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Voci e volti della nonviolenza. 262
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 262
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 14 Nov 2008 10:07:55 +0100
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 262 del 14 novembre 2008 In questo numero: 1. Roberto Carnero intervista Luisito Bianchi 2. Valeria Gennero intervista Richard Powers 3. Sara Marinelli intervista Peter Orner 4. Cristiana Paterno' intervista Abbas Kiarostami 1. ROBERTO CARNERO INTERVISTA LUISITO BIANCHI [Dal mensile "Letture", n. 625, marzo 2006, col titolo "Luisito Bianchi: la fabbrica come Chiesa" e il sommario "79 anni di eta' e 56 di sacerdozio, don Luisito racconta in un libro perche' negli anni Sessanta scelse di lavorare come operaio. Un'esperienza che rientra in una piu' ampia riflessione sulla gratuita' nel ministero della Chiesa"] Ha fatto l'insegnante, il traduttore, l'infermiere, l'operaio e persino il benzinaio. Ma Luisito Bianchi non ha mai smesso di essere prete. Nato a Vescovato, in provincia di Cremona, nel 1927, sacerdote cattolico dal 1950, il grande pubblico l'ha conosciuto tre anni fa, quando Sironi ha ripubblicato La messa dell'uomo disarmato, un ampio, suggestivo romanzo sulla Resistenza. Lo stesso editore ha mandato in libreria un'altra sua opera, Come un atomo sulla bilancia (2005, pp. 288, euro 14,50), il racconto, alternato alla riflessione, dell'esperienza vissuta da don Luisito Bianchi, a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, come prete operaio. Incontriamo l'autore nella splendida cornice dell'abbazia trecentesca di Viboldone, dove attualmente presta la funzione di cappellano presso la comunita' delle suore benedettine. * - Roberto Carnero: Don Luisito, ci vuole raccontare come nacque in lei il desiderio di condividere l'esperienza dei lavoratori? - Luisito Bianchi: Non si e' trattato di una scelta ideologica, ma quasi della conseguenza di quanto avevo fatto nella mia vita sino ad allora. Ero stato assistente provinciale delle Acli nella mia diocesi, quella di Cremona. Poi da li', nel 1964, ero stato chiamato a Roma a ricoprire l'incarico di viceassistente nazionale. Quello del lavoro era dunque il campo del mio impegno pastorale. Al termine di tre anni trascorsi a Roma, fui richiamato a Cremona e cosi', timidamente, espressi al mio vescovo il desiderio di andare in fabbrica. Sentivo da tempo l'esigenza di lavorare: come prete, parlavo della spiritualita' del lavoro, della teologia del lavoro, ma concretamente non sapevo cos'era il lavoro. Volevo essere credibile nell'annuncio attraverso la gratuita' del mio servizio di prete. Mantenendomi attraverso un salario frutto della fatica in fabbrica, mi sarei sentito piu' in linea con una coerenza di fondo. * - Roberto Carnero: Come inizio' quell'esperienza? - Luisito Bianchi: Il vescovo di Cremona accetto' la mia richiesta, a patto che trovassi un posto fuori dal territorio della diocesi, per evitare commenti e imbarazzi. Mi accolse il vescovo di Alessandria, e insieme a me anche un confratello belga. Trovammo un appartamento dove avremmo vissuto e cosi' avvenne il mio ingresso alla Montecatini. * - Roberto Carnero: A chi la assunse rivelo' da subito la sua condizione di sacerdote? - Luisito Bianchi: Si', volli essere chiaro, anche perche', se non l'avessi detto subito, sarebbe potuto sorgere il dubbio che, da laureato, volessi farmi assumere come operaio, magari per fare poi carriera dentro l'azienda. Invece a me andava bene fare l'operaio, era quello che volevo, pur non smettendo di essere prete. * - Roberto Carnero: E i suoi colleghi di lavoro come l'accolsero? - Luisito Bianchi: La fabbrica era molto grande, quindi mi conobbero solo i compagni della mia squadra, quella nella quale ci alternavamo nei turni. All'inizio non sapevano che fossi prete, si stupivano soltanto dell'eta' relativamente avanzata a cui cominciavo quel lavoro (avevo 40 anni) e del fatto che ne' il mio aspetto fisico (le mie mani bianche e lisce, cosi' diverse da quelle di un lavoratore...) ne' il modo di comportarmi quadravano molto con il ruolo che ero andato a occupare. Nel giro di qualche giorno, pero', la voce che ero prete si diffuse. Non ci fu alcun problema di accettazione. Anzi, i miei compagni di lavoro divennero presto dei veri amici. Ricordo che uno di loro disse a un collega piu' anziano: "Vuoi vedere un prete che lavora?". E l''altro: "No, non e' possibile, i preti non hanno mai lavorato...". Ma almeno in questo caso dovette essere smentito dai fatti. * - Roberto Carnero: Lei sottolinea che il lavoro voleva essere parte del suo essere sacerdote. In che modo? - Luisito Bianchi: Per rispondere devo tornare a un concetto a me caro, sul quale ho svolto una ampia riflessione in un libro intitolato Monologo partigiano sulla gratuita' (pubblicato da Il poligrafo nel 2004), che raccoglie alcuni appunti sulla storia della gratuita' del ministero della Chiesa. Mi sono convinto sempre piu', anche attraverso l'esperienza della fabbrica, che per essere credibili quando annunciamo un Dio che si e' fatto uomo nella poverta', dobbiamo vivere questo valore in prima persona. L'annuncio del Vangelo non deve diventare un modo per sostentarsi economicamente, come avviene invece nel regime concordatario per cui i preti ricevono