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La domenica della nonviolenza. 196
- Subject: La domenica della nonviolenza. 196
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 28 Dec 2008 12:20:43 +0100
- Importance: Normal
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 196 del 28 dicembre 2008 In questo numero: 1. Michele Nani presenta alcuni recenti saggi di storia sociale 2. Michele Nani presenta "Tenere le fila" di Vanessa Maher 3. Michele Nani presenta "C'era una volta il mondo nuovo" di Marco Fincardi 4. Michele Nani presenta "Acciai speciali" di Alessandro Portelli 5. Loris Campetti presenta "Acciai speciali" di Alessandro Portelli 6. Cesare Segre presenta le "Opere" di Francois Villon 1. LIBRI. MICHELE NANI PRESENTA ALCUNI RECENTI SAGGI DI STORIA SOCIALE [Dal quotidiano "Il manifesto" de 31 luglio 2008 col titolo "Prospettive di classe. Quel che resta delle ricerche sul proletariato" e il sommario "La sconfitta del movimento operaio non ha determinato la fine delle divisioni sociali, ma segna il passaggio della struttura sociale da una forma di unita' del lavoro a un'altra, ancora tutta da costruire e da interpretare"] "Addio alla classe operaia?": a partire da questo interrogativo, con il quale si cercava di problematizzare un'espressione che risaliva a un celebre saggio di Andre' Gorz, nell'aprile del 2000 la direzione dell'"International Labor and Working-Class History" pubblicava un ampio dibattito sulle prospettive della storia dei lavoratori. Il saggio di apertura, intitolato appunto Farewell to the Working-Class?, era affidato a due importanti studiosi, Geoff Eley e Keith Nield. Vi si sosteneva la necessita' di superare le polemiche che per vent'anni avevano arroventato la labour history, fra studiosi fedeli a un'impostazione di storia sociale della classe operaia e fautori di un approccio "culturalista". La scomposizione odierna della classe, facevano rilevare gli autori, invitava a considerare con occhio diverso il lavoro della sua composizione e ricomposizione in oltre un secolo di storia. Li' stavano le ragioni dei "culturalisti": nello sganciamento della formazione della classe operaia da schemi troppo rigidamente legati a una prospettiva economicistica e deterministica. In realta' era stato lo scambio continuo fra lavoratori, organizzatori e intellettuali socialisti a costruire lo spazio per una politica di tipo nuovo, che aveva avuto nella "classe operaia", come soggetto storico e come rappresentazione collettiva, il proprio fulcro, ma che era stata tutt'altro che corporativa o settoriale, poiche' aveva saputo unificare attorno alle organizzazioni di classe un ampio spettro di rivendicazioni e di identita' sociali. Da quella vicenda venivano anche lezioni per il presente. * La pragmatica della buona fede L'attacco neoliberale di Reagan e Thatcher ha mostrato l'importanza della dimensione politica, un tema peraltro al centro di un'ampia sezione di Forging Democracy, il volume nel quale lo stesso Eley ha ricostruito un secolo e mezzo di storia della sinistra europea. La sconfitta del movimento operaio, ben lungi dall'implicare la scomparsa delle classi, ha segnalato un passaggio di struttura sociale, da una forma secolare di "unita'" del lavoro a un'altra, tutta da costruire. Eley e Nield, infine, delineavano un ruolo attivo degli studiosi. Rileggere i processi passati di costruzione della classe significherebbe continuare a evocare le potenzialita' alternative racchiuse nel presente e nutrire le progettualita' odierne: si e' potuto fare, dunque si puo' ancora fare. L'intervento del 2000 costituisce la traccia di un volume, da poco uscito per le edizioni dell'Universita' del Michigan, dal titolo impegnativo e felicemente ambiguo (The Future of Class in History. What's Left of the Social?), che gioca sul nesso fra politica e cultura: "il futuro della classe nella storia" puo' alludere alle sorti di una categoria interpretativa in un campo del sapere, ma anche ai ben piu' ampi destini della classe lavoratrice nel nostro futuro. Eley e Nield insistono sulla "pragmatica della buona fede" e sulla necessaria tregua fra eredi della storia sociale e propugnatori della "svolta culturale". Il fair play e' senz'altro produttivo, ma la proposta resta per piu' di un verso discutibile. Da quasi trent'anni, dal vecchio articolo Why does Social History Ignore Politics? ("Social History", 1980) fino al dibattito del 2000 rievocato sopra, i loro ragionevoli appelli, per esplicita ammissione dei due, cadono costantemente nel vuoto. Si tratta di un segnale, non tanto delle cattive maniere o del pessimo carattere degli storici, bensi' dell'irriducibile conflittualita' che costituisce il motore stesso del campo storiografico e delle sue articolazioni, un campo che non presenta l'andamento "paradigmatico" caro a Thomas Kuhn e non arriva mai a definire una "scienza normale". La stessa ispirazione riconciliativa di Eley e Nield rappresenta uno specifico posizionamento nelle lotte che attraversano il campo, nel quale i due sono figure tutt'altro che marginali: specialista di storia tedesca e della sinistra europea, membro di uno dei piu' importanti dipartimenti di storia al mondo (Universita' del Michigan) il primo, condirettore di una rivista del calibro di "Social History" e professore emerito all'Universita' di Hull il secondo. * Attenzione al linguaggio Nel merito, come e' stato notato da piu' parti, la