raggio d'azione", suggeriva giustamente Milosz nella sua celebre Storia della letteratura polacca (McMillan, New York 1969; traduzione italiana Cseo, Bologna 1983) che pero' notava: "Essa a volte propende verso la preziosita'. Probabilmente da' il suo meglio dove la sua sensibilita' ha piu' importanza del suo marchio esistenziale di razionalismo". Ma la "semplicita'" della Szymborska e' piu' apparente che reale. La sua e' una poesia di grande forza filosofica e, dietro espressioni apparentemente semplici o quotidiane, piccoli e sottili ironie, c'e' l'ostinato orgoglio del pensiero e il senso di una grande responsabilita' della parola poetica ("ogni parola ha un peso", ricordo' a conclusione del suo discorso per il Nobel). Una poesia che, con l'ironia, non ha trascurato l'impegno e la critica. Si veda, ad esempio, Un parere in merito alla pornografia (1983), da lei letta durante una riunione semiclandestina di scrittori ridotti al silenzio, un anno dopo il colpo di stato: "Non c'e' dissolutezza peggiore del pensare. / Questa dissolutezza si moltiplica come gramigna / su un'aiuola per le margheritine. // Nulla e' sacro per quelli che pensano. / Chiamare audacemente le cose per nome, /analisi spinte, sintesi impudiche, / caccia selvaggia e sregolata al fatto nudo, / palpeggiamento lascivo di temi scabrosi, / fregola di opinioni - ecco quel che gli piace". Le sue prose - recensioni, posta dei lettori, feuilleton - sono assai inferiori e assai lontane dalle poesie, ma sempre una festa dell'intelligenza e dell'ironia. Assai piu' simili e organici alle proprie poesie sono invece i Lampi (in polacco: Blyski) di Julia Hartwig. Brevi epifanie che illuminano istantaneamente passaggi dell'anima, ricordi, apparizioni di una memoria condivisa e remota. Istanti di grazia e lucidita' - "Nel purgatorio dell'inesistenza. Sul precipizio della speranza" (Questo tramonto) - in cui i pensieri, le riflessioni e i ricordi si condensano in una forma del tutto nuova e originale, che conserva l'acutezza dell'aforisma senza l'esasperata ricerca dell'effetto, che coniuga l'eleganza del poema in prosa alla liberta' da rigidi schematismi formali. Molte poesie della Hartwig sono scritte come brevi prose (si vedano Anni, Ammonizione, Vi faro' questo miracolo, Non ho potere). Come la Szymborska, anche Julia Hartwig diffida della pretesa di racchiudere il mondo in un sistema compiuto e stabile, preferisce soffermarsi sulla precarieta' e le evanescenti emozioni "i prati verdi dell'apparenza" (La tua natura), e rivendicare alla sua poesia, e alla sua vita, il piacere dell'incompiuto: "Le cose piu' belle sono quelle non ancora finite / Il cielo pieno di stelle non ancora illustrato dagli astronomi / uno schizzo di Leonardo e una canzone interrotta dall'emozione / La matita il pennello sospesi in aria" (A tentoni). La Szymborska ha, per sua stessa ammissione, costruito il suo personaggio su una tonalita' ironicamente un po' svampita (proprio per balzar fuori all'improvviso con la sua sottilissima acutezza). La Hartwig invece mostra immediatamente la sua dolce saggezza e ci raccomanda che: "L'unica salvezza e' mantenere il ritmo / la visione dell'armonia / che ci prende tra le sue braccia come bambini / madre innocente di consolazione" (In corteo). * Wislawa Szymborska, Opere, a cura di Pietro Marchesani, Adelphi, Milano, pp. 1186, euro 70. Julia Hartwig, Sotto quest'isola, a cura di Silvano De Fanti, Donzelli, Roma, pp. 168, euro 13. Julia Hartwig, Lampi. Blyski, a cura di Francesco Groggia, Libri Scheiwiller, Milano, pp. 172, euro 16. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 233 del 5 febbraio 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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