uno stipendio finanziato dall'otto per mille. * - Roberto Carnero: Dunque lei non risparmia critiche a certi modi con cui l'istituzione Chiesa ha organizzato alcuni aspetti della propria vita. Eppure ci tiene a ribadire il suo amore per questa Chiesa... - Luisito Bianchi: Amo questa Chiesa perche' e' quella che mi ha trasmesso Cristo. Ed e' nella Chiesa che ho sentito parlare di un Dio che sceglie di perdere ogni potere, preferendo la poverta'. Di fronte a certi atteggiamenti della Chiesa mi viene da chiedermi: e' possibile che si cerchi il potere per affermare la Parola di Colui che ha rifiutato il potere? E poiche' il potere e' soprattutto quello economico, per spezzare questa catena e' necessario rifiutare le ricchezze e gli agi materiali. Credo che la Chiesa oggi dovrebbe fare proprio questo. * - Roberto Carnero: Lei ha vissuto la stagione del Concilio Vaticano II: un certo suo modo di vedere le cose e' forse figlio di quell'epoca? - Luisito Bianchi: E' vero, ho vissuto molto intensamente il Concilio. Ma il Concilio e' stata la prosecuzione di molte idee che erano entrate nella Chiesa, soprattutto in quella belga e francese, negli anni precedenti. Tuttavia gia' durante lo svolgimento dei lavori conciliari si intravedeva qualche elemento frenante. Oggi il Concilio mi sembra una cosa lontana. I problemi di allora sono rimasti, e sono i problemi di sempre: la separazione tra poveri e ricchi, qualcosa che gia' san Paolo ai suoi tempi stigmatizzava, mettendo in guardia la comunita' di Corinto dal rischio di non riconoscere Cristo attraverso queste divisioni. Il passaggio dal latino all'italiano nella liturgia ha favorito una maggiore comprensione, ma una vita intera non basta a comprendere la Parola e, soprattutto, a comprendere che e' la Parola a comprenderci, ad avvolgerci, a sovrastarci. * - Roberto Carnero: Che cosa non le piace oggi? - Luisito Bianchi: Non amo le strumentalizzazioni, come quando la Chiesa viene vista quale parte politica, in funzione di divisione anziche' di unione. "Cattolico" significa universale: al centro dell'annuncio ci deve essere l'uomo. Percio' non ha senso parlare dei "cattolici in politica", perche' i cattolici non possono essere identificati in un partito. Se i cattolici contribuiscono a creare divisioni in seno alla societa', ebbene, fanno qualcosa di contrario a quanto ha fatto Cristo. Invece deve unirci, credenti e non credenti, il rispetto dell'uomo. Da cristiani dovremmo essere piu' coraggiosi nell'annuncio del Vangelo, che ci parla di un amore senza confini, al di la' delle cautele e degli equilibri diplomatici. * - Roberto Carnero: Tutto cio' non rischia di essere un po' utopico? - Luisito Bianchi: La mia sara' anche un'utopia, ma il primo grande utopista e' stato Cristo stesso. Come si fa a celebrare ogni giorno la morte e la resurrezione di Gesu', in un mondo dilaniato dai contrasti e dalle guerre? La mia utopia e' che la Chiesa diventi insegna della gratuita'. 2. VALERIA GENNERO INTERVISTA RICHARD POWERS [Dal quotidiano "Il manifesto" del 15 luglio 2008 col titolo "Richard Powers. Lo specchio di un trauma collettivo" e il sommario "Incontro con lo scrittore americano di cui e' appena uscito, per Mondadori, l'ultimo romanzo intitolato Il fabbricante di eco. La vicenda - che ha inizio subito dopo gli attacchi alle torri gemelle e si conclude con l'invasione dell'Iraq - riguarda un uomo colpito da una rara patologia neurologica"] Puo' darsi sia stata la complessita' filosofica delle sue opere ad aver tenuto finora Richard Powers lontano dal grande successo di pubblico. In compenso i nove romanzi pubblicati a partire dal 1985, anno in cui esordi' con Tre contadini che vanno a ballare, hanno accumulato riconoscimenti prestigiosi, il piu' recente dei quali e' il National Book Award ricevuto nel 2006 per Il fabbricante di eco, appena uscito per Mondadori (pp. 573, euro 20, trad. di Giovanna Granato). La critica statunitense indica da tempo Powers come l'erede piu' accreditato e brillante della generazione nata negli anni '30, quella di Thomas Pynchon, di Philip Roth e soprattutto di Don DeLillo, cui lo lega un debito intellettuale che Powers non esita a riconoscere. Il tentativo di far dialogare la cultura umanistica e quella scientifica dimostrandone la necessaria, imprescindibile interazione, e' uno dei temi ricorrenti della produzione narrativa di Powers. In passato i suoi personaggi si sono trovati coinvolti in controversie su questioni come l'Intelligenza Artificiale e il test di Turing (Galatea 2.2.), o i retroscena della scoperta della struttura chimica del Dna (The Gold Bug Variations). Le ricerche sulla seconda legge della termodinamica di David Strom, un fisico ebreo tedesco rifugiatosi negli Stati Uniti per sfuggire al nazismo, erano invece alla base del monumentale Il tempo di una canzone (2003), in cui Powers rende omaggio all'esempio di Pastorale americana di Roth e a Underworld di DeLillo, per riscrivere la storia statunitense del dopoguerra a partire dalle profonde cicatrici impresse dalla violenza razziale sul corpo della democrazia americana. Nel Fabbricante di eco Powers sposta la sua attenzione dalla fisica alle neuroscienze, mentre la collocazione temporale e' saldamente ancorata ai mesi immediatamente successivi all'attacco dell'11 settembre. Nel febbraio del 2002 