La domenica della nonviolenza. 196



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 196 del 28 dicembre 2008

In questo numero:
1. Michele Nani presenta alcuni recenti saggi di storia sociale
2. Michele Nani presenta "Tenere le fila" di Vanessa Maher
3. Michele Nani presenta "C'era una volta il mondo nuovo" di Marco Fincardi
4. Michele Nani presenta "Acciai speciali" di Alessandro Portelli
5. Loris Campetti presenta "Acciai speciali" di Alessandro Portelli
6. Cesare Segre presenta le "Opere" di Francois Villon

1. LIBRI. MICHELE NANI PRESENTA ALCUNI RECENTI SAGGI DI STORIA SOCIALE
[Dal quotidiano "Il manifesto" de 31 luglio 2008 col titolo "Prospettive di
classe. Quel che resta delle ricerche sul proletariato" e il sommario "La
sconfitta del movimento operaio non ha determinato la fine delle divisioni
sociali, ma segna il passaggio della struttura sociale da una forma di
unita' del lavoro a un'altra, ancora tutta da costruire e da interpretare"]

"Addio alla classe operaia?": a partire da questo interrogativo, con il
quale si cercava di problematizzare un'espressione che risaliva a un celebre
saggio di Andre' Gorz, nell'aprile del 2000 la direzione dell'"International
Labor and Working-Class History" pubblicava un ampio dibattito sulle
prospettive della storia dei lavoratori. Il saggio di apertura, intitolato
appunto Farewell to the Working-Class?, era affidato a due importanti
studiosi, Geoff Eley e Keith Nield. Vi si sosteneva la necessita' di
superare le polemiche che per vent'anni avevano arroventato la labour
history, fra studiosi fedeli a un'impostazione di storia sociale della
classe operaia e fautori di un approccio "culturalista". La scomposizione
odierna della classe, facevano rilevare gli autori, invitava a considerare
con occhio diverso il lavoro della sua composizione e ricomposizione in
oltre un secolo di storia.
Li' stavano le ragioni dei "culturalisti": nello sganciamento della
formazione della classe operaia da schemi troppo rigidamente legati a una
prospettiva economicistica e deterministica. In realta' era stato lo scambio
continuo fra lavoratori, organizzatori e intellettuali socialisti a
costruire lo spazio per una politica di tipo nuovo, che aveva avuto nella
"classe operaia", come soggetto storico e come rappresentazione collettiva,
il proprio fulcro, ma che era stata tutt'altro che corporativa o settoriale,
poiche' aveva saputo unificare attorno alle organizzazioni di classe un
ampio spettro di rivendicazioni e di identita' sociali. Da quella vicenda
venivano anche lezioni per il presente.
*
La pragmatica della buona fede
L'attacco neoliberale di Reagan e Thatcher ha mostrato l'importanza della
dimensione politica, un tema peraltro al centro di un'ampia sezione di
Forging Democracy, il volume nel quale lo stesso Eley ha ricostruito un
secolo e mezzo di storia della sinistra europea. La sconfitta del movimento
operaio, ben lungi dall'implicare la scomparsa delle classi, ha segnalato un
passaggio di struttura sociale, da una forma secolare di "unita'" del lavoro
a un'altra, tutta da costruire. Eley e Nield, infine, delineavano un ruolo
attivo degli studiosi. Rileggere i processi passati di costruzione della
classe significherebbe continuare a evocare le potenzialita' alternative
racchiuse nel presente e nutrire le progettualita' odierne: si e' potuto
fare, dunque si puo' ancora fare.
L'intervento del 2000 costituisce la traccia di un volume, da poco uscito
per le edizioni dell'Universita' del Michigan, dal titolo impegnativo e
felicemente ambiguo (The Future of Class in History. What's Left of the
Social?), che gioca sul nesso fra politica e cultura: "il futuro della
classe nella storia" puo' alludere alle sorti di una categoria
interpretativa in un campo del sapere, ma anche ai ben piu' ampi destini
della classe lavoratrice nel nostro futuro. Eley e Nield insistono sulla
"pragmatica della buona fede" e sulla necessaria tregua fra eredi della
storia sociale e propugnatori della "svolta culturale". Il fair play e'
senz'altro produttivo, ma la proposta resta per piu' di un verso
discutibile. Da quasi trent'anni, dal vecchio articolo Why does Social
History Ignore Politics? ("Social History", 1980) fino al dibattito del 2000
rievocato sopra, i loro ragionevoli appelli, per esplicita ammissione dei
due, cadono costantemente nel vuoto. Si tratta di un segnale, non tanto
delle cattive maniere o del pessimo carattere degli storici, bensi'
dell'irriducibile conflittualita' che costituisce il motore stesso del campo
storiografico e delle sue articolazioni, un campo che non presenta
l'andamento "paradigmatico" caro a Thomas Kuhn e non arriva mai a definire
una "scienza normale". La stessa ispirazione riconciliativa di Eley e Nield
rappresenta uno specifico posizionamento nelle lotte che attraversano il
campo, nel quale i due sono figure tutt'altro che marginali: specialista di
storia tedesca e della sinistra europea, membro di uno dei piu' importanti
dipartimenti di storia al mondo (Universita' del Michigan) il primo,
condirettore di una rivista del calibro di "Social History" e professore
emerito all'Universita' di Hull il secondo.
*
Attenzione al linguaggio
Nel merito, come e' stato notato da piu' parti, la proposta di sintesi
concede forse troppo credito alla "svolta linguistica" e all'importazione
negli studi storici dell'arsenale "post-strutturalista", ma ha il pregio di
conservare il meglio della tradizione della storia sociale nata dalla
lezione di Edward P. Thompson e poi maturata lungo molti differenti
percorsi. E' un campo di studi ricco e articolato, irriducibile alla
caricatura marxista-ortodossa e riduzionistica che ne fanno i detrattori
