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Voci e volti della nonviolenza. 292
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 292
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 26 Jan 2009 10:13:53 +0100
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 292 del 26 gennaio 2009 In questo numero: 1. Alcuni estratti da "Tagebuch" di Liana Millu 2. Alcuni estratti da "Tutta la violenza di un secolo" di Marcello Flores 1. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "TAGEBUCH" DI LIANA MILLU [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Liana Millu, Tagebuch. Il diario del ritorno dal Lager, Giuntina, Firenze 2006] Indice del volume Prefazione di Paolo De Benedetti; Introduzione di Piero Stefani; Quel mozzicone di matita del Meclemburgo; Tagebuch; Il ritorno dai Lager. * Da pagina 9 Introduzione di Piero Stefani Si tratta di un quaderno di non grandi dimensioni: 12x18 cm, di un'eleganza un po' massiccia per cui si vorrebbe spendere l'aggettivo tedesca. E' ricoperto di finta pelle zigrinata. Sul fianco ha una piccola serratura per custodire meglio segreti, probabilmente sentimentali, di qualche signorina di un tempo. In alto a sinistra, in caratteri gotici dorati, introdotti e chiusi da riccioletti, vi e' scritto Tagebuch, diario. A motivo degli ornamenti la T iniziale sembra contenere una specie di chiave di violino. Forse un segno augurale; con esso si voleva invitare l'acquirente a riempire con la melodia, lieta o struggente, della propria esistenza i cinquantasei fogli senza righe e di carta piuttosto spessa che compongono il diario. Il quaderno ha pero' soprattutto l'aspetto degli oggetti che si regalano; doni spesso destinati a restare inutilizzati o perche' non corrispondono ai bisogni di coloro che li ricevono o perche' le circostanze hanno preso una piega imprevista. Le cose, come le esistenze, possono andare incontro a sorti inimmaginabili. Questa imprevedibilita' diviene in tal caso il sigillo piu' autentico del loro essere unici. Sta di fatto che quando fu trovato ai primi di maggio del 1945 in una fattoria abbandonata del Meclemburgo, il Tagebuch, era ancora in bianco. Accanto c'era una matita. Liana Millu proveniva dal vicino Lager di Malchow. Vi era stata trasferita l'autunno precedente. Giungeva da Birkenau, il campo femminile presso Auschwitz dove c'erano i crematori. In quel periodo i russi sembravano prossimi a giungere e cominciarono le prime evacuazioni. L'avanzata pero' si arresto' e per la liberazione si dovette attendere il 27 gennaio. Nel campo di concentramento del Meclemburgo l'inverno fu duro, ma non c'erano camere a gas. Chi resistette fino alla primavera vide arrivare le truppe russe e con esse una liberta' contraddistinta, nei primi tempi, da uno zingaresco vagare e da un bisogno di cibo impresso in modo inestirpabile nelle profondita' del proprio essere. Il primo gradino da risalire per recuperare la condizione umana era di cogliere il mangiare come un mezzo necessario per vivere e non come un fine in se stesso, in quest'ultimo caso infatti la morte sarebbe stata dietro l'angolo. Non fu evento raro che una fame insaziabile conducesse al decesso per l'azione combinata dell'inedia passata e del soddisfacimento presente. La cascina saccheggiata conteneva cibo, ma in mezzo al disordine emerse anche il diario dalle pagine bianche e la matita destinata ad avere un singolare futuro. Non si erra a giudicarle ancore di salvezza portatili della vita di Liana Millu. Tramite quelle pagine anche l'anima fu in grado di ritrovare il proprio respiro. Fu rinvenuto il 3 maggio, le prime annotazioni risalgono pero' solo a una settimana dopo. Le pagine iniziali contengono anche brevissime note di cronaca, in cui sono presenti i pericoli connessi al ritorno al cibo. L'atto di scrivere ha bisogno di un minimo di distacco. A dirlo e' il diario stesso le cui righe si infittiscono quando la necessita' di agire e il pungolo del male fisico si fanno meno violenti. Oltre il grande baratro del Lager, Liana Millu ritrova a poco a poco la capacita' di fermare uno stato d'animo e un pensiero sulla carta. Li riveste di parole e da' loro forma innanzitutto per lei stessa. Lo scrivere per Liana e' sempre stato l'apice della sua peculiare propensione a esaminare, nell'ordine, se stessa, le altre persone e le circostanze in cui si e' trovata a vivere. Entrata in Lager a trent'anni, Liana Millu aveva alle spalle la vocazione di scrivere. L'essere rimasta orfana di madre in tenerissima eta', l'infanzia difficile per un'educazione che non corrispondeva alle sue esigenze, il ribellismo giovanile che l'aveva condotta all'ateismo in reazione alla componente sia ebraica sia cattolica della propria famiglia, il mestiere di maestra intrapreso subito dopo il diploma, le molteplici, disordinate letture, tutto sembrava portarla a un approdo: fare la giornalista. Scelta anticonformista per una giovane degli anni Trenta; ma anche realizzazione del desiderio di osservare, descrivere, analizzare, frutto di uno spaesamento, avvertito fin dall'infanzia, che fa compiere all'animo un passo indietro per poter guardare meglio. Le leggi razziali del '38 interruppero tanto la sua carriera di maestra iniziata nell'antica Volterra quanto la collaborazione con i giornali. La pisana Millu si trasferi' allora a Genova divenuta da quel momento in poi la sua citta'. Seguirono