Mark Schluter, un operaio di ventisette anni, rimane coinvolto in un grave incidente stradale a Kearney, in Nebraska. Quando si risveglia dal coma Mark e' convinto che sua sorella Karin, che da settimane lo assiste in ospedale, sia stata sostituita da una sosia. In seguito al trauma il giovane ha infatti sviluppato un raro disturbo neurologico, la Sindrome di Capgras, responsabile di generare nei pazienti la convinzione che le persone a cui sono affettivamente legati siano state rimpiazzate da accuratissime imitazioni. Dopo alcune settimane Karin, disperata, contatta Gerald Weber, neurologo di chiara fama e autore di numerosi studi divulgativi di successo (a cui Powers attribuisce i lineamenti di Oliver Sacks e molte delle pubblicazioni di V. S. Ramachandran). Weber raggiunge il Nebraska sperando in un nuovo caso clinico esemplare, ma si trovera' progressivamente coinvolto in una vicenda piena di lati oscuri, in cui gruppi ecologisti, speculatori edilizi, giornalisti e misteriosi angeli salvifici danno luogo a una danza difficile da decifrare, sullo sfondo della migrazione delle gru canadesi che ogni anno nel cuore dell'inverno fanno tappa nei dintorni di Kearney, lungo il fiume Platte, dirette verso l'Alaska. Proprio nella storia delle gru - che apre ogni sezione del romanzo - troviamo un primo indizio per decifrare gli enigmi del titolo. Ma lasciamo che sia Richard Powers a guidarci nella lettura del suo libro. * - Valeria Gennero: All'inizio del romanzo scopriamo che Fabbricante di eco (Echo Maker) e' il nome che alcune tribu' indiane assegnavano alle gru in virtu' della potenza del loro verso. Come mai ha scelto di attribuire a questi uccelli un ruolo cosi' centrale nel romanzo? - Richard Powers: In alcune tradizioni le gru sono considerate una specie di divinita', incaricate di trasportare le anime, proprio a causa del modo in cui il loro verso sembra rimbombare dal profondo. Il nome indiano ci invita a riconoscere in questi animali un'eco dell'intelligenza umana e dei meccanismi della coscienza. Nel corso del romanzo infatti il titolo si affranca dal riferimento iniziale alle gru per suggerire invece che la creazione di eco e' alla base dell'attivita' cerebrale, l'eco costante del mondo che i nostri cervelli creano e in cui noi viviamo. * - Valeria Gennero: Il parallelismo tra la coscienza umana e quella animale e' qualcosa che i personaggi del romanzo arrivano a cogliere gradualmente. Gerald Weber, lo scienziato, e' quello che fa piu' fatica a riconoscere nel comportamento delle gru la presenza di un segreto che lo riguarda. - Richard Powers: Si', e' Karin a mostrarglielo, quando di fronte alle centinaia di gru confluite sulle rive del fiume gli dice "Lo vedi? Tutto danza". Ed e' allora che Gerald, fissando lo sguardo in quello di una gru, si rende conto delle affinita', spesso negate, con le altre forme di vita. Chiunque abbia mai guardato negli occhi un altro essere senziente e abbia intravisto la presenza di qualcosa di riconoscibile pur nella sua assoluta differenza ha gia' provato in parte il senso di straniamento, lo stato di misidentificazione (o sindrome di Capgras) che costituisce la metafora centrale del romanzo. Quello che Weber osserva, venendone a sua volta osservato, e' un altro genere di eco: forme ancestrali di intelligenza che sono ancora in noi, i fondamenti evolutivi del nostro cervello. Il problema e' che queste strutture sono seppellite dentro di noi, sommerse da strutture corticali piu' recenti, di livello "piu' alto", che ci rendono incapaci di comunicare non solo con gli animali, ma anche con una gran parte di noi stessi. * - Valeria Gennero: Leggendo Il fabbricante di eco si ha l'impressione che l'identita' non possa essere se non una forma di autoinganno. E' d'accordo? - Richard Powers: Il problema e' che noi ci consideriamo integri, coerenti e continui. Pensiamo che l'immagine che ci facciamo del mondo esterno sia immutabile, attendibile. Ma non siamo gli stessi neppure da un momento all'altro, da un avvenimento a quello successivo. Ogni contatto ci cambia. Mettiamo in scena noi stessi in modo diverso ogni volta che incontriamo qualcuno. La neuroscienza contemporanea ci spiega che il cervello e' un parlamento rumoroso e caotico, in cui si fronteggiano senza pausa centinaia di sottosistemi neurali. Il lavoro della coscienza e' quello di creare, da quel baccano scoordinato, un'illusione di continuita' e solidita'. Il se' e' un'improvvisazione sempre fluida. Un'interruzione tra due sottosistemi cerebrali puo' rovesciare l'intera costruzione della realta': le persone perdono la capacita' di identificare oggetti familiari. Non riescono piu' a individuare la differenza tra due volti, non sanno se le mele sono piu' grandi o piu' piccole di un pallone. In alcuni casi negano che il loro braccio sinistro gli appartenga, in altri sviluppano la convinzione che le loro case siano state sostituite da copie perfette. Certi pazienti credono di essere ciechi mentre non lo sono, oppure al contrario non ammettono una cecita' conclamata. Tuttavia, anche senza che siano presenti delle patologie cerebrali, ognuno di noi sperimenta in forma lieve sindromi analoghe come parte del funzionamento regolare della coscienza. * - Valeria Gennero: Ma esiste, secondo l'idea che ha derivato dalle sue letture, la possibilita' di