odierni, un settore vivo e in continuo aggiornamento, senza bisogno di
rinunciare a categorie fondamentali come quella di "classe sociale". Non si
tratta di esorcizzare il rinnovamento degli ultimi vent'anni, ma di
discernerne gli apporti: la classe e' costantemente intrecciata ad altre
identita' (prima di tutto quella di genere); nella migliore delle accezioni
il culturalismo rappresenta un salutare recupero della storicita' delle
categorie interpretative di cui si servono gli studiosi e una altrettanto
feconda attenzione al linguaggio degli agenti sociali concreti dei quali si
ricostruiscono le vicende; il ritorno alla "storia politica" non implica una
chiusura negli spazi istituzionali, ma anzi un allargamento della nozione di
"politica" e della stessa idea di Stato, con Foucault e con Gramsci.
Sul terreno della storia, queste prospettive sono senz'altro compatibili con
la sensibilita' al peso delle regolarita' strutturali capitalistiche nella
produzione di ineguaglianza sociale, all'importanza delle situazioni
lavorative concrete, delle reti di relazione urbane e familiari. Meno
produttive sono le proposte di una fuoriuscita netta da queste
problematiche, perorate da storici autorevoli in nome dell'autonomia della
politica. Eley e Nield ricostruiscono efficacemente le traiettorie di
quattro importanti studiosi di storia sociale (gli inglesi Patrick Joyce e
Gareth Stedman Jones e gli statunitensi Joan Scott e William Sewell)
protagonisti dell'ondata di ricerche degli anni '70, poi nel decennio
successivo fra i principali fautori del rifiuto del presunto determinismo
della "formazione sociale" in nome delle "pratiche discorsive".
In realta' mentre il postmodernismo storiografico radicale ha prodotto poche
opere di ricerca e si riduce a un continuo commento dei suoi fautori su
lavori altrui, nel campo della storia del lavoro la proposta eclettica di
svolta "culturale" ha dato spesso vita alla riedizione di una raffinata
storia delle idee, a una pratica storiografica dedita all'esame di scritti a
stampa e di piccoli gruppi di individui. I toni dell'attacco a una storia
sociale definita "vecchia" solo per far meglio risaltare la - dubbia -
"novita'" dei nuovi orientamenti lasciano spazio a un singolare silenzio
dinanzi all'esistenza di precisi limiti all'accesso alla presa di parola e
di condizionamenti alle forme stesse del discorso (ad esempio i problemi
legati alla produzione e ricezione degli stessi scritti), cosi' come non si
interrogano sull'esistenza di movimenti sociali di massa, la cui presa ed
efficacia non e' riducibile alla potenza del discorso.
Che le realta' passate siano accessibili soprattutto per via linguistica non
significa che il discorso sia l'unica realta' storica, come ha da tempo
sostenuto Roger Chartier, curiosamente qui non ripreso, come gran parte
dell'importante riflessione francese in materia (basti pensare alla
concezione delle classi in Bourdieu, affine a quella degli autori e
senz'altro teoricamente piu' rigorosa).
*
Due genealogie armoniose
Nonostante si soffermi per lo piu' sulla storiografia di lingua inglese, e
dedichi poca attenzione sia alla dimensione globale dei fenomeni, sia alla
ricca produzione sociologica in merito all'analisi di classe, The Future of
Class in History resta un libro importante. Come Dennis Dworkin (autore di
una importante sintesi sullo stesso tema), gli autori sono convinti della
valenza generale della parabola, soprattutto britannica, della storiografia
qui ricostruita, e lo mostrano ad esempio attraverso confronti con il caso
statunitense, ove un ruolo analogo a quello di Thompson e' stato giocato
dalla sociologia storica di Charles Tilly, autore recentemente scomparso.
Anche sul continente, gli anni '60 e '70 sono stati un periodo di
innovazione storiografica collettiva (un riscontro per le vicende nostrane
si puo' trovare, ad esempio, nello studio Marxismo e storia di Paolo
Favilli). In quel felice periodo si armonizzarono le due genealogie della
storia della classe operaia: da un lato l'identificazione con i subalterni e
l'apertura della storiografia alle loro vite, dall'altro il dialogo con le
scienze sociali, nel segno della possibilita' di comprendere la societa' nel
suo complesso, della priorita' analitica del contesto sociale e della logica
universalistica della comparazione fra casi specifici. La loro
dissociazione, che qualcosa deve alla crisi del socialismo e del marxismo,
ha condotto al declino anche storiografico della "classe" come strumento di
lettura del mondo.
Ma Eley e Nield, sulla scorta dei lavori di piu' giovani studiosi che
intrecciano sul terreno di ricerche concrete le prospettive "sociali" e
"culturali", ci ricordano che quello strumento non ha solo un passato, ma
puo' avere anche un futuro.
*
Postilla bibliografica. Operai su carta e su web
In edizione cartacea l'"International Labor and Working Class History" e'
quasi introvabile in Italia (gli indici sono su
www.newschool.edu/nssr/ilwch). Tradotta in portoghese e castigliano, Forging
Democracy di Eley (Oxford UP 2002) e' in attesa di traduzione. Su A Crooked
Line, ancora di Eley (Michigan UP 2005) e sul testo di Dworkin (Class
Struggles, Pearson 2007), cosi' come su La politica del conflitto di Tilly e
Tarrow (Bruno Mondadori 2008) si dovra' tornare. Marxismo e storia di Paolo
Favilli e' uscito per Franco Angeli nel 2006. Meriterebbero infine una
riedizione The Making of the English Working Class (1963) di Edward P.
Thompson (l'unica edizione italiana, merito del Saggiatore, risale al '69) e
la splendida raccolta Societa' patrizia e cultura plebea, a cura di Edoardo
Grendi (Einaudi 1981).