anni contrassegnati da vari mestieri, compreso quello della serva (espressione senza perifrasi che trova riscontro nel Tagebuch), e da intense esperienze sentimentali. Una volta scoppiata la guerra e trascorso il fatidico 8 settembre, decise di entrare nella Resistenza. Non si tratto' di una scelta sostenuta da una forte adesione a una ideologia politica. Non faceva parte della sua personalita' darsi anima e corpo a una parte e aderire a una visione elaborata da altri. Non a caso si dichiaro' sempre aliena ai partiti. Catturata a Venezia nella primavera del '44, fu presto deportata ad Auschwitz-Birkenau. Quando entro' nel Lager, Liana Millu non era sostenuta ne' da una fede religiosa ne' da una fede politica; due pilastri che aiutavano a sopravvivere e a dare speranza in un luogo scientificamente programmato per rendere sottouomini coloro che erano arbitrariamente considerati gia' tali. I deportati trattati da "pezzi da lavoro" (Arbeit Stuecke) sarebbero ben presto divenuti tali se in loro non avesse operato una controforza. Quest'ultima, Liana la definiva fede. Ve ne erano di tre tipi; oltre a quella religiosa e politica, vi fu quella che Liana Millu chiamo' laica. Della fede religiosa si conobbero epifanie commoventi, quella politica opero' una resistenza anche in mezzo a pericoli atroci; la sua fede laica - che l'avvicinava a Primo Levi - faceva invece della mente e dell'anima un baluardo, un bunker inviolabile alla brutalita' e alle abiezioni, un rifugio dove conservare l'idea di tutto quel che rende "civile" la vita. In quest'ambito un ruolo decisivo lo svolgevano le poesie apprese a memoria e percio' divenute intime presenze (si pensi all'esempio piu' celebre: "Il canto di Ulisse" in Se questo e' un uomo). Questi frammenti vividi di memoria sono ben presenti nel Tagebuch. Tra le risorse dell'animo vi era pero' anche la volonta' di osservare se stessi e gli altri. * Da pagina 23 Quel mozzicone di matita del Meclemburgo Forse era il due maggio. Ma poteva anche essere il tre, il quattro: la data esatta non ho mai saputo ricostruirla. Fatto sta che in quella gloriosa mattina del '45, una volta entrata nella fattoria, andai a curiosare nella stanza che doveva essere stata il soggiorno dei padroni di casa. Non c'era nessuno: il viavai degli ex prigionieri, soldati, gente del Lager, lavoratori coatti, si addensava tra cortile, cantina e cucina. Cosi' entrai avanzando con circospezione sul pavimento ricoperto dai detriti: mobili fracassati, vetrine infrante, una radio sfondata, tutto quello che lo scoppio liberatorio di un'ira enorme lungamente repressa poteva distruggere era li'. E fu li', su quel pavimento, che vidi la matita e subito la presi e cominciai a guardarla e a rigirarla: da oltre un anno non ne avevo toccate piu': Viste, si'. Tra le mani delle Kapo e delle SS che mattina e sera controllavano sul taccuino il numero dei "pezzi". E anche una, tenuta a mezz'aria dalle dita lunghe e bianche del dottor Mengele; ma, essendo matite di Lager, non mi erano mai apparse come vere. Non potevano esserlo: appartenendo al mondo di Auschwitz non erano che oggetti temibili, dagli effetti spesso mortali. Quella, invece, era una matita vera. Percio' volli subito provarla, ansiosamente. Avevo bisogno di dimostrarmi che potevo ancora scrivere: scrivendo, avevo la riprova che quella mattina era, veramente, la prima della liberta'. Rovistai sul pavimento e, quasi subito, mi venne in mano un libretto rilegato in finta pelle, le pagine tutte bianche. Tagebuch era stampato in un angolo. Scrissi il mio nome sulla prima pagina, piu' volte, con una gioia sempre piu' esultante. Non solo sapevo ancora scrivere: possedevo di nuovo una cosa mia! Grazie a quella matita vissi il momento che segnava il mio ritorno tra gli umani. Finalmente una gioia pulita, civile: non la soddisfazione bruta della sopravvivenza. Da quel giorno, per i tre mesi che rimasi in Germania, da un ospedale all'altro, da un campo di raccolta all'altro, scrissi su quel diario, con quella matita. E poi passarono quarant'anni. Sono tanti. Eppure uno sguardo puo' annullarli: ogni tanto, quando sfogliavo il diario, prendevo in mano la matita, diventavano un soffio. Certo, la carta ingialliva, le parole scritte a matita sbiadiscono: rileggendole, avevo persino un senso di stupore. Ero proprio stata io? Ero stata io. Lo testimoniava la prima pagina, con il nome scritto tre volte in quella mattina di maggio. Leggevo, riponevo. Finche', a un certo punto, decisi che, a quelle cose, dovevo pur dare un avvenire. Restando con me, lo avrebbero avuto non solo breve, ma molto brutto. Disperse o gettate: un mozzicone di matita, figuriamoci! Il diario lo collocai per primo, in mani giovani e devote che potranno sfogliarlo quando io me ne saro' andata, in modo da continuare il dialogo. La matita, invece, la tenni ancora, ridotta a pochi centimetri, scrostata, mordicchiata, la punta maldestramente aguzzata da entrambi i lati. Finche' mi resi conto che mancavo ai miei doveri nei suoi confronti: doveva rimanere e portare testimonianza anche nel futuro. Primo Levi aveva alcuni anni meno di me. Cosi', all'improvviso, decisi che gliel'avrei affidata. L'avevo visto un paio di mesi prima, a Torino, e poiche' lo ringraziavo per certe righe, mi aveva detto: "Tra noi non occorrono parole". Era vero. Infatti ce n'erano sempre state poche e anche la nostra