Minime. 719



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 719 del 2 febbraio 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Maria G. Di Rienzo: Voci
2. Lea Melandri: La violenza che si fa e non si dice
3. Paolo Pegoraro: Par Lagerkvist
4. Alessandro Marescotti: Mi abbono ad "Azione nonviolenta" perche'...
5. Per abbonarsi ad "Azione nonviolenta"
6. La newsletter settimanale del Centro studi "Sereno Regis" di Torino
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: VOCI
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo intervento]

In prossimita' dell'8 marzo comincia: e io sono lieta che cominci. Amiche,
conoscenti, sconosciute, mi chiedono di andare di qua o di la' a parlare di
donne, di violenza sulle donne, di storia delle donne e cosi' via.
Concordiamo focus e lunghezza dell'intervento, ed e' tutto a posto. Sono
grata di queste richieste. Ma quest'anno ho voglia di fare anche
qualcos'altro.
*
Per chi a queste conferenze o incontri non verra' mai. Per chi si chiede:
che senso ha una Giornata internazionale della donna? Io sono incastrata in
una relazione violenta, oppure ho subito cose di cui non riesco neppure a
parlare, oppure mi sto disfacendo perche' per quello che ho passato non ho
avuto ne' comprensione ne' giustizia.
Vorrei che sapeste questo. Assieme ad altre e altri io mi batto per e con
voi da trentacinque anni. Non mi avete mai vista, non mi conoscete, eppure
c'ero sempre. E vi chiedo: potreste volervi bene almeno quanto io ve ne
voglio?
Non sara' molto ma e' pur sempre un inizio. Io voglio bene ai vostri corpi.
Non li conosco intimamente, ma mi piacciono. Ho passato notti insonni,
tenendo fra le braccia anime ferite, tormentata dagli incubi in cui scene
orribili che non avrei mai voluto vedere si ripetevano ad oltranza. Ho
scritto e parlato, urlato e pianto, raccolto firme e fondi. Ho manifestato e
protestato. Ho condiviso la mia parte di insulti e aggressioni. Ho
resistito. Ed e' vero che l'ho fatto per me, ed e' vero che l'ho fatto per
voi. Perche' desideravo render chiaro che ogni donna ha il diritto di essere
libera e amata.
Se vi avessi ora tutte davanti a me, figlie e madri, nonne e bisnonne,
operaie e casalinghe, impiegate e insegnanti, mediche e cameriere, potrei
dire per statistica quante di voi sono state mogli battute, hanno sofferto
violenza sessuale o incesto, quante sono state oggettificate, dissacrate,
negate.
Ma dai miei numeri mancherebbero sempre coloro che di queste violenze sono
morte.
So che non potete vedere il mio viso, ma io credo di vedere i vostri.
Giovani e anziane. Di tutti i colori, di tutte le stature, di tutte le
taglie. Vi vedo, e vedo la storia delle donne nella vostra vita.
Voi siete il mio mondo, la mia cultura, la mia professione, la mia passione.
E so che vi sono cose che tenete nei luoghi segreti dell'anima, e di cui non
parlereste mai.
Se pensate di poter avere fiducia in quel che vi dico, per favore immaginate
di stringere la mia mano. Non abbiamo paura, lottiamo insieme per una causa
comune.
*
Adesso ascoltate. Ascoltate le voci di cio' che non e' stato detto. Nella
quiete io posso sentire le canzoni di gioia che i vostri corpi di donne
sanno cantare. Ma anche, come voi, odo quei corpi quando erano corpi di
bimbe costrette a conoscere il sesso come sofferenza e paura. Piccole care,
vi ascoltiamo. Non siete sole. Ora siamo tutte cresciute, e ci aiuteremo
l'un l'altra, di modo che chiunque sia stata ferita recuperi la perdita
della propria infanzia, e goda come adulta del proprio essere preziosa.
Ascoltate. Ci sono le voci di corpi presi di forza, da sconosciuti o da
persone amate, corpi che hanno conosciuto percosse e lividi, corpi che ora
tremano quando vengono sfiorati da mani altrui. Corpi scossi dalla rabbia e
dalla vergogna. Dite loro: noi ascoltiamo il vostro tormento, e siamo fiere
della vostra determinazione quando pensate che nessuno vi fara' mai piu' del
male, e vi aiuteremo a restaurare il vostro senso di sicurezza stando al
vostro fianco. Voi siete innocenti e noi lo sappiamo.
Prestate orecchio a cio' che i corpi dicono, a cio' che il vostro corpo
dice, a cio' che dicono le donne nella vostra vita. Stringetela forte, la
mia mano. Vi da' calore e ne riceve. Sentite quanta forza, quanto coraggio
c'e' nel tenersi per mano. E immaginate le parole che potrebbero essere
finalmente dette, se osassimo tutte e tutti ascoltare.

2. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: LA VIOLENZA CHE SI FA E NON SI DICE
[Dal sito www.aprileonline.info]

Tutti quelli che si sono affrettati a commentare con sdegno l'uscita di
Berlusconi su stupri e misure di sicurezza - "ci vorrebbero tanti soldati
quante sono le belle donne italiane" - sembrano dimenticare o far finta di
non sapere che in questa, come in altre volgari, irresponsabili "battute"
del presidente del Consiglio, si esprime quel sentire comune, largamente
diffuso, quantomeno tra gli italiani (e sicuramente anche tante italiane),
che gli ha creato finora un indiscusso - e altrimenti inspiegabile -
consenso.
