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Minime. 673
- Subject: Minime. 673
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 18 Dec 2008 01:05:30 +0100
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 673 del 18 dicembre 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Nella giornata internazionale dei migranti 2. Arianna Di Genova intervista Franco Lorenzoni 3. Nello Ajello intervista Gustavo Zagrebelsky 4. Roberto Festa intervista Paul Veyne 5. Aldo Garzia intervista Mauricio Rosencof 6. Rossana Rossanda presenta tre libri di Adriana Zarri, Filippo Gentiloni, Amos Luzzatto 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. NELLA GIORNATA INTERNAZIONALE DEI MIGRANTI Nella giornata internazionale dei migranti sara' forse opportuno dire ancora una volta che ogni essere umano ha diritto di recarsi ovunque. Nella giornata internazionale dei migranti sara' forse opportuno dire ancora una volta che il razzismo e' un crimine contro l'umanita'. Nella giornata internazionale dei migranti sara' forse opportuno dire ancora una volta che alcune disposizioni dell'attuale quadro normativo italiano ed europeo, ed a maggior ragione le ulteriori riforme naziste che il governo in carica vorrebbe introdurre, violano la Costituzione della Repubblica italiana e la Dichiarazione universale dei diritti umani. Nella giornata internazionale dei migranti sara' forse opportuno dire ancora una volta che le norme disumane vanno abolite, e che ad ogni essere umano devono essere riconosciuti tutti i diritti umani. 2. ESPERIENZE. ARIANNA DI GENOVA INTERVISTA FRANCO LORENZONI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 ottobre 2008 col titolo "Cittadino fra i banchi" e il sommario "Intervista con Franco Lorenzoni, maestro e animatore della straordinaria Casa-laboratorio di Cenci"] Mariastella Gelmini ha detto che quei genitori che ieri hanno manifestato davanti al ministero dell'istruzione portando con loro il disagio provato verso un modello educativo ritagliato ad hoc per la "scuola che verra'" sono solo "piccole frange che non guardano ai veri problemi". E ha concluso che esistono due Italie. In realta', ha ragione: esistono due Italie, una di serie A (quella che ha i soldi per pagarsi un domani servizi, tempo pieno e laboratori creativi) e l'altra di serie B, con minori mezzi, figli davanti la televisione-baby sitter e per sempre esclusa da un'integrazione sociale. Dalla cultura, intesa come fertile humus su cui costruire un'idea di cittadinanza, sono invece esclusi tutti, i primi e i secondi, a destra e a sinistra. Senza un terreno comune condiviso dalle giovani generazioni, la societa' e' (sara') solo una rete piena di buchi. Franco Lorenzoni dal 1978 e' un maestro elementare, attivo nel Movimento di cooperazione educativa. Ha fondato ad Amelia, in Umbria, la Casa-laboratorio di Cenci dove si persegue una strada di didattica "a misura di bambino". Gli abbiamo rivolto alcune domande per capire meglio come vanno interpretati, oggi, i cicli della scuola dell'infanzia ed elementare made in Italy. * - Arianna Di Genova: Cos'ha che non va, insomma, la scuola primaria tanto da dover essere del tutto "riformata"? - Franco Lorenzoni: Scuola dell'infanzia e scuola elementare sono una delle poche realta' che ancora funzionano (non in maniera omogenea, certo) e che comunque, piace molto ai bambini che la frequentano. Questo accade perche' vi sono al suo interno molti adulti "all'ascolto", cioe' pronti a riversare sugli studenti una grande attenzione. L'altra questione da mettere in evidenza e' il fenomeno delle migrazioni. Nelle nostre classi ci sono, da anni, molti bambini stranieri. E la scuola delle prime fasce di eta' funziona da unico punto di accoglienza dove gli insegnanti si mettono in gioco veramente. Il ventilato ritorno al maestro unico sarebbe un attentato a questo ruolo che ha la scuola di grande mediatrice culturale. Anche i figli dei cosiddetti "clandestini" venivano inseriti e avere questo diritto ha sempre significato, per chi arrivava nel nostro paese con molta sofferenza, un segno positivo, un principio di accoglienza. * - Arianna Di Genova: Perche' sarebbero importanti allora diverse figure di docenti? - Franco Lorenzoni: La pluralita' e' stata una pratica fondamentale perche' in vent'anni le persone hanno imparato a collaborare. Nella "vulgata", passa l'idea che con i voti (anche in condotta), il grembiule, il maestro unico, si possa ritornare a una scuola seria. Ma non e' cosi'. La scuola si forma su culture, strade e percorsi individuali. Fin dai tre anni, li' dentro alcuni adulti capaci di ascoltare, aiutano a crescere, con fiducia, un individuo. Sia esso straniero, di altra etnia o disabile. E' un errore storico fare marcia indietro, lo e' anche per la destra perche' tutto questo un giorno gli si ritorcera' contro, pure dal punto di vista della sicurezza... La scuola come luogo di costruzione di cittadinanza, dove le famiglie possono incontrarsi, spesso in quartieri dove le relazioni sono assai difficili, e' soprattutto un