corrispondenza era rada. Brevemente gli scrissi spiegandogli la storia della matita e tutta la situazione. Scelsi una busta spessa, accomodai il pezzettino di matita in un angolo e spedii: doveva mancare poco a Natale. Mi giunse questa risposta: "Cara amica, ho ricevuto lo strano e prezioso dono e ne ho apprezzato tutto il valore. La conservero'. Anche per me i giorni si stanno facendo corti ma le auguro di conservare a lungo la Sua serenita' e la capacita' di affetto che ha testimoniato inviandomi quel 'mozzicone del Meclemburgo' cosi' carico di ricordi per Lei (e per me). Con affetto. Suo Primo Levi". "La conservero'". La data era quella del sette gennaio 1987. In sei righe scritte con quella grafia minuta e chiara che lo distingueva mi comunicava di avere accettato il compito. L'avrebbe conservata. Dove? Come? Ero curiosa: mi avrebbe fatto piacere saperlo. Mi proposi di chiederglielo alla prima occasione d'incontro: intanto mi limitai a fantasticare. Forse l'aveva messa su un ripiano della libreria. O in una scatoletta. O, addirittura, la teneva sulla scrivania? Sette gennaio 1987: "La conservero'". Quante volte "dopo" mi sono fissata su quella data e su quella promessa. Se si proponeva di conservarla, se "serenita' e capacita' di affetto" gli apparivano beni da augurare, il suo animo doveva essere ben diverso da quello che l'undici aprile lo precipito' verso la morte. Naturalmente il giorno che ricevetti il biglietto, pur essendone confortata, non gli detti affatto quel significato di presenza sacrale che avrebbe assunto dopo l'undici aprile. Lo prova il fatto che avendo urgenza di segnare un indirizzo e non trovandomi altro foglio sottomano, lo scarabocchiai, cio' che adesso mi colpisce con la forza di un rimorso. Ma noi non sappiamo. Non possiamo sapere: per noi non rullano i tamburi. Nel circo quando sta per avvenire qualcosa che puo' anche risolversi in morte, il rullo dei tamburi ce ne avverte. Nella vita, no. Cosi' il biglietto di Primo Levi e' diventato l'ultimo. Quanto alla matita che mi stava tanto a cuore, non ne ho saputo piu' niente. * Da pagina 95 Il ritorno dai Lager Mai ho parlato del mio ritorno dai Lager, e dopo oggi, mai piu' ne parlero'. Ma ne ho preso l'impegno e lo faccio, pur risentendone orrore e dolore. Alzero' quella lastra tombale, guardero' in un fondo dove strisciano serpenti. Per l'urgenza di allontanarmi, riassumero' quel tempo in gruppi, inquadrando in ciascun gruppo gli episodi piu' significativi, piu' emblematici. Documenti non ne ho, le mie date sono incerte. Ma necessito di una premessa. * 4 (o 5) marzo del 1944, Venezia. Arrestata nel magazzino dove avevo appuntamento con due compagni, e condotta in un ufficetto dove un uomo di mezza eta', con uno scuro volto impenetrabile, mi prende la borsetta, strappando la fodera, rovesciandola tutta. Ogni tanto alza la testa e mi scruta. Cerco di concentrarmi sui vetri appannati di nebbia, finche' l'uomo si alza e dice: - Andiamo. * Primi di settembre 1945, Venezia. Condotta in un ufficio della polizia ferroviaria, davanti a tre uomini che, dopo qualche domanda incuriosita, mi guardano in silenzio. Mi ci aveva sbattuto un controllore paonazzo dall'ira, stringendomi il braccio, quasi strattonandomi. Aveva spiegato che, nel tragitto Mestre-Venezia, alla sua legittima - le-git-ti-ma! - richiesta del biglietto, avevo risposto di essere salita a Mestre, scendendo da una tradotta. Una donna in una tradotta? e doveva credermi? Alle sue insistenze, avevo perfino alzato la voce. - Vengo dalla Germania, soldi non ne ho, il biglietto non lo pago. Ho fatto un anno di Lager! Germania non Germania, qui eravamo in Italia e il biglietto dovevo pagarlo. Cosa erano quelle pretese? Dei Lager, lui, se ne fregava! Racconto' tutto ai poliziotti e se ne ando' con un'ultima occhiata minacciosa. E, ora, quelli mi guardavano in silenzio. Sentivo i loro sguardi indugiare sulla camicetta che mi ero confezionata a Doerverden, provincia di Hannover, zona inglese, campo di raccolta per militari italiani. Laggiu', la camicetta rimediata con tre tovaglioli dell'ospedale, aveva riscosso complimenti. Ma, ora, i tre la guardavano con disapprovazione: era tutta stropicciata e anche sporca. - Vada pure - finalmente uno si decise - Vada pure e... - Vada e si ripulisca, si metta un po' in ordine. Una donna... Dunque, ero una donna. Ci pensai uscendo dalla stazione, nella mattina splendente. Ero una donna. "Laggiu'", per un anno tutto era stato fatto perche' me ne dimenticassi. A Genova, dove ero tornata, l'Ente Comunale di Assistenza elargiva 500 lire al mese - allora erano qualcosa - ai reduci privi di casa e di mezzi. Veramente, una casa dove dormire ce l'avevo. Una signora, timorosa che il Commissariato degli alloggi le requisisse una camera inutilizzata, mi ospitava volentieri ripetendo: - Meglio una poveretta tornata dai Lager, che gentaglia imposta dal Commissariato! Cosi', dal settembre, mi presentavo agli sportelli dell'Assistenza. La fila era lunga e l'impiegato impaziente. Una volta, era quasi mezzogiorno, quando venne il mio turno, mi appoggiai con le braccia sullo sportello: ero stanca. L'impiegato si sporse per controllare quanta gente c'era ancora e, per caso, lo sguardo gli cadde sul numero tatuato sul mio braccio. - Cos'e'? Glielo spiegai ed ebbe un risolino sardonico. - Vi marcavano la pelle? come bestie? Poi aggiunse. - Dite