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Voci e volti della nonviolenza. 290
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 290
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 23 Jan 2009 09:23:15 +0100
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 290 del 23 gennaio 2009 In questo numero: 1. Marco Viglino intervista Primo Levi (1978) 2. Vera Schiavazzi: Questa intervista, trent'anni dopo 3. Ricordato Primo Levi al liceo scientifico di Tuscania 4. Primo Levi: Perche' si scrive? 5. Et coetera 1. MEMORIA. MARCO VIGLINO INTERVISTA PRIMO LEVI (1978) [Dal quotidiano "La Repubblica" del 18 gennao 2009 col titolo "Io, scampato al lager per poterlo raccontare. Intervista inedita di Primo Levi" e il sommario "Volevo sopravvivere anche e soprattutto per testimoniare cio' che avevo visto. Comincia cosi', trent'anni fa, il lungo colloquio tra Primo Levi e uno studente che si preparava alla maturita' con una tesina sullo scrittore. Nel flusso dei ricordi, anche la storia, mai scritta, del gesto di umanita' di un kapo' comunista verso un medico ebreo"] - Marco Viglino: Mi ha colpito il suo desiderio di rendere testimonianza sulla tragica esperienza nel lager: quando e' nato questo desiderio? - Primo Levi: Questo desiderio, del resto comune a molti, mi e' nato nel lager. Volevamo sopravvivere anche e soprattutto per raccontare cio' che avevamo visto: questo era un discorso comune, nei pochi momenti di tregua che ci erano concessi. Del resto e' un desiderio umano: lei non trovera' mai un reduce che non racconti. (No, mi correggo, ve ne sono alcuni che non raccontano; ve ne sono alcuni che sono stati feriti talmente a fondo che hanno censurato il loro passato, l'hanno sepolto per non sentirselo piu' addosso). In primo luogo c'e' il bisogno di scaricarsi, di buttare fuori quello che si ha dentro. Poi ci sono anche altri motivi... c'e' forse anche il desiderio di farsi valere, di far sapere che siamo sopravvissuti a certe prove, che siamo stati piu' fortunati, o piu' abili, o piu' forti. * - Marco Viglino: Il punto di contatto tra i primi libri e quelli di fantascienza, mi pare possa essere la sua indignazione, che prima e' rivolta al lager e poi verso certe storture della civilta'. E' giusto? - Primo Levi: Si', e' giusto: e' una domanda che mi fanno in molti e a cui veramente non sono il piu' autorizzato a rispondere, perche' non e' detto che chi scriva sappia sempre bene "perche'" scrive. Io ho due radici: una e' il senso del lager e l'altra e' il senso della chimica con le sue dimensioni. Avevo in mente di scrivere qualcosa sulla storia naturale ancora prima di entrare nel lager: gia' da studente sentivo un desiderio del genere (non come progetto chiaro e distinto, ma come vaga aspirazione) e trovavo un terreno fertile nel mio mestiere di chimico. Percio' - dopo aver terminato Se questo e' un uomo e La tregua - non e' che io abbia "scritto" gli altri due libri: ho raccolto alcune idee e anche alcuni racconti che avevo gia' scritto prima. Per esempio, il primo racconto delle Storie naturali, quello del vecchio medico che raccoglie essenze, l'ho scritto prima di Se questo e' un uomo. E... probabilmente si', benche' il tema sia diverso, anche gli altri scritti risentono dell'esperienza del lager, in una forma molto indiretta, in una forma di delusione profonda, di un ritirarsi dalla vita. * - Marco Viglino: Tra i personaggi che si incontrano nei suoi libri, lei mostra particolare simpatia e indulgenza verso alcuni che incarnano una certa "furbizia" o arte di arrangiarsi, come Cesare o il Greco. - Primo Levi: Anzitutto questi personaggi agiscono in un contesto tutto particolare, che e' quello della fine della guerra: ora, su questo