La sua sfrontatezza e impunita' e' evidentemente liberatoria per tutto cio'
che si pensa, si fa, e ipocritamente non si dice. Bisogna allora
riconoscergli, in questo caso, il "merito" di aver portato allo scoperto,
col suo "maschilismo da bar" - l'attribuzione alle donne della provocazione
sessuale - l'aspetto piu' evidente e paradossalmente piu' rimosso
dell'aggressione che ha per oggetto il corpo femminile, e cioe' che la
violenza e' fatta da uomini, in quanto tali, per cui ogni tentativo di
stornarla su problemi di sicurezza e immigrazione e' vergognosamente falso.
Se ci indigna che esca dalla bocca di una delle piu' alte cariche delle
Stato il pregiudizio antico su cui ancora si regge il dominio maschile - che
le donne sono o "madri" o "prostitute" -, non di meno dovrebbe risultarci
intollerabile l'arroganza ipocrita di parlare d'altro, di mascherare una
verita' che e' sotto gli occhi di tutti, dimostrata dell'intera classe
politica di questo paese, dei suoi organi di informazione, dei suoi ceti
intellettuali, dei suoi professionisti della cultura, nonostante peraltro
siano stati resi pubblici ormai da anni dati numericamente impressionanti
sulla violenza domestica (che si tratti di stupri, omicidi o maltrattamenti)
e nonostante le manifestazioni, gli scritti, le prese di posizione di gran
parte del femminismo italiano.
Tor di Quinto non ha insegnato nulla, la parola "sessismo" non entra nel
lessico politico ne' della destra ne' della sinistra; del maschio che
aggredisce, stupra e uccide, non e' il sesso che conta ma l'appartenenza
etnica, la patologia, lo statuto della trasgressione o della delinquenza. Si
spinge l'attenzione pubblica a tener fermo lo sguardo su strade, citta',
campagne, ad accanirsi inutilmente su opzioni sicuritarie di cui si sa gia'
l'inefficienza, perche' a nessuno venga in mente di farsi le domande piu'
razionali e piu' semplici: perche' gli uomini uccidono? Perche' il luogo
primo della violenza maschile, anche di quella che si manifesta all'esterno
delle mura domestiche, e' la famiglia? Quanto conta l'ambigua "potenza" e
"seduzione" che viene attribuita ai corpi femminili che partoriscono,
alimentano, curano figli, mariti, fratelli, nel perdurare di una "virilita'"
confusa col potere, col controllo, o con l'aggressione? Quanto contribuisce
a mantenere l'ignoranza del rapporto tra i sessi una scuola che ignora
corpi, sentimenti, pulsioni, sogni e incubi ereditati dall'infanzia, dai
primi rapporti col mondo adulto, con la cultura dominante?
I movimenti che quarant'anni fa hanno provato ad avviare processi formativi
e pratiche di una politica capace di "andare alle radici dell'umano",
partendo dalla famiglia e dagli asili, sono stati cancellati persino dalla
memoria della sinistra, moderata e "rivoluzionaria", e non c'e' da
meravigliarsi che sia oggi la maggioranza al governo a ricordarsene e a
tentare di eliminarne persino le tracce.
Il fatto che Berlusconi abbia associato lo stupro alla bellezza, ben sapendo
che purtroppo la violenza sessista non ha queste premeditazioni estetiche,
e' un lapsus a cui si puo' dare una spiegazione. La cultura di massa,
volgare e sbracata come le sue esternazioni, passa attraverso uno schermo
televisivo che elargisce anatomie femminili in abbondanza e a ritmo
continuo, corpi esposti, offerti, sia pure virtualmente. Offerti a che cosa?
Al desiderio maschile, all'invidia femminile, all'imitazione o anche,
perche' no, al possesso violento, a odi nascosti, inconsapevoli, di quelli
che vediamo "normalmente" come teneri figli, padri, amanti, mariti?
Alcuni giorni fa, non ricordo piu' su quale delle reti di Mediaset, in un
grazioso salottino di composte signore e signori si giocava a uno strano
indovinello: su uno schermo passavano glutei, seni e labbra e i presenti
dovevano indovinare a chi appartenevano. Per essere riconosciuti si dava per
scontato che questi frammenti anatomici fossero stati piu' volte esposti,
sottolineati dallo stesso sguardo voyeuristico come parti per l'intero.
Perche' un bambino, bersagliato da corpi femminile ammiccanti non dovrebbe
crescere con l'idea che le donne sono essenzialmente corpo e non persone,
oggetti da comprare, consumare come le merci con cui vengono identificate?
La barbarie del violentatore, dell'assassino di donne, e' la stessa che le
ha espulse dalla vita pubblica, che ancora le tiene lontane dai luoghi in
cui si pensa, si discute e si decide sulla comune convivenza, che le vuole
madri o seduttrici o comunque subalterne al sapere e ai linguaggi dell'unico
sesso che si e' fatto protagonista della storia.
L'emancipazione femminile purtroppo oggi parla quasi esclusivamente al
"neutro", attenta a quelle "oscure carriere" di cui gia' si rammaricava
Virginia Woolf all'inizio del '900, o costretta, quando ha opinioni proprie,
a sopportarne la marginalita', l'insignificanza pubblica.
Conforta il pensiero che il movimento delle donne, sempre dato per morto,
continuera' ad avere sussulti, irruzioni improvvise, finche' il sessismo non
sara' riconosciuto come tale.