che nei Lager era un macello. Ma a vedere quanti vengono qui a beccarsi le 500 lire, mica si direbbe. Altro che sterminio! * Nel mio testamento, ho scritto che una piccola somma venga data all'Auxilium e alla Caritas con questa precisa motivazione: "In ricordo dei quattro quadratini di cioccolata e del sorriso ricevuto da due suore francesi che vennero al treno dalla Croce Rossa che mi rimpatriava dalla Germania. E del bicchiere di latte ricevuto alla stazione di Verona, dal banco dell'Auxilium, da una giovane donna dal viso gentile". Non avevo piu' genitori ne' parenti stretti: ad Auschwitz questa mancanza mi aveva sollevato dai pensieri torturanti di chi aveva lasciato la famiglia. A guerra finita, tramite la Croce Rossa, ebbi il biglietto di una zia. Mi raggiunse in un ospedale di Merano dove rimasi esattamente quattro giorni, il quinto me ne andai con una tradotta. Dovevo. Avevo paura di non riuscire piu' a controllare l'impeto di furore che mi prendeva davanti alla bella infermiera altoatesina, una bionda che somigliava tutta a una ausiliaria che vedevo ad Auschwitz. Rimpiangeva sempre i "suoi" soldati: cosi' beneducati, corretti, puliti! Si scagliava contro le abitudini "bestiali" di noi ex deportate, l'avidita' di cibo, la mancanza di pudori. Ci guardavamo con vero odio. Cosi', in ottobre, decisi di accogliere l'invito di mia zia, abitava a Pisa, la citta' dove sono nata e cresciuta. Ci abbracciammo, poi cominciarono i racconti. E io volevo parlare, avevo bisogno di raccontare, far sapere, e alla zia, qualche volta, venivano gli occhi lucidi. Ma interrompeva sempre, sovrapponeva ai miei ricordi i suoi che erano quelli di una sfollata e a lei sembravano tremendi, a me sembravano acqua di rose. Cominciavo gia' a convincermi che la gente non poteva capire. Le rape, per esempio! Era la stagione e la zia era salutista, convinta che depurassero il sangue e ne preparava ogni giorno. Certo non erano le legnose rape del Lager. Ma il nome era quello, l'odore era quello e mi faceva ammutolire. Una cugina volle incontrarmi. Sua figlia (un tempo mia compagna di scuola) era stata deportata nel '44 e non ne sapeva piu' niente. Mi pungolo' di domande alle quali non potevo rispondere che vagamente. Infine, mi pianto' in faccia due occhi nemici. - Sei tornata tu. Sei tornata tu che non hai genitori, non hai un marito, hai sempre dato dispiaceri alla famiglia. Perche' non e' tornata lei? Aveva un bambino piccolo, era buona. Lei si meritava di tornare! Lei doveva tornare! E' questa la giustizia di Dio? Mia zia abbasso' gli occhi, contrita per le misteriose ingiustizie di Dio. Allargai le braccia, in silenzio. Non mi sentivo colpevole. 2. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "TUTTA LA VIOLENZA DI UN SECOLO" DI MARCELLO FLORES [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Marcello Flores, Tutta la violenza di un secolo, Feltrinelli, Milano 2005] Indice del volume 1. I numeri della violenza; 2. Le violenze sono tutte uguali? 3. Quanti tipi di violenza ci sono; 4. Violenza di stato, violenza politica; 5. Gli obiettivi della violenza; 6. L'occasione della violenza; 7. Ci sono stati violenti e societa' propense alla violenza? 8. Le forme della violenza; 9. C'e' differenza tra guerra e genocidio? 10. Il contesto della violenza; 11. Le tappe della violenza; 12. Tutte le violenze si possono giustificare? 13. I responsabili della violenza; 14. La partecipazione alla violenza; 15. La giustizia della violenza; 16. La memoria della violenza; 17. La negazione della violenza; 18. E' possibile il perdono e la riconciliazione? 19. Le responsabilita' dell'Occidente; 20. Le cause della violenza; La sequenza storica; Conclusioni; Bibliografia; Ringraziamenti * Da pagina 11 I numeri della violenza Sono delle immagini che, per prima cosa, ci vengono in mente pensando alla violenza di massa commessa nel Novecento. Possono essere diverse o uguali per ogni individuo, per generazione di appartenenza, per luogo di nascita o per educazione. Sono immagini che possono essere altrettanto forti, simboliche, comunicative sia che abbiano per oggetto la violenza subita da una singola persona sia che documentino e raccontino eccidi di massa. Nella nostra societa' sono pochi coloro che possono dire di non avere mai visto immagini dei corpi scheletrici di Auschwitz e Bergen Belsen, ma sono certo molti meno quelli che hanno avuto la possibilita' di osservare le immagini delle fosse comuni dei killing fields cambogiani o dei cadaveri straziati dai machete in Ruanda. Capita a volte che le immagini personalizzate e individualizzate della violenza ce la facciano sembrare quasi piu' intollerabile e vicina delle immagini di massacri collettivi che appaiono spesso, in qualche modo, lontani, altrove e senza tempo. Eppure, anche se l'immagine che piu' ci colpisce e' quella di una violenza individuale - per la mia generazione una terribile immagine-simbolo e' stata quella di Kim Phuc -, quando riflettiamo sulla violenza pensiamo anche, immediatamente, alla quantita' di morti, al numero delle vittime. Si calcola, in sintesi, che nel corso del Novecento le persone uccise in atti di violenza di massa siano state tra i cento e i centocinquanta milioni (qualcuno propone addirittura la cifra di duecento). Questa diversita' nasce, in larga misura, dal tipo di conteggio utilizzato: che puo' includere o no, ad esempio, le