Voci e volti della nonviolenza. 262



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 262 del 14 novembre 2008

In questo numero:
1. Roberto Carnero intervista Luisito Bianchi
2. Valeria Gennero intervista Richard Powers
3. Sara Marinelli intervista Peter Orner
4. Cristiana Paterno' intervista Abbas Kiarostami

1. ROBERTO CARNERO INTERVISTA LUISITO BIANCHI
[Dal mensile "Letture", n. 625, marzo 2006, col titolo "Luisito Bianchi: la
fabbrica come Chiesa" e il sommario "79 anni di eta' e 56 di sacerdozio, don
Luisito racconta in un libro perche' negli anni Sessanta scelse di lavorare
come operaio. Un'esperienza che rientra in una piu' ampia riflessione sulla
gratuita' nel ministero della Chiesa"]

Ha fatto l'insegnante, il traduttore, l'infermiere, l'operaio e persino il
benzinaio. Ma Luisito Bianchi non ha mai smesso di essere prete. Nato a
Vescovato, in provincia di Cremona, nel 1927, sacerdote cattolico dal 1950,
il grande pubblico l'ha conosciuto tre anni fa, quando Sironi ha
ripubblicato La messa dell'uomo disarmato, un ampio, suggestivo romanzo
sulla Resistenza. Lo stesso editore ha mandato in libreria un'altra sua
opera, Come un atomo sulla bilancia (2005, pp. 288, euro 14,50), il
racconto, alternato alla riflessione, dell'esperienza vissuta da don Luisito
Bianchi, a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, come prete
operaio. Incontriamo l'autore nella splendida cornice dell'abbazia
trecentesca di Viboldone, dove attualmente presta la funzione di cappellano
presso la comunita' delle suore benedettine.
*
- Roberto Carnero: Don Luisito, ci vuole raccontare come nacque in lei il
desiderio di condividere l'esperienza dei lavoratori?
- Luisito Bianchi: Non si e' trattato di una scelta ideologica, ma quasi
della conseguenza di quanto avevo fatto nella mia vita sino ad allora. Ero
stato assistente provinciale delle Acli nella mia diocesi, quella di
Cremona. Poi da li', nel 1964, ero stato chiamato a Roma a ricoprire
l'incarico di viceassistente nazionale. Quello del lavoro era dunque il
campo del mio impegno pastorale. Al termine di tre anni trascorsi a Roma,
fui richiamato a Cremona e cosi', timidamente, espressi al mio vescovo il
desiderio di andare in fabbrica. Sentivo da tempo l'esigenza di lavorare:
come prete, parlavo della spiritualita' del lavoro, della teologia del
lavoro, ma concretamente non sapevo cos'era il lavoro. Volevo essere
credibile nell'annuncio attraverso la gratuita' del mio servizio di prete.
Mantenendomi attraverso un salario frutto della fatica in fabbrica, mi sarei
sentito piu' in linea con una coerenza di fondo.
*
- Roberto Carnero: Come inizio' quell'esperienza?
- Luisito Bianchi: Il vescovo di Cremona accetto' la mia richiesta, a patto
che trovassi un posto fuori dal territorio della diocesi, per evitare
commenti e imbarazzi. Mi accolse il vescovo di Alessandria, e insieme a me
anche un confratello belga. Trovammo un appartamento dove avremmo vissuto e
cosi' avvenne il mio ingresso alla Montecatini.
*
- Roberto Carnero: A chi la assunse rivelo' da subito la sua condizione di
sacerdote?
- Luisito Bianchi: Si', volli essere chiaro, anche perche', se non l'avessi
detto subito, sarebbe potuto sorgere il dubbio che, da laureato, volessi
farmi assumere come operaio, magari per fare poi carriera dentro l'azienda.
Invece a me andava bene fare l'operaio, era quello che volevo, pur non
smettendo di essere prete.
*
- Roberto Carnero: E i suoi colleghi di lavoro come l'accolsero?
- Luisito Bianchi: La fabbrica era molto grande, quindi mi conobbero solo i
compagni della mia squadra, quella nella quale ci alternavamo nei turni.
All'inizio non sapevano che fossi prete, si stupivano soltanto dell'eta'
relativamente avanzata a cui cominciavo quel lavoro (avevo 40 anni) e del
fatto che ne' il mio aspetto fisico (le mie mani bianche e lisce, cosi'
diverse da quelle di un lavoratore...) ne' il modo di comportarmi quadravano
molto con il ruolo che ero andato a occupare. Nel giro di qualche giorno,
pero', la voce che ero prete si diffuse. Non ci fu alcun problema di
accettazione. Anzi, i miei compagni di lavoro divennero presto dei veri
amici. Ricordo che uno di loro disse a un collega piu' anziano: "Vuoi vedere
un prete che lavora?". E l''altro: "No, non e' possibile, i preti non hanno
mai lavorato...". Ma almeno in questo caso dovette essere smentito dai
fatti.
*
- Roberto Carnero: Lei sottolinea che il lavoro voleva essere parte del suo
essere sacerdote. In che modo?
- Luisito Bianchi: Per rispondere devo tornare a un concetto a me caro, sul
quale ho svolto una ampia riflessione in un libro intitolato Monologo
partigiano sulla gratuita' (pubblicato da Il poligrafo nel 2004), che
raccoglie alcuni appunti sulla storia della gratuita' del ministero della
Chiesa. Mi sono convinto sempre piu', anche attraverso l'esperienza della
fabbrica, che per essere credibili quando annunciamo un Dio che si e' fatto
uomo nella poverta', dobbiamo vivere questo valore in prima persona.
L'annuncio del Vangelo non deve diventare un modo per sostentarsi
economicamente, come avviene invece nel regime concordatario per cui i preti
ricevono uno stipendio finanziato dall'otto per mille.