pacificare questo parlamento rissoso? E' possibile individuare dei punti fermi, dei valori di riferimento? - Richard Powers: In un certo senso si'. Se, come dicevo, i nostri se' sono in parte il prodotto di un'interazione che ci vede protagonisti insieme agli altri e per mezzo degli altri, allora forse e' solo attraverso la coesione sociale e il contatto che noi siamo messi in condizione di creare triangoli e dunque di stabilizzare provvisoriamente il nostro Io nel flusso ininterrotto delle narrazioni. Detto in modo piu' romantico: l'interdipendenza umana e l'amore ci richiamano ai se' che non smettiamo mai di perdere. * - Valeria Gennero: I tre protagonisti pero' con il passare dei mesi sembrano sempre piu' convinti che non sia in effetti possibile entrare in contatto con gli altri esseri umani. Alla fine abbiamo l'impressione che la distanza tra la patologia di Mark e la "normalita'" di Karin e Weber sia come cancellata, e che ognuno si ritrovi imprigionato nella propria gabbia percettiva. - Richard Powers: Tutti i personaggi scoprono che ogni narrazione del se' e' una finzione, si accorgono di essere rinchiusi nelle loro camere d'eco interiori. Eppure qualcosa e' cambiato, si sono trasformati a vicenda. Hanno rinunciato al loro senso di continuita' e di integrita' personale per abbracciare invece questo flusso ininterrotto di negoziazioni che avvengono non solo dentro ognuno di loro ma anche tra di loro. Noi non siamo quello che pensiamo di essere, e non possiamo sapere che cosa significa essere intrappolati nella stanza chiusa della coscienza altrui. Eppure proprio questo rovesciamento di prospettiva e' il punto di partenza per dare senso alle cose che facciamo. C'e' una vecchia barzelletta americana in cui qualcuno racconta a un amico: "Mio fratello e' pazzo, pensa di essere una gallina". L'amico gli risponde: "Perche' non lo porti da uno psichiatra?", al che il narratore risponde: "Non posso, altrimenti poi le uova chi me le fa?". * - Valeria Gennero: Quella personale non e' pero' l'unica configurazione identitaria ad apparire in crisi. In un'intervista lei ha raccontato come sia diventato difficile, dopo il Patriot Act e Abu Ghraib e Guantanamo, riconoscersi in un'America sempre piu' difficile da conciliare con l'idea di democrazia. - Richard Powers: Non e' un caso che la vicenda narrata nel Fabbricante di eco abbia inizio subito dopo gli attacchi alle torri gemelle e si concluda con l'invasione dell'Iraq. La storia della sindrome da misidentificazione di Mark Schluter diventa, se non proprio una metafora di questa lunga fase di defamiliarizzazione della sfera pubblica statunitense, almeno un suo riflesso: un esempio di quanto sia facile persino per la coerenza narrativa di un'identita' pubblica e condivisa - religiosa, familiare, nazionale - ritrovarsi in mille pezzi. Cosi' come accade a molti di coloro che si trovano oggi a vivere negli Stati Uniti, tutti i personaggi del romanzo provano quotidianamente un forte senso di disorientamento politico. E' un po' come quando Mark dice: "questa donna assomiglia a mia sorella, parla come mia sorella, si muove come lei, eppure io non sento nulla per lei": l'assenza di emozioni porta Mark a credere che Karin sia in realta' una simulatrice, coinvolta in un complotto ai suoi danni. Allo stesso modo, vivere nell'America di Bush spesso mi fa venire in mente i sintomi del Capgras: "questo sembra il mio paese, parla come il mio paese, si comporta come se fosse il mio paese eppure e' un posto che non riesco piu' a riconoscere. Non puo' che trattarsi di un'impostura, dev'esserci stata una sostituzione". Gli Stati Uniti sembrano oggi, a giudicare dalle loro azioni unilaterali all'estero, vittime di un autoinganno persistente che li ha separati dalla famiglia delle nazioni. In questo senso il libro e' anche l'esplorazione di una derealizzazione collettiva. La mia speranza e' che il commento di Luria che ho scelto come epigrafe del romanzo "Per trovare l'anima e' necessario perderla" - sia valido, oltre che per l'identita' personale, anche per quella nazionale. E che l'America sia finalmente sul punto di intraprendere il lungo e difficile cammino per ritrovare la propria anima. * Postilla biobibliografica. Passaggi di vita e di opere Richard Powers e' nato a Evanston (Illinois, Usa) nel 1957. Alla fine degli anni Sessanta si trasferi' con la famiglia in Thailandia - dove il padre insegnava inglese - e vi rimase per cinque anni. Rientrato negli Stati Uniti si iscrisse all'Universita' dell'Illinois per studiare fisica. In seguito decise invece di approfondire gli studi umanistici e consegui' un master in letteratura inglese. Il primo lavoro fu pero' di nuovo in ambito scientifico, come programmatore di computer. La svolta arrivo' nel 1983, quando in un museo di Boston Powers vide una fotografia intitolata "Giovani contadini" che venne scattata in Germania nel 1914 da August Sander. In quel ritratto Powers individuo' "il momento in cui e' nato il XX secolo": pochi giorni dopo si licenzio' e comincio' a scrivere il suo primo romanzo, Tre contadini che vanno a ballare (1985, Bollati Boringhieri 1991), accolto con immediato entusiasmo dalla critica. Tre anni piu' tardi usci' Il dilemma del prigioniero e quindi, nel 1991, The Gold Bug Variations, che "Time" indico' come "libro dell'anno". Tra i romanzi successivi sono stati tradotti in italiano: Galatea 2.2. (1995 - Fanucci 2003), Sporco Denaro (1998 - Fanucci 2007), e Il tempo di una canzone (2003 - Mondadori 2006). Powers ha ricevuto sia il premio MacArthur Fellowship nel 1989 che il Lannan Literary Award nel 1999. 