3. PROFILI. PAOLO PEGORARO: PAR LAGERKVIST
[Dal mensile "Letture", n. 645, marzo 2008 col titolo "Par Lagerkvist" e il
sommario "Umanista ateo avverso a ogni nichilismo, il Nobel svedese pose al
centro della sua opera le questioni fondamentali dell'uomo. Nelle forme
dimesse della sua narrativa erompe il fuoco di un 'posseduto' da Dio"]

Quando un corteo di milioni di morti parte per interrogare Dio sul senso
delle loro sofferte esistenze e, dopo secoli di cammino, lo incontra sotto
le spoglie di un robusto anziano intento a segare legna, si sente
rispondere: "Mi sono soltanto proposto questo: che voi mai non doveste
sentirvi contenti di qualsiasi cosa". Quarantadue anni dopo, Par Lagerkvist
confessava per bocca di un suo personaggio: "In realta' non volevo ne' la
pace, ne' la luce, ne' il riposo sicuro nel grembo di Dio. Volevo ardere nel
fuoco dell'amore" (Pellegrino sul mare). Proprio l'inquietudine, compresa
come desiderio vivo soltanto finche' inesaudito, e' lo stigma impresso sulla
sua intera produzione, scorticata da un infinito desiderio di vita
nonostante l'inconciliabile certezza del niente dopo la morte.
Lagerkvist e' un essenzialista: cresce nei paesaggi spogli dello Smaland, e'
plasmato prima dall'epica poderosa quanto elementare del folklore e degli
onnipresenti racconti biblici, poi dalla scansione meccanica del teatro
religioso tradizionale, infine dalla scomposizione geometrica dell'immagine
che Cezanne Matisse e Picasso andavano inaugurando in quegli anni. Il suo
sguardo e' obbligato a spogliare, denudare e scarnificare fino a non
scorgere altro che l'arida ossatura dell'esistenza. Eppure qualcosa
d'indomito continua a scalpitare entro lo steccato della sua scrittura
scabra, un fastidioso pungolo ne accresce l'irrequietezza fino a scalciare
via ogni ordinata costruzione. E mentre simmetrie e antitesi saltano per
aria, risuona un galoppo furente lungo spazi incolmabili, deserti e
tenebrosi, trafitti dalla gelida luce delle stelle. E' il panorama
etimologico del desiderio, immagine frequentissima nelle sue pagine.
Lagerkvist intitolo' la prima parte della propria autobiografia Ospite della
realta' (1925) esplicando immediatamente questa appercezione di se' come
straniero, viaggiatore e infine pellegrino dell'infinito. Anders - il
protagonista dietro cui si cela Lagerkvist - e' un bambino che vive
un'infanzia pregna di amore familiare e non esente da momenti di idilliaca
spensieratezza, ma su questo sfondo sereno si moltiplicano i presagi di
morte. Anders e' un bambino precocemente sconvolto dal fatto che le cose
belle sono destinate a sparire. Un innocuo commento a un gioco scatena
l'angosciosa domanda su chi morira' per primo nella sua famiglia. Il bambino
non puo' venire a patti con la "mostruosita'" della morte e si rifugia nel
bosco, dove sfoga una preghiera accorata e istintiva perche' tutti possano
vivere. Quest'invocazione panica gli e' imposta dal suo stesso corpo, mentre
il rappacificante fatalismo che impregna il pietismo tradizionale appreso in
casa, a scuola, in una sede dell'Esercito della Salvezza - tutti luoghi
chiusi - gli provoca un permanente senso di soffocamento e oppressione sul
petto. Anders, kafkianamente, e' attratto dalla calda religiosita' di quel
vivere uniti, ma non puo' sopportarne la pesante immobilita', i sospiri,
l'implicita repressione. Il suo slancio vitalistico si combina alla
ribellione individuale, ma la morte della nonna frustra ogni progetto:
d'improvviso e' "come se la vita non esistesse piu'".
Ne' la fede istituzionale ne' la religiosita' naturale del bosco possono
rettificare il corso degli eventi, proprio come gli conferma la "nuova
dottrina" che ha appreso a scuola: il darwinismo. La sconfitta della
nonna/madre - capofila di una lunga serie d'incantevoli personaggi femminili
che placano gli irrequieti protagonisti di Lagerkvist - presenta il dramma
della vita innocente ineluttabilmente sopraffatta dalla morte. Le donne di
Lagerkvist saranno sempre incarnazioni o messaggeri della vita stessa,
piuttosto che semplici "generatrici" di vita, esseri di un'antica stirpe che
si aggirano in questo mondo "come se esse fossero la realta' piu' piena, e
insieme quasi non si fanno scorgere. Sembrano sapere gia' con certezza che
non saranno cancellate, che esisteranno per sempre, che non accadra' loro
alcunche' di male". Tanto piu' inaccettabile la loro scomparsa, perche'
aumenta la desolazione del mondo.
Il processo di apprendimento della tragedia che presiede a Ospite della
realta' e' ora completo: Anders comprende che non solo non si e' liberi di
vivere come individui, ma non si e' neppure liberi di vivere, semplicemente.
Il suo insopprimibile bisogno di piu' vita e di vita autentica rimane
doppiamente inevaso, ma proprio per questo arde ancora con forza ulteriore
in quel buio che tutto gli pare ingoiare. Se l'orrore della morte fisica
sara' retaggio soltanto di alcuni personaggi - come Erode e Barabba -, il
tratto comune a tutti sara' il pungente anelito a un'ulteriorita'.