proposta di sintesi concede forse troppo credito alla "svolta linguistica" e all'importazione negli studi storici dell'arsenale "post-strutturalista", ma ha il pregio di conservare il meglio della tradizione della storia sociale nata dalla lezione di Edward P. Thompson e poi maturata lungo molti differenti percorsi. E' un campo di studi ricco e articolato, irriducibile alla caricatura marxista-ortodossa e riduzionistica che ne fanno i detrattori odierni, un settore vivo e in continuo aggiornamento, senza bisogno di rinunciare a categorie fondamentali come quella di "classe sociale". Non si tratta di esorcizzare il rinnovamento degli ultimi vent'anni, ma di discernerne gli apporti: la classe e' costantemente intrecciata ad altre identita' (prima di tutto quella di genere); nella migliore delle accezioni il culturalismo rappresenta un salutare recupero della storicita' delle categorie interpretative di cui si servono gli studiosi e una altrettanto feconda attenzione al linguaggio degli agenti sociali concreti dei quali si ricostruiscono le vicende; il ritorno alla "storia politica" non implica una chiusura negli spazi istituzionali, ma anzi un allargamento della nozione di "politica" e della stessa idea di Stato, con Foucault e con Gramsci. Sul terreno della storia, queste prospettive sono senz'altro compatibili con la sensibilita' al peso delle regolarita' strutturali capitalistiche nella produzione di ineguaglianza sociale, all'importanza delle situazioni lavorative concrete, delle reti di relazione urbane e familiari. Meno produttive sono le proposte di una fuoriuscita netta da queste problematiche, perorate da storici autorevoli in nome dell'autonomia della politica. Eley e Nield ricostruiscono efficacemente le traiettorie di quattro importanti studiosi di storia sociale (gli inglesi Patrick Joyce e Gareth Stedman Jones e gli statunitensi Joan Scott e William Sewell) protagonisti dell'ondata di ricerche degli anni '70, poi nel decennio successivo fra i principali fautori del rifiuto del presunto determinismo della "formazione sociale" in nome delle "pratiche discorsive". In realta' mentre il postmodernismo storiografico radicale ha prodotto poche opere di ricerca e si riduce a un continuo commento dei suoi fautori su lavori altrui, nel campo della storia del lavoro la proposta eclettica di svolta "culturale" ha dato spesso vita alla riedizione di una raffinata storia delle idee, a una pratica storiografica dedita all'esame di scritti a stampa e di piccoli gruppi di individui. I toni dell'attacco a una storia sociale definita "vecchia" solo per far meglio risaltare la - dubbia - "novita'" dei nuovi orientamenti lasciano spazio a un singolare silenzio dinanzi all'esistenza di precisi limiti all'accesso alla presa di parola e di condizionamenti alle forme stesse del discorso (ad esempio i problemi legati alla produzione e ricezione degli stessi scritti), cosi' come non si interrogano sull'esistenza di movimenti sociali di massa, la cui presa ed efficacia non e' riducibile alla potenza del discorso. Che le realta' passate siano accessibili soprattutto per via linguistica non significa che il discorso sia l'unica realta' storica, come ha da tempo sostenuto Roger Chartier, curiosamente qui non ripreso, come gran parte dell'importante riflessione francese in materia (basti pensare alla concezione delle classi in Bourdieu, affine a quella degli autori e senz'altro teoricamente piu' rigorosa). * Due genealogie armoniose Nonostante si soffermi per lo piu' sulla storiografia di lingua inglese, e dedichi poca attenzione sia alla dimensione globale dei fenomeni, sia alla ricca produzione sociologica in merito all'analisi di classe, The Future of Class in History resta un libro importante. Come Dennis Dworkin (autore di una importante sintesi sullo stesso tema), gli autori sono convinti della valenza generale della parabola, soprattutto britannica, della storiografia qui ricostruita, e lo mostrano ad esempio attraverso confronti con il caso statunitense, ove un ruolo analogo a quello di Thompson e' stato giocato dalla sociologia storica di Charles Tilly, autore recentemente scomparso. Anche sul continente, gli anni '60 e '70 sono stati un periodo di innovazione storiografica collettiva (un riscontro per le vicende nostrane si puo' trovare, ad esempio, nello studio Marxismo e storia di Paolo Favilli). In quel felice periodo si armonizzarono le due genealogie della storia della classe operaia: da un lato l'identificazione con i subalterni e l'apertura della storiografia alle loro vite, dall'altro il dialogo con le scienze sociali, nel segno della possibilita' di comprendere la societa' nel suo complesso, della priorita' analitica del contesto sociale e della logica universalistica della comparazione fra casi specifici. La loro dissociazione, che qualcosa deve alla crisi del socialismo e del marxismo, ha condotto al declino anche storiografico della "classe" come strumento di lettura del mondo. Ma Eley e Nield, sulla scorta dei lavori di piu' giovani studiosi che intrecciano sul terreno di ricerche concrete le prospettive "sociali" e "culturali", ci ricordano che quello strumento non ha solo un passato, ma puo' avere anche un futuro. * Postilla bibliografica. Operai su carta e su web In edizione cartacea l'"International Labor and Working Class History" e' quasi introvabile in Italia (gli indici sono su www.newschool.edu/nssr/ilwch). Tradotta in portoghese e castigliano, Forging Democracy di Eley (Oxford UP 2002) e' in attesa di traduzione. Su A Crooked Line, ancora di Eley (Michigan UP 2005) e sul testo di Dworkin (Class Struggles, Pearson 2007), cosi' come su La politica del conflitto di Tilly e Tarrow (Bruno Mondadori 2008) si dovra' tornare. Marxismo e storia di Paolo Favilli e' uscito per Franco Angeli nel 2006. Meriterebbero infine una riedizione The Making of the English Working Class (1963) di Edward P. Thompson (l'unica edizione italiana, merito del Saggiatore, risale al '69) e la splendida raccolta Societa' patrizia e cultura plebea, a cura di Edoardo Grendi (Einaudi 1981). 