fondale, direi che si puo' essere abbastanza indulgenti. Non ammetterei, oggi, un Greco; lo eviterei, mi terrei lontano da lui, ma in quel momento lo sentivo quasi un maestro. Egli soleva dire: la guerra e' sempre. E poi ancora mi diceva: "Vedi le scarpe belle che io ho: e' perche' sono andato a rubarle nei magazzini dei russi. Tu sei uno sciocco, non sei andato a cercarle". Io rispondevo che pensavo che la guerra fosse finita e che i russi avrebbero provveduto. "La guerra e' sempre", mi ripeteva, e, allora, io ero d'accordo con lui. Oggi sarei piu' severo nei suoi riguardi, cosi' anche nei riguardi di Cesare: ma la furbizia di Cesare era cosi' solare, cosi' aperta, cosi' ingenua in fondo e cosi' innocua che mi sta bene ancora adesso. Non sarei un censore tanto severo da escluderla, in quella forma: furbizia cosi' "italiana", sempre mescolata con bonomia. Cesare ingrassava i pesci con l'acqua, poi pero', davanti ai bambini affamati della donna russa, glieli regala. Questo fa parte di un'arte di vivere che e' vecchia come il mondo e davanti alla quale non si puo' essere troppo severi. * - Marco Viglino: Quella carica di ribellione che sta alla radice dei primi due libri si e' attenuata con gli anni oppure no? - Primo Levi: Io contesto "quella carica di ribellione": di indignazione si'; di ribellione purtroppo no perche' non c'era modo, almeno per chi era al mio livello. Ribellioni in senso tecnico ve ne sono state, in alcuni lager: l'episodio che ho raccontato di quell'impiccato che muore gridando "io sono l'ultimo!" si ricollega a una ribellione che c'era stata in un altro campo: i prigionieri avevano fatto saltare i forni crematori pochi giorni prima e costui, di cui non conosco neppure il nome, era implicato nella faccenda, probabilmente aveva procurato dell'esplosivo. Riprendendo, l'indignazione si' persiste, ma diciamo che si e' ramificata. Sarebbe stupido oggi continuare a vedere il nemico solo li', solo il nazista, anche se a mio parere e' ancora il principale. Pero' il mondo di oggi e' molto piu' articolato che non quello di una volta. Non erano bei tempi quelli in cui io ero giovane, pero' avevano il grande vantaggio che erano netti; l'alternativa amico/nemico era molto netta e la scelta non era difficile. Oggi lo e' molto di piu'. Percio' anche l'indignazione persiste, ma e'... erga omnes. Verso molti, non piu' verso "quelli". * - Marco Viglino: Nella famosa lettera al suo editore tedesco, lei dice che non puo' capire i tedeschi e quindi non si sente di giudicarli. - Primo Levi: No, ho detto che non li capisco, ma li giudico si'. * - Marco Viglino: E come, allora? - Primo Levi: Li giudico male: si', anche i tedeschi di oggi. Non tutti, naturalmente; io ho molti amici tedeschi, anche per il fatto che parlo la loro lingua, e mi interessano, e mi rifiuto di giudicarli in blocco. Pero' devo dire che, statisticamente, sono un paese pericoloso. Sono un pericolo intanto perche' sono divisi in due e questo essi non lo accettano: pochi fra i tedeschi accettano questa divisione. E poi hanno delle virtu' che diventano pericolose: questa loro straordinaria passione per la disciplina (che a noi manca - ed e' male - ma loro ne hanno troppa!) per cui sono pronti ad accodarsi a chiunque comandi, mi fa paura. * - Marco Viglino: Com'e' che allora, sempre in quella lettera, lei dice che i tedeschi, oltre ad essere pericolo, sono speranza per l'Europa? - Primo Levi: Ecco... la lettera io l'ho scritta molti anni fa, nel '60, sulla corda dell'entusiasmo che avevo provato io per il fatto che un editore tedesco aveva accettato di pubblicare la mia testimonianza, e anche a seguito di vari contatti che avevo avuto allora con i giovani tedeschi degli anni