2. LIBRI. MICHELE NANI PRESENTA "TENERE LE FILA" DI VANESSA MAHER
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 20 aprile 2008, col titolo "Subalterne e
emancipate, i due volti delle sartine torinesi" e il sommario
"Dall'espansione ottocentesca, quando le lavoratrici dell'abbigliamento nel
capoluogo piemontese erano migliaia, fino al declino degli anni '60. Un
secolo di storia sociale ricostruito da Vanessa Maher nel saggio Tenere le
fila per Rosenberg & Sellier"]

La storia e l'immagine della Torino novecentesca sono segnate dalla grande
industria, simboleggiata dalla Fiat e dal suo esteso indotto. All'ombra del
Lingotto e di Mirafiori, tuttavia, si svilupparono anche forme diverse di
organizzazione della produzione. La piu' importante di queste esperienze fu
quella dell'industria dell'abbigliamento, definita gia' nel 1922 dai
dirigenti sindacali una "fabbrica sezionata".
La sartoria torinese fu significativa per piu' di una ragione.
Economicamente i grandi atelier del centro cittadino fecero di Torino una
vera e propria capitale della moda, seconda solo a Parigi e ad essa
stabilmente connessa, anche per via di una lunga integrazione produttiva con
la Francia, che risaliva all'industria tessile del Sei-Settecento. Dal punto
di vista sociale, questo comparto produttivo occupava decine di migliaia di
lavoratrici, che all'inizio del secolo costituivano gia' un quinto della
forza-lavoro torinese complessiva. Infine, non va dimenticato il rilievo
culturale di questa attivita', che produceva i simboli del prestigio e della
piccola distinzione, i segni che rendevano concrete e visibili le
classificazioni e le gerarchie sociali, importanti nelle fasi di mobilita'
sociale e in una citta' ove il peso della nobilta' resto' notevole fino a
tutto il ventennio fascista.
Di questo mondo dimenticato ci parla Tenere le fila. Sarte, sartine e
cambiamento sociale 1860-1960 (Rosenberg & Sellier, pp. 391, euro 32), un
libro di storia sociale del lavoro che raccoglie i risultati della lunga e
ampia ricerca di Vanessa Maher - una ricerca di etnografia storica, nella
quale l'analisi di una serie di interviste dei primi anni Ottanta a sarte
che si formarono durante il fascismo si intreccia allo spoglio di un vasto
insieme di fonti coeve e di studi, grazie ai quali e' possibile ricostruire
le dinamiche piu' ampie ed effettuare confronti con altri contesti di
sartoria e con pratiche sociali affini o prossime.
L'industria torinese dell'abbigliamento ha conosciuto una vera parabola:
alla grande e rapida espansione fra Otto e Novecento, proseguita fino alla
meta' del secolo, ha fatto seguito un lento declino, dettato dalla fine
dell'apprendistato, dal calo della domanda dovuto allo sviluppo della
produzione in serie, dall'ascesa di Milano a capitale della moda e della
dispersione della produzione del "made in Italy" nell'industria sommersa del
Mezzogiorno. Il tramonto della sartoria non basta tuttavia a dar conto della
sua scomparsa dalla memoria e dagli studi. L'autrice argomenta un'ipotesi
convincente: e' stata la femminilizzazione del mestiere a determinare le
possibilita' di espansione del settore (per via del decentramento a
domicilio reso possibile dalle macchine da cucire: con conseguente taglio
dei costi e dei salari dell'ordine del 50%), la sua fortuna (anche per la
disponibilita' di apprendiste alle quali era negato l'accesso all'istruzione
e per la difficolta' di organizzare vertenze) e infine la rimozione, dovuta
all'invisibilita' sociale di un lavoro femminile e domestico che non
sembrava compatibile con le epopee del boom e del movimento operaio.
Contribuirono a questo esito anche alcuni caratteri propri del mestiere.
Quello della sarta non era un lavoro dequalificato, si trattava anzi di un
sapere artigianale di lento e difficile apprendimento, che rappresentava un
investimento per le famiglie (il possesso del mestiere equivaleva a una
dote), ma anche l'imposizione alle figlie di una identita' sociale e di
genere subalterna. Il ciclo di vita della sarta passava per una formazione
complessa che aveva luogo negli atelier, governati da una direttrice e da
una premiere, o prima sarta, accanto all'unico ruolo maschile, quello del
sarto tagliatore di stoffe (coupeur). Si cominciava come cita, occupandosi
di filo, spilli, pulizie e consegne; quindi si diveniva seduta o fancell e
si passava al primo apprendistato (ad esempio come orlatrice), fondamentale
perche' in quella fase si doveva letteralmente "rubare il mestiere", cioe'
quel sapere quasi intuitivo incorporato nei gesti e nei trucchi delle sarte
che non poteva trasmettersi mediante un insegnamento formale, ne' tantomeno
verbale; molte rinunciavano, ma chi riusciva nell'opera diventava aiutante o
lavorante, cioe' una sarta salariata. A quel punto la ragazza poteva anche
cambiare laboratorio e magari provare a mettersi in proprio, una scelta che
diveniva obbligata in caso di matrimonio, poiche' questo implicava il
licenziamento: di li' la miriade di piccole botteghe domestiche che
contornavano i grandi atelier e sostenevano una domanda piu' ampia rispetto
a quella del lusso e della moda.
Questo itinerario fondava comportamenti ambigui: sarte e sartine godevano di
una mobilita' territoriale e professionale notevole, ma soprattutto
attraversavano i confini fra le classi. Li eludevano concretamente, poiche'
le ragazze conoscevano clienti dell'alta societa', si accompagnavano a
studenti e comunque piu' facilmente a impiegati o periti che a operai. Pur
subalterne, producevano alcuni dei simboli attraverso i quali l'ordine
sociale si manifestava nella sfera pubblica e questo saper fare le portava a
confezionare per se' i capi alla moda, sovvertendo cosi' sia il nesso fra
collocazione di classe e aspetto fisico, sia il monopolio delle signore sul
gusto riconosciuto.
Le sarte si emancipavano cosi' dalle costrizioni delle famiglie di origine e
sperimentavano una certa liberta' sessuale e forme di controllo sulla
riproduzione che le portavano a fare meno figli della media. Questi tratti
produssero gli stereotipi della "sartina" frivola e leggera e quelli della
lavoratrice inaffidabile perche' portata a tradire la propria classe. In
realta' anche la sartoria torinese fu attraversata da frustrazioni e
risentimenti, che talora sfociarono in aperto conflitto, come negli scioperi
del 1883 e del 1906, contraddistinti da cortei dal sapore carnevalesco, con
parodia delle clienti borghesi.
A Torino la sartoria costituiva la seconda occupazione femminile (dopo il
servizio domestico), ma l'organizzazione, come per tutto il lavoro a
domicilio, fu difficile. L'esperienza dell'apprendistato era comunque
diffusissima e per questo negli atelier passarono molte delle donne poi
attive nell'antifascismo e nella Resistenza, come la futura dirigente
comunista Teresa Noce, che la ricostrui' nelle prime pagine della sua
autobiografia Professione rivoluzionaria.
Un vero contratto sindacale per la sartoria si ebbe solo nel 1947, ma come
segnala l'esperienza del Circolo delle Caterinette, sorto qualche anno dopo
in risposta al trasferimento dell'Ente Moda, la percezione del declino era
ben presente, alimentata dalla scolarizzazione che sottraeva apprendiste a
laboratori e botteghe, dall'orientamento della domanda verso la produzione
di massa di vestiti economici e quindi dalle piu' frequenti rinunce al
mestiere da parte delle sarte: un lavoro reso insostenibile dalla mancanza
di assistenti sottopagate, dal calo della clientela popolare e dal carico di
lavoro domestico e di cura non condiviso con i mariti.