*
Fuori dal regno della morte
In un significativo cammeo posto nelle prime pagine di Ospite della realta'
il vecchio Jonsson, che sega legna da una vita, lamenta che nessuno lo abbia
mai ringraziato di non essere morto. Se non fosse per il suo mestiere in
apparenza tanto umile, spiega poi, chi avrebbe salvato i compaesani
dall'impietoso gelo scandinavo? La singolare immagine si ricollega a Il
sorriso eterno (1920), dove nientemeno che Dio compare nelle stesse
singolari vesti di garante della vita biologica, se non del suo senso. Il
dramma della morte appare dalla prima riga: l'ambientazione e' un oltretomba
vuoto e buio, simile all'Ade o allo sheol, dove le anime hanno pero'
conservato almeno una parte dei propri ricordi. Questa immagine
dell'aldila' - un deserto buio e sterminato - rimarra' invariata anche
nell'ultima produzione (La Terra Santa), testimonio della permanente
incredulita' dell'autore in una nuova vita, pure avvertendone la necessita'.
Il sorriso eterno rappresenta, inoltre, un primo tentativo di ricomporre la
dicotomia individuo/comunita'.
La prima parte dell'opera consiste - almeno in apparenza - in un susseguirsi
di monologhi tra loro slegati, rendendo il romanzo molto simile a un copione
teatrale. Ma se da un lato gli "interlocutori" non si rivolgono la parola,
dall'altro i racconti si rilanciano l'un l'altro mediante corrispondenze e
antitesi, suscitando un "effetto eco" ripreso nell'atto unico Fate vivere
l'uomo (1949). La scelta risponde a un'esigenza metafisica prima che
stilistica. Il grido della rivolta che convince i defunti a cercare Dio per
interrogarlo adopera come grimaldello della coscienza la solitudine:
"Cerchiamo e cerchiamo, ma ognuno non trova che se stesso [...] Non posso
sopportare la mia solitudine in uno spazio che non ha fine. Voglio cercare
dio, cio' che e' sempre vero".
Tuttavia, mentre le schiere di defunti si radunano e s'incamminano, le
insufficienze dei singoli caratteri sembrano compensarsi e conciliarsi
nell'unico corpo dell'umanita'. Poiche' "nessuno era cosi' complicato o
bizzarro che non esistessero alcuni milioni di esseri simili a lui"
scompaiono lo sconforto e la disperazione. Improvvisamente l'umanita' li'
convenuta da tutte le epoche si avvede che "tutto era in ordine, tutto era
come doveva. Rimasero sbalorditi. Poi li riempi' una profonda soddisfazione,
una gioia mista a riconoscenza. [...] Tutto somigliava troppo a cio' che
essi avevano bramato durante l'intera vita". A convincere i defunti
dell'esistenza di un senso ultimo e' quest'esperienza, piuttosto che le
smilze risposte del dio-taglialegna, concrezione dell'infinito desiderio di
vita che l'umanita' tutta condivide ("Un uomo unico non puo' desiderare di
aver un dio; ma per noi milioni bisogna che dio esista"). Alla fine ognuno
trova in se' "qualcosa di luminoso" e, come tante stelle, si separano nella
tenebra vuota; pero' non piu' all'insegna della morte, come nell'incipit, ma
paradossalmente per "continuare a vivere".
*
Oltre questa vita che non basta
Si tratta di una breve e felice parentesi. Lagerkvist sperimenta in questi
anni il dissidio tra realizzazione personale e compromessi necessari con la
vita. Nel 1918 ha sposato Karen Sorensen - "l'essere spaventoso che io
amo" - e ha avuto una figlia, Elin, ma gli allestimenti scenici, i contatti
editoriali e la febbrile ricerca d'ispirazione nelle capitali della cultura
europea lo costringono a viaggi continui. I ricavati dalla pubblicazione
delle sue opere sperimentali e dai suoi articoli di critica sono irregolari,
e la famiglia e' costretta a traslocare di albergo in albergo, tra gravi
stenti e continue richieste di prestiti al fratello Gunnar. La piccola Elin
stenta a riconoscere il padre, che nell'autunno del 1923 propone pacatamente
il divorzio. La separazione avviene due anni dopo, in concomitanza con la
storia con l'insegnante Elaine Sandels e l'inizio di una fase piu' stabile
della sua vita. Il precedente fallimento matrimoniale e il senso di colpa
verso la giovane figlia segneranno pero' fortemente le opere successive. La
mia parola e' no (1927) e' il fiammeggiante proclama di Lagerkvist in difesa
dell'eternita' che ha preso dimora nell'uomo. La polemica, parzialmente
antifreudiana, e' verso quanti riducono il patrimonio spirituale a lucidita'
di sguardo, impietosa intelligenza, capacita' di analisi e dissezione: gli
scettici, in altre parole, parassiti dell'esistenza, maestri del sospetto e
meschini denunciatori delle altrui colpe su cui Lagerkvist plasmera'
personaggi dal volto vizzo, anonimi e universali, come il nano dell'omonimo
romanzo, la vecchia serva della Sibilla o il piccolo guercio che accusa
Barabba. Speculari a loro vi sono i puri di cuore, coloro che vedono
soltanto il bene, personaggi altrettanto anonimi e universali come il
piccolo servo dell'oracolo che aiuta la Sibilla o il converso che soccorre
Assuero: sono questi ingenui e coraggiosi credenti "i grandi forzieri su cui
noi tutti contiamo".
Ma il secondo e piu' grande avversario dell'uomo e' la vita stessa, sempre
insufficiente e castrante rispetto all'esigenza d'infinito che lo abita,
poiche' "essere uomo e' avere fame", "fame di perfezione", davanti alla
quale la felicita' terrena si rivela nostalgia. Perfetta concrezione di
questo dissidio e' il vecchio Boman in Colui che pote' rivivere la sua vita
(1928), la cui gamba di legno reifica l'amputazione dei desideri personali e
il necessario adattarsi ai limiti dell'esistenza. Boman zoppica ogni mattina
al mercato per vendere qualcosa, poi rammenta la propria intima verita': il
vero Boman non e' quello, "perche' il vecchio Boman e' sogni, lui e' sogni
[...] Lo siamo tutti".