investimento economico. E poi, c'e' la questione della specializzazione: come maestro, non potrei continuare a fare una ricerca quotidiana, approfondita, in ogni campo, da quello logico-matematico a quello linguistico... * - Arianna Di Genova: Cosa ne pensa della reintroduzione del grembiule? - Franco Lorenzoni: In molti, in maniera bipartisan, non lo considerano cosi' negativo... Berlusconi ha chiamato il grembiule, sbagliandosi, la divisa. E' illuminante e piuttosto paradossale: in un mondo dell'immagine dove conta solo come ti vesti, viene infilata la divisa ai ragazzini, in nome di un presunto ordine apparente... Mi sembrano altre le priorita'. * - Arianna Di Genova: Ne potrebbe suggerire qualcuna? - Franco Lorenzoni: Per esempio, difendere una lungimirante legge del 1975 che ha lavorato all'integrazione dei disabili (altri paesi europei sono indietro rispetto a noi). E' un aspetto che non viene considerato: in una situazione con una pluralita' di docenti, il bambino con difficolta' e' alunno di tutti. Gia' con il ministro Fioroni si era ridotto il ruolo degli insegnanti di sostegno riconoscendolo soltanto per le patologie intercettabili dal punto di vista medico. La verita' e' che i bambini portatori di varie difficolta' - nell'apprendimento come nel comportamento - sono in aumento. E la scuola ha sempre svolto con loro una funzione di contenimento. * - Arianna Di Genova: Da insegnante con lunga esperienza alle sue spalle, come giudica i voti e la bocciatura nella scuola dell'obbligo? - Franco Lorenzoni: Nella scuola dell'obbligo (fino a 13 anni) era molto difficile bocciare. Ci si riuniva piu' e piu' volte per cercare di comprendere cosa fosse accaduto con quell'alunno in particolare. Averlo perso era un fallimento per tutti. Don Milani aveva ragione nel dire che quando un ragazzo viene respinto e' la scuola che boccia se stessa, significa che non e' stata in grado di offrire a quel determinato studente un percorso adatto a lui. * Postilla prima. Il laboratorio Franco Lorenzoni e' autore di molti libri sulla pedagogia e l'esperienza dell'insegnamento, fra cui Ospite bambino. L'educazione come viaggio tra le culture nel diario di un maestro (Theoria) e Saltatori di muri (Macro edizioni) che mostra una possibile strada alla convivenza interculturale a partire dalla tradizione narrativa orale e dall'incontro con il teatro di un giovane immigrato africano. Lorenzoni e' nel gruppo di ricerca della Casa-laboratorio di Cenci, esperienza che parti' nel 1980, con uno stage animato da Nora Giacobini. Nel 1982 fu ospite, per tre mesi, Jerzy Grotowski con il suo Teatro delle sorgenti. Dall'incontro con quella esperienza nacque il gruppo che elaboro' alcune proposte di avvicinamento alla natura con il corpo, dando vita ai campi-scuola proposti a bambini e ragazzi di ogni eta' provenienti da diverse regioni italiane. * Postilla seconda. Il villaggio A partire dall'estate 1985 si inauguro' una nuova ricerca, chiamata "villaggio educativo", a cui ha dato un apporto, nella ricerca sull'ascolto, la musica e il canto, Rita Montinaro. Sono esperienze di una settimana, proposte a bambini, ragazzi, adulti e anziani, che ancora oggi costituiscono uno dei terreni di innovazione educativa piu' ricchi. Negli anni, il gruppo e' andato crescendo, contando sempre piu' su apporti di altre culture: da Jairo Cuesta, attore colombiano arrivato a Cenci con il Teatro delle sorgenti, a Sri Kudamaloor, anziano maestro di danza kathakali e Jim Slowiak, regista americano che ha collaborato per anni con Grotowski. 3. RIFLESSIONE. NELLO AJELLO INTERVISTA GUSTAVO ZAGREBELSKY [Dal quotidiano "La Repubblica" del 29 aprile 2008, col titolo "Lezioni di democrazia. A colloquio con Gustavo Zagrebelsky"] In occasione del centocinquantesimo anniversario dell'Unita' d'Italia, che cadra' nel 2011, un gruppo di intellettuali ha progettato una serie di iniziative, da rinnovarsi ad anni alterni, che si raccolgono sotto il nome di Biennale Democrazia. A collaborare all'iniziativa sono chiamati la citta' di Torino e il "Comitato Italia 150", gia' al lavoro nel capoluogo piemontese. Presidente di Biennale Democrazia " Gustavo Zagrebelsky. Gli abbiamo rivolto alcune domande. * - Nello Ajello: Quando esordira' la Biennale Democrazia? - Gustavo Zagrebelsky: La prima sessione la terremo l'anno prossimo, dal 22 al 26 aprile: una settimana che incrocia l'anniversario della Liberazione. Sara' una sorta di prova generale delle celebrazioni previste per il centocinquantesimo anniversario dell'Unita' d'Italia. Nel 2009 saranno cento anni dalla nascita di Bobbio. Alla base di tutto c'e' l'aspirazione a considerare l'intera vicenda risorgimentale non solo nella dimensione statale e territoriale, gia' interamente realizzata, ma anche in senso etico-politico. Disegno, quest'ultimo, che rientra fra i compiti ancora da perseguire. * - Nello Ajello: Due fasi distinte, dunque, dell'unificazione nazionale. Con quale rapporto fra loro? - Gustavo Zagrebelsky: La democrazia e' un insieme di aspirazioni mai realizzate una