*
- Roberto Carnero: Dunque lei non risparmia critiche a certi modi con cui
l'istituzione Chiesa ha organizzato alcuni aspetti della propria vita.
Eppure ci tiene a ribadire il suo amore per questa Chiesa...
- Luisito Bianchi: Amo questa Chiesa perche' e' quella che mi ha trasmesso
Cristo. Ed e' nella Chiesa che ho sentito parlare di un Dio che sceglie di
perdere ogni potere, preferendo la poverta'. Di fronte a certi atteggiamenti
della Chiesa mi viene da chiedermi: e' possibile che si cerchi il potere per
affermare la Parola di Colui che ha rifiutato il potere? E poiche' il potere
e' soprattutto quello economico, per spezzare questa catena e' necessario
rifiutare le ricchezze e gli agi materiali. Credo che la Chiesa oggi
dovrebbe fare proprio questo.
*
- Roberto Carnero: Lei ha vissuto la stagione del Concilio Vaticano II: un
certo suo modo di vedere le cose e' forse figlio di quell'epoca?
- Luisito Bianchi: E' vero, ho vissuto molto intensamente il Concilio. Ma il
Concilio e' stata la prosecuzione di molte idee che erano entrate nella
Chiesa, soprattutto in quella belga e francese, negli anni precedenti.
Tuttavia gia' durante lo svolgimento dei lavori conciliari si intravedeva
qualche elemento frenante. Oggi il Concilio mi sembra una cosa lontana. I
problemi di allora sono rimasti, e sono i problemi di sempre: la separazione
tra poveri e ricchi, qualcosa che gia' san Paolo ai suoi tempi
stigmatizzava, mettendo in guardia la comunita' di Corinto dal rischio di
non riconoscere Cristo attraverso queste divisioni. Il passaggio dal latino
all'italiano nella liturgia ha favorito una maggiore comprensione, ma una
vita intera non basta a comprendere la Parola e, soprattutto, a comprendere
che e' la Parola a comprenderci, ad avvolgerci, a sovrastarci.
*
- Roberto Carnero: Che cosa non le piace oggi?
- Luisito Bianchi: Non amo le strumentalizzazioni, come quando la Chiesa
viene vista quale parte politica, in funzione di divisione anziche' di
unione. "Cattolico" significa universale: al centro dell'annuncio ci deve
essere l'uomo. Percio' non ha senso parlare dei "cattolici in politica",
perche' i cattolici non possono essere identificati in un partito. Se i
cattolici contribuiscono a creare divisioni in seno alla societa', ebbene,
fanno qualcosa di contrario a quanto ha fatto Cristo. Invece deve unirci,
credenti e non credenti, il rispetto dell'uomo. Da cristiani dovremmo essere
piu' coraggiosi nell'annuncio del Vangelo, che ci parla di un amore senza
confini, al di la' delle cautele e degli equilibri diplomatici.
*
- Roberto Carnero: Tutto cio' non rischia di essere un po' utopico?
- Luisito Bianchi: La mia sara' anche un'utopia, ma il primo grande utopista
e' stato Cristo stesso. Come si fa a celebrare ogni giorno la morte e la
resurrezione di Gesu', in un mondo dilaniato dai contrasti e dalle guerre?
La mia utopia e' che la Chiesa diventi insegna della gratuita'.

2. VALERIA GENNERO INTERVISTA RICHARD POWERS
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 15 luglio 2008 col titolo "Richard
Powers. Lo specchio di un trauma collettivo" e il sommario "Incontro con lo
scrittore americano di cui e' appena uscito, per Mondadori, l'ultimo romanzo
intitolato Il fabbricante di eco. La vicenda - che ha inizio subito dopo gli
attacchi alle torri gemelle e si conclude con l'invasione dell'Iraq -
riguarda un uomo colpito da una rara patologia neurologica"]

Puo' darsi sia stata la complessita' filosofica delle sue opere ad aver
tenuto finora Richard Powers lontano dal grande successo di pubblico. In
compenso i nove romanzi pubblicati a partire dal 1985, anno in cui esordi'
con Tre contadini che vanno a ballare, hanno accumulato riconoscimenti
prestigiosi, il piu' recente dei quali e' il National Book Award ricevuto
nel 2006 per Il fabbricante di eco, appena uscito per Mondadori (pp. 573,
euro 20, trad. di Giovanna Granato). La critica statunitense indica da tempo
Powers come l'erede piu' accreditato e brillante della generazione nata
negli anni '30, quella di Thomas Pynchon, di Philip Roth e soprattutto di
Don DeLillo, cui lo lega un debito intellettuale che Powers non esita a
riconoscere.
Il tentativo di far dialogare la cultura umanistica e quella scientifica
dimostrandone la necessaria, imprescindibile interazione, e' uno dei temi
ricorrenti della produzione narrativa di Powers. In passato i suoi
personaggi si sono trovati coinvolti in controversie su questioni come
l'Intelligenza Artificiale e il test di Turing (Galatea 2.2.), o i
retroscena della scoperta della struttura chimica del Dna (The Gold Bug
Variations). Le ricerche sulla seconda legge della termodinamica di David
Strom, un fisico ebreo tedesco rifugiatosi negli Stati Uniti per sfuggire al
nazismo, erano invece alla base del monumentale Il tempo di una canzone
(2003), in cui Powers rende omaggio all'esempio di Pastorale americana di
Roth e a Underworld di DeLillo, per riscrivere la storia statunitense del
dopoguerra a partire dalle profonde cicatrici impresse dalla violenza
razziale sul corpo della democrazia americana.