L'umanesimo di Lagerkvist si nutre qui di una potente dimensione prometeica:
se da un lato e' necessario credere con fervore nell'altissima dignita'
dell'uomo e nella sua superiorita' sulla vita, dall'altro e' solo da se
stesso che puo' giungergli un qualche divino riscatto. E se l'uomo e' tutto
questo, da dove viene il male?
*
Male senza nome e senza tempo
Nel 1933, di ritorno da un lungo viaggio presso le civilta' fondatrici
dell'Europa, Palestina e Grecia, Lagerkvist attraversa un'Italia e una
Germania eccitate dall'ebbra ascesa al potere dei nazionalismi fascisti, da
lui prontamente bollati come totalitarismi "barbarici". Nasce cosi' Il boia,
opera apertamente politica trasfigurata pero' su un piu' ampio sfondo, come
avverra' per lo stalinismo ne L'uomo senz'anima. Il boia e' un dittico dove
l'eterna figura del carnefice e' guardata prima con superstizioso rispetto
in un'osteria medioevale, poi con untuosa piaggeria in un club nazista, per
concludersi infine con la durissima requisitoria del boia, colui che ha
sulla fronte il marchio di Caino ed e' strumento del male nel mondo.
Lagerkvist precisa qui il proprio pensiero sulla redenzione. Da un lato vi
e' il Crocifisso, modello di amore per l'umanita' che, perdonando il suo
aguzzino, dicono abbia fatto scomparire per un istante il marchio dalla sua
fronte; dall'altro vi e' la donna senza nome che ama incondizionatamente il
boia, lo tratta come un essere umano, lo carezza e gli dice che il marchio
e' scomparso. Se mai esiste salvezza, pertanto, essa e' nel perdono e
nell'amore. Tuttavia, prescindendo dalla divinita' del Crocifisso,
Lagerkvist non riesce a districarsi dalla spirale di sangue del sacrificio e
il suo boia, dopo aver proclamato il fallimento della redenzione, si nomina
vero Cristo, antimessia inviato "perche' sia guerra sulla terra agli uomini
di cattiva volonta'". L'episodio e' una perfetta verifica dell'assioma di
Joseph Ratzinger secondo cui "soltanto l'amore da' un senso e un indirizzo
al dolore. Se cosi' non fosse, i veri sacerdoti dinanzi all'ara della croce
sarebbero stati i carnefici". L'amore si affaccia pero' nell'ultima pagina
del racconto: la donna ricorda al boia che lo aspetta ogni sera per farlo
riposare. Qui come altrove, nella narrativa di Lagerkvist, si polarizzano
due insiemi semantici: la donna e' colei che crede, l'angelo del focolare
che dona conforto, ma allo stesso tempo vincola a se' e vive in spazi
chiusi, che provocano un senso di soffocamento; l'uomo e' colui che
desidera, il ribelle senza pace costretto al vagabondaggio in lande deserte
e buie, flagellate da un vento furioso e confitte dalla luce delle stelle.
La frequenza con cui i personaggi maschili - siano Daniel, Barabba, Tobias,
Giovanni o Erode - si macchiano di gravi delitti contro la donna amata
risente dei sensi di colpa dell'autore verso la prima moglie, ma ci si puo'
domandare se la rappresentazione stessa di queste donne angelicate non sia
frutto, almeno in parte, della proiezione di un rapporto d'amore intimo e
assoluto con l'Altro che Lagerkvist vuole e nega con pari fermezza. I suoi
personaggi, infatti, vivono relazioni che di rado - e mai in maniera
significativa - si aprono alla generazione: l'unica dimensione comunitaria
rilevante e' la nozione, necessariamente astratta, di "umanita'". Di fronte
alla drammatica solitudine dell'uomo, l'esclusivita' speculare
dell'appagamento io-tu (Giovanni e Angelica ne Il nano, Paolo e Francesca in
Fate vivere l'uomo) assume i contorni dell'unione mistica: nei vertici
dell'amore innocente il senso d'incompletezza e l'infinito desiderio
dell'uomo possono lambire, anche se per un solo istante, la pienezza di vita
che esigono. Quindi anche l'amore, come la felicita', e' una forma di
nostalgia.
L'enigma del male s'impone con prepotenza ne Il nano (1944), uno dei massimi
capolavori di Lagerkvist, partorito dopo un'angosciosa crisi creativa. Il
nano e' l'unico personaggio del romanzo a non avere nome: egli e' il
diabolus ex machina, il cuore di tenebra che catalizza e attua i sentimenti
piu' antiumani covati dal Potere, anche quando indossa le vesti umaniste del
principe rinascimentale Leone, uomo che s'interessa a tutto ma non aderisce
a nulla. Il nano e' un'appendice del principe, l'ombra perpetuamente assisa
alle sue spalle, la bassezza morale cui egli e' disposto a ricorrere quando
i mezzi leciti non sortiscono effetto. "Credono che sia io a spaventarli -
afferma il nano, riferendosi agli uomini che lo evitano -, e invece e' il
nano nascosto dentro di loro, quell'essere simile all'uomo, dal volto di
scimmia, che leva la testa dal profondo della loro anima [...] E sono
deformi senza che ne traspaia nulla". Ed e' nelle profondita' dell'anima,
metaforizzate nelle segrete del castello, che il principe Leone rinchiudera'
il nano dopo averne sfruttato la perfidia: rimozione inutile, egli lo sa
bene, perche' il signore non potra' governare a lungo senza ricorrere al suo
nano. Essere completo perche' appartiene perfettamente a se stesso,
esecratore universale che arde di odio e sprezza quell'"orribile peccato"
che e' l'amore, il nano e' "inattaccabile, indistruttibile, incrollabile"
come il nichilismo di cui e' sacerdote. Celebra due sinistre antieucaristie:
la prima e' una parodia carnevalesca, dove tutti i partecipanti sono aspersi
con l'amaro vino dell'odio, mentre la seconda e' un banchetto di
"riappacificazione" con il casato vicino che si concludera' in carneficina.