volta per tutte. Gia' l'unificazione geografica ha creato dei problemi, esemplificati per molti decenni dalla questione meridionale. Ed ecco che essa si presenta, oggi, in una nuova forma: come questione settentrionale. L'una e l'altra "questione" si legano fra loro come fattori confluenti di disgregazione. Ne risulterebbe un paese unificato nel desiderio di scindersi. I fondamenti di legittimita' della nostra democrazia sembrano essere entrati in crisi, riducendosi nella pratica a motivi di discordia. * - Nello Ajello: Certo, un bel paradosso. Anche perche' risulta chiaro che non si tratta di una mera controversia territoriale, ma di una sostanziale contesa etico-politica. - Gustavo Zagrebelsky: Un vero assetto democratico presuppone la tendenziale uguaglianza fra i cittadini. In Italia ci si trova, invece, di fronte a una situazione nella quale - a cominciare dalla disponibilita' delle conoscenze - si verifica uno squilibrio crescente, acuito dallo sviluppo delle nozioni tecnologiche. Alla democrazia si contrappone, in molti casi, la tecnocrazia. Cio' riguarda la condizione interna di ciascuno stato, ma anche la democrazia a livello internazionale. * - Nello Ajello: In che modo si presentano, particolarmente in Italia, questi problemi? - Gustavo Zagrebelsky: Guardi lo stato in cui versa la scuola. Si cerca di risolverne le difficolta' mediante un approccio di tipo tecnico, privilegiando gli aspetti meramente professionali dell'insegnamento: si pensi, per dirne una, alla trovata delle tre "i", concepita nel 2002 da Silvio Berlusconi: inglese, internet, impresa. Un approccio d'indole esecutiva. La democrazia, invece, richiede cittadini capaci non solo di eseguire, ma anche di decidere che cosa realizzare, perche' e come. E' in questa prospettiva che va considerata la sfida che ci pone oggi l'istruzione. * - Nello Ajello: L'immigrazione, accanto ai suoi riflessi positivi, presenta una fisionomia tale da aggravare simili inconvenienti. Come si pensa di farle fronte? - Gustavo Zagrebelsky: Occorre integrare gli immigrati in uno stile di vita che non disconosca le loro particolarita', ma si fondi su un ethos minimo condiviso. Esso dovrebbe in primo luogo comportare la comune rinunzia alla violenza, che genera paura. * - Nello Ajello: E viceversa. Ecco un circolo vizioso che va interrotto. Con quali interventi? - Gustavo Zagrebelsky: Il vero antidoto e' l'adozione di un tipo di sicurezza che non agisca a senso unico, ma quale componente d'un contesto generale. Riferiamoci a una proposta attuale: le ronde. Esse, che pure mirano a un obiettivo di sicurezza, diffondono violenza e moltiplicano la paura. Cio' appunto perche' non rappresentano un rimedio di sistema. Risentono, al contrario, di pulsioni esclusive e "di parte". * - Nello Ajello: So bene che il tema democrazia e' inesauribile. Ma quali proposte concrete avanzerete nella prima sessione della vostra Biennale? - Gustavo Zagrebelsky: Pensiamo, per cominciare, proprio al coinvolgimento delle scuole. Prenderemo in esame le proposte provenienti dal mondo dell'istruzione: docenti e studenti. Riprodurremo e diffonderemo a Torino esperimenti attuati in altre zone d'Italia. * - Nello Ajello: Puo' farmi qualche esempio? - Gustavo Zagrebelsky: Eccone uno, denominato "le belle tasse": titolo che venne adottato in epoca non sospetta, prima cioe' che il ministro Padoa Schioppa affermasse, con una battuta controversa, che "pagare le tasse e' bello". L'esperimento si svolse fra gli allievi delle scuole elementari di Roma. A ciascuno scolaro fu assegnato un gruzzolo in monete di cioccolata per finanziare, mediante tassazione, un qualche progetto comune: una festa, una gita, una recita. Nacquero subito, fra i piccoli contribuenti, alcune domande: alla spesa dobbiamo partecipare tutti nella stessa misura, o qualcuno paghera' di piu' e qualche altro di meno? E ci sara' chi fara' il furbo, evitando di contribuire? Sono, "in nuce", i problemi della democrazia fiscale, dal giusto gravame dei tributi all'evasione e all'elusione. * - Nello Ajello: Avete in programma altre iniziative capaci di interessare ampi ceti sociali? - Gustavo Zagrebelsky: Progettiamo di promuovere esperimenti di democrazia deliberativa, attraverso discussioni fra cittadini informati. Si fornisce a un campione di persone una serie di dati di conoscenza imparziali su un tema controverso: il voto agli immigrati, poniamo. Dopo aver sottoposto l'argomento a dibattito, si confronteranno i risultati della conversazione con le opinioni iniziali dei partecipanti. E' un esempio dei progetti capillari che confluiranno nelle "lezioni magistrali" previste per la settimana. Ad assistere alle quali inviteremo qualche centinaio di studenti che abbiano partecipato alle iniziative preparatorie. Vorremmo, per ospitarli, predisporre un "campus" con la collaborazione del comune di Torino. * - Nello Ajello: Torniamo ai presupposti ideali di Biennale Democrazia. In quale misura al conseguimento della seconda Unita' d'Italia, quella etico-politica, potrebbe essere di ostacolo la funzione che in Italia esercita la Chiesa? Mi riferisco all'interventismo della Santa Sede nelle vicende pubbliche. - Gustavo Zagrebelsky: L'unificazione cui pensiamo implica la partecipazione di tutti i soggetti portatori di istanze etiche. A patto che nessuna di queste forze si erga ad unico interprete autorizzato dell'ethos nazionale. 