Nel Fabbricante di eco Powers sposta la sua attenzione dalla fisica alle
neuroscienze, mentre la collocazione temporale e' saldamente ancorata ai
mesi immediatamente successivi all'attacco dell'11 settembre. Nel febbraio
del 2002 Mark Schluter, un operaio di ventisette anni, rimane coinvolto in
un grave incidente stradale a Kearney, in Nebraska. Quando si risveglia dal
coma Mark e' convinto che sua sorella Karin, che da settimane lo assiste in
ospedale, sia stata sostituita da una sosia. In seguito al trauma il giovane
ha infatti sviluppato un raro disturbo neurologico, la Sindrome di Capgras,
responsabile di generare nei pazienti la convinzione che le persone a cui
sono affettivamente legati siano state rimpiazzate da accuratissime
imitazioni. Dopo alcune settimane Karin, disperata, contatta Gerald Weber,
neurologo di chiara fama e autore di numerosi studi divulgativi di successo
(a cui Powers attribuisce i lineamenti di Oliver Sacks e molte delle
pubblicazioni di V. S. Ramachandran). Weber raggiunge il Nebraska sperando
in un nuovo caso clinico esemplare, ma si trovera' progressivamente
coinvolto in una vicenda piena di lati oscuri, in cui gruppi ecologisti,
speculatori edilizi, giornalisti e misteriosi angeli salvifici danno luogo a
una danza difficile da decifrare, sullo sfondo della migrazione delle gru
canadesi che ogni anno nel cuore dell'inverno fanno tappa nei dintorni di
Kearney, lungo il fiume Platte, dirette verso l'Alaska. Proprio nella storia
delle gru - che apre ogni sezione del romanzo - troviamo un primo indizio
per decifrare gli enigmi del titolo. Ma lasciamo che sia Richard Powers a
guidarci nella lettura del suo libro.
*
- Valeria Gennero: All'inizio del romanzo scopriamo che Fabbricante di eco
(Echo Maker) e' il nome che alcune tribu' indiane assegnavano alle gru in
virtu' della potenza del loro verso. Come mai ha scelto di attribuire a
questi uccelli un ruolo cosi' centrale nel romanzo?
- Richard Powers: In alcune tradizioni le gru sono considerate una specie di
divinita', incaricate di trasportare le anime, proprio a causa del modo in
cui il loro verso sembra rimbombare dal profondo. Il nome indiano ci invita
a riconoscere in questi animali un'eco dell'intelligenza umana e dei
meccanismi della coscienza. Nel corso del romanzo infatti il titolo si
affranca dal riferimento iniziale alle gru per suggerire invece che la
creazione di eco e' alla base dell'attivita' cerebrale, l'eco costante del
mondo che i nostri cervelli creano e in cui noi viviamo.
*
- Valeria Gennero: Il parallelismo tra la coscienza umana e quella animale
e' qualcosa che i personaggi del romanzo arrivano a cogliere gradualmente.
Gerald Weber, lo scienziato, e' quello che fa piu' fatica a riconoscere nel
comportamento delle gru la presenza di un segreto che lo riguarda.
- Richard Powers: Si', e' Karin a mostrarglielo, quando di fronte alle
centinaia di gru confluite sulle rive del fiume gli dice "Lo vedi? Tutto
danza". Ed e' allora che Gerald, fissando lo sguardo in quello di una gru,
si rende conto delle affinita', spesso negate, con le altre forme di vita.
Chiunque abbia mai guardato negli occhi un altro essere senziente e abbia
intravisto la presenza di qualcosa di riconoscibile pur nella sua assoluta
differenza ha gia' provato in parte il senso di straniamento, lo stato di
misidentificazione (o sindrome di Capgras) che costituisce la metafora
centrale del romanzo. Quello che Weber osserva, venendone a sua volta
osservato, e' un altro genere di eco: forme ancestrali di intelligenza che
sono ancora in noi, i fondamenti evolutivi del nostro cervello. Il problema
e' che queste strutture sono seppellite dentro di noi, sommerse da strutture
corticali piu' recenti, di livello "piu' alto", che ci rendono incapaci di
comunicare non solo con gli animali, ma anche con una gran parte di noi
stessi.
*
- Valeria Gennero: Leggendo Il fabbricante di eco si ha l'impressione che
l'identita' non possa essere se non una forma di autoinganno. E' d'accordo?
- Richard Powers: Il problema e' che noi ci consideriamo integri, coerenti e
continui. Pensiamo che l'immagine che ci facciamo del mondo esterno sia
immutabile, attendibile. Ma non siamo gli stessi neppure da un momento
all'altro, da un avvenimento a quello successivo. Ogni contatto ci cambia.
Mettiamo in scena noi stessi in modo diverso ogni volta che incontriamo
qualcuno. La neuroscienza contemporanea ci spiega che il cervello e' un
parlamento rumoroso e caotico, in cui si fronteggiano senza pausa centinaia
di sottosistemi neurali. Il lavoro della coscienza e' quello di creare, da
quel baccano scoordinato, un'illusione di continuita' e solidita'. Il se' e'
un'improvvisazione sempre fluida. Un'interruzione tra due sottosistemi
cerebrali puo' rovesciare l'intera costruzione della realta': le persone
perdono la capacita' di identificare oggetti familiari. Non riescono piu' a
individuare la differenza tra due volti, non sanno se le mele sono piu'
grandi o piu' piccole di un pallone. In alcuni casi negano che il loro
braccio sinistro gli appartenga, in altri sviluppano la convinzione che le
loro case siano state sostituite da copie perfette. Certi pazienti credono
di essere ciechi mentre non lo sono, oppure al contrario non ammettono una
cecita' conclamata. Tuttavia, anche senza che siano presenti delle patologie
cerebrali, ognuno di noi sperimenta in forma lieve sindromi analoghe come
parte del funzionamento regolare della coscienza.