3. LIBRI. MICHELE NANI PRESENTA "C'ERA UNA VOLTA IL MONDO NUOVO" DI MARCO
FINCARDI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 luglio 2008 col titolo "Conquiste e
fallimenti delle 'piccole Russie'" e il sommario "Saggi. Il mito dell'Urss
nella memoria dei militanti emiliani"]

Marco Fincardi, C'era una volta il mondo nuovo. La metafora sovietica nello
sviluppo emiliano, Carocci, pp. 287, euro 23,50.
*
"Quella citta' la', Mosca, secondo me era in parte la', in parte invisibile,
che non e' mai esistita. Questa fedelta' a Mosca era da una parte una
fedelta' a una metafora... e dall'altra parte era una creazione autonoma,
legata a una grande tensione di solidarieta' umana, sociale": intervistato
nel 1992, cosi' Loris Malaguzzi, maestro e pedagogista, fra i costruttori
delle scuole d'infanzia reggiane, sintetizzava il rapporto con l'Unione
Sovietica negli anni successivi alla Liberazione. Queste considerazioni
possono costituire una delle chiavi di lettura di un libro importante,
frutto della lunga consuetudine di Marco Fincardi con le testimonianze
orali, la cultura popolare e i movimenti sociali. C'era una volta il mondo
nuovo tenta di "decifrare le simbologie dell'esperienza politica memorizzate
dai militanti" nel loro affiorare durante le interviste, mettendole a
confronto con altre serie documentarie, per rileggere la storia di oltre
mezzo secolo di movimento dei lavoratori a Reggio Emilia.
Fincardi ci restituisce una vicenda ormai lontana, ma che interroga ancora
il nostro presente. Al centro dell'indagine sono le trasformazioni del
riferimento all'Urss in contesti e tempi diversi, dunque la circolazione
internazionale di modelli, idee ed esperienze: non il "mito sovietico" letto
in blocco sulla base di un giudizio politico, ma gli elementi simbolici che
aiutarono a dare un senso complessivo a una trasformazione pratica radicata
nel territorio e a una specifica forma di lotta di classe, collocandole in
un tempo storico e uno spazio piu' ampi.
Nel rendere il tessuto di riferimenti della memoria dei militanti reggiani,
Fincardi affronta criticamente alcuni luoghi comuni storiografici. Il 1917
forni' ai lavoratori la realizzazione di un "mondo senza padroni",
un'immagine che aveva tuttavia una storia piu' lunga: si era cristallizzata
nelle utopie internazionaliste e collettiviste del movimento operaio, ma
anche nelle esperienze organizzative concrete, come a Reggio Emilia, dove il
socialismo "prampoliniano" era gia' egemone prima della rivoluzione russa.
Sconfitto e distrutto dal fascismo, quel modello non costitui' quindi una
"subcultura" territoriale persistente: nuclei di cultura sovversiva furono
invece trasmessi attraverso l'interazione continua fra le "piccole Russie" e
la grande Unione Sovietica. Negli anni del fascismo, il rancore sociale e i
valori collettivisti trovarono rifugio nel socialismo di villaggio o di
quartiere, isole di "mondo nuovo" che vedevano nell'Urss una garanzia di
progresso e di emancipazione. Questa rete di figure, gesti e riti non
costitui' una minaccia per il regime, ma non fu nemmeno veicolo di
passivita' o fatalismo.
Contro una lettura in chiave religiosa o meramente ideologica della cultura
di classe, Fincardi sottolinea il carattere secolare di quelle esperienze e
la loro tensione verso una prassi concreta. Le "piccole Russie" infatti
crearono le basi per una dissidenza diffusa, che si politicizzo' e ando' a
ingrossare le fila del Pcdi clandestino. I risultati furono l'ampio
radicamento territoriale della Resistenza e l'impressionante spinta popolare
alla costruzione effettiva di una forma di "socialismo", attraverso il
partito, il sindacato e le cooperative (ove quadri e dirigenti erano per la
prima volta di estrazione operaia), ma anche mediante un tessuto di
esperienze di solidarieta', di emancipazione e di auto-organizzazione:
asili, colonie e assistenza ai bambini in difficolta'; occupazione o
ricostruzione di sedi e spazi; cellule territoriali comuniste, assemblee di
caseggiato e lavoro volontario come momenti di costruzione dal basso di una
nuova societa'.
Lo smantellamento della grande fabbrica (le Reggiane), nel quadro della
ristrutturazione dell'industria emiliana, tolse al movimento operaio una
naturale "avanguardia" e un riferimento sociale e ideale. In questo quadro,
che vedeva la fascia "rossa" dalla Spezia a Ferrara e Piombino isolata nel
paese e quasi assediata (anche fisicamente, dalle forze di polizia), il
moltiplicarsi e irrobustirsi delle "piccole Russie" non costitui' un
elemento di chiusura o di localismo. Il nuovo modello reggiano, forse per
aver assimilato, attraverso la riflessione comunista, la lezione della
sconfitta del 1921-22, mostro' da subito una spiccata vocazione nazionale e
persino internazionale. L'attiva solidarieta' fu accompagnata dalla
migrazione politica dei quadri, dalla formazione tecnica e dal tentativo di
esportazione del modello cooperativo nel Mezzogiorno.
Non solo conquiste e realizzazioni, ma anche illusioni, drammi e fallimenti
segnarono i processi al centro di questo volume. Con una lezione di metodo,
Fincardi ci invita tuttavia a non rifugiarci negli schemi ideologici dello
"stalinismo" o nell'attenzione prevalente ai gruppi dirigenti e agli
intellettuali. In quelle periferie rurali del comunismo internazionale il
"capitale simbolico" sovietico fu investito nelle pratiche concrete di
migliaia di lavoratori, che contro i loro consueti avversari seppero
costruire davvero un "mondo nuovo", per quanto non durevole.