3. SARA MARINELLI INTERVISTA PETER ORNER [Dal quotidiano "Il manifesto" del 12 novembre 2008 col titolo "Orizzonti africani" e il sommario "Scene di nostalgia e disincanto nella Namibia indipendente. Nel suo romanzo d'esordio, Un solo tipo di vento, lo statunitense Peter Orner descrive, attingendo alla sua stessa esperienza, il soggiorno di un giovane e idealista insegnante americano in Africa. Un incontro con lo scrittore"] Nei confronti degli scrittori occidentali che narrano storie ambientate in Africa si tende a nutrire un certo sospetto: le loro opere vengono infatti valutate non tanto per le loro qualita' letterarie, quanto per l'abilita' con cui l'autore ha saputo sfuggire alle trappole tese dagli stereotipi dell'esotismo e dell'imperativo antropologico del "farsi nativi". All'apparenza, le premesse per legittimare tale sospetto ci sono tutte nel romanzo dello statunitense Peter Orner The Second Coming of Mavala Shikongo, appena uscito in italiano per Minimum fax con il titolo Un solo tipo di vento (traduzione di Riccardo Duranti, pp. 430, euro 16). La trama ruota infatti intorno a un giovane americano del Midwest, Larry Kaplanski, che si reca in Namibia subito dopo la conquista dell'indipendenza del paese (1990) per insegnare inglese presso la scuola cattolica di un villaggio isolato, e si innamora della misteriosa e affascinante guerrigliera Mavala Shikongo. Sin dall'inizio, pero', lo stereotipo si sfalda nell'insolita struttura frammentaria di questo ampio romanzo, oltre quattrocento pagine, che riproduce il processo impalpabile e arbitrario della memoria, ricostruendo una visione volutamente parziale della Namibia, e affronta la vita quotidiana nel villaggio desertico di Goas, all'indomani della guerra d'indipendenza dal colonialismo. Quello che emerge e' un racconto lirico e corale sulla memoria, la nostalgia, le relazioni umane e amorose, le donne in guerra con il mondo e con se stesse, e sul senso della storia cosi' come affiora nei dettagli della vita quotidiana. Abbiamo incontrato Orner (gia' noto ai lettori italiani per la raccolta di racconti Esther Stories, pubblicata, ancora da Minimum fax, nel 2004), a San Francisco, dove risiede, in occasione dell'uscita del suo romanzo in Italia. * - Sara Marinelli: Un solo tipo di vento si basa sulla sua esperienza, nel 1991, di insegnante di inglese per un anno e mezzo a Goas, un remoto villaggio della Namibia. Adottando un'ottica che e' probabilmente assai lontana dalle sue intenzioni, qualcuno potrebbe intravedere nel viaggio del protagonista, Larry Kaplanski, lo spettro della missione educatrice dell'uomo bianco durante il colonialismo. Ha mai pensato a questa possibile lettura? - Peter Orner: Ho cercato volutamente di evitare questa impostazione, anche perche' tanti libri sull'Africa mi hanno deluso proprio perche' implicitamente riproponevano la visuale dell'uomo bianco. Molti compiono l'errore di impartire lezioni di storia. Personalmente sono ossessionato dal passato, e sono molto interessato alla storia della Namibia, ma non volevo trasformare il romanzo in una lezione. La mia intenzione era soprattutto quella di raccontare un posto reale, persone reali che ho incontrato e che hanno avuto un profondo effetto su di me. Le storie che ci raccontavamo ogni giorno, la nostra vita quotidiana a Goas, per me erano e sono la storia. Se non ne avessi scritto, avrebbe significato privarmi di una parte della mia storia solo perche' avevo paura della mia prospettiva occidentale. Ho cercato insomma di descrivere onestamente la mia relazione con il paese, concentrandomi sulla varieta' dei rapporti umani. Kaplanski, che e' una figura diversa da me, si ritrova in questo luogo solitario, dove e' accomunato agli altri dal fatto che tutti vengono da fuori e si sentono esiliati, come su un'isola. * - Sara Marinelli: Cosa l'ha spinto a recarsi a Goas poco piu' che ventenne? - Peter Orner: All'epoca ero un ragazzo punk, un po' malconcio, entusiasmato dal fatto che la Namibia avesse appena conquistato l'indipendenza e volesse ricreare se stessa da zero. Il governo namibiano aveva dichiarato l'inglese lingua ufficiale, e invitava insegnanti madrelingua ad andare. Era un'impresa pazzesca, perche' sebbene gli insegnanti locali parlassero inglese, i bambini parlavano l'afrikaans e tante altre lingue locali. Ancora piu' pazzesco e' stato insegnare la storia namibiana: non avevamo neanche i libri perche' li stavano ancora scrivendo. Cosi' chiedevo ai miei amici di raccontarmi vicende accadute che io poi ripetevo agli alunni in classe, e quelle erano le lezioni di storia che mi erano rese possibili. * - Sara Marinelli: E' interessante osservare che Kaplanski non "diventa nativo", ma resta fondamentalmente se stesso, pur sottraendosi allo status di outsider. A tratti, gli altri insegnanti lo reputano un matto perche' ha scelto di vivere con loro. Il vecchio insegnante Obadiah a un certo punto gli dice: "Tutti i nostri bianchi, in un modo o nell'altro, sono un po' dementi. Sarebbe interessante visitare