Sessanta. E mi era sembrato che la Germania fosse veramente un'altra. Sembrava una roccaforte della democrazia, allora: oggi un po' meno, anzi molto meno. * - Marco Viglino: Come reagiva vedendo i compagni di sventura andare ogni giorno alla morte a causa della selezione: lo prendeva, alla fine, come un dato di fatto, o questo le procurava ogni volta lo stesso dolore e lo stesso disgusto? - Primo Levi: Ci si incontrava, al mattino, all'appello e quando ne mancava uno, era considerato di cattivo gusto andare a fondo, un po' come capita oggi quando uno muore di cancro: non se ne parla volentieri. Era una forma di accettazione, in sostanza, per cui l'atteggiamento verso il compagno morto in selezione non era molto diverso da quello verso uno morto di morte naturale. Quel mio amico Alberto, di cui ho parlato a lungo, era in campo con il padre: era un ragazzo molto intelligente e insieme parlavamo sovente di queste cose, senza inibizioni e senza cedere a questa tendenza di negare la verita'. Pure, quando il padre fu scelto per la selezione, Alberto disse di essere sicuro che suo padre non era mandato nelle "camere" bensi' veniva trasferito con altri prigionieri in un altro campo di convalescenza. E io ero stupito e impressionato nel constatare come il mio amico si fosse prontamente costruito un riparo, per celarsi una realta' altrimenti intollerabile. * - Marco Viglino: Data la mortalita' elevatissima, pensa che la sua sopravvivenza sia dovuta a fortuna o ad altri fattori? - Primo Levi: Io penso che, in primo luogo, molto abbia giocato la fortuna. Inoltre non sono stato mai ammalato: mi sono ammalato piu' tardi, in modo provvidenziale. Ed ecco come avvenne. Io, lavorando in fabbrica, rubavo al laboratorio cio' che mi poteva servire per la sussistenza e puntualmente dividevo il bottino con Alberto; c'era infatti un patto tra di noi, per cui dividevamo fraternamente ogni colpo buono (ecco qui l'arte di arrangiarsi!). Un giorno che avevo rubato del te' in laboratorio, andai con Alberto a venderlo all'ospedale, dove ne avevano bisogno per gli ammalati. Ci pagarono con una gamella di zuppa, quasi gelata e gia' un po' intaccata. Probabilmente era stata toccata da un malato di scarlattina: io presi la scarlattina, fui mandato in ospedale e sopravvissi; Alberto che aveva avuto la malattia da bambino, non ne fu contagiato e mori' in campo. Altro fattore fondamentale per me e' stato quell'operaio, Lorenzo, di Fossano, che mi ha portato per molti mesi quanto bastava per integrare le calorie mancanti. Egli, che pure non era un prigioniero, e' tornato molto piu' disperato di me: era un uomo molto mite e molto pio, rozzo e insieme religioso, e era terrificato di quanto aveva visto, spaventato, ferito. E' tornato in Italia da solo, a piedi, e non ha voluto piu' vivere. Ha incominciato a bere e, a me che lo andavo a trovare spesso, diceva molto freddamente che non desiderava piu' vivere, che ne aveva viste abbastanza. Mori' tubercoloso; e infelice. * - Marco Viglino: Qualche episodio insolito che ricorda e che non e' stato detto nei suoi libri. - Primo Levi: C'era con noi un medico ebreo osservante. Lei sa che la religione ebraica prevede dei digiuni molto rigorosi: in quei giorni non si mangia niente e neppure si lavora. Questo medico alla sera - dopo il lavoro - disse al capo-baracca che la zuppa non la voleva, perche' era giorno di digiuno e lui non la poteva mangiare. Il capo-baracca era un comunista tedesco, abbastanza indurito dal suo mestiere (aveva dieci anni di lager alle spalle), pero', colpito dalla forza morale del prigioniero, gli conservo' la zuppa fino a quando quest'ultimo non termino' il suo digiuno. Questo atto di umanita' mi aveva molto impressionato. * - Marco