4. STORIA. ROBERTO FESTA INTERVISTA PAUL VEYNE [Dal quotidiano "La Repubblica" del 22 dicembre 2007 col titolo "Roma e il mondo greco" e l'occhiello "Intervista con Paul Veyne di Roberto Festa"] "La politica era romana, ma la cultura era greca". Cosi', con uno sforzo notevole di sintesi, si potrebbe racchiudere il senso de L'impero greco-romano, monumentale summa del pensiero, del sapere e della grazia intellettuale di Paul Veyne. Titolare della cattedra di Storia romana al College de France fino al 1998, uomo di cultura particolarmente attivo nella vita pubblica (soprattutto ai tempi della guerra d'Algeria), Veyne ha rivoluzionato l'approccio alla mitologia greca con I greci hanno creduto ai loro miti? Nell'ultimo libro intreccia filosofia, sociologia, archeologia, psicologia, storia sociale, culturale e delle mentalita', per descrivere il primo mondo davvero globale della storia dell'umanita'. * - Roberto Festa: Paul Veyne, siamo abituati a dissociare la civilta' greca dall'impero romano. La tesi centrale del libro e' invece che l'impero di Roma sia fondamentalmente un impero greco-romano. Perche'? - Paul Veyne: Perche' l'impero era bilingue e biculturale. Le faccio due esempi. A Roma, la filosofia e la medicina si insegnavano in greco, e l'imperatore Marco Aurelio annotava i suoi pensieri in greco, e non in latino. La frontiera linguistica passava sul territorio della ex Jugoslavia: di qua si parlava il latino, di la' il greco. * - Roberto Festa: Orazio scriveva che "la Grecia ha conquistato il suo selvaggio conquistatore" recandogli le arti. - Paul Veyne: Esattamente. Le strutture portanti - filosofia, retorica - erano greche. Roma aggiunse il genio politico al genio artistico e culturale greco: l'autorita' e il senso della regola del gioco politico, quindi il diritto, sono romani. * - Roberto Festa: Il greco era la cultura, e la lingua, di una prima "mondializzazione"? - Paul Veyne: Si', quella greca era una cultura globale, che dal sud del Marocco arrivava sino all'attuale Afghanistan. Il re del Marocco studiava il greco e la retorica per raccontare la storia del suo paese. * - Roberto Festa: Esiste un modello politico e sociale comune, tra i Greci e Roma? - Paul Veyne: Sono le citta'. Non si conoscono esattamente le ragioni per cui questo modello sociale si e' sviluppato tra i fenici e poi diffuso rapidamente in Asia Minore, nel mondo etrusco, quindi in quello romano. Ma la Grecia e Roma hanno in comune proprio il sistema della citta'. Il mondo dominato da Roma vive in uno stato di sostanziale autarchia. Il potere centrale non si confonde con gli affari delle citta' conquistate, ma interviene soltanto nel caso di disordini. L'impero romano era un commonwealth di citta'. * - Roberto Festa: Quindi Roma lasciava ampia autonomia ai poteri locali. - Paul Veyne: L'autonomia era totale. Scherzando, si potrebbe dire che il sistema romano consisteva nell'ordinare alla gente di fare quello che gli andava di fare. I romani comandavano trasformando i notabili delle citta' in collaboratori. Ma non pensavano affatto a diffondere la loro civilta'. Se per esempio i galli o i bretoni d'Inghilterra adottavano i bagni pubblici, lo facevano per civilizzarsi, non perche' i romani li spingessero in questo senso. I romani se ne infischiavano. Non volevano fare proseliti o diffondere la loro civilta'. * - Roberto Festa: Eppure esiste almeno un campo in cui Grecia e Roma si differenziano: la concezione dell'autorita'. - Paul Veyne: Si', i romani avevano un concetto dell'imperium molto piu' violento di quello greco, e concepivano l'autorita' sotto forma militare, come il comando dell'ufficiale sulle truppe. Sul campo di battaglia, un ufficiale ha diritto di vita e di morte sui suoi soldati. Allo stesso modo, il magistrato aveva diritto di vita e di morte sui cittadini. E' la disciplina militare, che diventa modello civile. * - Roberto Festa: Da dove viene questa concezione dell'autorita'? - Paul Veyne: Difficile dirlo. Molta storiografia italiana, soprattutto di ispirazione marxista, parla di un interesse di classe. Io preferisco pensare a ragioni psicologiche. C'era a Roma una concezione spontanea della sicurezza, che spingeva a fare di tutto perche' Roma non fosse minacciata. In questo senso, non esisteva una vera politica estera, delle relazioni diplomatiche, perche' il fine era assorbire tutto cio' che stava attorno, e che poteva costituire una minaccia. L'imperatore non aveva un ministro degli affari esteri. Non essendoci altre nazioni, non c'era neppure una politica estera. Roma si considerava l'unico vero stato, con attorno una serie di tribu' informi cui demandare larga autonomia. * - Roberto Festa: Il cittadino dell'impero