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Voci e volti della nonviolenza. 281
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 281
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 6 Jan 2009 12:30:37 +0100
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 281 del 6 gennaio 2009 In questo numero: 1. Conoscere la diversita' delle opinioni e delle percezioni. Riconoscere a tutti gli esseri umani tutti i diritti umani. Opporsi a tutte le guerre e a tutte le uccisioni 2. Uri Avnery: La follia della guerra 3. Claudio Rizza intervista Amos Luzzatto 4. Benny Morris: L'apocalisse 5. Massimo Raffaeli presenta "Sconfiggere Hitler" di Avraham Burg 6. Stefania Consonni intervista Avraham Burg 1. EDITORIALE. CONOSCERE LA DIVERSITA' DELLE OPINIONI E DELLE PERCEZIONI. RICONOSCERE A TUTTI GLI ESSERI UMANI TUTTI I DIRITTI UMANI. OPPORSI A TUTTE LE GUERRE E A TUTTE LE UCCISIONI Presentiamo qui di seguito, come del resto abbiamo gia' fatto nei giorni scorsi, testi che propongono punti di vista anche assai differenti - e talora in conflitto tra loro -, ma tutti interessanti e degni di meditazione. Si puo' non essere d'accordo con alcune delle tesi qui di seguito documentate e delle percezioni che testimoniano, e si puo' anche ritenere che alcune opinioni siano fin inaccettabili; ma occorre conoscerle e riconoscerle. * L'opinione del nostro notiziario e' semplice e nota: opposizione integrale alla guerra; opposizione integrale ad ogni uccisione; riconoscimento di tutti i diritti umani a tutti gli esseri umani; proposta nitida e intransigente della nonviolenza come politica concreta adeguata ai compiti presenti dell'umanita'. 2. RIFLESSIONE. URI AVNERY: LA FOLLIA DELLA GUERRA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 gennaio 2009 col titolo "Marcia dei folli. La schizofrenia di Israele tra la macerie della striscia" e il sommario "Prima di demonizzarlo e bombardarlo a Gaza, Hamas e' stato appoggiato da Tel Aviv, per contrastare l'Olp. E con i raid di oggi, lo Stato ebraico non fara' altro che rafforzare il movimento islamico"] Appena dopo la mezzanotte, l'emittente araba di Al Jazeera stava trasmettendo le notizie degli eventi di Gaza. Improvvisamente la telecamera ha inquadrato in alto, verso il cielo scuro. Lo schermo era nero fondo, non si riusciva a distinguere niente. Ma c'era un suono che si poteva sentire: il rumore degli aerei da guerra, uno spaventoso, terrificante boato. Era impossibile non pensare alle decine di migliaia di bambini di Gaza che stavano sentendo, nello stesso momento, quel suono, paralizzati dalla paura, in attesa delle bombe dal cielo. "Israele deve difendersi dai razzi che stanno terrorizzando le nostre citta' del sud", ha spiegato il portavoce israeliano. "I palestinesi devono rispondere alle uccisioni dei loro combattenti nella Striscia di Gaza", ha dichiarato il portavoce di Hamas. Per essere esatti, nessun cessate il fuoco e' stato interrotto, perche' nessun cessate il fuoco era mai iniziato. Il requisito principale di ogni cessate il fuoco nella Striscia di Gaza deve essere l'apertura dei passaggi. Non ci puo' essere vita a Gaza senza un flusso costante di rifornimenti. Ma le frontiere non sono state aperte, se non poche ore ogni tanto. Bloccare un milione e mezzo di esseri umani per via di terra, mare e aria e' un atto di guerra, esattamente come il lancio delle bombe o dei razzi. Paralizza la vita nella Striscia di Gaza: elimina gran parte delle fonti che creano occupazione, porta centinaia di migliaia di persone al limite della morte per fame, blocca il funzionamento della maggior parte degli ospedali, distrugge la distribuzione di elettricita' e d'acqua. Coloro che hanno deciso di chiudere i passaggi - sotto qualsivoglia pretesto - sapevano che non ci sarebbe stato nessun reale cessate il fuoco in queste condizioni. Questo e' il fatto principale. Poi ci sono state piccole provocazioni volte deliberatamente a suscitare la reazione di Hamas. Dopo diversi mesi durante i quali i razzi Qassam a malapena si sono visti, un'unita' dell'esercito e' stata inviata nella Striscia "per distruggere un tunnel che arrivava vicino alla recinzione della frontiera". Da un punto di vista puramente strategico, avrebbe avuto piu' senso tendere un'imboscata sul nostro lato della frontiera. Ma lo scopo era quello di trovare un pretesto per metter fine al cessate il fuoco, in una maniera che consentisse di addossare la colpa ai palestinesi. E cosi' e' stato, dopo diverse piccole azioni del genere, nelle quali alcuni guerriglieri di Hamas sono stati uccisi, Hamas ha risposto con un massiccio lancio di missili, ed ecco, il cessate il fuoco e' giunto alla fine. Tutti hanno incolpato Hamas. Qual e' lo scopo? Tzipi Livni lo ha annunciato apertamente: rovesciare il governo di Hamas a Gaza. I Qassam sono serviti solo come pretesto. Rovesciare il governo di Hamas? Suona quasi come un capitolo estratto dalla "Marcia dei folli". Dopo tutto non e' un segreto che fu il governo israeliano a supportare Hamas, all'inizio. Una volta interrogai su questo l'allora capo dello Shin-Bet, Yakakov Peri, che rispose enigmaticamente: "Non lo abbiamo creato noi, ma non abbiamo impedito la sua creazione". Per anni le autorita' d'occupazione promossero il movimento islamico