Viglino: Puo' stabilire un rapporto tra lei e gli altri scrittori di religione ebraica (Ginzburg, Bassani)? - Primo Levi: Un rapporto complesso c'e', evidentemente. L'ambiente di Natalia Ginzburg e' il mio stesso ambiente; abbiamo parenti in comune; lei e' nata Levi e suo fratello era il nostro medico. L'ambiente della borghesia ebraica torinese e' quello in cui sono nato e cresciuto. Quello di Bassani e' diverso; sia Bassani che i suoi personaggi appartengono ad un'altra borghesia ebraica, quella di Ferrara, che io conosco abbastanza poco. E che non mi piace tanto, perche' erano una classe abbastanza consapevole dei propri privilegi, abbastanza esclusiva (vedi il famoso muro di cinta) e riservata e chiusa. * - Marco Viglino: Per quale motivo la Ginzburg le ha rifiutato il manoscritto? - Primo Levi: Premetto che non le serbo rancore (ma forse si', per un certo periodo gliene ho serbato). Ho pensato a tante cose: forse era satura di manoscritti - fare il lettore in una casa editrice e' un brutto mestiere; si e' costretti a falciare... poi... e' un fatto che, pur conoscendola bene, non abbiamo mai chiarito. * - Marco Viglino: Ha ancora dei contatti con i compagni del lager? - Primo Levi: Enick l'ho perso di vista completamente. Ho ritrovato invece quel Pikolo, quello del canto di Ulisse; con lui ci vediamo sovente; viene a fare le vacanze in Italia e fa il farmacista in un piccolo paese vicino a Strasburgo. E' uno di quelli che hanno rimosso tutto: si e' imborghesito completamente e non ama parlare di queste cose. Sono stato a trovarlo, l'ultima volta, con la Televisione italiana; gli ho chiesto di riceverci e mi ha risposto: te si', ma le telecamere no. Poi pero' ha accettato anche loro, ma non volentieri. * - Marco Viglino: Che pensa dei giovani d'oggi? - Primo Levi: La differenza fondamentale tra la nostra giovinezza e la giovinezza attuale e' nella speranza di un futuro migliore, che noi avevamo in modo clamoroso e che ci sosteneva anche negli anni peggiori, anche nel lager: la meta c'era e era costruire un mondo nuovo di uguali diritti, dove la violenza era abolita o relegata in un angolo, costruire il Paese per riportarlo a livello europeo. Invece, i giovani d'oggi, mi pare abbiamo molte meno speranze. In generale vedo che tendono a scopi immediati, e questo forse e' anche abbastanza giusto, in quanto non distinguono un altro futuro. Mi pare, paradossalmente, che sia stata piu' facile la nostra giovinezza, perche' oggi sono troppi i mostri all'orizzonte: c'e' il problema della violenza, il problema energetico, dell'inquinamento; il mondo e' diviso in blocchi, c'e' una totale incapacita' di prevedere l'avvenire e nessuno osa fare previsioni sensate di qui a due anni. C'e' sempre il problema atomico. Trovo che sono pochi i giovani che pensano di fare o studiare in qualche modo per un loro preciso futuro. E' il senso del tramonto dei valori, per cui bisogna godere e bruciare tutto subito. * - Marco Viglino: Come mai ha lasciato passare tanto tempo, quindici anni, da Se questo e' un uomo alla seconda opera? - Primo Levi: Se questo e' un uomo, edito nel '47 presso De Silva, usci' in duemilacinquecento copie: avevo delle buone recensioni, ma ho avuto cinquemila lettori (un libro lo leggono due persone in media). Dopodiche'... non ho avuto piu' incentivo a scrivere; mi pareva di avere fatto il mio dovere di testimone, di essermi scaricato delle mie tensioni e non sentivo il bisogno di scrivere altro. Solo dopo molti anni mi ha ripreso questo desiderio, perche' si e' ricominciato a parlare della Seconda guerra mondiale, e dei lager in specie, in modo diverso, in senso storico appunto. Verso il '60, o forse prima, si tenne un ciclo di