*
- Valeria Gennero: Ma esiste, secondo l'idea che ha derivato dalle sue
letture, la possibilita' di pacificare questo parlamento rissoso? E'
possibile individuare dei punti fermi, dei valori di riferimento?
- Richard Powers: In un certo senso si'. Se, come dicevo, i nostri se' sono
in parte il prodotto di un'interazione che ci vede protagonisti insieme agli
altri e per mezzo degli altri, allora forse e' solo attraverso la coesione
sociale e il contatto che noi siamo messi in condizione di creare triangoli
e dunque di stabilizzare provvisoriamente il nostro Io nel flusso
ininterrotto delle narrazioni. Detto in modo piu' romantico:
l'interdipendenza umana e l'amore ci richiamano ai se' che non smettiamo mai
di perdere.
*
- Valeria Gennero: I tre protagonisti pero' con il passare dei mesi sembrano
sempre piu' convinti che non sia in effetti possibile entrare in contatto
con gli altri esseri umani. Alla fine abbiamo l'impressione che la distanza
tra la patologia di Mark e la "normalita'" di Karin e Weber sia come
cancellata, e che ognuno si ritrovi imprigionato nella propria gabbia
percettiva.
- Richard Powers: Tutti i personaggi scoprono che ogni narrazione del se' e'
una finzione, si accorgono di essere rinchiusi nelle loro camere d'eco
interiori. Eppure qualcosa e' cambiato, si sono trasformati a vicenda. Hanno
rinunciato al loro senso di continuita' e di integrita' personale per
abbracciare invece questo flusso ininterrotto di negoziazioni che avvengono
non solo dentro ognuno di loro ma anche tra di loro. Noi non siamo quello
che pensiamo di essere, e non possiamo sapere che cosa significa essere
intrappolati nella stanza chiusa della coscienza altrui. Eppure proprio
questo rovesciamento di prospettiva e' il punto di partenza per dare senso
alle cose che facciamo. C'e' una vecchia barzelletta americana in cui
qualcuno racconta a un amico: "Mio fratello e' pazzo, pensa di essere una
gallina". L'amico gli risponde: "Perche' non lo porti da uno psichiatra?",
al che il narratore risponde: "Non posso, altrimenti poi le uova chi me le
fa?".
*
- Valeria Gennero: Quella personale non e' pero' l'unica configurazione
identitaria ad apparire in crisi. In un'intervista lei ha raccontato come
sia diventato difficile, dopo il Patriot Act e Abu Ghraib e Guantanamo,
riconoscersi in un'America sempre piu' difficile da conciliare con l'idea di
democrazia.
- Richard Powers: Non e' un caso che la vicenda narrata nel Fabbricante di
eco abbia inizio subito dopo gli attacchi alle torri gemelle e si concluda
con l'invasione dell'Iraq. La storia della sindrome da misidentificazione di
Mark Schluter diventa, se non proprio una metafora di questa lunga fase di
defamiliarizzazione della sfera pubblica statunitense, almeno un suo
riflesso: un esempio di quanto sia facile persino per la coerenza narrativa
di un'identita' pubblica e condivisa - religiosa, familiare, nazionale -
ritrovarsi in mille pezzi. Cosi' come accade a molti di coloro che si
trovano oggi a vivere negli Stati Uniti, tutti i personaggi del romanzo
provano quotidianamente un forte senso di disorientamento politico. E' un
po' come quando Mark dice: "questa donna assomiglia a mia sorella, parla
come mia sorella, si muove come lei, eppure io non sento nulla per lei":
l'assenza di emozioni porta Mark a credere che Karin sia in realta' una
simulatrice, coinvolta in un complotto ai suoi danni. Allo stesso modo,
vivere nell'America di Bush spesso mi fa venire in mente i sintomi del
Capgras: "questo sembra il mio paese, parla come il mio paese, si comporta
come se fosse il mio paese eppure e' un posto che non riesco piu' a
riconoscere. Non puo' che trattarsi di un'impostura, dev'esserci stata una
sostituzione". Gli Stati Uniti sembrano oggi, a giudicare dalle loro azioni
unilaterali all'estero, vittime di un autoinganno persistente che li ha
separati dalla famiglia delle nazioni. In questo senso il libro e' anche
l'esplorazione di una derealizzazione collettiva. La mia speranza e' che il
commento di Luria che ho scelto come epigrafe del romanzo "Per trovare
l'anima e' necessario perderla" - sia valido, oltre che per l'identita'
personale, anche per quella nazionale. E che l'America sia finalmente sul
punto di intraprendere il lungo e difficile cammino per ritrovare la propria
anima.
*
Postilla biobibliografica. Passaggi di vita e di opere
Richard Powers e' nato a Evanston (Illinois, Usa) nel 1957. Alla fine degli
anni Sessanta si trasferi' con la famiglia in Thailandia - dove il padre
insegnava inglese - e vi rimase per cinque anni. Rientrato negli Stati Uniti
si iscrisse all'Universita' dell'Illinois per studiare fisica. In seguito
decise invece di approfondire gli studi umanistici e consegui' un master in
letteratura inglese. Il primo lavoro fu pero' di nuovo in ambito
scientifico, come programmatore di computer. La svolta arrivo' nel 1983,
quando in un museo di Boston Powers vide una fotografia intitolata "Giovani
contadini" che venne scattata in Germania nel 1914 da August Sander. In quel
ritratto Powers individuo' "il momento in cui e' nato il XX secolo": pochi
giorni dopo si licenzio' e comincio' a scrivere il suo primo romanzo, Tre
contadini che vanno a ballare (1985, Bollati Boringhieri 1991), accolto con
immediato entusiasmo dalla critica. Tre anni piu' tardi usci' Il dilemma del
prigioniero e quindi, nel 1991, The Gold Bug Variations, che "Time" indico'
come "libro dell'anno". Tra i romanzi successivi sono stati tradotti in
italiano: Galatea 2.2. (1995 - Fanucci 2003), Sporco Denaro (1998 - Fanucci
2007), e Il tempo di una canzone (2003 - Mondadori 2006). Powers ha ricevuto
sia il premio MacArthur Fellowship nel 1989 che il Lannan Literary Award nel
1999.