l'America al solo scopo di studiare dei bianchi normali". Intendeva evidenziare la complessita' delle relazioni fra bianchi e neri? - Peter Orner: Chi puo' dirsi "normale" in un contesto in cui fino a due anni prima bianchi e neri si sparavano a vicenda? Nonostante la fine ufficiale dell'apartheid, quando si e' afrikaaner in Namibia non si puo' sfuggire al folle concetto di "razza", perche' si vive in un ambiente in cui il sistema ufficiale e' segregante e crea una gerarchia della popolazione in base al colore della pelle. La frase di Obadiah esprime la sua profonda irritazione di fronte al persistere del sistema dell'apartheid - introdotto in Namibia nel 1977 - nella societa' post-indipendenza. * - Sara Marinelli: La sua rappresentazione dell'Africa e' al confine fra il tangibile e l'impalpabile soprattutto grazie a uno stile frammentario che riproduce il processo della memoria. Quale immagine dell'Africa intendeva comunicare? - Peter Orner: Non volevo descrivere l'Africa, ma un luogo specifico: volevo catturare lo spirito della Namibia, un paese che dal punto di vista di un outsider, non necessariamente un bianco, e' di una singolare originalita'. Per quel che mi riguarda, mi sento un outsider anche negli Stati Uniti. In Namibia anzi, mi sentivo meno estraneo di quanto non mi senta nel posto da cui provengo. Ho cominciato a scrivere della Namibia quando non essendo piu' li' ne provavo nostalgia, per cui la struttura episodica del libro riflette la natura frammentaria dei miei ricordi, e il senso della mia incapacita' di catturare fino in fondo questo luogo. * - Sara Marinelli: Il suo libro e' attraversato da un senso di nostalgia, sebbene siano assenti venature sentimentali, di quell'esperienza e di quel luogo. Non solo Kaplanski, quasi tutti i personaggi sembrano esserne riguardati. - Peter Orner: Forse, piu' ancora di Kaplanski, la nostalgia affiora nella figura di Obadiah, in cui mi identifico molto piu' che nel protagonista. Come Obadiah, il quale prova nostalgia persino della moglie che e' accanto a lui, sono ossessionato dalla memoria. Quando sono tornato in Namibia per la prima volta, dopo una decina di anni, la scuola non c'era piu', i miei amici erano tutti sparpagliati, la fattoria di Goas era diventata una postazione per le battute di caccia dei turisti tedeschi che vanno nel paese per sparare ai cudu'. Le aule in cui avevamo insegnato erano utilizzate come deposito di selvaggina per la caccia, e c'erano scheletri e teste dappertutto. Per me, che per tanto tempo avevo provato una tale nostalgia della Namibia da farla diventare un fantasma nella mia mente, e' stato sconvolgente. All'inizio mi sono chiesto se dovevo inserire questi fatti nel libro, ma poi ho deciso che avrei fatto si' che la scuola di Goas continuasse a vivere; e anzi, se ho cominciato a scriverne e' perche' ero turbato dalla sua fine. * - Sara Marinelli: Il titolo originale del romanzo porta il nome di una donna, Mavala Shikongo, ma di lei non veniamo a sapere molto: resta, infatti, una figura misteriosa, una ex guerrigliera, che non vorrebbe avere nel suo destino il fatto di trovarsi a Goas come insegnante. Dopo alcuni incontri d'amore con Kaplanski, sparisce affidando il suo bambino a un'altra donna, Antoniette. Ci racconta come le e' venuta l'idea di questo personaggio? - Peter Orner: Il personaggio di Mavala e' modellato su due donne guerrigliere che ho effettivamente conosciuto e intervistato, frustrate, dopo aver combattuto, per il fatto di ritrovarsi insegnanti in un villaggio isolato. Per costruire il personaggio mi sono basato anche su quella iconografia che in Namibia, durante la guerra, rappresentava le donne come guerrigliere per la liberta'. Fotografie di donne namibiane che imbracciavano fucili circolavano in Europa, specialmente in Scandinavia, a fini propagandistici. Diversi paesi mandarono danaro per sostenere la causa. C'era in particolare un poster a cui mi sono ispirato (lo avrei voluto come copertina del libro) che ricordava la statua di Anita Garibaldi a cavallo, col fucile in una mano e un bambino nell'altra. Ora, chi sa quale sia la verita' che si nasconde dietro l'immagine delle guerrigliere namibiane? Nei poster propagandistici imbracciano fucili, ma non erano sempre in combattimento. Quando Kaplanski chiede a Mavala di raccontargli una storia di guerra, lei e' reticente. Mi premeva mettere in luce il fatto che le donne hanno sostenuto costantemente il paese. Con l'indipendenza ci si aspettava che questo sforzo sarebbe stato loro riconosciuto, mentre invece sono state emarginate, non hanno assunto alcun ruolo di potere. Con l'eccezione di una sola donna, Libertina Amathila, che ha assunto un ruolo di rilevo essendo tuttora ministra della salute e degli affari sociali. Ma ci sono tante altre donne in Namibia, che meriterebbero di essere non soltanto conosciute ma persino riverite: penso fra l'altro alla giornalista Gwen Lister, per me una vera eroina, che ha lottato contro l'apartheid e anche contro il governo attuale. * - Sara Marinelli: La figura di Mavala Shikongo incarna anche un desiderio amoroso, che attraversa tutto il romanzo. I suoi incontri con Kaplanski sembrano un miraggio, le loro conversazioni sono scarne, interrotte e infine la donna sparisce senza preavviso. Intendeva alludere all'impossibilita' di una