vittime di carestie che sono strettamente legate alle azioni di guerra e violenza intraprese. Ma puo' anche dipendere dalle fonti su cui si fonda la propria stima, che diverge soprattutto per quei paesi o per quegli avvenimenti per i quali non e' ancora disponibile una documentazione archivistica e statistica trasparente, libera e affidabile. Comunque sia, cento o duecento milioni costituiscono delle cifre in ogni caso agghiaccianti, che giustificano il fatto che il XX secolo sia stato considerato uno dei piu' violenti nella storia dell'umanita': secolo barbaro, secolo delle tenebre, secolo innominabile, solo per ricordare alcuni dei termini usati con maggiore frequenza. Il Novecento e' stato davvero un secolo piu' violento dei precedenti? A prima vista sembra che non ci siano dubbi. Il senso comune sembra dirci che sono i numeri che distinguono il grado e il livello di violenza accaduta nella storia. Che possono dircelo nel modo piu' neutro e obiettivo. E che il XX secolo ha battuto ogni record in questa macabra competizione. Da cosa deriva questa convinzione? Dalla vicinanza storica del secolo appena concluso? Da una maggiore e approfondita conoscenza della violenza che in esso ha avuto luogo? O dalla semplice somma aritmetica delle vittime? Restiamo, per adesso, nell'ambito delle crude cifre. E prendiamo in esame l'evento che e' stato accompagnato dal maggior numero di vittime. Nessun dubbio a riguardo, e' stata la Seconda guerra mondiale, con i suoi cinquanta milioni di morti (un po' di piu' o di meno se si contano le vittime degli spostamenti forzati di popolazione dai territori ex-tedeschi e se vi si include la Guerra cino-giapponese). Di queste vittime circa la meta' (un po' meno secondo alcuni) riguarda i morti in battaglia, l'altra meta' i civili uccisi. Questi ultimi comprendono sia i caduti sotto i bombardamenti aerei sia le vittime della Shoah, sia i morti nei massacri compiuti dagli eserciti regolari. Se si rimane sul terreno quantitativo, l'unica conclusione cui si puo' giungere e' che la guerra (in realta' la guerra totale del 1939-1945) rappresenta l'evento piu' violento e distruttivo del XX secolo e forse della storia umana. Un risultato che fa gia' parte della coscienza comune e che nessuno pensa di mettere in discussione. L'analisi dei numeri, allora, serve a poco o nulla? O rischia, addirittura, di nascondere gli interrogativi piu' rilevanti e annebbiare le questioni piu' importanti (le cause, gli effetti, le modalita', i risultati, ecc.) che gli eventi carichi di maggiore violenza ci inducono ad affrontare? Quali sono i parametri - i nostri giudizi e pregiudizi morali, ideologici, religiosi, politici - con cui giudichiamo violenta un'epoca storica? Molto, in genere, dipende da chi sono le vittime e chi i carnefici, dalle forme e dall'intensita' che la violenza ha assunto, dalla durata e dall'intenzionalita', cioe', in una parola, dalla qualita' della violenza. Sui numeri, invece, sembrerebbe che si possa trovare un accordo, un punto di vista comune. Prima di allargare il campo dell'indagine alla qualita' della violenza, allora, puo' essere utile rimanere nell'ambito della valutazione quantitativa; che e' molto meno semplice e lineare di quanto possa sembrare a prima vista. Anche nel "dare" i numeri della violenza - e cioe' i numeri dei morti per violenza, di cui sono responsabili governi e collettivita' - gli studiosi sono tutt'altro che concordi. Al di la' delle incertezze e, in alcuni casi, delle notevoli differenze tra le diverse stime, in genere si e' giunti tuttavia a giudizi abbastanza condivisi sulla quantita' di violenza avvenuta nel XX secolo. [...] Le guerre del Novecento rappresentano il 95% dei morti nelle guerre degli ultimi tre secoli. E la percentuale dei civili uccisi e' cresciuta fino a raggiungere il 50% con la Seconda guerra mondiale e il 90-95% nei conflitti dell'ultimo decennio. Il numero dei morti per violenza pubblica nel corso del XIX secolo e' stato di gran lunga inferiore a quello del secolo successivo, e l'Ottocento oggi ci appare come il secolo della "lunga pace"; ma la percentuale delle vittime sul totale della popolazione e' stata grosso modo la stessa, e cioe' attorno all'1%. Se poi confrontiamo il numero dei morti in guerre, genocidi e massacri con le morti complessivamente avvenute nel corso del Novecento (circa quattro miliardi e duecento milioni) constatiamo che la loro percentuale raggiunge il 4,5%. Le statistiche, naturalmente, ci offrono anche altre possibilita'. Per esempio di confrontare le morti per violenza di massa con quelle per colpa del tabacco (settantun milioni nell'intero XX secolo) o per incidenti automobilistici (dieci milioni) o per omicidio (otto milioni e mezzo), o per Aids (ventotto milioni dal 1981 al 2002). La raccolta di dati quantitativi sulla violenza commessa dai governi e dalle collettivita', al proprio interno e in conflitti esterni, e' un momento necessario e ineliminabile della conoscenza della violenza stessa. Da soli, tuttavia, questi dati possono unicamente offrirci un'impressione generale, che deve essere il punto d'avvio di una riflessione piu' ampia. Vi e' raramente coincidenza tra la nostra soggettiva impressione del tasso di violenza e i dati oggettivi della realta' circostante: noi giudichiamo in base a cio' che accade attorno a noi, alle nostre aspettative e speranze, a paure