conferenze sul tema e io mi sono ritrovato protagonista: molti allora mi hanno incoraggiato a raccontare anche la seconda parte della mia esperienza, cioe' il ritorno dalla Russia. Ripresi la penna anche per un altro motivo: era cessata la Guerra fredda e ora potevo raccontare la verita' completa, umana. Prima era impossibile parlare della Russia: o se ne parlava come dell'inferno o come del paradiso. E io non me la sentivo, in un ambiente cosi', di scrivere un libro-verita' come La tregua. Solo dopo la distensione e' diventato possibile scrivere di queste cose in un linguaggio non retorico. * - Marco Viglino: Perche' e' nato Malabaila? - Primo Levi: Perche' sarebbe stato scandaloso a quel tempo: non avrei potuto, io, lo scrittore di Se questo e' un uomo venire fuori a quei tempi con aneddoti, storie fantastiche. Proposi allora questo pseudonimo all'editore, il quale accetto' con entusiasmo, pensando forse di farne un "caso letterario": poi il caso non ci fu, ed io ripresi il mio nome. 2. MEMORIA. VERA SCHIAVAZZI: QUESTA INTERVISTA, TRENT'ANNI DOPO [Dal quotidiano "La Repubblica" del 18 gennaio 2009 col titolo "L'infaticabile laboratorio della memoria"] "Marco, vieni, c'e' Primo Levi al telefono...". Marco Viglino aveva diciannove anni e si stava preparando alla maturita' in un liceo cattolico privato quando una sera dell'aprile 1978 arrivo', a sorpresa, la telefonata dello scrittore dalla quale e' nata l'intervista inedita che "Repubblica" propone qui accanto. Trent'anni dopo, l'autore di quella intervista e' diventato magistrato, mentre a Torino e' nato il centro di studi che dovra' raccogliere e catalogare il grande lascito di appunti e lettere dello scrittore. Un lavoro affidato alla direzione dello storico Fabio Levi che procede silenziosamente, con quello stesso stile schivo e riservato che caratterizzo' la vita dello scrittore e - dopo la sua morte l'11 aprile del 1987 - quella dei suoi eredi, la vedova e i figli. Ma nelle scuole di Torino e del mondo l'opera di Levi assume oggi, mentre ci si prepara alle iniziative per il Giorno della Memoria, un nuovo significato. E' alla letteratura, infatti, ma anche al cinema, alla musica, al teatro che si affida il ricordo della Shoah, ora che i testimoni in grado di parlarne diventano sempre piu' rari. Il 26 gennaio a Torino Ernesto Ferrero, scrittore e direttore della Fiera del Libro, ne parlera' alla giornata di studi promossa dalla comunita' ebraica, con un intervento dedicato proprio allo scrittore torinese: "Primo Levi sapeva benissimo che la memoria da sola non basta, perche' la memoria a suo modo e' una scrittura, anzi, una ri-scrittura continua che si allontana ogni volta dal ricordo originale. La memoria e' un materiale tra i tanti, e come e' spiegato magistralmente ne I sommersi e i salvati, va sottoposta a un vaglio stringente, a verifiche, controprove documentarie. Solo cosi', facendone oggetto di un'attivita' di laboratorio rigorosa e continua, puo' essere utile a una vera antropologia della banalita' del male". Anche per questo l'intervista inedita ritrovata da Viglino ha un valore speciale, soprattutto per chi ha avuto la fortuna di raccoglierla. "La lettura di Se questo e' un uomo mi aveva sconvolto - racconta Viglino, oggi giudice al Tribunale di sorveglianza di Torino -. Cosi', avevo dedicato a Levi la tesina che ognuno doveva preparare per l'esame finale. Ma una zia, a mia insaputa, ne fece una copia e la diede a una vicina di casa lontana parente dello scrittore. Quel compito da liceale arrivo' fino a lui, gli piacque e mi telefono'. Ancora oggi, trent'anni dopo, mi commuovo pensando a quella semplicita', uno scrittore famoso che chiama un ragazzo sconosciuto". Al telefono, Levi