2. LIBRI. MICHELE NANI PRESENTA "TENERE LE FILA" DI VANESSA MAHER [Dal quotidiano "Il manifesto" del 20 aprile 2008, col titolo "Subalterne e emancipate, i due volti delle sartine torinesi" e il sommario "Dall'espansione ottocentesca, quando le lavoratrici dell'abbigliamento nel capoluogo piemontese erano migliaia, fino al declino degli anni '60. Un secolo di storia sociale ricostruito da Vanessa Maher nel saggio Tenere le fila per Rosenberg & Sellier"] La storia e l'immagine della Torino novecentesca sono segnate dalla grande industria, simboleggiata dalla Fiat e dal suo esteso indotto. All'ombra del Lingotto e di Mirafiori, tuttavia, si svilupparono anche forme diverse di organizzazione della produzione. La piu' importante di queste esperienze fu quella dell'industria dell'abbigliamento, definita gia' nel 1922 dai dirigenti sindacali una "fabbrica sezionata". La sartoria torinese fu significativa per piu' di una ragione. Economicamente i grandi atelier del centro cittadino fecero di Torino una vera e propria capitale della moda, seconda solo a Parigi e ad essa stabilmente connessa, anche per via di una lunga integrazione produttiva con la Francia, che risaliva all'industria tessile del Sei-Settecento. Dal punto di vista sociale, questo comparto produttivo occupava decine di migliaia di lavoratrici, che all'inizio del secolo costituivano gia' un quinto della forza-lavoro torinese complessiva. Infine, non va dimenticato il rilievo culturale di questa attivita', che produceva i simboli del prestigio e della piccola distinzione, i segni che rendevano concrete e visibili le classificazioni e le gerarchie sociali, importanti nelle fasi di mobilita' sociale e in una citta' ove il peso della nobilta' resto' notevole fino a tutto il ventennio fascista. Di questo mondo dimenticato ci parla Tenere le fila. Sarte, sartine e cambiamento sociale 1860-1960 (Rosenberg & Sellier, pp. 391, euro 32), un libro di storia sociale del lavoro che raccoglie i risultati della lunga e ampia ricerca di Vanessa Maher - una ricerca di etnografia storica, nella quale l'analisi di una serie di interviste dei primi anni Ottanta a sarte che si formarono durante il fascismo si intreccia allo spoglio di un vasto insieme di fonti coeve e di studi, grazie ai quali e' possibile ricostruire le dinamiche piu' ampie ed effettuare confronti con altri contesti di sartoria e con pratiche sociali affini o prossime. L'industria torinese dell'abbigliamento ha conosciuto una vera parabola: alla grande e rapida espansione fra Otto e Novecento, proseguita fino alla meta' del secolo, ha fatto seguito un lento declino, dettato dalla fine dell'apprendistato, dal calo della domanda dovuto allo sviluppo della produzione in serie, dall'ascesa di Milano a capitale della moda e della dispersione della produzione del "made in Italy" nell'industria sommersa del Mezzogiorno. Il tramonto della sartoria non basta tuttavia a dar conto della sua scomparsa dalla memoria e dagli studi. L'autrice argomenta un'ipotesi convincente: e' stata la femminilizzazione del mestiere a determinare le possibilita' di espansione del settore (per via del decentramento a domicilio reso possibile dalle macchine da cucire: con conseguente taglio dei costi e dei salari dell'ordine del 50%), la sua fortuna (anche per la disponibilita' di apprendiste alle quali era negato l'accesso all'istruzione e per la difficolta' di organizzare vertenze) e infine la rimozione, dovuta all'invisibilita' sociale di un lavoro femminile e domestico che non sembrava compatibile con le epopee del boom e del movimento operaio. Contribuirono a questo esito anche alcuni caratteri propri del mestiere. Quello della sarta non era un lavoro dequalificato, si trattava anzi di un sapere artigianale di lento e difficile apprendimento, che rappresentava un investimento per le famiglie (il possesso del mestiere equivaleva a una dote), ma anche l'imposizione alle figlie di una identita' sociale e di genere subalterna. Il ciclo di vita della sarta passava per una formazione complessa che aveva luogo negli atelier, governati da una direttrice e da una premiere, o prima sarta, accanto all'unico ruolo maschile, quello del sarto tagliatore di stoffe (coupeur). Si cominciava come cita, occupandosi di filo, spilli, pulizie e consegne; quindi si diveniva seduta o fancell e si passava al primo apprendistato (ad esempio come orlatrice), fondamentale perche' in quella fase si doveva letteralmente "rubare il mestiere", cioe' quel sapere quasi intuitivo incorporato nei gesti e nei trucchi delle sarte che non poteva trasmettersi mediante un insegnamento formale, ne' tantomeno verbale; molte rinunciavano, ma chi riusciva nell'opera diventava aiutante o lavorante, cioe' una sarta salariata. A quel punto la