nei territori occupati. Ogni altra iniziativa politica era rigorosamente soppressa, ma la loro attivita' nelle moschee era permessa. Il calcolo era semplice, e ingenuo: al tempo l'Olp era considerato il nemico principale, Yasser Arafat il satana. Il movimento islamico predicava contro l'Olp e Arafat ed era percio' visto come un alleato. * Con l'esplodere della prima intifada nel 1987, il movimento islamico si rinomino' ufficialmente Hamas (l'acronimo arabo di "movimento islamico di resistenza") e si uni' alla lotta. Anche allora lo Shin-bet non mosse un dito contro di loro per quasi un anno, mentre i membri di Fatah erano imprigionati o uccisi in gran numero. Solo dopo un anno lo sceicco Ahmed Yassin e i suoi colleghi furono arrestati. Da allora la ruota ha girato. Hamas e' il satana odierno, e l'Olp e' considerato da molti in Israele quasi una branca del movimento sionista. La conclusione logica per un governo di Israele interessato alla pace sarebbe stata quella di fare ampie concessioni alla leadership di Fatah: la fine dell'occupazione, la firma di un trattato di pace, la fondazione dello stato di Palestina, il ritiro entro i confini del 1967, una soluzione ragionevole al problema dei rifugiati, il rilascio di tutti i prigionieri palestinesi. Questo avrebbe sicuramente arrestato l'ascesa di Hamas. Ma la logica ha una scarsa influenza sulla politica. Niente del genere e' accaduto. Al contrario, dopo l'uccisione di Arafat, Abu Mazen, che ha preso il suo posto, e' stato definito da Ariel Sharon "un pollo spennato". Ad Abu Mazen non e' stato concesso il minimo margine di operativita' politica. I negoziati, sotto gli auspici americani, sono diventati una barzelletta. Il piu' autentico leader di Fatah, Marwan Barghouti, e' stato mandato in carcere a vita. Al posto di un massiccio rilascio di prigionieri, ci sono stati "segnali" meschini e offensivi. Abu Mazen e' stato umiliato sistematicamente, Fatah ha assunto l'aspetto di una conchiglia vuota, e Hamas ha ottenuto una sonante vittoria alle elezioni palestinesi - le elezioni piu' democratiche mai tenute nel mondo arabo. Israele ha boicottato il governo eletto. Nella successiva battaglia interna, Hamas ha assunto il controllo della Striscia di Gaza. E ora, dopo tutto cio', il governo di Israele ha deciso di "rovesciare il governo di Hamas a Gaza". Il nome ufficiale dell'azione bellica e' "piombo fuso", due parole tratte da una canzone infantile su un giocattolo di Hanukkah. Sarebbe stato piu' appropriato chiamarla "guerra delle elezioni". Anche nel passato le azioni militari sono state intraprese durante campagne elettorali. Menachem Begin bombardo' il reattore nucleare iracheno durante la campagna del 1981. Quando Shimon Peres affermo' che si trattava di una trovata elettorale, Begin alzo' la voce al comizio seguente: "Ebrei, davvero credete che io potrei mandare i nostri figli coraggiosi alla morte, o, peggio ancora, ad esser fatti prigionieri da degli animali, solo per vincere le elezioni?". Begin vinse. Ma Peres non e' Begin. Quando, durante la campagna del 1996, ordino' l'invasione del Libano, tutti erano convinti che si trattasse di una trovata elettorale. La guerra fu un fallimento, Peres perse le elezioni e Netanyahu sali' al potere. Barak e Tzipi Livni stanno ora ricorrendo allo stesso vecchio trucco. Secondo i sondaggi, la prevista vittoria di Barak gli ha fatto guadagnare 5 seggi della Knesset. Circa 80 morti palestinesi per ogni seggio. Ma e' difficile camminare sui cadaveri. Il successo potrebbe evaporare in un istante, se la guerra cominciasse a essere considerata un fallimento dall'opinione pubblica israeliana. Per esempio, se i missili continuano a colpire Beersheba, o se l'attacco di terra porta a un pesante numero di vittime tra gli israeliani. * Il momento e' stato scelto con cura anche da un altro punto di vista. L'attacco e' cominciato due giorni dopo Natale, quando i leader americani e europei sono in vacanza. Il calcolo: anche se qualcuno volesse provare a fermare la guerra, nessuno rinuncerebbe alle vacanze. Il che ha garantito diversi giorni senza alcuna pressione esterna. Un'altra ragione che rende il momento appropriato: sono gli ultimi giorni della permanenza di Bush alla Casa bianca. Ci si aspettava che questo idiota assetato di sangue appoggiasse entusiasticamente l'attacco, come in effetti ha fatto. Barack Obama non ha ancora iniziato il suo incarico, e ha quindi un pretesto per rimanere in silenzio: "C'e' un solo presidente". Questo silenzio non fa presagire nulla di buono per il mandato di Obama. La linea fondamentale e' stata: non bisogna ripetere gli errori della seconda guerra del Libano. Questo e' stato ripetuto incessantemente in ogni notiziario e talk show. Ma cio' non toglie che la guerra di Gaza sia una replica pressoche' identica della seconda guerra del Libano. Il concetto strategico e' lo stesso: terrorizzare la popolazione civile attraverso attacchi aerei costanti, seminando morte e distruzione. I piloti non corrono alcun pericolo, in quanto i palestinesi non hanno una contraerea. Il calcolo: se tutte le infrastrutture che consentono la vita nella Striscia sono letteralmente distrutte, e si arriva quindi alla totale anarchia, la popolazione si sollevera' e rovescera' il