4. LIBRI. MICHELE NANI PRESENTA "ACCIAI SPECIALI" DI ALESSANDRO PORTELLI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 dicembre 2008 col titolo "Sapere
operaio. Storia e storie della citta'-fabbrica" e il sommario "Con Acciai
speciali, Alessandro Portelli propone, vent'anni dopo Biografia di una
citta', una nuova storia corale di Terni. Passioni, rabbie e conflitti che
intrecciano dimensione locale e globalizzazione"]

"E quando ho ricevuto la notizia che il mio collega non ce l'aveva fatta
stavo giu' a Napoli. In un primo momento me ne scappai dentro la camera da
letto vicino alla foto di mio padre e incominciai a piangere. E ti giuro,
vederti un mozzicone di otto anni che ti viene vicino e te dice, Papa' non
piangere, se hai la possibilita' fagliela pagare a 'sti crucchi di merda -
e' un bambino, significa che ha gia' capito tutto della vita". La dolorosa
testimonianza di un lavoratore della ThyssenKrupp di Torino evoca le parole
di O cara moglie (la canzone di Ivan della Mea del 1968) o quelle coeve di
una lettera di Rodari a Bollati ("i bambini non vivono in un 'mini-mondo',
ovvero stanza dei giocattoli, ma nello stesso mondo degli adulti... e il
mondo degli adulti il bambino lo vede e lo giudica"). Assieme a decine di
altre, la testimonianza di Giovanni Pignalosa va a comporre lo straordinario
mosaico di Acciai speciali, l'ultimo libro di Alessandro Portelli (Donzelli,
pp. 229, euro 25). Con l'idea di aggiornare, vent'anni dopo e migliaia di
posti di lavoro in meno, Biografia di una citta' (Einaudi 1985), la storia
corale di Terni basata sulle fonti orali, Portelli e' tornato in Umbria a
raccogliere interviste nel fuoco delle lotte del 2004-2005. La citta' aveva
mostrato le stesse reazioni del 1952-1953: la rabbia operaia e la
solidarieta' comunitaria avevano risposto all'annuncio di un migliaio di
licenziamenti, proprio come a quello dei tremila di mezzo secolo prima.
Se storia e cronaca del conflitto sembrano confondersi, restano tuttavia
indelebili le differenze: prima fra tutte il senso della storia e della
continuita'. Il "socialismo" e la "vittoria" finale sono scomparsi e con
essi l'idea stessa di un futuro utopico ma possibile. La classe operaia
ternana e' stata ridimensionata, scomposta dalla quota crescente di lavoro
appaltato a ditte esterne, faticosamente ricomposta da nuove ondate
generazionali, piu' scolarizzate e piu' precarie, che spesso vivono la
fabbrica come blocco della mobilita' sociale e perdita di status. L'immagine
"deprezzata" dell'operaio - per servirci dell'espressione di un altro
intervistato - non traduce tanto la riduzione quantitativa del lavoro
manuale o un'offensiva mediatica di antico sapore classista, ma un mutamento
dei rapporti di forza nella societa'. Queste trasformazioni rimandano anche
all'allontanamento della politica e dell'"alta" cultura dai mondi operai,
dalla scelta di non rappresentarli o dalla difficolta' di trovare le forme
per imporne la voce nella sfera pubblica: che accompagna e approfondisce la
disaffezione operaia per la politica, drammaticamente assente nelle
interviste ternane.
Le rotture non vanno tuttavia enfatizzate e Portelli mostra con maestria
come le stesse culture giovanili siano contaminate da tratti della "storia
profonda" della citta' e della cultura di fabbrica: il collettivo
antifascista "Brigata Cimarelli", l'antagonismo antitedesco che recupera la
memoria resistenziale e perfino gli studenti, figli di operai italiani e
rumeni, che improvvisano una sassaiola in stazione una volta appreso
dell'arrivo dei rappresentanti dell'azienda. Resta soprattutto il "sublime
operaio", come lo definisce acutamente Portelli: la coscienza dell'immenso
potere di trasformazione che risiede nelle mani dei lavoratori, base della