infondate o a timori esagerati, ma anche a illusioni o cecita' di fronte a una realta' peggiore di quel che crediamo. La violenza vicina, naturalmente, che colpisce la nostra famiglia o la nostra comunita', sembra piu' grande e terribile di quella che coinvolge i nostri confinanti o che riguarda societa' e mondi lontani; anche se ormai i mezzi di comunicazione ci forniscono una conoscenza immediata di quel che accade in ogni parte del mondo. Il modo in cui leggere i numeri e guardare i dati nasce dalle esigenze di conoscenza che ci prefiggiamo. Il punto di osservazione e i criteri di analisi prescelti devono essere coerenti agli interrogativi che ci poniamo. E i numeri, quand'anche si riuscisse a trovare un accordo sul modo di costruirli e stabilirli, possono dare risultati diversi e opposti se li montiamo in successione differente, se li affianchiamo o li confrontiamo in maniera non univoca. Le vittime della storia meritano rispetto, non solo ricordandone la quantita', l'occasione, le modalita' della morte. La loro contabilita' non puo' essere solo numerica, ma anche morale: il ricordo delle vittime deve farci affrontare limpidamente le domande che riguardano le possibilita', le scelte e le motivazioni che hanno portato e portano alla violenza. * Da pagina 30 Violenza di stato, violenza politica Il monopolio della violenza da parte dello stato ha costituito un momento fondamentale nella formazione del mondo moderno, ponendo fine, almeno in larga misura, al tasso di arbitrio e di violenza individuale che i piu' forti e potenti esercitavano sui piu' deboli e indifesi. Garante della legge al suo interno, lo stato moderno ha rivolto soprattutto all'esterno la violenza istituzionalizzata e di massa, nel corso di guerre e conflitti con gli stati vicini o di azioni di colonizzazione verso popoli lontani e civilta' diverse e militarmente piu' deboli. La conquista delle Americhe, dalle spedizioni di Cortes contro gli aztechi o di Pizarro contro gli incas, fino alle guerre indiane di meta' Ottocento contro Sioux e Cheyenne, ha rappresentato nel corso di secoli un vero e proprio genocidio collettivo delle popolazioni indigene: compiuto in nome della civilta' occidentale e del suo diritto di imporla a culture piu' deboli e arretrate. La violenza non e' mai stata estranea alla storia dell'uomo, anzi ne ha costituito un ingrediente essenziale e costante. Con la costruzione dello stato moderno, tuttavia, essa si e' diversificata come modalita' e come intensita': all'interno nei confronti di chi intendeva sovvertire l'ordine costituito; all'esterno contro nemici concorrenziali (gli altri stati) o contro "diversi" da soggiogare e colonizzare. La violenza contro i "sovversivi", per quanto abbia raggiunto in certi casi livelli particolarmente estesi e acuti, non ha mai raggiunto una intensita' comparabile ai massacri di massa che accompagnavano, invece, quella rivolta all'esterno. Questa aveva un carattere legittimo e istituzionale nelle guerre contro nemici simili, assumeva un aspetto arbitrario e spesso incontrollato contro i nemici altri, quelle "genti irrequiete e selvatiche / torve popolazioni, da poco assoggettate, / per meta' demoni e per meta' fanciulli". Dalla pace di Westfalia (1648), che aveva costruito il diritto pubblico europeo attribuendo agli stati il diritto di sovranita' interna, al Congresso di Berlino (1878) e alla Conferenza di Berlino (1884-1885), che sanciscono il primato europeo - e delle grandi potenze in particolare - sulla crisi dell'Impero ottomano e sulla spartizione dell'Africa, l'Occidente cerca al tempo stesso di limitare le violenze al suo interno e di dirottarle verso i nuovi territori di conquista. A cavallo tra Ottocento e Novecento i massacri piu' significativi sono tutti a carattere coloniale: da quello di Omdurman (Sudan), nel 1898, dove undicimila dervisci vennero uccisi dai mitragliatori di Lord Kitchener, che perse meno di cinquanta uomini; a quello degli Herero, che tra il 1904 e il 1907 si riducono da ottantamila a quindicimila, sterminati dalla politica genocidaria del generale Lothar von Trotha. Lo stato - britannico nel primo caso, tedesco nel secondo - autorizza e avalla questa violenza nell'ambito di un progetto di conquista confortato da una cultura che unisce razzismo e socialdarwinismo, che vede l'evoluzione umana del potere come vittoria legittima del piu' dotato e del piu' forte. L'Occidente non ha un unico modello di violenza (come non lo ha di conquista e dominio coloniale); ma tutti, quello britannico come quello francese o tedesco, quelli spagnolo e portoghese come piu' tardi quello italiano, giustificheranno le loro diverse azioni e comportamenti violenti con la stessa discriminazione razziale e culturale nei confronti dei popoli non occidentali, ora con la logica della missione di portare il progresso, ora con quella del dominio territoriale del piu' forte e del piu' adatto al potere. [...] Nei regimi totalitari o dittatoriali, il numero dei nemici attivi e pericolosi per il potere e' di gran lunga inferiore a quello di coloro che saranno vittime della politica di repressione di quei governi. Anche coloro che continuano a manifestare la volonta' di opporsi al potere e non costituiscono alcun pericolo reale per un regime che si fonda proprio sull'uso totale e assoluto della violenza. I massacri indiscriminati dei regimi comunisti o delle