regime di Hamas. Abu Mazen rientrera' poi a Gaza al seguito dei carri armati israeliani. In Libano questo calcolo non ha funzionato. La popolazione bombardata, cristiani inclusi, si e' raccolta attorno a Hezbollah, e Nashrallah e' diventato l'eroe del mondo arabo. Qualcosa di simile accadra' probabilmente anche questa volta. I generali sono esperti nell'usare le armi e nel muovere le truppe, non nella psicologia di massa. Qualche tempo fa scrissi che il blocco di Gaza puo' essere inteso come un esperimento scientifico, mirato a scoprire quanto si puo' affamare una popolazione prima che scoppi. Questo esperimento e' stato portato avanti con il generoso aiuto dell'Europa e degli Stati Uniti. Finora non e' riuscito. Hamas e' diventato piu' forte e la gittata dei Qassam piu' lunga. La presente guerra e' una continuazione dell'esperimento con altri mezzi. Potrebbe essere che l'esercito "non abbia alternativa" se non riconquistare la Striscia, perche' non c'e' altro modo per fermare i Qassam, se non quello - contrario alla politica del governo - di arrivare a un accordo con Hamas. Quando partira' la missione di terra, tutto dipendera' dalla motivazione e dalla capacita' dei combattenti di Hamas rispetto ai soldati israeliani. Nessuno puo' prevedere quanto accadra'. Giorno dopo giorno, notte dopo notte, Al Jazeera trasmette immagini atroci: brandelli di corpi mutilati, parenti in lacrime in cerca dei loro cari tra le dozzine di cadaveri, una donna che solleva la sua bambina da sotto le macerie, dottori senza mezzi che cercano di salvare le vite dei feriti. In milioni stanno vedendo queste immagini terribili, giorno dopo giorno. Queste immagini saranno impresse nella loro mente per sempre. Un'intera generazione coltiva l'odio. Questo e' un prezzo terribile, che saremo costretti a pagare ancora a lungo dopo che gli altri effetti della guerra saranno stati dimenticati in Israele. Ma c'e' un'altra cosa che si sta imprimendo nelle menti di questi milioni: l'immagine dei corrotti e passivi regimi arabi. Visto dagli arabi, un fatto s'impone su tutti gli altri: il muro della vergogna. Per il milione e mezzo di arabi a Gaza, che stanno soffrendo cosi' terribilmente, l'unica apertura al mondo che non sia dominata da Israele e' il confine con l'Egitto. Solo da li' puo' arrivare il cibo che consente la vita, da li' arrivano i medicinali che salvano i feriti. Al culmine dell'orrore questo confine resta chiuso. L'esercito egiziano ha bloccato l'unica via d'accesso per cibo e medicinali, mentre i chirurghi operano senza anestetici. Per il mondo arabo, da un capo all'altro, hanno fatto eco le parole di Hassan Nashrallah: "I leader egiziani sono complici in questo crimine, stanno collaborando con il 'nemico sionista' che cerca di distruggere il popolo palestinese". Si puo' assumere che non intendesse solo Mubarak, ma anche tutti gli altri leader, dal re saudita al presidente dell'Anp. Se si guarda alle manifestazioni in tutto il mondo arabo, se si ascoltano gli slogan, se ne deduce l'impressione che i loro leader sono visti da molti come patetici nel migliore dei casi, come meschini collaborazionisti nel peggiore. Questo avra' conseguenze storiche. Un'intera generazione di leader arabi, una generazione imbevuta dell'ideologia nazionalista secolare araba - i successori di Nasser, di Hafez al-Assad e Yasser Arafat - sara' messa fuori scena. In campo arabo, l'unica alternativa percorribile e' l'ideologia del fondamentalismo islamico. Questa guerra e' un presagio infelice: Israele sta perdendo l'occasione storica di fare la pace con il nazionalismo arabo secolare. Domani potrebbe essere davanti a un mondo arabo uniformemente fondamentalista, un Hamas mille volte piu' grande. 3. RIFLESSIONE. CLAUDIO RIZZA INTERVISTA AMOS LUZZATTO [Dal quotidiano "Il Messaggero" del 5 gennaio 2009 col titolo "Luzzatto: in battaglia c'e' anche l'Iran. Il grande pericolo e' il conflitto religioso"] Amos Luzzatto, romano trapiantato a Venezia, ottantenne, medico e scrittore, e' stato per molti anni presidente dell'Unione delle comunita' ebraiche. * - Claudio Rizza: Parliamo di Gaza, presidente Luzzatto. - Amos Luzzatto: Si', ma il problema va svincolato dalla cronaca. * - Claudio Rizza: In che senso? - Amos Luzzatto: Perche' la cronaca ci fa partecipare emotivamente alle sofferenze della popolazione civile di Gaza. Donne, bambini, vecchi... e' chiaro che su questa partecipazione non ci piove. Ma io preferisco parlare di come si e' arrivati a questa situazione. * - Claudio Rizza: Chiaro. - Amos Luzzatto: Ci sono colpe da tutte e due le parti. Non faro' una disquisizione storica che parte da almeno cent'anni fa. Pero' indico tre o quattro punti fermi. Primo, uno si difende quando la controparte espressamente dice di volerti cancellare dalla carta geografica. Questo non si puo' dimenticarlo. * - Claudio Rizza: Prego, continui. - Amos Luzzatto: Secondo, non c'e' dubbio che le basi di comando e le armi di Hamas siano nascoste in mezzo alla popolazione civile. * - Claudio Rizza: Se ne fanno scudo, si sa. - Amos Luzzatto: Terzo, non c'e' dubbio che nella regione operino anche forze esterne, come per esempio l'Iran. * - Claudio Rizza: Ahmadinejad, presidente iraniano, e' uno di quelli che vi vuole cancellare. - Amos Luzzatto: Non possiamo credere che le forze in campo siano l'esercito israeliano e i bambini palestinesi che lanciano i sassi con la fionda. Sara' bello dal punto di vista descrittivo ma non e' la realta'. * - Claudio Rizza: E dunque? - Amos Luzzatto: Siamo di fronte ad un pericolo enorme: la trasformazione di questo conflitto da politico a religioso. Lo dico avendo visto che si va prima nelle moschee e dopo a manifestare contro Israele. E' una cosa pericolosissima. La politica puo' giungere anche a compromessi; la religione, soprattutto se e' fondamentalista, no. * - Claudio Rizza: Il fondamentalismo e' la piaga che spaventa lo stesso mondo arabo. - Amos Luzzatto: Lo so. Ma non e' una guerra di civilta', non e' l'Islam contro il Cristianesimo, non e' niente di tutto questo. E' il fondamentalismo contro le fedi religiose oneste e universalistiche. * - Claudio Rizza: Che pensa degli appelli rivolti a Israele, perche' fermi la sua offensiva? - Amos Luzzatto: Gli appelli dovrebbero essere: "Israele smetta con i carri armati, Hamas smantelli tutte le postazioni". * - Claudio Rizza: L'invasione di Gaza la spaventa, la rinfranca, la preoccupa? - Amos Luzzatto: Mi addolora terribilmente e credo addolori lo stesso Barak. Essere ricorsi a questi mezzi significa che qualunque altro mezzo e' fallito. L'esperienza insegna che una battaglia di questo genere, in prospettiva, alimentera' l'odio e aumentera' le tensioni nell'area. Perche' se muore un'organizzazione militare fondamentalista ne nasce subito un'altra. * - Claudio Rizza: Allora e' stato uno sbaglio. - Amos Luzzatto: Dopo aver annunciato quaranta volte la controffensiva e aspettato tanto non c'e' dubbio che qualcosa andava fatto. Ho letto che si temono anche missili a gittata piu' lunga che sono gia' nelle mani di Hamas, non certo di produzione artigianale, pronti a colpire il centro nucleare di Dimona. Gli appelli che hanno seguito l'offensiva mi sono parsi un po' troppo unilaterali. * - Claudio Rizza: I palestinesi sono divisi in due. Hamas di qua, Abu Mazen di la'. Si potrebbe immaginare una pace separata? - Amos Luzzatto: No, non credo proprio. Per Abu Mazen sarebbe una soluzione suicida, i territori si solleverebbero. E sarebbe molto pericoloso anche per Israele. * - Claudio Rizza: I paesi arabi moderati forse potrebbero dare una mano a isolare i fondamentalisti. - Amos Luzzatto: Ho l'impressione che le componenti moderate siano molto deboli. Anche l'Egitto di Mubarak si regge su un regime molto duro. Mubarak e' vecchio ormai, ha almeno la mia eta'. E l'Arabia Saudita, anche se cosi' ricca, non mi pare abbia molto ascendente. * - Claudio Rizza: E' deluso da quanto hanno fatto gli Usa di Bush? - Amos Luzzatto: L'America di Bush ha abbondato in solidarieta' ma sono state piu' parole che fatti. Sul Medio oriente sono rimasti molto alla finestra. * - Claudio Rizza: Spera in Obama? - Amos Luzzatto: Diamogli il tempo. Pretendiamo da lui quello che Bush non ha fatto, in poche settimane e prima ancora di diventare presidente. * - Claudio Rizza: L'Europa e' divisa: Sarkozy e Brown sono piu' freddi con Israele. - Amos Luzzatto: Non e' la prima volta che l'Europa si divide. Uno dei suoi problemi e' che non ha una politica estera comune. E cosi' non riuscira' ad avere un ruolo. 4. DOCUMENTAZIONE. BENNY MORRIS: L'APOCALISSE [Dal "Corriere della sera" del 27 dicembre 2008 col titolo "L'apocalisse alle porte" e il sommario "Il commento. Iran, Hamas, Hezbollah, bomba demografica araba. Le quattro facce dell'apocalisse che minacciano lo Stato ebraico"] Molti israeliani oggi si sentono accerchiati dai muri - e dalla storia - nel loro Stato, nato 60 anni or sono, proprio come lo furono nel 1967, alla vigilia della "Guerra dei sei giorni" in cui sconfissero gli eserciti di Egitto, Giordania e Siria nel Sinai, in Cisgiordania e sulle alture di Golan. Durante le settimane che precedettero il conflitto gli egiziani avevano scacciato le forze di pace dell'Onu dal confine tra Sinai e Israele, sbarrato lo Stretto di Tiran alle navi israeliane e al traffico aereo, messo in campo cinque divisioni corazzate e di fanteria sulla frontiera di Israele e firmato una serie di patti militari con Siria e Giordania, che consentivano loro il dispiegamento di truppe in Cisgiordania. Le stazioni radio e i leader politici dei Paesi arabi strombazzavano di ora in ora l'annuncio dell'imminente trionfo: gli ebrei sarebbero stati scaraventati in mare. Gli israeliani, o piuttosto gli ebrei israeliani, cominciano a provare le medesime sensazioni avvertite dai loro genitori in quei giorni apocalittici che precedettero l'attacco dell'esercito israeliano. Oggi Israele e' uno Stato molto piu' prospero e potente - all'epoca contava poco piu' di due milioni di abitanti (contro i 5,5 milioni attuali), un bilancio di meno del 20% di quello odierno e nessun deterrente nucleare - eppure la stragrande maggioranza della popolazione guarda al futuro con profonda apprensione. I presentimenti piu' cupi scaturiscono da due fonti generali e da quattro cause specifiche. I problemi generali sono semplici: innanzitutto, il mondo arabo e in genere islamico, malgrado le speranze israeliane dal 1948 a oggi, non ha mai riconosciuto la legittimita' della creazione di Israele e continua a opporsi