ragazza poteva anche cambiare laboratorio e magari provare a mettersi in proprio, una scelta che diveniva obbligata in caso di matrimonio, poiche' questo implicava il licenziamento: di li' la miriade di piccole botteghe domestiche che contornavano i grandi atelier e sostenevano una domanda piu' ampia rispetto a quella del lusso e della moda. Questo itinerario fondava comportamenti ambigui: sarte e sartine godevano di una mobilita' territoriale e professionale notevole, ma soprattutto attraversavano i confini fra le classi. Li eludevano concretamente, poiche' le ragazze conoscevano clienti dell'alta societa', si accompagnavano a studenti e comunque piu' facilmente a impiegati o periti che a operai. Pur subalterne, producevano alcuni dei simboli attraverso i quali l'ordine sociale si manifestava nella sfera pubblica e questo saper fare le portava a confezionare per se' i capi alla moda, sovvertendo cosi' sia il nesso fra collocazione di classe e aspetto fisico, sia il monopolio delle signore sul gusto riconosciuto. Le sarte si emancipavano cosi' dalle costrizioni delle famiglie di origine e sperimentavano una certa liberta' sessuale e forme di controllo sulla riproduzione che le portavano a fare meno figli della media. Questi tratti produssero gli stereotipi della "sartina" frivola e leggera e quelli della lavoratrice inaffidabile perche' portata a tradire la propria classe. In realta' anche la sartoria torinese fu attraversata da frustrazioni e risentimenti, che talora sfociarono in aperto conflitto, come negli scioperi del 1883 e del 1906, contraddistinti da cortei dal sapore carnevalesco, con parodia delle clienti borghesi. A Torino la sartoria costituiva la seconda occupazione femminile (dopo il servizio domestico), ma l'organizzazione, come per tutto il lavoro a domicilio, fu difficile. L'esperienza dell'apprendistato era comunque diffusissima e per questo negli atelier passarono molte delle donne poi attive nell'antifascismo e nella Resistenza, come la futura dirigente comunista Teresa Noce, che la ricostrui' nelle prime pagine della sua autobiografia Professione rivoluzionaria. Un vero contratto sindacale per la sartoria si ebbe solo nel 1947, ma come segnala l'esperienza del Circolo delle Caterinette, sorto qualche anno dopo in risposta al trasferimento dell'Ente Moda, la percezione del declino era ben presente, alimentata dalla scolarizzazione che sottraeva apprendiste a laboratori e botteghe, dall'orientamento della domanda verso la produzione di massa di vestiti economici e quindi dalle piu' frequenti rinunce al mestiere da parte delle sarte: un lavoro reso insostenibile dalla mancanza di assistenti sottopagate, dal calo della clientela popolare e dal carico di lavoro domestico e di cura non condiviso con i mariti. 3. LIBRI. MICHELE NANI PRESENTA "C'ERA UNA VOLTA IL MONDO NUOVO" DI MARCO FINCARDI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 luglio 2008 col titolo "Conquiste e fallimenti delle 'piccole Russie'" e il sommario "Saggi. Il mito dell'Urss nella memoria dei militanti emiliani"] Marco Fincardi, C'era una volta il mondo nuovo. La metafora sovietica nello sviluppo emiliano, Carocci, pp. 287, euro 23,50. * "Quella citta' la', Mosca, secondo me era in parte la', in parte invisibile, che non e' mai esistita. Questa fedelta' a Mosca era da una parte una fedelta' a una metafora... e dall'altra parte era una creazione autonoma, legata a una grande tensione di solidarieta' umana, sociale": intervistato nel 1992, cosi' Loris Malaguzzi, maestro e pedagogista, fra i costruttori delle scuole d'infanzia reggiane, sintetizzava il rapporto con l'Unione Sovietica negli anni successivi alla Liberazione. Queste considerazioni possono costituire una delle chiavi di lettura di un libro importante, frutto della lunga consuetudine di Marco Fincardi con le testimonianze orali, la cultura popolare e i movimenti sociali. C'era una volta il mondo nuovo tenta di "decifrare le simbologie dell'esperienza politica memorizzate dai militanti" nel loro affiorare durante le interviste, mettendole a confronto con altre serie documentarie, per rileggere la storia di oltre mezzo secolo di movimento dei lavoratori a Reggio Emilia. Fincardi ci restituisce una vicenda ormai lontana, ma che interroga ancora il nostro presente. Al centro dell'indagine sono le trasformazioni del riferimento all'Urss in contesti e tempi diversi, dunque la circolazione internazionale di modelli, idee ed esperienze: non il "mito sovietico" letto in blocco sulla base di un giudizio politico, ma gli elementi simbolici che aiutarono a dare un senso complessivo a una trasformazione pratica radicata nel territorio e a una specifica forma di lotta di classe, collocandole in un tempo storico e uno spazio piu' ampi. Nel rendere il tessuto di riferimenti della memoria dei militanti reggiani, Fincardi affronta criticamente alcuni luoghi comuni storiografici. Il 1917 forni' ai lavoratori la realizzazione di un "mondo senza padroni", un'immagine che aveva tuttavia una storia piu' lunga: si era cristallizzata nelle utopie internazionaliste e collettiviste del movimento operaio, ma anche nelle esperienze organizzative concrete, come a Reggio Emilia, dove il socialismo "prampoliniano" era gia' egemone prima della rivoluzione russa. Sconfitto e distrutto dal fascismo, quel modello non costitui' quindi una "subcultura" territoriale persistente: nuclei di cultura sovversiva