si sentiva greco-romano? - Paul Veyne: Dipende. Galli, spagnoli e africani si sentivano romani. Erano fieri della loro nascita, ma poi si consideravano parte di un tutto piu' vasto. Un siriano diceva: sono siriano, ma poi aggiungeva, "suddito fedele dell'imperatore". Sant'Agostino si definiva un "romano d'Africa". Al contrario, i greci erano fieri di essere greci. Ancora nel quarto secolo, dicevano: "Noi siamo greci, voi romani". Con tutto il loro senso di superiorita', i greci erano comunque contenti della dominazione romana, che assicurava il potere dei notabili, la buona societa' e la difesa dai barbari che vivevano oltre l'Eufrate. * - Roberto Festa: Gli imperatori avevano una nazionalita'? - Paul Veyne: Erano di tutte le nazionalita', a patto che fossero occidentali e latini. Non c'e' pero' un solo imperatore greco. I greci erano troppo fieri, non ispiravano fiducia. * - Roberto Festa: Qual era il mandato dell'imperatore? - Paul Veyne: L'imperatore era chiaramente distinto dal re. Era un "gran cittadino", che col suo clan aveva assunto il potere per governare e difendere la cosa pubblica, quindi l'Impero. Il suo potere non aveva alcuna connotazione mistica. Era un mandatario del popolo romano, che nel caso si fosse comportato male sarebbe stato rimpiazzato. E poiche' la sola sanzione nella politica romana era la morte, il suo allontanamento coincideva spesso con il suo assassinio. * - Roberto Festa: Lei ha scritto di essere diventato storico per uno "choc psicologico": quando, a otto anni, su una collina vicina a Cavaillon, trovo' per caso la testa di un'anfora. Questa scoperta le fece "l'effetto di un meteorite caduto da un altro pianeta". La storia e' la scoperta dell'alterita'? - Paul Veyne: Fare storia significa sottolineare le differenze con il passato. Il passato e' irrimediabilmente perduto, senza alcuna rassomiglianza con quello che ci sta intorno. Lo storico deve disegnare queste figure lontane. Per farlo, inventa delle idee, quindi concettualizza. La concettualizzazione e' l'unico modo per arrivare a esprimere l'individualita'. Dire che il potere dell'imperatore era un potere di clan, che l'imperatore era mandatario e non sovrano, significa appunto concettualizzare. Il concetto storico individualizza, non generalizza. Senza concetti storici, c'e' soltanto senso comune e attualizzazione. 5. LIBRI. ALDO GARZIA INTERVISTA MAURICIO ROSENCOF [Dal quotidiano "Il manifesto" del 23 maggio 2008 col titolo "La memoria ritrovata di Mauricio Rosencof" e il sommario "Parla lo scrittore uruguayano che nel romanzo Le lettere mai arrivate intreccia le storie dei suoi parenti, ebrei polacchi, con i propri ricordi del carcere. Giornalista, poeta e autore di testi narrativi e teatrali, Rosencof e' stato tra i fondatori dei Tupamaros. A lungo detenuto in condizioni durissime, e' oggi assessore a Montevideo"] Per l'anagrafe, Mauricio Rosencof ha settantacinque anni, di cui tredici passati dentro un cunicolo nauseabondo, in un carcere durante la dittatura militare in Uruguay, tra il '73 e l'85. Ma lo sguardo e la battuta sono quelli di un ragazzo indisciplinato che ne ha viste tante e tante ne vuole vedere. "Se sono ancora qui, e' perche' ho sedotto molte ragazze per interposta persona: quando si e' sparsa la voce che sapevo scrivere bene, i carcerieri mi commissionavano le loro lettere d'amore e in cambio mi davano delle sigarette. Io non le fumavo, ma usavo la carta per prendere appunti e scrivere poesie molto brevi". Nell'ascoltare i racconti di Rosencof - a suo tempo tra i fondatori del Movimento di liberazione nazionale Tupamaros insieme a Raul Sendic, e oggi assessore alla cultura di Montevideo - sembra di ritrovare le disavventure del Conte di Montecristo: colloqui con il vicino di cella Eleuterio Fernandez Huidobro, anche lui fondatore dei Tupamaros e poi scrittore, grazie a un alfabeto morse dove le nocche delle dita davano il tempo e scandivano le lettere, partite a scacchi giocate con lo stesso sistema, un lavoro costante sulla memoria per non perdere la dimensione del tempo. Giornalista, autore di opere narrative e teatrali, poeta, Rosencof conserva intatta la sua passione politica ("la parola 'compagno' mi piace sempre molto") ed e' noto per libri come El barrio era una fiesta, minuziosa ricostruzione della vita nel quartiere Palermo di Montevideo o La rebelion de los caneros. Lo abbiamo incontrato a Roma dove nei giorni scorsi ha presentato il suo primo testo tradotto in italiano, Le lettere mai arrivate (Le Lettere, pp. 110, euro 14). * - Aldo Garzia: Il suo libro, che ha avuto grande risonanza internazionale, ha echi autobiografici. Ce ne vuole parlare? - Mauricio Rosencof: Un giorno, in carcere, ho ricevuto una lettera da mia figlia che aveva appena sette anni. Aveva scritto poche parole, peraltro censurate. Si era firmata e in fondo al foglio aveva scritto graziosamente "contemporanea". La memoria, che e' priva di cronologia o almanacchi, mi ha riportato alle lettere che giungevano a mio padre. I miei genitori, di origine ebraica, provenivano