alla sua esistenza, nonostante i trattati di pace firmati dai governi di Egitto e Giordania con lo stato ebraico rispettivamente nel 1979 e nel 1994. Secondo: mentre l'Olocausto sfuma ormai sempre di piu' in un ricordo sbiadito e lontano e le pressioni del mondo arabo emergente e desideroso di affermare la sua potenza si fanno incalzanti, l'opinione pubblica in Occidente (e in democrazia, i governi non possono far altro che seguirla) si allontana gradualmente da Israele, mentre guarda con sospetto il trattamento riservato dallo Stato ebraico ai vicini palestinesi e ai suoi cittadini arabi. E' indicativa la popolarita' di alcune recenti pubblicazioni assai critiche verso Israele, come Pace non apartheid in Palestina, di Jimmy Carter, e La lobby israeliana e la politica estera americana, di John Mearsheimer e Stephen Walt. Solo un paio di decenni fa, tali libri avrebbero suscitato scarso interesse. Per entrare nello specifico, Israele deve affrontare una combinazione di minacce, tutte ugualmente terrificanti. A est, l'Iran si affretta a completare il programma nucleare, che secondo gli israeliani e i servizi di spionaggio internazionali e' destinato alla produzione di armi atomiche. E questo, abbinato alle ripetute smentite da parte del presidente iraniano Ahmadinejad dell'esistenza dell'Olocausto (e dell'omosessualita' in Iran), che basterebbero a provare la sua irrazionalita', e ai pubblici appelli a distruggere lo Stato ebraico, mette sulle spine i leader politici e militari di Israele. A nord, il movimento fondamentalista libanese di Hezbollah, anch'esso votato alla distruzione di Israele, si e' riarmato fino ai denti dall'estate del 2006, quando la guerra lanciata da Israele per sbarazzarsi di quell'organizzazione non ha dato i risultati sperati. Oggi, secondo le stime dei servizi segreti israeliani, Hezbollah dispone di un arsenale bellico doppio rispetto al 2006, che consiste di 30-40.000 missili di fabbricazione russa forniti da Siria e Iran, alcuni dei quali possono raggiungere le citta' di Dimona e Tel Aviv. Se dovesse scoppiare un conflitto tra Israele e l'Iran, o Israele e la Palestina, certamente Hezbollah si gettera' nella mischia. A sud, Israele deve vedersela con il movimento islamista di Hamas, che controlla la Striscia di Gaza e la cui costituzione o statuto promette di distruggere Israele e di ricondurre ogni centimetro quadrato della Palestina sotto il governo e la legge dell'Islam. Oggi Hamas vanta un esercito di migliaia di uomini, uno spiegamento di molte migliaia di missili - i razzi Qassam di fabbricazione locale e i missili Katyusha e Grad di provenienza russa, finanziati dall'Iran e contrabbandati attraverso tunnel dal Sinai, mentre l'Egitto chiude un occhio - la cui gittata raggiunge le citta' di Ashkelon, Ashdod, Kiryat-Gat e i sobborghi di Beersheba. Le ultime settimane hanno visto un martellamento giornaliero di Qassam contro gli insediamenti israeliani di confine, provocando disperazione, panico e fuga. L'opinione pubblica e il governo israeliano ne hanno avuto abbastanza e l'esercito si prepara a lanciare una pesante controffensiva nei prossimi giorni. Ma non bastera' a risolvere i problemi sollevati da una Striscia di Gaza popolata da un milione e mezzo di palestinesi impoveriti e disperati, governati da un regime di fanatici che odiano Israele. E una massiccia operazione di terra da parte di Israele, allo scopo di invadere la Striscia e distruggere le milizie di Hamas, con ogni probabilita' si ritroverebbe impantanata prima ancora di riuscire nel suo intento. Senza contare che, se l'offensiva dovesse andare a segno, il nuovo dominio di Israele su Gaza, senza limiti di tempo, risulterebbe ugualmente inaccettabile. Ma se Israele non prende una decisione, il futuro e' carico di presagi altrettanto spaventosi. I Qassam, a differenza dei Katyusha e dei Grad, sono armi relativamente innocue - solo una dozzina di israeliani hanno perso la vita in questi attacchi nell'ultimo decennio - ma si dimostrano molto efficaci nel seminare terrore e sgomento. Se aumenta il rischio di lanci missilistici, come avverra' inevitabilmente con il crescente arsenale di Hamas, la vita nel Sud di Israele potrebbe diventare intollerabile. La quarta minaccia immediata e' interna allo Stato di Israele e proviene dalla minoranza araba. Nel corso degli ultimi due decenni, i cittadini arabi di Israele (che ammontano a 1,3 milioni) si sono sostanzialmente radicalizzati, rivendicando apertamente la loro identita' palestinese e abbracciando la causa nazionale della Palestina. La maggior parte di essi afferma di sostenere il loro popolo, anziche' il loro Stato (Israele). Molti leader di questa comunita', approfittando delle istituzioni democratiche israeliane, hanno appoggiato piu' o meno dichiaratamente Hezbollah nel 2006 e invocano all'unisono una qualche forma di "autonomia" e lo scioglimento dello Stato ebraico. Non sul campo di battaglia, ma in campo demografico gli arabi si sono gia' assicurati la vittoria: il tasso di natalita' tra gli arabi israeliani e' tra i piu' elevati al mondo, con 4-5 figli per famiglia (contro i 2-3 figli per famiglia tra gli ebrei). Gli esperti sono convinti che a questo ritmo verso il 2040 o il 2050 gli arabi rappresenteranno la maggioranza