3. SARA MARINELLI INTERVISTA PETER ORNER
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 12 novembre 2008 col titolo "Orizzonti
africani" e il sommario "Scene di nostalgia e disincanto nella Namibia
indipendente. Nel suo romanzo d'esordio, Un solo tipo di vento, lo
statunitense Peter Orner descrive, attingendo alla sua stessa esperienza, il
soggiorno di un giovane e idealista insegnante americano in Africa. Un
incontro con lo scrittore"]

Nei confronti degli scrittori occidentali che narrano storie ambientate in
Africa si tende a nutrire un certo sospetto: le loro opere vengono infatti
valutate non tanto per le loro qualita' letterarie, quanto per l'abilita'
con cui l'autore ha saputo sfuggire alle trappole tese dagli stereotipi
dell'esotismo e dell'imperativo antropologico del "farsi nativi".
All'apparenza, le premesse per legittimare tale sospetto ci sono tutte nel
romanzo dello statunitense Peter Orner The Second Coming of Mavala Shikongo,
appena uscito in italiano per Minimum fax con il titolo Un solo tipo di
vento (traduzione di Riccardo Duranti, pp. 430, euro 16).
La trama ruota infatti intorno a un giovane americano del Midwest, Larry
Kaplanski, che si reca in Namibia subito dopo la conquista dell'indipendenza
del paese (1990) per insegnare inglese presso la scuola cattolica di un
villaggio isolato, e si innamora della misteriosa e affascinante
guerrigliera Mavala Shikongo. Sin dall'inizio, pero', lo stereotipo si
sfalda nell'insolita struttura frammentaria di questo ampio romanzo, oltre
quattrocento pagine, che riproduce il processo impalpabile e arbitrario
della memoria, ricostruendo una visione volutamente parziale della Namibia,
e affronta la vita quotidiana nel villaggio desertico di Goas, all'indomani
della guerra d'indipendenza dal colonialismo. Quello che emerge e' un
racconto lirico e corale sulla memoria, la nostalgia, le relazioni umane e
amorose, le donne in guerra con il mondo e con se stesse, e sul senso della
storia cosi' come affiora nei dettagli della vita quotidiana.
Abbiamo incontrato Orner (gia' noto ai lettori italiani per la raccolta di
racconti Esther Stories, pubblicata, ancora da Minimum fax, nel 2004), a San
Francisco, dove risiede, in occasione dell'uscita del suo romanzo in Italia.
*
- Sara Marinelli: Un solo tipo di vento si basa sulla sua esperienza, nel
1991, di insegnante di inglese per un anno e mezzo a Goas, un remoto
villaggio della Namibia. Adottando un'ottica che e' probabilmente assai
lontana dalle sue intenzioni, qualcuno potrebbe intravedere nel viaggio del
protagonista, Larry Kaplanski, lo spettro della missione educatrice
dell'uomo bianco durante il colonialismo. Ha mai pensato a questa possibile
lettura?
- Peter Orner: Ho cercato volutamente di evitare questa impostazione, anche
perche' tanti libri sull'Africa mi hanno deluso proprio perche'
implicitamente riproponevano la visuale dell'uomo bianco. Molti compiono
l'errore di impartire lezioni di storia. Personalmente sono ossessionato dal
passato, e sono molto interessato alla storia della Namibia, ma non volevo
trasformare il romanzo in una lezione. La mia intenzione era soprattutto
quella di raccontare un posto reale, persone reali che ho incontrato e che
hanno avuto un profondo effetto su di me. Le storie che ci raccontavamo ogni
giorno, la nostra vita quotidiana a Goas, per me erano e sono la storia. Se
non ne avessi scritto, avrebbe significato privarmi di una parte della mia
storia solo perche' avevo paura della mia prospettiva occidentale. Ho
cercato insomma di descrivere onestamente la mia relazione con il paese,
concentrandomi sulla varieta' dei rapporti umani. Kaplanski, che e' una
figura diversa da me, si ritrova in questo luogo solitario, dove e'
accomunato agli altri dal fatto che tutti vengono da fuori e si sentono
esiliati, come su un'isola.
*
- Sara Marinelli: Cosa l'ha spinto a recarsi a Goas poco piu' che ventenne?
- Peter Orner: All'epoca ero un ragazzo punk, un po' malconcio, entusiasmato
dal fatto che la Namibia avesse appena conquistato l'indipendenza e volesse
ricreare se stessa da zero. Il governo namibiano aveva dichiarato l'inglese
lingua ufficiale, e invitava insegnanti madrelingua ad andare. Era
un'impresa pazzesca, perche' sebbene gli insegnanti locali parlassero
inglese, i bambini parlavano l'afrikaans e tante altre lingue locali. Ancora
piu' pazzesco e' stato insegnare la storia namibiana: non avevamo neanche i
libri perche' li stavano ancora scrivendo. Cosi' chiedevo ai miei amici di
raccontarmi vicende accadute che io poi ripetevo agli alunni in classe, e
quelle erano le lezioni di storia che mi erano rese possibili.
*
- Sara Marinelli: E' interessante osservare che Kaplanski non "diventa
nativo", ma resta fondamentalmente se stesso, pur sottraendosi allo status
di outsider. A tratti, gli altri insegnanti lo reputano un matto perche' ha
scelto di vivere con loro. Il vecchio insegnante Obadiah a un certo punto
gli dice: "Tutti i nostri bianchi, in un modo o nell'altro, sono un po'
dementi. Sarebbe interessante visitare l'America al solo scopo di studiare
dei bianchi normali". Intendeva evidenziare la complessita' delle relazioni
fra bianchi e neri?