da Belzitse, un paesino nei pressi di Lublino, in Polonia, e si erano trasferiti in Uruguay in cerca di fortuna. Mio padre era sarto, con convinzioni politiche bolsceviche. Ogni volta che il postino gli consegnava una lettera, era un avvenimento straordinario: lui non la apriva subito, ma aspettava il pranzo della domenica per leggerla a mia madre e a noi tutti. Poi, le lettere non arrivarono piu': Hitler aveva invaso la Polonia e i miei parenti sarebbero finiti a Auschwitz e Treblinka. Nel libro, dunque, ricostruisco una storia famigliare raccontata attraverso una serie di lettere, fra l'altro l'unica forma di comunicazione di cui disponevo durante la prigionia. * - Aldo Garzia: Forse proprio l'avere intrecciato la cronaca di una famiglia con la storia dell'intera Europa puo' avere contribuito al successo del suo libro. - Mauricio Rosencof: In un racconto autobiografico non si riconosce solo chi scrive. Le lettere che giungevano a mio padre parlavano della vita che si erano lasciati alle spalle lui e mia madre: quella delle loro famiglie di origine, fatta di avvenimenti semplici come un battesimo o un matrimonio. Le lettere mai arrivate ricostruisce quelle atmosfere. Spesso i lettori pensano che si tratti di lettere autentiche. E un po' lo sono, perche' le ho scritte partendo dai racconti dei miei genitori. Salvare la memoria e' il grande obiettivo dei nostri giorni, la prima barricata della resistenza contro l'oblio. Il mio riferimento letterario, Primo Levi, ci ha insegnato che la memoria e' un'arma formidabile, come nella splendida pagina di Se questo e' un uomo in cui narra il concentramento di ebrei, comunisti e gitani in attesa di essere trasportati a Auschwitz: tutti sanno che andranno a morire, ma le madri lavano gli indumenti dei propri figli. * - Aldo Garzia: Le sue condizioni di prigionia in Uruguay, descritte in alcuni suoi libri, sono state terribili: recluso in una botola sotterranea, e' stato costretto a vivere in completo isolamento per tredici anni. Come si fa a resistere? - Mauricio Rosencof: Anche in quel caso e' stato utile esercitare la memoria. Alcuni compagni erano impazziti per le condizioni di detenzione. Io comunicavo a colpi di nocche solo con il mio vicino di cella. A un certo punto, prendemmo il comune impegno che se uno di noi fosse uscito vivo dal carcere avrebbe raccontato tutto cio' che avevamo patito anche a nome dell'altro. Una volta liberi entrambi, abbiamo narrato con semplicita' quello che era accaduto. Non avevamo nemici particolari da accusare. Per noi, parlavano i fatti. * - Aldo Garzia: Nell'Uruguay dei nostri giorni, molti di coloro che furono dirigenti e militanti del movimento dei Tupamaros sono impegnati nel governo di centrosinistra. Lei e' tra questi. - Mauricio Rosencof: Noi non abbiamo mai rifiutato per principio la politica istituzionale o la via parlamentare alla democrazia. Nel '71 il nostro era un movimento legale che cercava alleanze con altre forze. Abbiamo anche partecipato alla fondazione del Frente amplio, l'alleanza progressista che governa attualmente il mio paese e che all'inizio teneva insieme, in una unica coalizione, un arco di forze che andava dal partito democristiano fino ai Tupamaros. Nelle specifiche condizioni dell'Uruguay degli anni successivi, abbiamo pensato che fosse giusto ribellarsi con le armi. Tornata la democrazia, dopo gli anni bui della dittatura, ognuno di noi ha ripreso il cammino iniziale. Se si conosce la storia politica del mio paese, questo percorso non appare bizzarro. * - Aldo Garzia: In America latina oggi, come mai prima nella storia recente, sono molti i governi di sinistra o progressisti: dal Brasile al Venezuela, dal Cile alla Bolivia. Come valuta questa novita'? - Mauricio Rosencof: Oltre che uno scrittore, mi considero un uomo politico. E so che in America latina ci sono state fasi cicliche come questa, per esempio agli inizi del secolo scorso o negli anni '50. Oggi ci sono molte opportunita' di cambiamento sociale e politico, ma non si sono superati i particolarismi e i nazionalismi a favore di un progetto unitario di dimensioni latinoamericane. Puo' capitare cosi' che Evo Morales, il presidente indio della Bolivia, non trovi la solidarieta' di Lula, il presidente del Brasile che ha origini operaie e una lunga militanza sindacale alle spalle, nella concertazione dell'utilizzo delle materie prime boliviane. E gli episodi da citare potrebbero essere tanti. Il cammino da fare e' lungo. Non mi faccio prendere dall'ebbrezza di un facile ottimismo. 