chiede a Viglino: "C'e' qualcosa che posso fare per te? Qualcosa che ti farebbe piacere?", e l'altro non esita: "Vorrei incontrarla". "Mi invito' per il giorno dopo nella sua casa di corso Re Umberto (e' l'appartamento alla Crocetta, dove Levi visse fino al giorno della morte, ndr), alle nove di sera. Mi fece accomodare sul vecchio sofa' del suo studio, una piccola stanza piena di libri. Ero emozionato, febbricitante, quasi non osavo chiedergli di poter usare il registratore, ma per fortuna trovai il coraggio... Ora la sua voce - che era bellissima - e' ancora li', in una cassetta C90 da un'ora e mezza che non ho mai riascoltato dopo il lavoro fatto per scrivere l'intervista: ho paura che il nastro sia diventato fragile e possa rompersi. Passammo insieme tutta la serata, molte cose sul nastro non sono rimaste...". "Per trent'anni - conclude Viglino - quelle pagine scritte a macchina sono rimaste nel cassetto della mia scrivania di casa, non le ho mostrate quasi a nessuno perche' ne ero geloso, ogni tanto andavo a rileggerle. Ma forse sono stato egoista, ed e' venuto il momento di condividerle". 3. INCONTRI. RICORDATO PRIMO LEVI AL LICEO SCIENTIFICO DI TUSCANIA In preparazione della "Giornata della memoria della Shoah" del 27 gennaio, in alcune classi del liceo scientifico di Tuscania (Vt) giovedi' 22 gennaio 2009 e' stato ricordato Primo Levi e sono stati letti e commentati alcuni brani dalle sue opere. Il ricordo della figura e del messaggio di Primo Levi, e' stato sottolineato, e' un appello rivolto a tutte le persone di volonta' buona affinche' si impegnino in difesa della vita, della dignita' e dei diritti di ogni essere umano. 4. TESTI. PRIMO LEVI: PERCHE' SI SCRIVE? [Dal sito www.minerva.unito.it riprendiamo il seguente articolo ripreso da Primo Levi, L'altrui mestiere, Einaudi, Torino 1985, pp. 31-34] Avviene spesso che un lettore, di solito un giovane, chieda a uno scrittore, in tutta semplicita', perche' ha scritto un certo libro, o perche' lo ha scritto cosi', o anche, piu' generalmente, perche' scrive e perche' gli scrittori scrivono. A questa ultima domanda, che contiene le altre, non e' facile rispondere: non sempre uno scrittore e' consapevole dei motivi che lo inducono a scrivere, non sempre e' spinto da un motivo solo, non sempre gli stessi motivi stanno dietro all'inizio ed alla fine della stessa opera. Mi sembra che si possano configurare almeno nove motivazioni, e provero' a descriverle; ma il lettore, sia egli del mestiere o no, non avra' difficolta' a scovarne delle altre. Perche', dunque, si scrive? 1) Perche' se ne sente l'impulso o il bisogno. E' questa, in prima approssimazione, la motivazione piu' disinteressata. L'autore che scrive perche' qualcosa o qualcuno gli detta dentro non opera in vista di un fine; dal suo lavoro gli potranno venire fama e gloria, ma saranno un di piu', un beneficio aggiunto, non consapevolmente desiderato: un sottoprodotto, insomma. Beninteso, il caso delineato e' estremo, teorico, asintotico; e' dubbio che mai sia esistito uno scrittore, o in generale un artista, cosi' puro di cuore. Tali vedevano se stessi i romantici; non a caso, crediamo di ravvisare questi esempi fra i grandi piu' lontani nel tempo, di cui sappiamo poco, e che quindi e' piu' facile idealizzare. Per lo stesso motivo le montagne lontane ci appaiono tutte di un solo colore, che spesso si confonde con il colore del cielo. 