- Peter Orner: Chi puo' dirsi "normale" in un contesto in cui fino a due
anni prima bianchi e neri si sparavano a vicenda? Nonostante la fine
ufficiale dell'apartheid, quando si e' afrikaaner in Namibia non si puo'
sfuggire al folle concetto di "razza", perche' si vive in un ambiente in cui
il sistema ufficiale e' segregante e crea una gerarchia della popolazione in
base al colore della pelle. La frase di Obadiah esprime la sua profonda
irritazione di fronte al persistere del sistema dell'apartheid - introdotto
in Namibia nel 1977 - nella societa' post-indipendenza.
*
- Sara Marinelli: La sua rappresentazione dell'Africa e' al confine fra il
tangibile e l'impalpabile soprattutto grazie a uno stile frammentario che
riproduce il processo della memoria. Quale immagine dell'Africa intendeva
comunicare?
- Peter Orner: Non volevo descrivere l'Africa, ma un luogo specifico: volevo
catturare lo spirito della Namibia, un paese che dal punto di vista di un
outsider, non necessariamente un bianco, e' di una singolare originalita'.
Per quel che mi riguarda, mi sento un outsider anche negli Stati Uniti. In
Namibia anzi, mi sentivo meno estraneo di quanto non mi senta nel posto da
cui provengo. Ho cominciato a scrivere della Namibia quando non essendo piu'
li' ne provavo nostalgia, per cui la struttura episodica del libro riflette
la natura frammentaria dei miei ricordi, e il senso della mia incapacita' di
catturare fino in fondo questo luogo.
*
- Sara Marinelli: Il suo libro e' attraversato da un senso di nostalgia,
sebbene siano assenti venature sentimentali, di quell'esperienza e di quel
luogo. Non solo Kaplanski, quasi tutti i personaggi sembrano esserne
riguardati.
- Peter Orner: Forse, piu' ancora di Kaplanski, la nostalgia affiora nella
figura di Obadiah, in cui mi identifico molto piu' che nel protagonista.
Come Obadiah, il quale prova nostalgia persino della moglie che e' accanto a
lui, sono ossessionato dalla memoria. Quando sono tornato in Namibia per la
prima volta, dopo una decina di anni, la scuola non c'era piu', i miei amici
erano tutti sparpagliati, la fattoria di Goas era diventata una postazione
per le battute di caccia dei turisti tedeschi che vanno nel paese per
sparare ai cudu'. Le aule in cui avevamo insegnato erano utilizzate come
deposito di selvaggina per la caccia, e c'erano scheletri e teste
dappertutto. Per me, che per tanto tempo avevo provato una tale nostalgia
della Namibia da farla diventare un fantasma nella mia mente, e' stato
sconvolgente. All'inizio mi sono chiesto se dovevo inserire questi fatti nel
libro, ma poi ho deciso che avrei fatto si' che la scuola di Goas
continuasse a vivere; e anzi, se ho cominciato a scriverne e' perche' ero
turbato dalla sua fine.
*
- Sara Marinelli: Il titolo originale del romanzo porta il nome di una
donna, Mavala Shikongo, ma di lei non veniamo a sapere molto: resta,
infatti, una figura misteriosa, una ex guerrigliera, che non vorrebbe avere
nel suo destino il fatto di trovarsi a Goas come insegnante. Dopo alcuni
incontri d'amore con Kaplanski, sparisce affidando il suo bambino a un'altra
donna, Antoniette. Ci racconta come le e' venuta l'idea di questo
personaggio?
- Peter Orner: Il personaggio di Mavala e' modellato su due donne
guerrigliere che ho effettivamente conosciuto e intervistato, frustrate,
dopo aver combattuto, per il fatto di ritrovarsi insegnanti in un villaggio
isolato. Per costruire il personaggio mi sono basato anche su quella
iconografia che in Namibia, durante la guerra, rappresentava le donne come
guerrigliere per la liberta'. Fotografie di donne namibiane che
imbracciavano fucili circolavano in Europa, specialmente in Scandinavia, a
fini propagandistici. Diversi paesi mandarono danaro per sostenere la causa.
C'era in particolare un poster a cui mi sono ispirato (lo avrei voluto come
copertina del libro) che ricordava la statua di Anita Garibaldi a cavallo,
col fucile in una mano e un bambino nell'altra. Ora, chi sa quale sia la
verita' che si nasconde dietro l'immagine delle guerrigliere namibiane? Nei
poster propagandistici imbracciano fucili, ma non erano sempre in
combattimento. Quando Kaplanski chiede a Mavala di raccontargli una storia
di guerra, lei e' reticente. Mi premeva mettere in luce il fatto che le
donne hanno sostenuto costantemente il paese. Con l'indipendenza ci si
aspettava che questo sforzo sarebbe stato loro riconosciuto, mentre invece
sono state emarginate, non hanno assunto alcun ruolo di potere. Con
l'eccezione di una sola donna, Libertina Amathila, che ha assunto un ruolo
di rilevo essendo tuttora ministra della salute e degli affari sociali. Ma
ci sono tante altre donne in Namibia, che meriterebbero di essere non
soltanto conosciute ma persino riverite: penso fra l'altro alla giornalista
Gwen Lister, per me una vera eroina, che ha lottato contro l'apartheid e
anche contro il governo attuale.
*
- Sara Marinelli: La figura di Mavala Shikongo incarna anche un desiderio
amoroso, che attraversa tutto il romanzo. I suoi incontri con Kaplanski
sembrano un miraggio, le loro conversazioni sono scarne, interrotte e infine
la donna sparisce senza preavviso. Intendeva alludere all'impossibilita' di
una relazione affettiva fra due figure tanto diverse?