furono invece trasmessi attraverso l'interazione continua fra le "piccole Russie" e la grande Unione Sovietica. Negli anni del fascismo, il rancore sociale e i valori collettivisti trovarono rifugio nel socialismo di villaggio o di quartiere, isole di "mondo nuovo" che vedevano nell'Urss una garanzia di progresso e di emancipazione. Questa rete di figure, gesti e riti non costitui' una minaccia per il regime, ma non fu nemmeno veicolo di passivita' o fatalismo. Contro una lettura in chiave religiosa o meramente ideologica della cultura di classe, Fincardi sottolinea il carattere secolare di quelle esperienze e la loro tensione verso una prassi concreta. Le "piccole Russie" infatti crearono le basi per una dissidenza diffusa, che si politicizzo' e ando' a ingrossare le fila del Pcdi clandestino. I risultati furono l'ampio radicamento territoriale della Resistenza e l'impressionante spinta popolare alla costruzione effettiva di una forma di "socialismo", attraverso il partito, il sindacato e le cooperative (ove quadri e dirigenti erano per la prima volta di estrazione operaia), ma anche mediante un tessuto di esperienze di solidarieta', di emancipazione e di auto-organizzazione: asili, colonie e assistenza ai bambini in difficolta'; occupazione o ricostruzione di sedi e spazi; cellule territoriali comuniste, assemblee di caseggiato e lavoro volontario come momenti di costruzione dal basso di una nuova societa'. Lo smantellamento della grande fabbrica (le Reggiane), nel quadro della ristrutturazione dell'industria emiliana, tolse al movimento operaio una naturale "avanguardia" e un riferimento sociale e ideale. In questo quadro, che vedeva la fascia "rossa" dalla Spezia a Ferrara e Piombino isolata nel paese e quasi assediata (anche fisicamente, dalle forze di polizia), il moltiplicarsi e irrobustirsi delle "piccole Russie" non costitui' un elemento di chiusura o di localismo. Il nuovo modello reggiano, forse per aver assimilato, attraverso la riflessione comunista, la lezione della sconfitta del 1921-22, mostro' da subito una spiccata vocazione nazionale e persino internazionale. L'attiva solidarieta' fu accompagnata dalla migrazione politica dei quadri, dalla formazione tecnica e dal tentativo di esportazione del modello cooperativo nel Mezzogiorno. Non solo conquiste e realizzazioni, ma anche illusioni, drammi e fallimenti segnarono i processi al centro di questo volume. Con una lezione di metodo, Fincardi ci invita tuttavia a non rifugiarci negli schemi ideologici dello "stalinismo" o nell'attenzione prevalente ai gruppi dirigenti e agli intellettuali. In quelle periferie rurali del comunismo internazionale il "capitale simbolico" sovietico fu investito nelle pratiche concrete di migliaia di lavoratori, che contro i loro consueti avversari seppero costruire davvero un "mondo nuovo", per quanto non durevole. 4. LIBRI. MICHELE NANI PRESENTA "ACCIAI SPECIALI" DI ALESSANDRO PORTELLI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 dicembre 2008 col titolo "Sapere operaio. Storia e storie della citta'-fabbrica" e il sommario "Con Acciai speciali, Alessandro Portelli propone, vent'anni dopo Biografia di una citta', una nuova storia corale di Terni. Passioni, rabbie e conflitti che intrecciano dimensione locale e globalizzazione"] "E quando ho ricevuto la notizia che il mio collega non ce l'aveva fatta stavo giu' a Napoli. In un primo momento me ne scappai dentro la camera da letto vicino alla foto di mio padre e incominciai a piangere. E ti giuro, vederti un mozzicone di otto anni che ti viene vicino e te dice, Papa' non piangere, se hai la possibilita' fagliela pagare a 'sti crucchi di merda - e' un bambino, significa che ha gia' capito tutto della vita". La dolorosa testimonianza di un lavoratore della ThyssenKrupp di Torino evoca le parole di O cara moglie (la canzone di Ivan della Mea del 1968) o quelle coeve di una lettera di Rodari a Bollati ("i bambini non vivono in un 'mini-mondo', ovvero stanza dei giocattoli, ma nello stesso mondo degli adulti... e il mondo degli adulti il bambino lo vede e lo giudica"). Assieme a decine di altre, la testimonianza di Giovanni Pignalosa va a comporre lo straordinario mosaico di Acciai speciali, l'ultimo libro di Alessandro Portelli (Donzelli, pp. 229, euro 25). Con l'idea di aggiornare, vent'anni dopo e migliaia di posti di lavoro in meno, Biografia di una citta' (Einaudi 1985), la storia corale di Terni basata sulle fonti orali, Portelli e' tornato in Umbria a raccogliere interviste nel fuoco delle lotte del 2004-2005. La citta' aveva mostrato le stesse reazioni del 1952-1953: la rabbia operaia e la solidarieta' comunitaria avevano risposto all'annuncio di un migliaio di licenziamenti, proprio come a quello dei tremila di mezzo secolo prima. Se storia e cronaca del conflitto sembrano confondersi, restano tuttavia indelebili le differenze: prima fra tutte il senso della storia e della continuita'. Il "socialismo" e la "vittoria" finale sono scomparsi e con essi l'idea stessa di un futuro utopico ma possibile. La classe operaia ternana e' stata ridimensionata, scomposta dalla quota crescente di lavoro appaltato a ditte esterne, faticosamente ricomposta da nuove ondate generazionali, piu' scolarizzate e piu' precarie, che spesso vivono la fabbrica come blocco della mobilita' sociale e perdita di status. L'immagine "deprezzata" dell'operaio - per servirci dell'espressione di un altro