2) Per divertire o divertirsi. Fortunatamente, le due varianti coincidono quasi sempre: e' raro che chi scrive per divertire il suo pubblico non si diverta scrivendo, ed e' raro che chi prova piacere nello scrivere non trasmetta al lettore almeno una porzione del suo divertimento. A differenza del caso precedente, esistono i divertitori puri, spesso non scrittori di professione, alieni da ambizioni letterarie o non, privi di certezze ingombranti e di rigidezze dogmatiche, leggeri e limpidi come bambini, lucidi e savi come chi ha vissuto a lungo e non invano. Il primo nome che mi viene in mente e' quello di Lewis Carroll, il timido decano e matematico dalla vita intemerata, che ha affascinato sei generazioni con le avventure della sua Alice, prima nel paese delle meraviglie e poi dietro lo specchio. La conferma del suo genio affabile si ritrova nel favore che i suoi libri godono, dopo piu' di un secolo di vita, non solo presso i bambini, a cui egli idealmente li dedicava, ma presso i logici e gli psicanalisti, che non cessano di trovare nelle sue pagine significati sempre nuovi. E' probabile che questo mai interrotto successo dei suoi libri sia dovuto proprio al fatto che essi non contrabbandano nulla: ne' lezioni di morale ne' sforzi didascalici. 3) Per insegnare qualcosa a qualcuno. Farlo, e farlo bene, puo' essere prezioso per il lettore, ma occorre che i patti siano chiari. A meno di rare eccezioni, come il Virgilio delle Georgiche, l'intento didattico corrode la tela narrativa dal di sotto, la degrada e la inquina: il lettore che cerca il racconto deve trovare il racconto, e non una lezione che non desidera. Ma appunto, le eccezioni ci sono, e chi ha sangue di poeta sa trovare ed esprimere poesia anche parlando di stelle, di atomi, dell'allevamento del bestiame e dell'apicultura. Non vorrei dare scandalo ricordando qui La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, altro uomo di cuore puro, che non si nasconde la bocca dietro la mano: non posa a letterato, ama con passione l'arte della cucina spregiata dagli ipocriti e dai dispeptici, intende insegnarla, lo dichiara, lo fa con la semplicita' e la chiarezza di chi conosce a fondo la sua materia, ed arriva spontaneamente all'arte. 4) Per migliorare il mondo. Come si vede, ci stiamo allontanando sempre piu' dall'arte che e' fine a se stessa. Sara' opportuno osservare qui che le motivazioni di cui stiamo discutendo hanno ben poca rilevanza ai fini del valore dell'opera a cui possono dare origine; un libro puo' essere bello, serio, duraturo e gradevole per ragioni assai diverse da quelle per cui e' stato scritto. Si possono scrivere libri ignobili per ragioni nobilissime, ed anche, ma piu' raramente, libri nobili per ragioni ignobili. Tuttavia, provo personalmente una certa diffidenza per chi "sa" come migliorare il mondo; non sempre, ma spesso, e' un individuo talmente innamorato del suo sistema da diventare impermeabile alla critica. C'e' da augurarsi che non possegga una volonta' troppo forte, altrimenti sara' tentato di migliorare il mondo nei fatti e non solo nelle parole: cosi' ha fatto Hitler dopo aver scritto il Mein Kampf, ed ho spesso pensato che molti altri utopisti, se avessero avuto energie sufficienti, avrebbero scatenato guerre e stragi. 5) Per far conoscere le proprie idee. Chi scrive per questo motivo rappresenta soltanto una variante piu' ridotta, e quindi meno pericolosa, del caso precedente. La categoria coincide di fatto con quella dei filosofi, siano essi geniali, mediocri, presuntuosi, amanti del genere umano, dilettanti o matti. 6) Per liberarsi da un'angoscia. spesso lo scrivere rappresenta un equivalente della confessione o del divano di Freud. Non ho nulla da obiettare a chi scrive spinto dalla tensione: gli auguro anzi di riuscire a liberarsene cosi', come e' accaduto a me in anni lontani. Gli chiedo pero' che si sforzi di filtrare la sua angoscia, di non scagliarla cosi' com'e', ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge; altrimenti rischia di contagiarla agli altri senza allontanarla da se'. 