produzione dei beni e del loro valore, che si sposa alla coscienza di una
doppia espropriazione, lo sfruttamento economico e l'esclusione dalle
decisioni fondamentali.
Persino l'abbinata fra calcio e conflitto sociale, una costante ternana,
riemerge in forme imprevedibili: una delegazione di fabbrica entra in campo
e ritarda l'avvio della partita, accolta dalla curva rossoverde con slogan
che si penserebbero desueti ("il potere dev'essere operaio"); poi, quando il
parlamento europeo si riunisce per valutare il comportamento della
ThyssenKrupp, un "movimento spontaneo operaio", nell'autodefinizione dei
giovani lavoratori che lo costituiscono, organizza un pullman per
presenziare alla seduta e dinanzi al rifiuto delle autorita' locali lo paga
per meta' con una colletta, mentre l'altra meta' e' offerta dalla Ternana.
Un anno dopo la reazione del 2004, la vicenda si chiude con un secondo
affondo dell'impresa, che sancisce la fine del reparto di eccellenza
dell'acciaio "magnetico", con salvaguardia dei livelli occupazionali e
stabilizzazione di parte dei contrattisti: una strategia calibrata, che
divide non solo la politica locale e i sindacati, ma anche gli stessi
lavoratori. Del gioco della multinazionale fa parte anche la successiva
chiusura degli impianti torinesi, con trasferimento temporaneo di alcune
decine di operai a Terni e disinteresse per le norme di sicurezza in una
produzione a termine che fa ampio ricorso agli straordinari per coprire i
buchi di organico: con gli esiti tristemente noti del dicembre 2007. I
rischi sono presenti anche a Terni, dove due operai che lavorano in appalto
trovano la morte negli stessi anni, una pletora di infortuni scandisce i
tempi della produzione e dopo l'amianto incombono le malattie professionali
da polveri.
La storia di Acciai speciali non e' quella di un piccolo pezzo di mondo, ma
l'intreccio locale di tante storie ben piu' larghe e profonde. La storia
della "globalizzazione", con la direzione d'impresa unita e sostenuta da
governi e istituzioni, e gli operai divisi, non solo da Terni a Torino, e
fra Italia e Germania (nonostante i comitati d'impresa a livello europeo,
peraltro qui menzionati di sfuggita solo da un sindacalista), ma fino in
India, Brasile e Stati Uniti. La storia dell'autoritarismo delle
multinazionali, che stipulano accordi per prendere tempo e li sconfessano
una volta esaurita la fase calda della lotta: un potere che funziona solo a
distanza, che fugge scortato dalla polizia dinanzi all'assedio operaio
(dalle porte secondarie dell'albergo ternano come da quelle della sacrestia
ai funerali torinesi) e che vive patologicamente il conflitto (a un
responsabile delle risorse umane in India sconsigliano di visitare gli
stabilimenti di Terni: "Arrivi con le tue gambe, ma non e' detto che con le
tue gambe te ne vai"). La storia delle privatizzazioni, viste per trent'anni
come rimedio a tutti i mali e, soprattutto, promosse dai governi senza
alcuna garanzia sociale o indirizzo. La storia delle difficolta' sindacali e
del riflusso dopo i compromessi, vissuti come sconfitta e tradimento, fino
alla sfiducia dei lavoratori nelle possibilita' stesse di una democrazia sui
luoghi di lavoro, per la doppia impotenza, dei sindacati di fronte alle
imprese e dei lavoratori di fronte al sindacato. Eppure, in un contesto
cosi' difficile, dobbiamo essere grati a Portelli e ai suoi interlocutori,
perche' hanno saputo raccontarci anche la storia del sempre nuovo "crogiolo"
rappresentato dalle lotte sociali, al di la' e contro tutti i luoghi comuni
sui giovani, sugli operai e sugli immigrati.

5. LIBRI. LORIS CAMPETTI PRESENTA "ACCIAI SPECIALI" DI ALESSANDRO PORTELLI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 dicembre 2008 col titolo "Memorie.
Frammenti di classe nelle voci dei protagonisti"]