intervistato - non traduce tanto la riduzione quantitativa del lavoro manuale o un'offensiva mediatica di antico sapore classista, ma un mutamento dei rapporti di forza nella societa'. Queste trasformazioni rimandano anche all'allontanamento della politica e dell'"alta" cultura dai mondi operai, dalla scelta di non rappresentarli o dalla difficolta' di trovare le forme per imporne la voce nella sfera pubblica: che accompagna e approfondisce la disaffezione operaia per la politica, drammaticamente assente nelle interviste ternane. Le rotture non vanno tuttavia enfatizzate e Portelli mostra con maestria come le stesse culture giovanili siano contaminate da tratti della "storia profonda" della citta' e della cultura di fabbrica: il collettivo antifascista "Brigata Cimarelli", l'antagonismo antitedesco che recupera la memoria resistenziale e perfino gli studenti, figli di operai italiani e rumeni, che improvvisano una sassaiola in stazione una volta appreso dell'arrivo dei rappresentanti dell'azienda. Resta soprattutto il "sublime operaio", come lo definisce acutamente Portelli: la coscienza dell'immenso potere di trasformazione che risiede nelle mani dei lavoratori, base della produzione dei beni e del loro valore, che si sposa alla coscienza di una doppia espropriazione, lo sfruttamento economico e l'esclusione dalle decisioni fondamentali. Persino l'abbinata fra calcio e conflitto sociale, una costante ternana, riemerge in forme imprevedibili: una delegazione di fabbrica entra in campo e ritarda l'avvio della partita, accolta dalla curva rossoverde con slogan che si penserebbero desueti ("il potere dev'essere operaio"); poi, quando il parlamento europeo si riunisce per valutare il comportamento della ThyssenKrupp, un "movimento spontaneo operaio", nell'autodefinizione dei giovani lavoratori che lo costituiscono, organizza un pullman per presenziare alla seduta e dinanzi al rifiuto delle autorita' locali lo paga per meta' con una colletta, mentre l'altra meta' e' offerta dalla Ternana. Un anno dopo la reazione del 2004, la vicenda si chiude con un secondo affondo dell'impresa, che sancisce la fine del reparto di eccellenza dell'acciaio "magnetico", con salvaguardia dei livelli occupazionali e stabilizzazione di parte dei contrattisti: una strategia calibrata, che divide non solo la politica locale e i sindacati, ma anche gli stessi lavoratori. Del gioco della multinazionale fa parte anche la successiva chiusura degli impianti torinesi, con trasferimento temporaneo di alcune decine di operai a Terni e disinteresse per le norme di sicurezza in una produzione a termine che fa ampio ricorso agli straordinari per coprire i buchi di organico: con gli esiti tristemente noti del dicembre 2007. I rischi sono presenti anche a Terni, dove due operai che lavorano in appalto trovano la morte negli stessi anni, una pletora di infortuni scandisce i tempi della produzione e dopo l'amianto incombono le malattie professionali da polveri. La storia di Acciai speciali non e' quella di un piccolo pezzo di mondo, ma l'intreccio locale di tante storie ben piu' larghe e profonde. La storia della "globalizzazione", con la direzione d'impresa unita e sostenuta da governi e istituzioni, e gli operai divisi, non solo da Terni a Torino, e fra Italia e Germania (nonostante i comitati d'impresa a livello europeo, peraltro qui menzionati di sfuggita solo da un sindacalista), ma fino in India, Brasile e Stati Uniti. La storia dell'autoritarismo delle multinazionali, che stipulano accordi per prendere tempo e li sconfessano una volta esaurita la fase calda della lotta: un potere che funziona solo a distanza, che fugge scortato dalla polizia dinanzi all'assedio operaio (dalle porte secondarie dell'albergo ternano come da quelle della sacrestia ai funerali torinesi) e che vive patologicamente il conflitto (a un responsabile delle risorse umane in India sconsigliano di visitare gli stabilimenti di Terni: "Arrivi con le tue gambe, ma non e' detto che con le tue gambe te ne vai"). La storia delle privatizzazioni, viste per trent'anni come rimedio a tutti i mali e, soprattutto, promosse dai governi senza alcuna garanzia sociale o indirizzo. La storia delle difficolta' sindacali e del riflusso dopo i compromessi, vissuti come sconfitta e tradimento, fino alla sfiducia dei lavoratori nelle possibilita' stesse di una democrazia sui luoghi di lavoro, per la doppia impotenza, dei sindacati di fronte alle imprese e dei lavoratori di fronte al sindacato. Eppure, in un contesto cosi' difficile, dobbiamo essere grati a Portelli e ai suoi interlocutori, perche' hanno saputo raccontarci anche la storia del sempre nuovo "crogiolo" rappresentato dalle lotte sociali, al di la' e contro tutti i luoghi comuni sui giovani, sugli operai e sugli immigrati. 