della popolazione israeliana. E nel giro di cinque-dieci anni gli arabi (gli arabi israeliani sommati a quelli che risiedono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza) formeranno la maggioranza della popolazione in Palestina (il territorio che si estende tra il fiume Giordano e il Mediterraneo). Ma le frizioni tra israeliani e minoranza araba costituiscono gia' un fattore politico assai preoccupante. I leader arabi di Israele reclamano da tempo l'autonomia e nel 2000, all'inizio della seconda Intifada, migliaia di giovani arabi israeliani, per solidarieta' con i loro fratelli nei territori semi-occupati, hanno scatenato disordini lungo le principali arterie israeliane, bloccando il traffico, e nelle citta' a popolazione mista. Gli ebrei israeliani temono che alla prossima occasione i tumulti saranno molto peggiori e considerano la minoranza araba come una potenziale quinta colonna. In queste minacce specifiche, che siano a breve, medio e lungo termine, il denominatore comune e' il fattore della sorpresa. Tra il 1948 e il 1982 Israele e' riuscito a fronteggiare senza troppe difficolta' gli eserciti convenzionali arabi, sgominandoli in piu' occasioni. Ma la minaccia nucleare iraniana, geograficamente distante, e il complesso dei gruppi Hamas-Hezbollah, capaci di operare scavalcando confini internazionali e insediandosi fin nel cuore di citta' ad alta densita' di popolazione, sommati al crescente scontento dei cittadini arabi di Israele verso lo Stato in cui vivono, presentano oggi un pericolo di natura completamente diversa. Sono queste le sfide che il popolo e i politici israeliani, vincolati da norme di comportamento liberali e democratiche di stampo occidentale, trovano difficili da affrontare e risolvere. 5. LIBRI. MASSIMO RAFFAELI PRESENTA "SCONFIGGERE HITLER" DI AVRAHAM BURG [Dal quotidiano "Il manifesto" del 30 novembre 2008 col titolo "L'Israele di Avraham Burg. Se la memoria diventa routine"] Non e' cosi' semplice definire il libro di Avraham Burg, Sconfiggere Hitler. Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico, che esce da Neri Pozza (pp. 407, euro 19) nella puntuale traduzione di Elena Loewenthal. Due sequenze differenti vi si sommano o, meglio, vi entrano in intersezione: da un lato, un lungo memoriale autobiografico, dettato dall'ammirazione e dalla pietas rerum, su suo padre Yossef, ebreo tedesco e pioniere di Israele, notabile e ministro della generazione di David Ben Gurion, la cui parabola politica culmina tra la Guerra dei Sei Giorni e quella successiva del Kippur, dunque nel frangente che precede l'ascesa delle destre e il primo gabinetto di Menahem Begin; dall'altro, un'accanita riflessione sul presente di Israele, non solo e non tanto sulle scelte politiche dell'ultimo trentennio, quanto sulla ideologia che le avvalora e, anzi, le iscrive come fatti ineluttabili nel senso comune. Burg accusa le classi dirigenti del suo paese, in particolare il sionismo di matrice religiosa e militare, di avere mistificato e poi cancellato lo spirito secolare dell'ebraismo; in altri termini, le accusa di aver dimenticato la lezione della Diaspora (quale apertura, contatto, scambio con le altre culture) e di recludersi in un eterno Yad Vashem, come se il presente e il futuro di Israele potessero esaurirsi nel cerchio mnemonico della Shoah, come se il paese altro non dovesse essere se non "il portavoce di sei milioni di morti". Burg sospetta, gia' nella scelta di processare e giustiziare Eichmann a Gerusalemme, una silenziosa rifondazione del giovane stato, laddove allo spirito laico e cosmopolita del kibbutzim sarebbe via via subentrata la fisionomia introversa del sabra, il cittadino in armi esclusivamente dedito al culto dei propri morti e al loro riscatto simbolico. Non occorre sottoscrivere alla lettera una tanto suggestiva, cioe' unilaterale, interpretazione storica per rilevare il fatto che Burg sa cogliere con nitidezza il nesso che lega la retorica paralizzante dell'identita' alle attuali politiche di Israele. Portato a riconoscere nei suoi connazionali dei "sopravvissuti per procura", scrive: "Non ho dubbi che la memoria sia fondamentale per la salute spirituale di una nazione. La memoria della Shoah deve occupare un posto importante nel contesto della nostra. Ma, per come stanno andando le cose, quel monopolio assoluto che la Shoah detiene su ogni aspetto della nostra vita, sta trasformando la nostra preziosa memoria in una banale routine, il dolore bruciante in un manierismo dolciastro, colloso e quasi vuoto di senso"; e aggiunge, infatti: "La Shoah e la fondazione dello stato ebraico hanno generato un bisogno costante di forza e la difesa ossessiva di ogni ebreo, chiunque e ovunque sia". Raggelante all'interno e aggressiva all'esterno, la retorica identitaria comporta in via preventiva la discriminazione dell'altro-da-se' e dispone pertanto alla guerra che va oggi sotto il nome di "Scontro di Civilta'". Nella sua critica radicale, Burg non e' affatto solo se, per altra via, giunge alle sue stesse conclusioni una giovane storica israeliana, Idith Zertal, che in Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia (Einaudi, 2007) parla addirittura di "banalizzazione" dell'Olocausto e di "sistematica nazificazione" del nemico, per