Infallibile conoscitore delle miserie umane, il nano e' pero' inabile a
scorgere le stelle o a stupirsi o a partecipare ad alcunche': sua nemesi e'
il falstaffiano don Riccardo, un volgare "buffone che ama la vita" in tutte
le sue forme, pericoloso destabilizzatore da eliminare appena se ne presenta
l'occasione. C'e' solo un personaggio che il nano apprezza sempre,
incondizionatamente, ed e' il mercenario Boccarossa, brutale monolito
d'istinti che non ha la debolezza di un'anima ne' il rallentante tormento di
un pensiero: piu' appetibile del potere, in altre parole, vi e' solo la
tirannica imposizione del potere.
*
La saga dei perseguitati da Dio
Il secondo conflitto mondiale e la meditazione sul male focalizzano ancora
di piu' Lagerkvist, se possibile, su un'interrogazione esclusiva e ossessiva
attorno il mistero di Dio. La nuova fase lo accompagnera' per oltre un
decennio, durante la stesura di cinque romanzi che proseguono una lunga
riflessione, quasi fossero una medesima, tortuosa saga dei destini umani.
Barabba (1953), come la Sibilla (1956), l'ebreo errante Assuero (1960),
l'anomalo pellegrino Tobias (1962) o l'ex prete Giovanni (1964) sono
personaggi che subiscono il tocco bruciante della divinita' e ne hanno la
vita irrevocabilmente stravolta. "E' pericoloso incontrare un dio" ricorda
la Sibilla, perche' - che sia per la luce o per le tenebre, che venga intesa
come elezione o come maledizione - la svolta impressa all'esistenza umana da
quell'incontro arbitrariamente imposto dall'alto e' un fatto
incontrovertibile. Lagerkvist, che nel pamphlet Il pugno chiuso (1934) si e'
definito "credente senza fede" e "ateo religioso", ne e' convinto: proprio
come il cristiano porta nel suo il nome di colui al quale crede, cosi'
l'a-teo e' identificato attraverso il suo avversario. Tale e' Barabba, colui
che sul rovescio della propria piastra di schiavo reca inciso il nome di Dio
sbarrato da una croce. Il nome di Dio e' negato, non assente, perche'
Barabba desidera credere nonostante non abbia un dio: tra la sua incapacita'
di credere e la volonta' nullificatrice del nano c'e' un'abissale
differenza.
Barabba ha ricevuto la sua rivelazione nelle tenebre che avvolgono il
Golgota come un nuovo Sinai: cio' che e' luce per gli uni e' buio per gli
altri (Es 14,20), ma paradossalmente questa oscurita' puo' essere vista e,
spirando, egli pare dialogare con essa. Sahak, lo schiavo cristiano, dira'
al guercio che il suo Dio e' anche nel buio (Sal 138,11-12). Egli se ne
ammanta e colma ogni cosa della sua presenza/assenza, come scrivera'
Lagerkvist quello stesso anno, nella sua ultima raccolta di poesie. Dopo il
1953, infatti, Lagerkvist si dedica soltanto alla prosa. Sono romanzi poveri
di azione che si reggono su grandi blocchi di monologhi, dilatando quella
tecnica gia' adoperata ne Il sorriso eterno, a dire che le esistenze umane
sono talmente incommensurabili da poter essere solamente giustapposte. Ne La
sibilla (1956) conosciamo altri due "perseguitati da Dio": la Pizia di
Delfi, una Madonna pagana che ha respinto il passionale furor della
divinita' per sperimentare l'amore terreno, e l'ebreo errante Assuero, colui
che rifiuto' il riposo al Crocifisso e per questo non avra' il riposo della
morte. In quest'opera a essere sottolineata e' soprattutto
l'imperscrutabilita' del dio, accentuata dall'ambientazione pagana: egli e'
la conciliazione degli opposti, "futile e insieme pieno di un significato";
egli punisce e offre riparo, "e' un enigma che non deve essere risolto, ma
deve esistere [...] per affliggerci sempre". La Pizia spiega ad Assuero che
anche il suo odio per Dio "e' esperienza del divino". Cosi', ne La morte di
Assuero (1960), solo quando l'ebreo errante ripone il proprio risentimento
contro il rabbi di Nazaret e riconosce di aver appreso da lui che la fede
nella vita e' piu' importante della vita stessa, puo' finalmente morire. E
sebbene Assuero respinga la divinita' di Gesu', egli spira con una
fulminante professione di fede sulle labbra: oltre "tutte le apparenze di
santita', ci deve pur essere cio' che e' realmente santo. Io lo credo, ne
sono convinto". Nello stesso romanzo, l'eterno e insensato vagabondare di
Assuero s'incrocia con il pellegrinaggio di Tobias, calco grottesco del
Tobia biblico (Tb 6,1), anch'egli accompagnato da un cane e, invece che da
un angelo, da una fanciulla in tutto simile a una ninfa dei boschi. La
staffetta del desiderio prosegue con Pellegrino sul mare (1962), dove si
aggiunge il corsaro Giovanni, ex prete sedotto dall'irrequietezza senza posa
del mare.