- Peter Orner: In generale, sono convinto che nessuno possa sapere di cosa
e' capace il proprio partner finche' l'altro non si mostra in azione. Cosi',
Kaplanski non conosce veramente Mavala, non capisce che e' passata
dall'incredibile eccitazione di avere combattuto, e vinto, alla frustrazione
del suo lavoro di insegnante, non comprende che il suo vero desiderio e'
andarsene. Nella relazione fra un uomo e una donna, quello che mi interessa
di piu' e' il modo in cui la politica dell'amore e del genere sessuale viene
condizionata dal luogo e dalla sua cultura. Se gli uomini se ne vanno,
abbandonando le loro donne o i loro figli, la cosa appare normale, ma se una
donna parte lasciando il suo bambino, verra' mal giudicata e ne portera' il
peso per sempre.
*
- Sara Marinelli: Nel suo libro lei non indica dove andra' Mavala. A noi
lettori, quale destinazione suggerisce di immaginere che prendera' il
personaggio, tenendo conto anche del contesto storico in cui l'ha inserito?
- Peter Orner: Scegliendo di non precisare il luogo dove e' diretta Mavala
ho implicitamente ammesso che il suo personaggio e' misterioso per me come
per le altre figure del romanzo. Quello che posso dire e' che Mavala si
incammina verso sud, sull'autostrada B-1, la principale arteria che corre
dalla frontiera namibiana fino giu' al Sudafrica. Siamo nel 1991, Nelson
Mandela e' stato rilasciato l'anno prima, e nonostante l'apartheid sia
ancora in vigore in Sudafrica, si sente che si sta preparando un vero
cambiamento, e forse anche maggiori opportunita' per una donna. Per gran
parte della popolazione in Namibia, e in altri luoghi dell'Africa
meridionale, il Sudafrica e' una specie di terra promessa. Alla fine del
romanzo, veniamo a sapere dalla lettera che Kaplanski riceve da Obadiah dopo
dieci anni, che Mavala non e' piu' tornata a Goas, e forse ha appagato il
suo desiderio di liberta' perdendosi non nel deserto, ma in un mondo piu'
vasto e cosmopolita.
*
Postilla biobibliografica. Attivista e viaggiatore, alla scoperta
dell'America underground
Dopo avere esordito con una raccolta di racconti, Esther Stories, segnalata
dal "New York Times" come uno dei "libri da ricordare" del 2001 e uscita per
Minimum fax nel 2004, Peter Orner ha pubblicato nel 2006 il suo primo
romanzo, The Second Coming of Mavala Shikongo (ora uscito con il titolo Un
solo tipo di vento, ancora per Minimum fax nella traduzione di Riccardo
Duranti) che e' stato finalista per il Los Angeles Times Book Prize e ha
vinto il Bard Fiction Prize. Originario di Chicago, ma attualmente residente
a San Francisco (dopo avere vissuto in Namibia, a Praga e a Roma), Orner
insegna scrittura creativa alla San Francisco State University. Attivista
per i diritti umani, con un trascorso di avvocato, lo scrittore ha inoltre
di recente curato, per la casa editrice McSweeney's, Underground America:
Narratives of Undocumented Lives, una raccolta di testimonianze orali di
immigrati che lavorano negli Stati Uniti.

4. CRISTINA PATERNO' INTERVISTA ABBAS KIAROSTAMI
[Dal mensile "Letture", n. 617, maggio 2005, col titolo "Kiarostami, un
viaggio verso la tolleranza" e il sommario "Autore della minitrilogia
Tickets insieme con Ermanno Olmi e Ken Loach, il regista iraniano invita le
persone al dialogo, alla reciproca comprensione, a una fede e un amore
vissuti piu' intimamente"]

Si apre sulle immagini di una stazione ferroviaria in una citta' non
identificabile dell'Europa ricca e civilizzata minacciata pero' da eserciti
in marcia trionfale: come se la guerra, che cerchiamo disperatamente di
tenere fuori dalla porta di casa, potesse penetrare persino nel cuore della
neutrale Svizzera. E' Tickets, il film realizzato da tre maestri, l'italiano
Ermanno Olmi, l'inglese Ken Loach e l'iraniano Abbas Kiarostami. Tre stili a
bordo di un treno che attraversa l'Europa, mentre i destini dei passeggeri,
dalla prima classe ai clandestini senza biglietto, s'intrecciano.
Doveva essere una trilogia di documentari, ma e' diventata ben presto una
lezione di tolleranza. "Questo film e' l'esempio concreto di come tre modi
di pensare diversi possano convivere in un unico progetto... speriamo che lo
adottino anche all'Onu", scherza Ermanno Olmi. Nel suo episodio, un anziano
farmacologo rimane affascinato da una giovane signora e arriva a compiere
una semplicissima buona azione, mentre Ken Loach racconta la "conversione"
di tre tifosi del Celtic, con l'aria da hooligans. Piu' sottile, e quasi
checoviana, la storia scelta da Abbas Kiarostami, Palma d'oro con Il sapore
della ciliegia: in carrozza sale la dispotica vedova di un generale
accompagnata da un giovanotto in servizio civile e subito ne nasce una
commedia degli equivoci. "Ammetto di aver usato qualche reminiscenza del
cinema italiano, addirittura Toto'", confida il regista, che tornera' presto
a girare in Italia con gli stessi attori di Tickets: il giovane Filippo
Trojano e la sperimentata Silvana De Santis.
*
- Cristiana Paterno': Nei suoi personaggi ho notato una ambiguita' di fondo,
come se lei volesse celarne le reali intenzioni.