dittature militari sudamericane sono spesso tanto piu' numerosi e cruenti quanto la forza del regime e' solida e le possibilita' di indebolirla irrisorie. La violenza di massa e' una prerogativa dello stato, che la usa contro i propri cittadini che intende escludere ed emarginare, o utilizzare per le proprie guerre di conquista; ma sono i gruppi politici che controllano lo stato a valorizzare l'uso della violenza per raggiungere i propri obiettivi, a legittimarla e organizzarne la pratica e la diffusione. Nei momenti di crisi - di imperi, di federazioni, di stati multietnici - il ricorso alla violenza, a una violenza di massa spietata e sanguinaria, e' l'arma che permette piu' di altre alle emergenti elite politiche di prendere il sopravvento, di conquistare il consenso nazionale, etnico e religioso. In molti casi la violenza e la guerra non sono il proseguimento della politica con altri mezzi, sono l'essenza stessa della politica per poter fondare o legittimare il proprio potere; o per poterlo rafforzare e mantenerlo. * Da pagina 36 Gli obiettivi della violenza Chi ha dato inizio a una guerra, nel XX secolo, difficilmente e' riuscito a vincerla. E' stato cosi' nel corso delle due guerre mondiali, le piu' terribili per numero di vittime e per il tasso di distruzione da cui sono state accompagnate. Ma e' stato lo stesso nella guerra di Corea o in quella del Vietnam, in quella dell'Afghanistan o in quella dell'Iraq con l'Iran. Gli obiettivi della violenza bellica, solo talora esplicitati in modo chiaro e coerente, hanno dimostrato di essere il piu' delle volte irrealistici, rendendo quella stessa violenza inutile o addirittura controproducente. In questi casi, tuttavia, la violenza era strumento dell'obiettivo di dominio, era il mezzo individuato per raggiungerlo. In altre situazioni, al contrario, la violenza e' sembrata essere lo stesso fine, la sua pratica ha coinciso con l'obiettivo. La violenza contro i cittadini cambogiani o quella esercitata contro i Tutsi in Ruanda non aveva altro scopo che uccidere gli uni e gli altri, eliminarne il maggior numero possibile. Potrebbe sembrare possibile, allora, fare una sommaria distinzione tra la violenza che ha un obiettivo territoriale, di conquista, e quella di cieca distruzione, dettata dall'odio per un nemico che si suppone assoluto e irrimediabilmente ostile. Se si analizza il tipo di violenza che si manifesta all'interno delle guerre e dei genocidi ci si accorge che gli obiettivi non sono cosi' semplici e lineari come si sarebbe supposto. La distruzione degli ebrei da parte del nazismo non e' avvenuta soltanto per dare una "soluzione finale" a quella che per il regime di Hitler era la presenza piu' intollerabile e pericolosa. Se l'unico obiettivo fosse stato lo sterminio, infatti, che bisogno ci sarebbe stato del crudele processo di disumanizzazione cui furono sottoposti gli ebrei prima di venire portati nelle camere a gas? L'obiettivo della violenza scatenata nel 1937 a Nanchino dai soldati dell'esercito giapponese non poteva essere di tipo militare, dal momento che ebbe luogo dopo la conquista dell'allora capitale cinese. Sembra mancare, in questo caso, un'articolazione o casistica di obiettivi possibili, che non siano la stessa estrinsecazione e concretizzazione della violenza, la volonta' di distruggere, annientare, umiliare il nemico. Nei confronti delle bombe atomiche americane sganciate il 6 e 9 agosto del 1945 su Hiroshima e Nagasaki, si puo' dibattere se fossero uno strumento adeguato (o invece immoralmente esagerato) di pressione nei confronti dell'imperatore e degli alti comandi militari, se la scelta delle citta' da bombardare fosse avvenuta in buona fede o per colpire volutamente la popolazione civile, se gli effetti distruttivi fossero noti o se si volle sperimentarli su una popolazione ritenuta razzialmente inferiore (e colpevole di avere scatenato la guerra). Tra obiettivi dichiarati, obiettivi nascosti, obiettivi taciuti o inconsci, accuse formulate all'epoca e successivamente, e' possibile che la risposta piu' vicina al vero contenga piu' d'uno di questi elementi. Quello su cui non dovrebbe piu' esserci discussione, invece, e' il fatto che si sia trattato di un'uccisione in massa di civili inermi e non di un'azione di guerra. L'uccisione tra l'ottobre 1965 e il marzo 1966 di circa mezzo milione di indonesiani, per la maggior parte appartenenti al Partai Komunis Indonesia (Pki, Partito comunista indonesiano), per mano di unita' dell'esercito e gruppi di civili armati, non puo' essere ascritta soltanto alla volonta' di eliminare completamente dalla vita politica il Pki. Per raggiungere questo obiettivo non ci sarebbe stato bisogno di un bagno di sangue cosi' esteso e di una violenza cosi' capillarmente e intenzionalmente perseguita. [...] Senza nemico non ci sarebbe violenza. Il nemico e' sempre presente come obiettivo da sconfiggere o da distruggere. Vincerlo e' lo scopo delle guerre (dove l'obiettivo finale e' la conquista territoriale e l'egemonia politica ed economica), eliminarlo quello di stragi e massacri che appaiono, a prima vista, incomprensibili e gratuiti. Ma questo nemico esiste davvero? Quello che il potere individua come tale, e' un pericolo reale o una costruzione artificiale? Gli armeni non costituivano una minaccia concreta per l'Impero ottomano, in crisi ormai da decenni e in via di disfacimento