Una cosa che gli imprenditori e tanti politici, per quanto si sforzino,
proprio non riescono a capire e' la cultura operaia - meglio, le culture
operaie, diverse, frantumate, ma unite da valori condivisi. Pensano che ci
sia una sostanziale equivalenza tra lavoro e salario, per cui sarebbe
sufficiente garantire un reddito per risolvere il problema determinato da
una crisi industriale, o da un processo di riorganizzazione globalizzata. Se
cosi' fosse, basterebbe spostare un operaio da un posto all'altro, o tenerlo
a casa in cassa integrazione. Le cose pero' stanno diversamente: se per chi
vive fuori da un gigante d'acciaio, il lavoro e' solo un'appendice della
macchina, pura variabile dipendente del meccanismo di accumulazione, per
l'operaio siderurgico il lavoro e' insieme maledizione e condizione vitale.
Non identificazione, perche' la fabbrica e' un mostro che inghiotte braccia
e cervelli, pur non riuscendo a cancellare la domanda di senso di quel che
si fa, ne' ad annullare la volonta' di farlo nel modo migliore, a costo di
mettersi in gioco per difendere la dignita' o persino la vita. Fabbrica e'
insieme lavoro, territorio, soggettivita', bisogni e vissuti diversi. Puo'
essere piu' doloroso perdere il lavoro che il salario, se ci si ostina a
pensare oltre che a se' e all'immediato, anche al futuro, ai figli e ai
compagni piu' giovani, alla struttura sociale e culturale in cui il lavoro
si esercita.
L'ultimo libro di Alessandro Portelli, Acciai speciali, e' il migliore aiuto
per capire qualcosa della complessita' di questa condizione. E' dalla
stagione lontana delle inchieste operaie che non si ritrova tanto rigore
nell'indagare su un frammento di classe, senza la pretesa di suggerire a
ogni intervista "la" chiave di lettura. La linea, si diceva un tempo. In
Acciai speciali troverete le parole, le passioni, la rabbia degli operai,
l'orgoglio di chi pensa che l'unica battaglia persa sia quella che non si e'
combattuta. Il luogo e' Terni, citta' fabbrica ancor piu' di Torino. Chi da'
voce ai protagonisti (che sono insieme operai, ultras, innamorati, magari
cocainomani, italiani o rumeni ma comunque ternani) resta sempre nascosto
dietro le quinte. Solo alla terzultima pagina Portelli si concede la parola:
"Uno come me, che ha sempre lavorato con l'immaterialita' delle parole, non
puo' evitare di sentirsi un po' intimidito di fronte alla concretezza
dell'acciaio e dei suoi saperi. Tanto piu' che fin dai miei primi incontri
con la cultura operaia mi sono accorto che quelli che danno forma
all'acciaio sanno quasi sempre dare forma anche alle parole".
La storia dell'acciaieria di Terni e' lunga decenni, la memoria dei padri e'
trasmessa ai figli e ai nipoti, le microstorie si contraddicono e si
accavallano, lotta dopo lotta. Scioperi, occupazioni, presidi ai cancelli,
blocchi stadali e ferroviari per difendere, insieme ai posti di lavoro, i
saperi, la cultura degli individui e della citta' che ha per simbolo la
pressa della prima acciaieria, una icona e un monumento nella piazza della
stazione. L'ultima battaglia per salvare il magnetico dal padrone tedesco
che vuole ridislocare le produzioni migliori la' dove lavoro e diritti
valgono ancora meno che a Terni o a Torino, ha ricostruito i legami della
citta', in una rinata solidarieta' con i suoi operai, che rifiutano la
svalorizzazione del lavoro. Una battaglia piu' persa che vinta, quando le
solidarieta' nella citta' e nella fabbrica si allentano. Il magnetico se ne
va, il lavoro resta ma svuotato, l'Italia acquistera' dall'estero quello
stesso prodotto. Operai maleducati rispetto ai padri, con slogan piu' da
stadio che da fabbrica, orgogliosi, persino campanilisti. Un bene comune per
una citta' di provincia che non voglia perdersi.
Di lavoro, a Terni come a Torino, si vive e si muore. Ma a Terni si muore
piu' che nelle acciaierie tedesche dello stesso padrone ThyssenKrupp. E
ancora di piu' si muore a Torino. La battaglia degli operai umbri viene
scavalcata dal dramma consumato a Torino, sette operai bruciati in nome del
profitto. Nelle tasche e nei computer dei dirigenti del gigante tedesco sono
state trovate le carte che spiegano come loro intendono la sicurezza:
massima a casa, in Germania, appena accettabile a Terni dove l'acciaieria si
impoverisce con la perdita del magnetico, quasi nulla a Torino perche' di
quella fabbrica e' stata decretata la fine e non si buttano soldi per
garantire la sicurezza in uno stabilimento morente.
Neanche gli estintori funzionavano e sette operai sono stati uccisi, insieme
alla fabbrica, alla tredicesima ora di lavoro perche' lassu' erano rimasti
in pochi, gli altri licenziati con buonuscita, cassintegrati, trasferiti a
Terni. La strage nel libro di Portelli e' vista e raccontata da Terni, fa
riflettere, fa piangere e incazzare come ai funerali delle vittime, dove si
buttano giu' per le scale della chiesa le corone del padrone. Si
ricostruiscono i nessi di una globalizzazione che frantuma e mercifica il
ciclo produttivo e le persone. Portelli vola in India e nel mondo per
scoprire questi nessi nel racconto dei protagonisti. Il processo a sei
dirigenti della multinazionale tedesca sta per iniziare. L'accusa e'
inedita: omicidio volontario con dolo eventuale, erano cioe' a conoscenza
dei rischi che facevano correre ai loro dipendenti, ma ritenevano piu'
importante salvaguardare i profitti del padrone che le vite di chi li
rendeva possibili. Ma questa e' cronaca. La storia e' quella che Portelli fa
raccontare ai lavoratori.