7) Per diventare famosi. credo che solo un folle possa accingersi a scrivere unicamente per diventare famoso; ma credo anche che nessuno scrittore, neppure il piu' modesto, neppure il meno presuntuoso, neppure l'angelico Carroll sopra ricordato, sia stato immune da questa motivazione. Aver fama, leggere di se' sui giornali, sentire parlare di se', e' dolce, non c'e' dubbio; ma poche fra le gioie che la vita puo' dare costano altrettanta fatica, e poche fatiche hanno risultato cosi' incerto. 8) Per diventare ricchi. Non capisco perche' alcuni si sdegnino o si stupiscano quando vengono a sapere che Collodi, Balzac e Dostoevskij scrivevano per guadagnare, o per pagare i debiti di gioco, o per tappare i buchi di imprese commerciali fallimentari. Mi pare giusto che lo scrivere, come qualsiasi altra attivita' utile, venga ricompensato. Ma credo che scrivere solo per denaro sia pericoloso, perche' conduce quasi sempre ad una maniera facile, troppo ossequente al gusto del pubblico piu' vasto e alla moda del momento. 9) Per abitudine. Ho lasciato ultima questa motivazione, che e' la piu' triste. Non e' bello, ma avviene: avviene che lo scrittore esaurisca il suo propellente, la sua carica narrativa, il suo desiderio di dar vita e forma alle immagini che ha concepite; che non concepisca piu' immagini; che non abbia piu' desideri, neppure di gloria e di denaro; e che scriva ugualmente, per inerzia, per abitudine, per "tener viva la firma". Badi a quello che fa: su quella strada non andra' lontano, finira' fatalmente col copiare se stesso. E' piu' dignitoso il silenzio, temporaneo o definitivo. 5. ET COETERA Primo Levi e' nato a Torino nel 1919, e qui e' tragicamente scomparso nel 1987. Chimico, partigiano, deportato nel lager di Auschwitz, sopravvissuto, fu per il resto della sua vita uno dei piu' grandi testimoni della dignita' umana ed un costante ammonitore a non dimenticare l'orrore dei campi di sterminio. Le sue opere e la sua lezione costituiscono uno dei punti piu' alti dell'impegno civile in difesa dell'umanita'. Opere di Primo Levi: fondamentali sono Se questo e' un uomo, La tregua, Il sistema periodico, La ricerca delle radici, L'altrui mestiere, I sommersi e i salvati, tutti presso Einaudi; presso Garzanti sono state pubblicate le poesie di Ad ora incerta; sempre presso Einaudi nel 1997 e' apparso un volume di Conversazioni e interviste. Altri libri: Storie naturali, Vizio di forma, La chiave a stella, Lilit, Se non ora, quando?, tutti presso Einaudi; ed Il fabbricante di specchi, edito da "La Stampa". Ora l'intera opera di Primo Levi (e una vastissima selezione di pagine sparse) e' raccolta nei due volumi delle Opere, Einaudi, Torino 1997, a cura di Marco Belpoliti. Opere su Primo Levi: AA. VV., Primo Levi: il presente del passato, Angeli, Milano 1991; AA. VV., Primo Levi: la dignita' dell'uomo, Cittadella, Assisi 1994; Marco Belpoliti, Primo Levi, Bruno Mondadori, Milano 1998; Massimo Dini, Stefano Jesurum, Primo Levi: le opere e i giorni, Rizzoli, Milano 1992; Ernesto Ferrero (a cura di), Primo Levi: un'antologia della critica, Einaudi, Torino 1997; Ernesto Ferrero, Primo Levi. La vita, le opere, Einaudi, Torino 2007; Giuseppe Grassano, Primo Levi, La Nuova Italia, Firenze 1981; Gabriella Poli, Giorgio Calcagno, Echi di una voce perduta, Mursia, Milano 1992; Claudio Toscani, Come leggere "Se questo e' un uomo" di Primo Levi, Mursia, Milano 1990; Fiora Vincenti, Invito alla lettura di Primo Levi, Mursia, Milano 1976. ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 290 del 23 gennaio 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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