cui l'Arabo, ad esempio, ha sembianza immediata di nazista: "Mediante Auschwitz - diventato nel corso degli anni il principale riferimento di Israele nelle sue relazioni con un mondo definito, ripetutamente, antisemita e irrimediabilmente ostile - Israele si e' reso immune da qualsiasi critica ed e' diventato indifferente al dialogo razionale col mondo circostante. Inoltre, pur insistendo, a ragione, sulla specificita' assoluta della Shoah in un'epoca di genocidio e di ecatombi di esseri umani, Israele, a causa della sua utilizzazione sistematica e decontestualizzata della Shoah, e' diventato un esempio lampante di svalutazione del significato e della enormita' della Shoah (sia detto per inciso, il libro di Idith Zertal, davvero straordinario, e' passato da noi in sordina e invece andrebbe letto insieme ad almeno due altri contributi: A precipizio. La crisi della societa' israeliana, Bollati Boringhieri 2004, di Michel Warschawski, un analista sociale che i lettori del "Manifesto" conoscono bene; Zone di turbolenza. Intrecci, somiglianze, conflitti, Feltrinelli 2003, di Stefano Levi Della Torre, che proprio sulla metafisica identitaria ha scritto pagine essenziali. Chi infine volesse appurarne la compravendita e gli abusi mediatici non ha che da aprire il romanzo, esilarante e/o agghiacciante, dell'americana Tova Reich, Il mio Olocausto, Einaudi 2008). Per parte sua Avraham Burg oppone al separatismo israeliano l'universalismo dell'ebreo errante, di fronte allo stato dei rabbini e dei generali non si vergogna di rimpiangere l'umanita' composita di suo padre Yossef, l'ex-tedesco e neo-israeliano, o piu' semplicemente l'ebreo in cammino, perche' Yossef era stato certo un sionista e un uomo perfettamente religioso ma per tutta la sua lunga vita aveva mantenuto fede al proprio essere ebreo tout court. Anche se talora smarginate dalla commozione e un poco prolisse, sono pagine in cui torna attuale una grande eredita' umanistica ed antidogmatica, la stessa che vibrava nelle infinite controversie del Talmud, negli scritti antichi di Maimonide o nei moderni di Hannah Arendt. Unica e' la Shoah, l'evento piu' incommensurabile e sempre a rischio di relativizzazione, ma molti sono gli Olocausti nel secolo che si inaugura col genocidio degli Armeni: chi ha patito la Shoah, ovvero ne riceve intatta la memoria, sa che c'e' un orgoglio nella vittima, cosi' come nell'erede della vittima, e che esso puo' tradursi nell'accecamento: scrive Burg che, davanti al massacro del suo popolo, il vecchio e laconico Yossef avrebbe esclamato ogni giorno in cuor suo "Non accada mai piu'", mentre i rabbini e i generali che detengono il potere in Israele vogliono che il coro gridi unanime "Non accada piu' a noi". 6. RIFLESSIONE. STEFANIA CONSONNI INTERVISTA AVRAHAM BURG [Dal quotidiano "Il manifesto" del 30 novembre 2008 col titolo "Intervista. La Shoah non puo' essere il collante dell'unita' nazionale" e il sommario "Incontro con l'autore del libro Sconfiggere Hitler, appena pubblicato da Neri Pozza. Ha aderito al 'partito degli scrittori' che nascera' il 6 dicembre. Ho notato - dice - una somiglianza fra quanto sta accadendo in Israele e cio' che avvenne in Germania fra Bismark e la fine della Repubblica di Weimar: allora come oggi si oscilla fra trauma e speranza"] In parte riflessione politica condotta sulle spoglie del Labour, in parte autobiografia familiare, Sconfiggere Hitler ripensa la duplice relazione su cui si fonda la percezione di un'odierna identita' israeliana. Il legame con la Germania di Hitler anzitutto, descritto con un'analogia radicale: fra trauma e speranza; e poi quello con i palestinesi, che - come Burg scrisse nel 2003 - "spargono il loro sangue nei nostri ristoranti perche' a casa hanno figli affamati e umiliati". Il libro di Burg ha raccolto l'ostilita' di una parte della popolazione e della classe dirigente del suo paese. Ma le questioni che solleva - la paura, la memoria, l'idea di uno stato ebraico - appaiono tanto piu' cruciali tenuto conto che a febbraio in Israele si votera' per il Parlamento. E che il 6 dicembre a Tel Aviv sara' presentata l'iniziativa di un gruppo di intellettuali fra cui Burg, Oz, Grossman e Yehoshua: un "Left Wing Bang" imperniato su una ricostituzione del rapporto con i palestinesi. * - Stefania Consonni: Nel libro emerge un'analogia fra la Germania pre-nazista e un possibile destino disegnato per Israele da un'"industria della Shoah". Non ha paura di radicalizzare il dibattito? - Avraham Burg: Senza analogie qualsiasi libro diventa astratto. Volevo uno specchio attraverso cui guardare la mia nazione. Conosco la storia tedesca perche' mio padre veniva da li', e tedesche sono le due opere che hanno cambiato la storia ebraica: l'Altneuland di Herzl e il Mein Kampf di Hitler. Ho notato una somiglianza fra quanto sta accadendo in Israele e cio' che accadde in Germania fra Bismark e la fine della Repubblica di Weimar. Perche' dopo la prima guerra mondiale in Germania si e' instaurata una competizione fra due forze. Da un lato il trauma della sconfitta sul campo di battaglia, l'umiliazione nell'arena internazionale; dall'altro un incredibile risveglio della creativita', ad esempio nelle arti liberali. Trauma e speranza si sono fronteggiati. Ha vinto