*
Il medaglione vuoto
Gia' ne Il nano era apparsa l'immagine di un medaglione, portato al collo
dall'innocente principe Giovanni e contenente il ritratto della madre, donna
di leggendaria bonta' "che dicono sia in paradiso"; morto il principino, il
medaglione passa all'amata Angelica e le ispira "un immenso desiderio di
abbandonare questo mondo". In Pellegrino sul mare il medaglione torna in
scena al collo di un altro Giovanni, il corsaro, dopo averlo sottratto a una
donna che lo riteneva indispensabile perche' contiene il volto del suo
amante. Invece e' vuoto: dunque "il suo vero amore non esisteva"? Ne La
Terra Santa (1964), il capitolo piu' allegorico della saga, Giovanni e
Tobias sono sbarcati in una plaga crepuscolare dove tutto e' gia' avvenuto e
rimangono solo rovine e cose senza nome, un deserto sempre piu' irreale e
simile a un Ade a cielo aperto. Giovanni, sfinito, ha al collo il
medaglione, ma quando una misteriosa donna - un'allegoria della
Disperazione? - glielo sfila, egli muore. Nelle ultime pagine Tobias
s'imbatte in una piccola cappella mariana: l'immagine sacra si anima e si
trasfigura nella giovane amata da Tobias in gioventu', di cui ha
inconsapevolmente causato la morte. La ragazza lo conforta, gli sfila il
medaglione e anche il pacificato Tobias spira. Il medaglione vuoto, oggetto
inutile ma indispensabile per vivere, e' la bussola del desiderio che
accompagna i pellegrini di Lagerkvist verso la patria lontana, una terra
"che non si e' certi che esista", ne' si puo' raggiungere, ma "soltanto
desiderare". La trilogia del Pellegrino culmina in quest'ambivalenza: da un
lato, come fa notare la piccola Madonna a Tobias, desiderare soltanto non
basta; dall'altro, egli afferma, si puo' desiderare solo cio' che e'
sconosciuto. Il medaglione pertanto e' necessariamente vuoto, altrimenti non
vi sarebbe ragione di avviare l'incerto pellegrinaggio. E d'altra parte
quale immagine potrebbe mai saziare il sanguinante bisogno umano di una vita
piena ed eterna? A vivificare tutte le opere di Lagerkvist sara' sempre
questa personale fedelta' a un grido, forse inascoltato ma comunque
invincibile, che si leva dal cuore di ogni uomo. Quel grido che e'
l'invocazione conclusiva di Paolo e Francesca in Fate vivere l'uomo (1949):
"E' la vita che e' grande e infinita. Vieni, diletta, viviamo! Per sempre!
Attraversiamo le porte delle stelle! Attraverso le porte delle galassie! Che
tutto sia senza limiti. Tutto e' senza limiti. Che l'uomo sia felice senza
limiti. Fate vivere l'uomo. Senza limiti".
*
Riscoprire l'atavica modernita' del classico
Nel nostro Paese il successo di Barabba - riedito ininterrottamente dal
1951 - ha offuscato la conoscenza della restante produzione di Lagerkvist,
varia e altrettanto valida.
Per quanto riguarda la poesia, ricordiamo: Il pino (Scheiwiller, 1939),
antologia di testi precedenti al 1926; Barabba e altre opere (Fabbri, 1967),
contiene tre raccolte integrali: Canti del cuore, Il genio tutelare, Il
paese della sera; Poesie (Rusconi, 1969, ora Guaraldi/Nce, 1991), antologia
di testi fino al 1940; La terra della sera. Scritti di Par Lagerkvist
(Edizioni di Pagina, 2007), nuova traduzione completa di alcune liriche
espunte dall'autore, dell'atto unico Fate vivere l'uomo e degli inediti
Appunti per il dio solitario.
Per la narrativa si segnala il volume Le opere (Utet, 1968) e il romanzo
Barabba (Jaca Book, 2004). All'editore milanese Iperborea va il merito di
diffondere tutt'oggi la conoscenza dell'autore attraverso nuove traduzioni
arricchite di prefazioni penetranti: Pellegrino sul mare (Iperborea, 1989);
Il sorriso eterno (Iperborea, 1990); Il nano (Iperborea, 1991); Il boia
(Iperborea, 1997); La mia parola e' no (Iperborea, 1998); Mariamne
(Iperborea/Lampi di stampa, 1999); Barabba. Dramma in due atti (Iperborea,
2004).
Al momento l'unico, prezioso studio monografico e' Par Lagerkvist. Un ospite
della realta', di Franco Perrelli (Iperborea, 1998). Per una interpretazione
piu' specificatamente religiosa si rimanda a: Enrico Tiozzo, Inquietudine
religiosa e ricerca di Dio in Par Lagerkvist (Bulzoni, 1970); Ferdinando
Castelli, Volti di Gesu' nella letteratura moderna (San Paolo, 1995); Luigi
Giussani, Le mie letture (Bur, 1996).
*
Giovinezza bohemienne e maturita' appartata
1891 Par Fabian Lagerkvist nasce il 23 maggio a Vaxjo, nello Smaland,
regione pietrosa della Svezia meridionale.