- Abbas Kiarostami: I passeggeri del treno, come gli spettatori del cinema,
osservano cio' che accade senza conoscere in anticipo la trama e senza
sapere cosa diranno i personaggi. Un po' come quando al ristorante si spia
la coppia seduta al tavolo accanto. Loro non stanno recitando per voi, ma
stimolano la vostra curiosita'. L'episodio di Tickets e' raccontato cosi',
come osservato dal di fuori.
*
- Cristiana Paterno': Rispetto agli altri due episodi, sembra che la presa
di posizione contro l'intolleranza e la prevaricazione sia mitigata
dall'ironia.
- Abbas Kiarostami: Penso che ridere faccia parte della vita: gli equivoci,
nel quotidiano, sono all'ordine del giorno.
*
- Cristiana Paterno': La commedia degli equivoci puo' nascere dalla
differenza delle lingue o dalla sordita', reale o esibita.
- Abbas Kiarostami: Indubbiamente anche chi parla la stessa lingua puo'
cadere in equivoco. A volte poi non si tratta di malintesi comici, perche'
dal capire fischi per fiaschi possono nascere delle tragedie. Quando due
persone si fanno la guerra tra loro non c'e' dialogo, anche se parlano la
stessa lingua. All'Unesco, nel 2000, e' stato detto che la tragedia piu'
grande del mondo contemporaneo e' il non capirsi. Tra le persone e tra gli
Stati.
*
- Cristiana Paterno': Cosa puo' fare un intellettuale contro queste
mistificazioni?
- Abbas Kiarostami: Non ho la presunzione di poter cambiare qualcosa. Ma a
livello di leader politici la situazione e' chiara: chi non vuole capire non
ascolta.
*
- Cristiana Paterno': Lei una volta ha detto che ci avviciniamo alla verita'
solo attraverso la menzogna. In che senso?
- Abbas Kiarostami: Le persone mentono per non rivelare la loro
personalita', pero' io penso che attraverso la bugia si possa intuire la
personalita'. Come il bambino che non vuole andare a scuola e dice "ho la
febbre", ci fa capire che non gli piace la scuola, che non gli piace
l'insegnante. Allora andiamo a indagare come e perche'.
*
- Cristiana Paterno': Che rapporto ha con la fede?
- Abbas Kiarostami: In generale mi sembra che oggi la gente tenda a mettersi
una medaglia: "sono religioso, non sono religioso". Io invece penso che
questo sia un aspetto molto intimo. Questi che vanno in giro portando un
segno della loro religione, mi danno fastidio. Non serve mettere in mostra
quello che si ha dentro. Un poliziotto che va in giro con la pistola e il
manganello vuole trasmettere il messaggio "io ho il potere e vi posso
sottomettere". Ecco, non voglio che anche la religione sia strumentalizzata
per dire "io sono meglio di voi".
*
- Cristiana Paterno': Parlando della religione come fatto intimo e non
politico, lei che vive tra l'Oriente e l'Occidente, tra Teheran e Parigi, ha
sviluppato un interesse per la religione cristiana?
- Abbas Kiarostami: Se Dio e' unico, allora le religioni - cristiana,
islamica, eccetera - sono la stessa cosa. Se pensiamo che Dio non sia unico,
allora qualcuno potra' sempre saltare su e dire "la mia e' la migliore". E
usera' questa affermazione a livello politico. Le religioni vanno studiate e
comprese nella misura in cui non si fanno la guerra l'una contro l'altra.
Quando c'e' aggressione, non c'e' piu' comprensione, e anche la religione
diventa un gesto politico. Ogni religione ha avuto i suoi profeti: e' come
se la rivelazione si fosse pian piano completata. Ma io non credo che Dio
sia imperfetto e che si sia perfezionato progressivamente.
*
- Cristiana Paterno': Pero' le guerre di religione ci sono sempre state e
oggi forse ancor piu' che in passato. Per evitarle non sarebbe giusto far
dialogare di piu' le religioni?
- Abbas Kiarostami: Diamo tutta la responsabilita' ai profeti che ci hanno
messo nei guai e lasciamo risolvere il problema a loro... Personalmente
accetto la religione finche' non porta la guerra, ma se la religione non e'
religione di pace, io la rifiuto.
*
- Cristiana Paterno': Continuera' a lavorare in Italia?
- Abbas Kiarostami: Vorrei ampliare il racconto di Tickets: capire come
finisce la storia di Filippo e Silvana. Mentre giravo il mio episodio ho
avuto la sensazione che fosse rimasto in sospeso. Ora chiedero' a Filippo:
cosa ti va di fare? Vuoi andare a trovare tua sorella o restare con la
vecchia signora? Mentre a Silvana vorrei chiedere cosa prova realmente per
Filippo: perche' quando Filippo osservava quella ragazza carina, seduta di
fronte a lui, lei ha cambiato posto?
*
- Cristiana Paterno': Ho sempre notato una sua reticenza nel descrivere
l'amore. Come mai?
- Abbas Kiarostami: Lei ha ragione, c'e' una mia reticenza a parlare
dell'amore. E' un fatto personale e non culturale. Io penso che prima che un
uomo e una donna diano inizio a una storia d'amore sono come due pugili, tra
loro c'e' una lotta interiore, una guerra fredda. Stanno costantemente
attenti che l'altro non si porti via una parte di loro. Girano uno intorno
all'altro, studiandosi reciprocamente. Si osservano perche' hanno paura,
ricordano esperienze negative del passato, non vogliono soffrire nuovamente.
Forse si spogliano, ma se il corpo e' nudo, l'anima rimane coperta. E' uno
dei motivi per cui le dichiarazioni d'amore vanno sempre piu' in la',
diventano esagerate e si perde la spontaneita', proprio per vincere questa
paura. Ma solamente coloro che stanno in ginocchio di fronte all'altro si
arrendono all'amore. E' allora che il pugile e' ko.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 262 del 14 novembre 2008

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