relazione affettiva fra due figure tanto diverse? - Peter Orner: In generale, sono convinto che nessuno possa sapere di cosa e' capace il proprio partner finche' l'altro non si mostra in azione. Cosi', Kaplanski non conosce veramente Mavala, non capisce che e' passata dall'incredibile eccitazione di avere combattuto, e vinto, alla frustrazione del suo lavoro di insegnante, non comprende che il suo vero desiderio e' andarsene. Nella relazione fra un uomo e una donna, quello che mi interessa di piu' e' il modo in cui la politica dell'amore e del genere sessuale viene condizionata dal luogo e dalla sua cultura. Se gli uomini se ne vanno, abbandonando le loro donne o i loro figli, la cosa appare normale, ma se una donna parte lasciando il suo bambino, verra' mal giudicata e ne portera' il peso per sempre. * - Sara Marinelli: Nel suo libro lei non indica dove andra' Mavala. A noi lettori, quale destinazione suggerisce di immaginere che prendera' il personaggio, tenendo conto anche del contesto storico in cui l'ha inserito? - Peter Orner: Scegliendo di non precisare il luogo dove e' diretta Mavala ho implicitamente ammesso che il suo personaggio e' misterioso per me come per le altre figure del romanzo. Quello che posso dire e' che Mavala si incammina verso sud, sull'autostrada B-1, la principale arteria che corre dalla frontiera namibiana fino giu' al Sudafrica. Siamo nel 1991, Nelson Mandela e' stato rilasciato l'anno prima, e nonostante l'apartheid sia ancora in vigore in Sudafrica, si sente che si sta preparando un vero cambiamento, e forse anche maggiori opportunita' per una donna. Per gran parte della popolazione in Namibia, e in altri luoghi dell'Africa meridionale, il Sudafrica e' una specie di terra promessa. Alla fine del romanzo, veniamo a sapere dalla lettera che Kaplanski riceve da Obadiah dopo dieci anni, che Mavala non e' piu' tornata a Goas, e forse ha appagato il suo desiderio di liberta' perdendosi non nel deserto, ma in un mondo piu' vasto e cosmopolita. * Postilla biobibliografica. Attivista e viaggiatore, alla scoperta dell'America underground Dopo avere esordito con una raccolta di racconti, Esther Stories, segnalata dal "New York Times" come uno dei "libri da ricordare" del 2001 e uscita per Minimum fax nel 2004, Peter Orner ha pubblicato nel 2006 il suo primo romanzo, The Second Coming of Mavala Shikongo (ora uscito con il titolo Un solo tipo di vento, ancora per Minimum fax nella traduzione di Riccardo Duranti) che e' stato finalista per il Los Angeles Times Book Prize e ha vinto il Bard Fiction Prize. Originario di Chicago, ma attualmente residente a San Francisco (dopo avere vissuto in Namibia, a Praga e a Roma), Orner insegna scrittura creativa alla San Francisco State University. Attivista per i diritti umani, con un trascorso di avvocato, lo scrittore ha inoltre di recente curato, per la casa editrice McSweeney's, Underground America: Narratives of Undocumented Lives, una raccolta di testimonianze orali di immigrati che lavorano negli Stati Uniti. 4. CRISTINA PATERNO' INTERVISTA ABBAS KIAROSTAMI [Dal mensile "Letture", n. 617, maggio 2005, col titolo "Kiarostami, un viaggio verso la tolleranza" e il sommario "Autore della minitrilogia Tickets insieme con Ermanno Olmi e Ken Loach, il regista iraniano invita le persone al dialogo, alla reciproca comprensione, a una fede e un amore vissuti piu' intimamente"] Si apre sulle immagini di una stazione ferroviaria in una citta' non identificabile dell'Europa ricca e civilizzata minacciata pero' da eserciti in marcia trionfale: come se la guerra, che cerchiamo disperatamente di tenere fuori dalla porta di casa, potesse penetrare persino nel cuore della neutrale Svizzera. E' Tickets, il film realizzato da tre maestri, l'italiano Ermanno Olmi, l'inglese Ken Loach e l'iraniano Abbas Kiarostami. Tre stili a bordo di un treno che attraversa l'Europa, mentre i destini dei passeggeri, dalla prima classe ai clandestini senza biglietto, s'intrecciano. Doveva essere una trilogia di documentari, ma e' diventata ben presto una lezione di tolleranza. "Questo film e' l'esempio concreto di come tre modi di pensare diversi possano convivere in un unico progetto... speriamo che lo adottino anche all'Onu", scherza Ermanno Olmi. Nel suo episodio, un anziano farmacologo rimane affascinato da una giovane signora e arriva a compiere una semplicissima buona azione, mentre Ken Loach racconta la "conversione" di tre tifosi del Celtic, con l'aria da hooligans. Piu' sottile, e quasi checoviana, la storia scelta da Abbas Kiarostami, Palma d'oro con Il sapore della ciliegia: in carrozza sale la dispotica vedova di un generale accompagnata da un giovanotto in servizio civile e subito ne nasce una commedia degli equivoci. "Ammetto di aver usato qualche reminiscenza del cinema italiano, addirittura Toto'", confida il regista, che tornera' presto a girare in Italia con gli stessi attori di Tickets: il giovane Filippo Trojano e la sperimentata Silvana De Santis. * - Cristiana Paterno': Nei suoi personaggi ho notato una ambiguita' di fondo, come se lei volesse celarne le reali intenzioni. - Abbas Kiarostami: I passeggeri del treno, come gli spettatori del cinema, osservano cio' che accade senza conoscere in anticipo la trama e senza sapere cosa diranno i personaggi. Un po' come quando al ristorante