6. LIBRI. ROSSANA ROSSANDA PRESENTA TRE LIBRI DI ADRIANA ZARRI, FILIPPO GENTILONI, AMOS LUZZATTO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 dicembre 2008 col titolo "Credenti di sinistra. Davanti a Dio come adulti responsabili" e il sommario "Adriana Zarri in Vita e morte senza miracoli di Celestino VI, Filippo Gentiloni in Credere e' camminare e Amos Luzzatto in Conta e racconta disegnano un rapporto con la fede lontano dall'infantile obbedienza auspicata da Ratzinger"] Nel mondo odierno - scriveva Dietrich Bonhoeffer - non possiamo stare davanti a Dio come bambini davanti a un padre dal quale si aspettano tutto, ma da adulti che se la sbrogliano da se' nelle responsabilita' e nei dilemmi terreni. Il credente non vive "chiedendo a Dio", ma "in presenza di Dio", che per il cristiano vuol dire in presenza della Croce. E cosi' egli ha fatto fino alle decisioni ultime e piu' problematiche, impiccato dai nazisti per aver partecipato al complotto contro Hitler. Questo rapporto adulto si apriva per i cattolici con il Concilio Vaticano II, mentre Ratzinger fa di tutto per ridurli a un'infantile obbedienza. Tanto piu' si respira leggendo tre libri usciti negli ultimi mesi; due cattolici e un ebreo: Vita e morte senza miracoli di Celestino VI di Adriana Zarri (Diabasis, pp. 179, euro 12), Credere e' camminare di Filippo Gentiloni (La Meridiana, pp. 40, euro 8) e Conta e racconta di Amos Luzzatto (Mursia, pp. 280, euro 17). * Buoni usi della dittatura vaticana In Adriana Zarri la presenza di Dio e' sicura e acquietante da quando, giovanetta incredula, ha aperto un giorno la finestra e le e' apparso il creato dotato di senso di un Dio amoroso. Ne e' venuta una mistica che ha scelto il laicato per rigore, per scrivere e attuare liberamente da cittadina. Il suo piu' che un romanzo e' un apologo su un tema bruciante, il papato. Non aveva amato Woityla, e deve essere delusa da Ratzinger che era stato in gioventu' uomo del Concilio. Narra dunque di un papa tutto diverso, un sacerdote sobrio che vive in condivisione con i fedeli invece che apostrofarli da un sacro soglio sfolgorante e autoritario. Il tema di una chiesa come comunita' di credenti ha alimentato sempre le eresie infracattoliche, ma Adriana non si sente eretica affatto. E neanche il suo don Giuseppe, semplice e colto parroco di campagna (ne ha conosciuti di persona alcuni) stupefatto di essere proposto papa perche' il Conclave, non riuscendo ad accordarsi dopo la morte di Benedetto XVI, ripiega sulla proposta avanzata da un cardinale fuori dal giro e specie dalla Curia (la quale ci sta perche' tanto, pensa, sara' sempre lei a governare). Don Giuseppe accettera': per abolire ogni pompa, ogni enfasi, ogni cerimoniale, ogni pretesa curiale, fino a restituire il Vaticano a Roma e le chiese ai fedeli, nomina dei vescovi inclusa. Egli stesso non si porra' come l'infallibile vicario di Cristo ma come vescovo di Roma, servo dei servi di Dio, vivendo in poche stanze in San Giovanni Laterano, lontano da quel simbolo di potenza che e' San Pietro, condividendo senza problemi la famosa piazza con i comunisti (che Adriana crede tuttora presenti) le poche volte che riterra' di rivolgersi ai fedeli dall'alto invece che mischiarsi con loro. E pur non apprezzando l'uso di cambiare il nome, sceglie per se' quello di Celestino VI: Celestino V era quello che Dante accusa di aver fatto "per viltade il gran rifiuto". La sua conoscenza delle scritture essendo inattaccabile, Celestino VI demolisce con calma la verticalita' della Chiesa, le sue ricchezze, le sue gerarchie, la sessuofobia, la misoginia, la complicita' o l'ingerenza nelle cose dello stato, le concessioni a forme idolatriche, il vezzo di fare santi, la persuasione di essere sola a detenere tutte le verita'. Insomma fa buon uso della dittatura vaticana per restituire il cristianesimo ai cristiani - paradosso sul quale Adriana sorvola con qualche ironia. Cosi' assistiamo alle riforme di Celestino VI, mentre - lei scrive con un sorriso - le stagioni si susseguono, le rondini sfrecciano e lo Spirito spira. Fino alla morte di don Giuseppe papa, naturalmente senza miracoli. A meno che... a meno che un bel momento Celestino VI non decida di dimettersi e tornare alla sua parrocchia. Nessuna viltade, sostiene Adriana, e' una scelta dal punto di vista ecclesiale da rispettare come l'altra. La favola ha una sua evidente morale. Il monaco benedettino Benedetto Calati aveva scritto le stesse cose, ma con profetica collera invece che con la mano leggera della mia amica. Nessuno oltre Tevere gli ha dato ascolto ne', temo, lo dara' ad Adriana, sapendo che da quando si sono smessi i roghi nulla difende il potere dai suoi contestatori quanto tacerne. * In guardia dalla perentorieta' dell'io Tutt'altro il lavoro di Filippo Gentiloni. Tanto e' quieto il rapporto di Adriana con Dio tanto inquieto e' quello suo. Anch'egli procede senza strepiti, sempre piu' asciugando le parole, ma e' arrivato all'interrogativo inesorabile: come credere dopo la morte della metafisica? Soltanto a condizione di non mirare a una verita' data una volta per sempre, ma cercarla e interpretarla, insegnamento prezioso dell'ermeneutica. L'interpretazione e' il rapporto che si determina tra il Libro e chi lo scruta fra esitazioni, dubbi, intuizioni - il libro cresce "cum legente", scriveva Gregorio Magno. E non basta, occorre che colui che legge sia cosciente del suo limite, rispetti altre letture e ne senta il bisogno, intuisca l'alterita' come quel che gli manca. Questo tipo di fede non e' amato dai monoteismi, ma