5. LIBRI. LORIS CAMPETTI PRESENTA "ACCIAI SPECIALI" DI ALESSANDRO PORTELLI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 dicembre 2008 col titolo "Memorie. Frammenti di classe nelle voci dei protagonisti"] Una cosa che gli imprenditori e tanti politici, per quanto si sforzino, proprio non riescono a capire e' la cultura operaia - meglio, le culture operaie, diverse, frantumate, ma unite da valori condivisi. Pensano che ci sia una sostanziale equivalenza tra lavoro e salario, per cui sarebbe sufficiente garantire un reddito per risolvere il problema determinato da una crisi industriale, o da un processo di riorganizzazione globalizzata. Se cosi' fosse, basterebbe spostare un operaio da un posto all'altro, o tenerlo a casa in cassa integrazione. Le cose pero' stanno diversamente: se per chi vive fuori da un gigante d'acciaio, il lavoro e' solo un'appendice della macchina, pura variabile dipendente del meccanismo di accumulazione, per l'operaio siderurgico il lavoro e' insieme maledizione e condizione vitale. Non identificazione, perche' la fabbrica e' un mostro che inghiotte braccia e cervelli, pur non riuscendo a cancellare la domanda di senso di quel che si fa, ne' ad annullare la volonta' di farlo nel modo migliore, a costo di mettersi in gioco per difendere la dignita' o persino la vita. Fabbrica e' insieme lavoro, territorio, soggettivita', bisogni e vissuti diversi. Puo' essere piu' doloroso perdere il lavoro che il salario, se ci si ostina a pensare oltre che a se' e all'immediato, anche al futuro, ai figli e ai compagni piu' giovani, alla struttura sociale e culturale in cui il lavoro si esercita. L'ultimo libro di Alessandro Portelli, Acciai speciali, e' il migliore aiuto per capire qualcosa della complessita' di questa condizione. E' dalla stagione lontana delle inchieste operaie che non si ritrova tanto rigore nell'indagare su un frammento di classe, senza la pretesa di suggerire a ogni intervista "la" chiave di lettura. La linea, si diceva un tempo. In Acciai speciali troverete le parole, le passioni, la rabbia degli operai, l'orgoglio di chi pensa che l'unica battaglia persa sia quella che non si e' combattuta. Il luogo e' Terni, citta' fabbrica ancor piu' di Torino. Chi da' voce ai protagonisti (che sono insieme operai, ultras, innamorati, magari cocainomani, italiani o rumeni ma comunque ternani) resta sempre nascosto dietro le quinte. Solo alla terzultima pagina Portelli si concede la parola: "Uno come me, che ha sempre lavorato con l'immaterialita' delle parole, non puo' evitare di sentirsi un po' intimidito di fronte alla concretezza dell'acciaio e dei suoi saperi. Tanto piu' che fin dai miei primi incontri con la cultura operaia mi sono accorto che quelli che danno forma all'acciaio sanno quasi sempre dare forma anche alle parole". La storia dell'acciaieria di Terni e' lunga decenni, la memoria dei padri e' trasmessa ai figli e ai nipoti, le microstorie si contraddicono e si accavallano, lotta dopo lotta. Scioperi, occupazioni, presidi ai cancelli, blocchi stadali e ferroviari per difendere, insieme ai posti di lavoro, i saperi, la cultura degli individui e della citta' che ha per simbolo la pressa della prima acciaieria, una icona e un monumento nella piazza della stazione. L'ultima battaglia per salvare il magnetico dal padrone tedesco che vuole ridislocare le produzioni migliori la' dove lavoro e diritti valgono ancora meno che a Terni o a Torino, ha ricostruito i legami della citta', in una rinata solidarieta' con i suoi operai, che rifiutano la svalorizzazione del lavoro. Una battaglia piu' persa che vinta, quando le solidarieta' nella citta' e nella fabbrica si allentano. Il magnetico se ne va, il lavoro resta ma svuotato, l'Italia acquistera' dall'estero quello stesso prodotto. Operai maleducati rispetto ai padri, con slogan piu' da stadio che da fabbrica, orgogliosi, persino campanilisti. Un bene comune per una citta' di provincia che non voglia perdersi. Di lavoro, a Terni come a Torino, si vive e si muore. Ma a Terni si muore piu' che nelle acciaierie tedesche dello stesso padrone ThyssenKrupp. E ancora di piu' si muore a Torino. La battaglia degli operai umbri viene scavalcata dal dramma consumato a Torino, sette operai bruciati in nome del profitto. Nelle tasche e nei computer dei dirigenti del gigante tedesco sono state trovate le carte che spiegano come loro intendono la sicurezza: massima a casa, in Germania, appena accettabile a Terni dove l'acciaieria si impoverisce con la perdita del magnetico, quasi nulla a Torino perche' di quella fabbrica e' stata decretata la fine e non si buttano soldi per garantire la sicurezza in uno stabilimento morente. Neanche gli estintori funzionavano e sette operai sono stati uccisi, insieme alla fabbrica, alla tredicesima ora di lavoro perche' lassu' erano rimasti in pochi, gli altri licenziati con buonuscita, cassintegrati, trasferiti a Terni. La strage nel libro di Portelli e' vista e raccontata da Terni, fa riflettere, fa piangere e incazzare come ai funerali delle vittime, dove si buttano giu' per le scale della chiesa le corone del padrone. Si ricostruiscono i nessi di una globalizzazione che frantuma e mercifica il ciclo produttivo e le persone. Portelli vola in India e nel mondo per scoprire questi nessi nel racconto dei protagonisti. Il processo a sei dirigenti della multinazionale tedesca sta per iniziare. L'accusa e' inedita: omicidio volontario con dolo eventuale, erano cioe' a conoscenza dei rischi che facevano correre ai loro dipendenti, ma ritenevano piu' importante salvaguardare i profitti del padrone che le vite di chi li rendeva possibili. Ma questa e' cronaca. La storia e' quella che Portelli fa raccontare ai lavoratori. 