si spia la coppia seduta al tavolo accanto. Loro non stanno recitando per voi, ma stimolano la vostra curiosita'. L'episodio di Tickets e' raccontato cosi', come osservato dal di fuori. * - Cristiana Paterno': Rispetto agli altri due episodi, sembra che la presa di posizione contro l'intolleranza e la prevaricazione sia mitigata dall'ironia. - Abbas Kiarostami: Penso che ridere faccia parte della vita: gli equivoci, nel quotidiano, sono all'ordine del giorno. * - Cristiana Paterno': La commedia degli equivoci puo' nascere dalla differenza delle lingue o dalla sordita', reale o esibita. - Abbas Kiarostami: Indubbiamente anche chi parla la stessa lingua puo' cadere in equivoco. A volte poi non si tratta di malintesi comici, perche' dal capire fischi per fiaschi possono nascere delle tragedie. Quando due persone si fanno la guerra tra loro non c'e' dialogo, anche se parlano la stessa lingua. All'Unesco, nel 2000, e' stato detto che la tragedia piu' grande del mondo contemporaneo e' il non capirsi. Tra le persone e tra gli Stati. * - Cristiana Paterno': Cosa puo' fare un intellettuale contro queste mistificazioni? - Abbas Kiarostami: Non ho la presunzione di poter cambiare qualcosa. Ma a livello di leader politici la situazione e' chiara: chi non vuole capire non ascolta. * - Cristiana Paterno': Lei una volta ha detto che ci avviciniamo alla verita' solo attraverso la menzogna. In che senso? - Abbas Kiarostami: Le persone mentono per non rivelare la loro personalita', pero' io penso che attraverso la bugia si possa intuire la personalita'. Come il bambino che non vuole andare a scuola e dice "ho la febbre", ci fa capire che non gli piace la scuola, che non gli piace l'insegnante. Allora andiamo a indagare come e perche'. * - Cristiana Paterno': Che rapporto ha con la fede? - Abbas Kiarostami: In generale mi sembra che oggi la gente tenda a mettersi una medaglia: "sono religioso, non sono religioso". Io invece penso che questo sia un aspetto molto intimo. Questi che vanno in giro portando un segno della loro religione, mi danno fastidio. Non serve mettere in mostra quello che si ha dentro. Un poliziotto che va in giro con la pistola e il manganello vuole trasmettere il messaggio "io ho il potere e vi posso sottomettere". Ecco, non voglio che anche la religione sia strumentalizzata per dire "io sono meglio di voi". * - Cristiana Paterno': Parlando della religione come fatto intimo e non politico, lei che vive tra l'Oriente e l'Occidente, tra Teheran e Parigi, ha sviluppato un interesse per la religione cristiana? - Abbas Kiarostami: Se Dio e' unico, allora le religioni - cristiana, islamica, eccetera - sono la stessa cosa. Se pensiamo che Dio non sia unico, allora qualcuno potra' sempre saltare su e dire "la mia e' la migliore". E usera' questa affermazione a livello politico. Le religioni vanno studiate e comprese nella misura in cui non si fanno la guerra l'una contro l'altra. Quando c'e' aggressione, non c'e' piu' comprensione, e anche la religione diventa un gesto politico. Ogni religione ha avuto i suoi profeti: e' come se la rivelazione si fosse pian piano completata. Ma io non credo che Dio sia imperfetto e che si sia perfezionato progressivamente. * - Cristiana Paterno': Pero' le guerre di religione ci sono sempre state e oggi forse ancor piu' che in passato. Per evitarle non sarebbe giusto far dialogare di piu' le religioni? - Abbas Kiarostami: Diamo tutta la responsabilita' ai profeti che ci hanno messo nei guai e lasciamo risolvere il problema a loro... Personalmente accetto la religione finche' non porta la guerra, ma se la religione non e' religione di pace, io la rifiuto. * - Cristiana Paterno': Continuera' a lavorare in Italia? - Abbas Kiarostami: Vorrei ampliare il racconto di Tickets: capire come finisce la storia di Filippo e Silvana. Mentre giravo il mio episodio ho avuto la sensazione che fosse rimasto in sospeso. Ora chiedero' a Filippo: cosa ti va di fare? Vuoi andare a trovare tua sorella o restare con la vecchia signora? Mentre a Silvana vorrei chiedere cosa prova realmente per Filippo: perche' quando Filippo osservava quella ragazza carina, seduta di fronte a lui, lei ha cambiato posto? * - Cristiana Paterno': Ho sempre notato una sua reticenza nel descrivere l'amore. Come mai? - Abbas Kiarostami: Lei ha ragione, c'e' una mia reticenza a parlare dell'amore. E' un fatto personale e non culturale. Io penso che prima che un uomo e una donna diano inizio a una storia d'amore sono come due pugili, tra loro c'e' una lotta interiore, una guerra fredda. Stanno costantemente attenti che l'altro non si porti via una parte di loro. Girano uno intorno all'altro, studiandosi reciprocamente. Si osservano perche' hanno paura, ricordano esperienze negative del passato, non vogliono soffrire nuovamente. Forse si spogliano, ma se il corpo e' nudo, l'anima rimane coperta. E' uno dei motivi per cui le dichiarazioni d'amore vanno sempre piu' in la', diventano esagerate e si perde la spontaneita', proprio per vincere questa paura. Ma solamente coloro che stanno in ginocchio di fronte all'altro si arrendono all'amore. E' allora che il pugile e' ko. ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 262 del 14 novembre 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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