1908 Esordisce come poeta con un inno allo scrittore Verner von Heidenstam e
gli scrive per sottoporgli alcuni suoi racconti; trent'anni dopo Lagerkvist
occupera' il suo seggio tra gli Accademici di Svezia.
1911 Si iscrive all'Universita' di Uppsala. L'anno seguente pubblica il
primo libro.
1913 A Parigi, conosce il pittore cubista John Sten e il critico August
Brunius che lo introducono a Matisse, Picasso, Cezanne. Nel saggio Ordkonst
och Bildkonst (Arte della parola e arte dell'immagine) propone l'uso di una
scrittura semplificata, elementare, che abbia per modello i grandi poemi
religiosi dell'antichita'.
1916 Conosce l'artista espressionista Henrik Sorensen. Pubblica Angest
(Angoscia), prima raccolta poetica di rilievo. Si fidanza con Karen Sorensen
e viaggia tra Norvegia, Stoccolma e Copenaghen.
1918 Sposa Karen e nasce la figlia Elin. Nel manifesto Modern teater (Il
teatro moderno) attacca il naturalismo ibseniano e ripropone la tradizione
dei morality play medioevali, prolungatasi in Shakespeare e Strindberg.
1920 Raggiunge Londra, Parigi e Firenze, lasciando la famiglia sull'orlo
della miseria. Sul lago di Como scrive Det eviga leendet (Il sorriso
eterno); scende a Roma, Napoli, in Sicilia e in Tunisia.
1925 Esce il volume autobiografico Gast hos verkligheten (Ospite della
realta'). Pacifica accettazione del divorzio, consapevole delle proprie
mancate responsabilita'. Sposa l'insegnante Elaine Sandels; l'anno dopo
nascono i gemelli Bengt e Ulf.
1927 Esce il manifesto del suo "umanesimo di rivolta", Det besegrade livet
(La mia parola e' no).
1933 Viaggio alle sorgenti della cultura occidentale - Medio Oriente e
Grecia - da cui trarra' Den knutna naven (Il pugno chiuso). L'adattamento
teatrale di Bodeln (Il boia) riscuote grande successo come denuncia
antinazista.
1940 Eletto Accademico di Svezia. Crisi creativa.
1944 Dvargen (Il nano) lo fa conoscere al grande pubblico. Nuova crisi
creativa.
1950 La lettera di Andre' Gide posta come prefazione a Barabbas (Barabba) ne
garantisce il successo internazionale. Dal romanzo vengono tratti un film
diretto da Alf Sjoberg (1953) e il kolossal di Richard Fleischer (1961) con
Anthony Quinn, Vittorio Gassman e Silvana Mangano: alla sua proiezione Par
ride e la moglie dorme.
1951 Assegnazione del Premio Nobel per la letteratura.
1953 Aftonlandet (La terra della sera), ultima opera di poesia.
1956 Sibyllan (La sibilla). Lagerkvist vive in estremo ritiro.
1960-64 Escono i volumi della "trilogia del Pellegrino": Ahasverus dod (La
morte di Assuero), Pilgrim pa havet (Pellegrino sul mare), Det heliga landet
(La Terra Santa).
1967 Morte della moglie Elaine, colpita da emorragia cerebrale l'anno prima.
Esce Mariamne.
1974 Muore l'11 luglio per gravi scompensi cardiaci.

4. VOCI. ALESSANDRO MARESCOTTI: MI ABBONO AD "AZIONE NONVIOLENTA" PERCHE'...
[Ringraziamo Alessandro Marescotti (per contatti: a.marescotti at peacelink.it)
per questo intervento]

Condivido l'appello ad abbonarsi ad "Azione nonviolenta", da lungo tempo
punto di riferimento essenziale per chi ha a cuore la pace e la ricerca di
un'alternativa sociale ispirata alla sobrieta', al dialogo e all'educazione
alla pace.
Di questa alternativa abbiamo bisogno specie ora che la questione del
disarmo e della nonviolenza sembrano interessare poco o nulla i carrieristi
della politica.
"Azione nonviolenta" rimane uno strumento prezioso per dare alle nostre
speranze il senso di una proposta concreta e di un progetto collettivo.

5. STRUMENTI. PER ABBONARSI AD "AZIONE NONVIOLENTA"

"Azione nonviolenta" e' la rivista del Movimento Nonviolento, fondata da
Aldo Capitini nel 1964, mensile di formazione, informazione e dibattito
sulle tematiche della nonviolenza in Italia e nel mondo.
Per abbonarsi ad "Azione nonviolenta" inviare 29 euro sul ccp n. 10250363
intestato ad Azione nonviolenta, via Spagna 8, 37123 Verona.
E' possibile chiedere una copia omaggio, inviando una e-mail all'indirizzo
an at nonviolenti.org scrivendo nell'oggetto "copia di 'Azione nonviolenta'".
Per informazioni e contatti: redazione, direzione, amministrazione, via
Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803 (da lunedi' a venerdi': ore 9-13 e
15-19), fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org

6. STRUMENTI. LA NEWSLETTER SETTIMANALE DEL CENTRO STUDI "SERENO REGIS" DI
TORINO

Segnaliamo la newsletter settimanale del Centro studi "Sereno Regis" di
Torino, un utile strumeno di informazione, documentazione, approfondimento
curato da uno dei piu' importanti e piu' attivi centri studi di area
nonviolenta in Italia.
Per contatti e richieste: Centro Studi "Sereno Regis", via Garibaldi 13,
10122 Torino, tel. 011532824 e 011549004, fax: 0115158000, e-mail:
info at serenoregis.org, sito: www.serenoregis.org

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it,
sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 719 del 2 febbraio 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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