6. LIBRI. CESARE SEGRE PRESENTA LE "OPERE" DI FRANCOIS VILLON [Dal "Corriere della sera" del 31 ottobre 2000 col titolo "Francois, il poeta ladro e assassino" e il sottotitolo "Il 'Meridiano' di Villon"] Poeta grandissimo, autore di poche composizioni straordinarie, Francois Villon e' anche un esponente di quel "maledettismo" che aveva gia' una lunga tradizione (si pensi ai goliardi o a Cecco Angiolieri) e continuera' sino all'Ottocento, quando in clima decadentistico si perfezionera' la figura del "poete maudit", violatore della morale comune, amico del vizio, della droga e delle perversioni, magari anche del crimine; ma appunto per questo capace di esplorare zone sconosciute della coscienza letteraria. E si deve dire che lo stile di vita poco encomiabile di Villon fa si' che gli archivi criminali del tempo ci offrano informazioni supplementari alle poche fornite da lui stesso nei suoi versi. Poco piu' che ventenne (1455) uccide un prete. Fugge lontano da Parigi, dove presto rientra (1456), avendo ottenuto la grazia dal re: pare proprio che il prete, il quale lo perdono' prima di morire, lo avesse provocato. Ma lo stesso anno Villon commette, con altri due malviventi, un furto con scasso nel Collegio di Navarra. Nel 1461 si trova nella prigione di Meung, per motivi a noi ignoti; ne esce grazie a un'amnistia. Lo incontriamo l'anno dopo nel carcere parigino dello Chatelet (1462), dove deve scontare la pena per un nuovo furto; e intanto deve risarcire i danni di quello del 1456. Rilasciato, eccolo partecipare a una rissa di taverna, per la quale viene condannato, dati i precedenti, all'impiccagione. Quando la condanna viene commutata, dopo poco, in dieci anni di esilio, Villon sparisce, e non sappiamo piu' nulla di lui. Non era un miserabile. Protetto, pare, da un cappellano di Parigi di cui assunse il cognome, aveva fatto gli studi in quella universita' diventando "magister artium": le sue poesie documentano buone conoscenze della letteratura classica e della Bibbia, nonche' di opere contemporanee. Tra il 1457 e il 1460 pare sia stato ospite del principe-poeta Charles d'Orleans. Della sua vita privata abbiamo solo vaghe notizie, ma e' verisimile che si sia accompagnato a gruppi di quei "chierici vaganti", che alimentavano le proprie dissipazioni vendendo in qualche modo la loro bravura di verseggiatori. Lo si vede dagli atti dei processi: i suoi complici sono spesso laureati come lui, e i furti s'indirizzano a obiettivi universitari o ecclesiastici: sin dove si sente la campana della Sorbona. Che i vaganti diventassero facilmente dei facinorosi o dei veri criminali, si puo' capire. La grandezza poetica di Villon e' incontestata. Le poesie sono state pubblicate infinite volte, anche in traduzione italiana. Escono ora nei Meridiani di Mondadori le Opere, a cura di Emma Stojkovic Mazzariol e con prefazione di Mario Luzi. Rispetto alla vecchia edizione del 1971, piu' volte ristampata, qui l'introduzione e le note sono quasi raddoppiate, la bibliografia aggiornata; a fronte del testo francese riappare la bella traduzione poetica, cui ha collaborato Attilio Carminati. L'eccellente introduzione della Mazzariol illustra quello che lei chiama "un enigma letterario". Si tratta della difficolta' di far collimare le notizie biografiche, diventate ormai una leggenda (o se si preferisce un romanzo), e i temi trattati nelle poesie. Che parlano molto della Morte, personificata, di donne di piacere e di ragazzi di vita, di prigione e di castigo, ma, sembra, piu' come temi poetici (proprio quelli in voga nel Quattrocento) che come segni di un definitivo pentimento. Non c'e' per esempio da fare troppo caso se le due principali composizioni di Villon hanno forma testamentaria. Il Lascito allude a un amore infelice e a una prigionia; ma e' quella amorosa, cui Villon dice di essersi sottratto. E del resto le apostrofi all'amata sono una parodia delle poesie cortesi; forse la donna non e' neppure esistita. Il capolavoro, il Testamento, fu scritto dopo che la reclusione a Meung era finita e le allusioni alla morte sono un tema ascetico piu' che un presentimento. Si deve infine tener conto che il "testamento" e' un genere letterario diffuso sin dal Duecento, con esempi brillantissimi nei Conges di Jean Bodel e di Adam de la Halle, o in Jean de Meung. Lascito e Testamento sono piuttosto un'evocazione efficace, spesso scherzosa o satirica, di luoghi e specialmente di personaggi: mercanti e artigiani, soldatacci e sbirri, principi e signori, frati e monache, in un quadro straordinariamente mosso. Nell'opera maggiore, sono inclusi aneddoti, riflessioni. Famosissime le ballate delle Dame del passato, della Bella Elmiera e delle Ragazze di piacere, delle Parigine e della Grossa Margot, che si mescolano a inni alla Vergine e a confessioni dei peccati. Lo stile fa tesoro dei gerghi come del latino o della lingua francese antica, con un'inventiva che fa pensare alla grande farsa di Pathelin e preannuncia Rabelais. Comunque, in questa celebrazione della vita e di piaceri poco spirituali, c'e' una malinconia vera, un senso di precarieta' e di decadenza: specialmente le gioie della carne, descritte con una sensualita' quando raffinata, quando scurrile, sono intrise di mestizia. E' diventato proverbiale il ritornello "Mais ou sont les neiges d'antan?", ma ove sono le nevi dell'altr'anno? Un'allegria sfrenata gremisce quadri pittoreschi sul cui sfondo traspare una danza macabra, o pendono gl'impiccati in mezzo al paesaggio, come in certe tavole di Bruegel. Sulla caricatura e la parodia, e' la melanconia che s'impone. ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 196 del 28 dicembre 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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