il trauma, portando all'Olocausto. Io non ho fatto che mettere la mia societa' davanti allo specchio e dire: stavolta il trauma non vincera'. * - Stefania Consonni: Perche', come ha detto in un'intervista su "Haaretz", e' "comodo, romantico, nostalgico" ma soprattutto "esplosivo" associare a Israele le parole "ebraismo" e "democrazia"? - Avraham Burg: Definiamo Israele uno "stato ebraico democratico". Bello, ma pericoloso. Per fortuna, si potrebbe dire, ci sono gli arabi: guerre, problemi enormi. Ma ipotizziamo cent'anni di cessate il fuoco. Cosa scopriremo non avendo piu' occasione di ignorare i nostri conflitti interni? Intanto quello fra ebraismo e democrazia. In senso strutturale: democrazia o teocrazia? E' inevitabile che prima o poi la tensione esploda. Per chi si riconosce nella componente ebraica dell'equazione, Israele e' l'inizio di una redenzione, e' qualcosa di escatologico. Ma e' un rischio mescolare politica e messianismo. * - Stefania Consonni: La dimensione memoriale sembra svolgere nel libro un ruolo maieutico rispetto a una psicologia collettiva del trauma. - Avraham Burg: Si', e' perche' non sono affatto sicuro che esista una sola storia collettiva di Israele. Israele e' una societa' giovane, lacerata da una tragica competizione. Chi e' piu' traumatizzato e da cosa? Chi ha vissuto l'Olocausto? O chi ha vissuto Stalin? O i regimi dell'America latina? E' difficile, e' straziante, ma io dico: e' possibile che non ci sia nulla dopo il trauma? Alcuni ne hanno bisogno come di una esperienza fondante, ma non puo' essere il collante di un'unita' nazionale. In America l'elezione di Obama ha rappresentato molte cose fra cui la fine di un trauma, la schiavitu'. Israele pero' ha ancora testimoni viventi del suo trauma. Forse il libro e' uscito troppo presto, ma bisognava scriverlo. * - Stefania Consonni: Non e' tanto la percezione di un nemico, non e' solo la memoria di una persecuzione, a fondare un'identita', lei dice. Come si puo' farlo in Israele oggi? - Avraham Burg: Ci sono tre modi di affrontare il problema dell'identita'. Primo: una neutralita' irrilevante. Perche' mai chiedersi chi si e'? Secondo: "ho subito, dunque esisto". Hitler definisce per me la mia identita'. Terzo: la percezione di un'interiorita'. Se ripenso a come sono stato educato, l'idea era che noi ebrei non siamo sopravvissuti per caso. Il grido di liberta' dell'Esodo echeggia ancora in molti conflitti sociali: viene dalla profondita' antica della tirannia, dal percepirsi rispetto a una "ragione superiore". Io sono un utopista e credo, anche oggi, in una ragione superiore. Non so come sara' la sinfonia, ma per me l'ouverture dice: "Mai piu'". Non perche' sono ebreo: "Mai piu'" per chi sta in Darfur o a Gaza, perche' le vittime di ieri devono fare il possibile per evitare qualunque nuova vittima. * - Stefania Consonni: Nel libro si parla di un sedicenne israeliano indignato dal pacifismo. Alla domanda, "Che auto avete in famiglia?", il ragazzo dice: "Bmw". E aggiunge: "i tedeschi li perdono, gli arabi no". Un complesso incrocio di prospettive. Ce ne vuole parlare? - Avraham Burg: Noi siamo il popolo a cui la Bibbia ha ordinato: "ricorda". Eppure io ho corso la maratona a Berlino; eppure tanti israeliani vivono e lavorano in Germania. Cos'e' successo? Ci sono molti fattori politici, ma soprattutto c'e' stato un salto psicologico: abbiamo cominciato a trasferire odio e paura sugli arabi. Ripensiamo a Menachem Begin negli anni '80. A Reagan che gli chiede di bombardare Beirut, risponde: "Quando bombardiamo Arafat mi sembra di bombardare Hitler a Berlino". E' una retorica onnipresente. Netanyahu, parlando di Ahmadinejad, non puo' che dire: "Siamo tornati al 1938". Non posso certo farne una colpa alla gente, perche' come quel sedicenne molti sono nati in un'epoca in cui la Bmw e' l'auto ministeriale, in cui gli arabi ci uccidono. Ma si e' perso il senso di una gerarchia e una coerenza nel percepire i traumi storici: ecco cosa ci e' successo. * Postilla. Un attivista politico Nato a Gerusalemme nel 1955, Avraham Burg e' figlio di Yossef, ebreo tedesco per quarant'anni ministro di gabinetto del Partito Religioso Nazionale. Nel 1983 aderi' al movimento Peace Now, che manifestava contro la guerra in Libano e venne ferito da una granata durante un attentato a Gerusalemme nel febbraio del 1983, in cui resto' ucciso Emil Grunzweig. Entro' presto nell'establishment politico, diventando nel 1985 consigliere di Shimon Peres per i temi della Diaspora. Nel 1988 approdo' alla Knesset, il Parlamento israeliano, e nel 1992 venne rieletto nelle file laburiste, assumendo l'incarico di presidente della Commissione Istruzione e Cultura. Divento' successivamente presidente dell'Agenzia Ebraica Israeliana e del Movimento Sionista Mondiale (1995), lavorando fra l'altro per la restituzione delle proprieta' ebraiche sottratte durante la persecuzione. Dal 1999 per quattro anni e' stato presidente della Knesset. Nel 2003 ha pubblicato un controverso articolo sul quotidiano "Yedioth Ahronot", in cui perorava il ritiro dai territori palestinesi. ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 281 del 6 gennaio 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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