corre nei testi biblici e nella pratica ebraica dell'interpetazione permenente, e il cristianesimo lo sigla nella Trinita', un dio dalle tre diverse nature; delle quali Gentiloni predilige lo Spirito, perche' la figura del Padre mantiene un'autorita', e quella del figlio la pesantezza dell'incarnazione - il Cristo o e' un uomo sofferente ("Signore, perche' mi hai abbandonato?") o risorge da guerriero trionfante, come nella tavola di Piero della Francesca a Borgo Sansepolcro, o da vendicatore, come nel Giudizio di Michelangelo. Lo Spirito invece e' un soffio, il meno frequentato dalla chiesa devozionale. Il pensiero piu' vicino a quello di Gentiloni e' quello di Levinas, ma apprezza di Gianni Vattimo il passo "debole", non nel senso di fragile bensi' di non prepotente e mi sembra affine alle teorie del "manque" del teologo francese Claude Geffre'. Il bisogno dell'altro, precisa Gentiloni, mette in guardia dalla perentorieta' dell'io, della grecita', della fatale ragione (carissimi a quelli come me). Credere e' cercare, sapere che c'e' dell'altro e oltre. Non e' il "credo" minaccioso del Concilio Tridentino, e' "credo" nel senso di "credo di sapere". Di qui per Filippo il valore del relativismo, che Benedetto XVI considera il peggior pericolo, mentre e' la chiave del non fermarsi nel ricercare, dello stare in ascolto. Per lui la preghiera e' proprio domanda, domanda di aiuto, bisogno. La sola certezza sta in un cammino durante il quale forse si incontrera' la grazia, non per merito ma per dono; e qui il suo sguardo va al vangelo di Giovanni, forse al tragico Agostino. Non so se al - del resto intollerante - Lutero. (Il gatto del papa ideale di Adriana si chiama Lutero, e per quel che essa pensa dei gatti non e' certo una diminuzione). * L'etica forte del fare in terra Il terzo libro di un credente e' di un ebreo, Amos Luzzatto, autorita' della comunita' ebraica nel periodo nel quale era diretta anche da Elio Toaff e Tullia Zevi, che come lui potrebbero definirsi "di sinistra". Amos, di professione chirurgo, e' stato molto vicino al Partito comunista. La sua autobiografia Conta e racconta prende il titolo da due versetti biblici, fa il tuo bilancio e parlane. La fede di Amos non ha ne' trasporti ne' dubbi, a lui il Libro, sempre da interpretare, non impone di essere frugato nell'anima; tanto meno da un papa adorno di piume e avvezzo al comando. L'ebraismo si e' risparmiato quell'ambigua modernita' che porta la chiesa tridentina a infilarsi in tutti i labirinti delle coscienze; per cui rispetto alla chiesa di Roma, perfino gli ebrei ortodossi, pur cosi' grevi, sono poco piu' di un simpatico o antipatico partito. Non a caso e' la secolarizzazione nello stato d'Israele, peraltro mai esplicitamente dichiarata, che conosce da qualche tempo traumi e condanne, ma ne e' risultato non piu' che un esacerbato nazionalismo; che non e' poca cosa ma non stinge sugli ebrei come Amos, Jahve' non essendo un Dio addomesticabile in politica come quello del Vaticano. Amos Luzzatto in ogni caso ne e' serenamente libero, come il breve libro scritto alcuni anni fa, Il posto degli ebrei (Einaudi, 2004), dove la connotazione di "ebreo" e' cosi' inviluppata nella persecuzione che questo popolo ha subito, che neanche esige una perpetua certificazione. Ne consegue un rapporto con Dio privo della compiutezza di Adriana e della problematicita' di Filippo. La fede non si pone come problema. L'apprendimento religioso in famiglia dall'allegra mamma e dalle zie e' intrinseco all'aver dovuto lasciare da ragazzo l'Italia per la Palestina, imparare l'yddish ed essersi sentito la' per la prima volta al sicuro, nonche' l'essere e agire nelle cose del mondo quale che ne sia il rischio. Il quale non prende mai in Amos accenti tragici, per una sorta di pudore che diventa grande saggezza, tolleranza e fin un benevolo humour veneziano. La biografia risulta tutta intrecciata di privato e pubblico; del tutto privato e' soltanto l'innamoramento senza tempo per la moglie, mentre nella relazione con i severi figli non manca qualche sfumatura di affettuoso distinguo. Questa e' la qualita' preziosa di Luzzatto, che comporta un'etica forte del fare in terra e gli permette di essere di sinistra anche ora, quando non e' piu' facile ne' consueto. Come e' tranquillo il suo rapporto con lo stato di Israele, solo luogo sicuro per gli ebrei, percezione ignota a chi non conosce questa insicurezza primaria. Viene da pensare che l'assenza di una salvezza collocata fuori dalla vita, della resurrezione come fondamento dell'essere cristiano, assicura agli ebrei come Amos una diversa laicita' e una fondamentale tolleranza che forse non puo' mai interamente essere del cristiano o del musulmano. Sulla sua spalla si puo' posare il capo come su quella d'un fratello; e quando ci incontriamo, purtroppo raramente, il suo abbraccio mi fa bene. 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 673 del 18 dicembre 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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