nel corso della guerra mondiale che aveva scelto di combattere accanto alla Germania. Gli ebrei non avevano alcuna possibilita' di minare la solidita' e la compattezza del Terzo Reich, e non erano certo responsabili di quella "pugnalata alle spalle" di cui la propaganda nazionalista li aveva accusati, incolpandoli della sconfitta nel primo conflitto mondiale. I cittadini della Cambogia uccisi nel mattatoio di Tuol Sleng - fossero vietnamiti o cinesi, intellettuali o contadini - non costituivano un pericolo per la continuita' dell'appena costituito regime khmer rosso. I Tutsi in Ruanda, o gli Hutu moderati massacrati con loro, non stavano sfidando il regime di Habyarimana, ne' potevano essere considerati coinvolti nell'esplosione dell'aereo in cui si trovava insieme al presidente del Burundi, atto che diede il via al genocidio del machete. Il nemico, in questi casi, e' mera invenzione o la sua individuazione anticipa una minaccia possibile? Costruire il nemico rappresenta uno strumento del potere per dare maggiore coesione - con la mobilitazione e la paura - al proprio popolo o al gruppo su cui si appoggia? Ed e' certo, comunque, che manchi del tutto una motivazione concreta e una spiegazione reale alla violenza? Che non ci sia, sullo sfondo, una risposta certo terribile e sproporzionata, ma forse non del tutto immotivata? * Da pagina 52 L'Europa, nel non lontano trentennio 1915-1945, e' stato il teatro della piu' grossa e terribile carneficina che la storia umana abbia sperimentato: eppure gli europei si sentono - oggi naturalmente - un popolo propenso alla pace assai piu' dell'Occidente nordamericano o di altre regioni del mondo. Gli italiani, anche se la diffusa convinzione che li dipingeva come brava gente ha perso negli ultimi anni la certezza e lo smalto che aveva in passato, sono piu' propensi a vedersi vittime della violenza altrui - di quella tedesca nelle stragi del 1944-1945; di quella jugoslava nelle foibe; di quella sovietica nei campi di prigionia - che non promotori e agenti attivi della stessa. Qualcuno si ricorda di, ha chiesto perdono per, ha proposto di commemorare la data in cui a Debra' Libanos, sessantasette anni fa, abbiamo trucidato oltre duemilacinquecento persone in una volta sola, evirando gli uomini e squarciando il ventre alle donne, trafiggendo i bambini con le baionette e massacrando a sangue freddo tutti coloro che in quel disgraziato 20 maggio 1937 si trovavano nel monastero cristiano copto che il maresciallo Graziani aveva deciso di punire perche' colpevole, a suo dire, di avere dato asilo ai due partigiani etiopi che avevano osato compiere un attentato contro di lui? Sono le circostanze storiche, le elite politiche al potere, le condizioni di vita e le attese in cui vive la popolazione, la presenza o mancanza di risorse che si ritengono vitali, l'identificazione di un nemico vero o presunto che si reputa minaccioso, che rendono possibile a ogni civilta' di compiere atti di violenza inimmaginabili al suo popolo solo pochi anni prima o dopo averli compiuti. Sono la struttura e l'ideologia degli stati che rendono le societa' corresponsabili o succubi delle violenze di cui saranno partecipi o complici. Certo, quanto piu' le credenze e i valori diffusi in una societa' contengono elementi di intolleranza e di discriminazione - siano essi religiosi, politici, ideologici, comunitari, culturali - tanto piu' per i regimi politici intenzionati a usare violenza diventa piu' facile convogliare parti e settori della societa' verso il loro obiettivo. Ed e' quella cultura, in molti casi, a orientare verso una forma o l'altra di violenza, a rendere cosi' particolare e diverso dagli altri un massacro, una strage, un genocidio. * Da pagina 124 Dal punto di vista culturale, della cultura dei governi e degli stati piu' forti, sembra di essere tornati per certi versi alle giustificazioni dell'epoca coloniale, quando un forte e sincero sentimento della missione civilizzatrice accompagnava le inevitabili azioni militari. Il paradosso attuale dell'Occidente sembra essere quello di proseguire sulla strada dell'elaborazione di principi e diritti universali; ma di violarli in nome dei propri interessi piu' immediati (riassunti nel principe dei principi attuali: la sicurezza) e di legittimarne teoricamente e storicamente le violazioni. Negando agli altri, invece, ogni forma di giustificazione se la violenza si rivolge contro l'Occidente. Sembra non esistano piu' criteri univoci con cui giudicare, condannare, giustificare o comprendere la violenza: quel che accade in Cecenia, in Palestina, nel Kashmir, e' valutato tenendo conto degli schieramenti internazionali e del grado di adesione al modello occidentale; di quello che succede in Congo, in Costa d'Avorio, Birmania, Etiopia, Colombia si parla come di eventi naturali cui occorre fare l'abitudine. E in modo speculare ogni forma di intervento da parte dell'Occidente e' spesso vista, ormai, come strumento del suo dominio mondiale: l'intervento in Kosovo e' assimilato a quello in Afghanistan e questo a quello in Iraq, perdendo di vista, insieme alle differenze delle motivazioni, la diversita' delle cause che hanno provocato queste violenze recenti. ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 292 del 26 gennaio 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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