6. LIBRI. CESARE SEGRE PRESENTA LE "OPERE" DI FRANCOIS VILLON
[Dal "Corriere della sera" del 31 ottobre 2000 col titolo "Francois, il
poeta ladro e assassino" e il sottotitolo "Il 'Meridiano' di Villon"]

Poeta grandissimo, autore di poche composizioni straordinarie, Francois
Villon e' anche un esponente di quel "maledettismo" che aveva gia' una lunga
tradizione (si pensi ai goliardi o a Cecco Angiolieri) e continuera' sino
all'Ottocento, quando in clima decadentistico si perfezionera' la figura del
"poete maudit", violatore della morale comune, amico del vizio, della droga
e delle perversioni, magari anche del crimine; ma appunto per questo capace
di esplorare zone sconosciute della coscienza letteraria. E si deve dire che
lo stile di vita poco encomiabile di Villon fa si' che gli archivi criminali
del tempo ci offrano informazioni supplementari alle poche fornite da lui
stesso nei suoi versi. Poco piu' che ventenne (1455) uccide un prete. Fugge
lontano da Parigi, dove presto rientra (1456), avendo ottenuto la grazia dal
re: pare proprio che il prete, il quale lo perdono' prima di morire, lo
avesse provocato. Ma lo stesso anno Villon commette, con altri due
malviventi, un furto con scasso nel Collegio di Navarra. Nel 1461 si trova
nella prigione di Meung, per motivi a noi ignoti; ne esce grazie a
un'amnistia. Lo incontriamo l'anno dopo nel carcere parigino dello Chatelet
(1462), dove deve scontare la pena per un nuovo furto; e intanto deve
risarcire i danni di quello del 1456. Rilasciato, eccolo partecipare a una
rissa di taverna, per la quale viene condannato, dati i precedenti,
all'impiccagione. Quando la condanna viene commutata, dopo poco, in dieci
anni di esilio, Villon sparisce, e non sappiamo piu' nulla di lui.
Non era un miserabile. Protetto, pare, da un cappellano di Parigi di cui
assunse il cognome, aveva fatto gli studi in quella universita' diventando
"magister artium": le sue poesie documentano buone conoscenze della
letteratura classica e della Bibbia, nonche' di opere contemporanee. Tra il
1457 e il 1460 pare sia stato ospite del principe-poeta Charles d'Orleans.
Della sua vita privata abbiamo solo vaghe notizie, ma e' verisimile che si
sia accompagnato a gruppi di quei "chierici vaganti", che alimentavano le
proprie dissipazioni vendendo in qualche modo la loro bravura di
verseggiatori. Lo si vede dagli atti dei processi: i suoi complici sono
spesso laureati come lui, e i furti s'indirizzano a obiettivi universitari o
ecclesiastici: sin dove si sente la campana della Sorbona. Che i vaganti
diventassero facilmente dei facinorosi o dei veri criminali, si puo' capire.
La grandezza poetica di Villon e' incontestata. Le poesie sono state
pubblicate infinite volte, anche in traduzione italiana. Escono ora nei
Meridiani di Mondadori le Opere, a cura di Emma Stojkovic Mazzariol e con
prefazione di Mario Luzi. Rispetto alla vecchia edizione del 1971, piu'
volte ristampata, qui l'introduzione e le note sono quasi raddoppiate, la
bibliografia aggiornata; a fronte del testo francese riappare la bella
traduzione poetica, cui ha collaborato Attilio Carminati.
L'eccellente introduzione della Mazzariol illustra quello che lei chiama "un
enigma letterario". Si tratta della difficolta' di far collimare le notizie
biografiche, diventate ormai una leggenda (o se si preferisce un romanzo), e
i temi trattati nelle poesie. Che parlano molto della Morte, personificata,
di donne di piacere e di ragazzi di vita, di prigione e di castigo, ma,
sembra, piu' come temi poetici (proprio quelli in voga nel Quattrocento) che
come segni di un definitivo pentimento.
Non c'e' per esempio da fare troppo caso se le due principali composizioni
di Villon hanno forma testamentaria. Il Lascito allude a un amore infelice e
a una prigionia; ma e' quella amorosa, cui Villon dice di essersi sottratto.
E del resto le apostrofi all'amata sono una parodia delle poesie cortesi;
forse la donna non e' neppure esistita. Il capolavoro, il Testamento, fu
scritto dopo che la reclusione a Meung era finita e le allusioni alla morte
sono un tema ascetico piu' che un presentimento. Si deve infine tener conto
che il "testamento" e' un genere letterario diffuso sin dal Duecento, con
esempi brillantissimi nei Conges di Jean Bodel e di Adam de la Halle, o in
Jean de Meung.
Lascito e Testamento sono piuttosto un'evocazione efficace, spesso scherzosa
o satirica, di luoghi e specialmente di personaggi: mercanti e artigiani,
soldatacci e sbirri, principi e signori, frati e monache, in un quadro
straordinariamente mosso. Nell'opera maggiore, sono inclusi aneddoti,
riflessioni. Famosissime le ballate delle Dame del passato, della Bella
Elmiera e delle Ragazze di piacere, delle Parigine e della Grossa Margot,
che si mescolano a inni alla Vergine e a confessioni dei peccati. Lo stile
fa tesoro dei gerghi come del latino o della lingua francese antica, con
un'inventiva che fa pensare alla grande farsa di Pathelin e preannuncia
Rabelais. Comunque, in questa celebrazione della vita e di piaceri poco
spirituali, c'e' una malinconia vera, un senso di precarieta' e di
decadenza: specialmente le gioie della carne, descritte con una sensualita'
quando raffinata, quando scurrile, sono intrise di mestizia. E' diventato
proverbiale il ritornello "Mais ou sont les neiges d'antan?", ma ove sono le
nevi dell'altr'anno? Un'allegria sfrenata gremisce quadri pittoreschi sul
cui sfondo traspare una danza macabra, o pendono gl'impiccati in mezzo al
paesaggio, come in certe tavole di Bruegel. Sulla caricatura e la parodia,
e' la melanconia che s'impone.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 196 del 28 dicembre 2008

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