Voci e volti della nonviolenza. 255



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 255 del 3 novembre 2008

In questo numero:
Anna Bravo: L'esperienza della prima guerra mondiale

ANNA BRAVO: L'ESPERIENZA DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
[Ringraziamo di cuore Anna Bravo (per contatti: anna.bravo at iol.it) per
averci messo a disposizione il testo di un capitolo sulla grande guerra
("Vivere la grande guerra") scritto anni fa per un manuale per le scuole
superiori; testo utile "come contraltare, fra gli altri, alla retorica della
patria e della nazione; il cui fine e' far vedere alle persone giovani cosa
e' l'esperienza della guerra - e che forse a qualche docente puo'
interessare come strumento di divulgazione"]

Sommario: Vivere la Grande guerra
1. Una guerra desiderata?
2 Il mondo delle trincee: gli uomini
3. La patria, il nemico
4. La patria, il nemico: capovolgimenti
5. Il fronte interno: la vita pubblica
6. Il fronte interno: le popolazioni
7. Donne e uomini
*
Vivere la Grande guerra
Smisurata come evento militare, la Grande guerra lo e' anche per le
conseguenze politiche ed economiche, e ancor piu' per la profondita' degli
effetti culturali, psicologici, emotivi. In tutti i paesi i governi ampliano
enormemente l'intervento statale nell'economia e in ogni settore della vita
civile, facendo crescere gli apparati burocratici e limitando i diritti dei
lavoratori e dei cittadini; tendono in varia misura a sovrapporsi al potere
del parlamento e usano forme di propaganda che fanno appello a pulsioni
arcaiche. Sui fronti di guerra, i combattenti sperimentano i limiti della
razionalita' di fronte a una realta' irreale, il rovesciamento del rapporto
fra la vita e la morte, che si traduce in un intreccio fra nichilismo e
misticismo, credulita' e cinismo, apprezzamento e deprezzamento della vita.
Sul fronte interno, vale a dire nella societa' civile trasformata in
retrovia della guerra, i mutamenti investono ogni aspetto dell'esperienza, a
partire da quelli ritenuti piu' naturali come il rapporto fra i sessi:
cresce il numero delle donne occupate, spesso anche in mansioni classificate
maschili, e cresce la loro visibilita' nella sfera pubblica, anche perche' i
governi diffondono intensivamente attraverso i media la loro immagine per
mostrare che tutto il paese e' mobilitato per la guerra. Cambiano cosi'
almeno in parte anche i comportamenti femminili e la disponibilita' al
rapporto con gli uomini.
Nell'insieme, la guerra divide il tempo in un prima e in un dopo: prima,
fiducia nella possibilita' di migliorare il mondo e certezza di stare
vivendo un inarrestabile processo di secolarizzazione della societa' civile;
dopo, la paura di cambiamenti catastrofici, un'idea della realta' come
"scherzo del destino" e l'ironia come solo antidoto; la rivincita di tutto
quello che si contrappone alla razionalita'.
La storia ha mostrato che questo intreccio di elementi politici, economici,
culturali psicologici ha avuto una parte decisiva nella creazione di un
nuovo modello di stato e soprattutto nella nascita dei totalitarismi. Ma
nella percezione di chi l'ha vissuta - i giovani e meno giovani combattenti,
ma non soltanto - la guerra e' da subito uno spartiacque: niente sara' piu'
come prima.
*
1. Una guerra desiderata?
Le folle che manifestano per la guerra nell'agosto del 1914 sono una piccola
minoranza delle popolazioni, ma una minoranza significativa sul piano dei
numeri e rilevante su quello sociale; sebbene ne facciano parte uomini e
donne di ogni eta' e quasi di ogni strato sociale, il grosso e' costituito
da giovani uomini di classe media, per lo piu' studenti. A milioni
partiranno volontari.
*
La fuga dal moderno
Non e' solo un cedimento generalizzato al moderno nazionalismo aggressivo,
non e' solo spirito di avventura, ricerca di uno scopo nella vita, adesione
a ideali di virilita'. Eric Leed, uno storico americano che ha analizzato il
clima dell'estate 1914 in Germania e in Gran Bretagna definendolo "comunita'
d'agosto", vede in quell'entusiasmo una spinta di massa alla fuga da tutto
cio' che appare connesso alla moderna societa' industriale: l'incasellamento
dei singoli in classi e ruoli e la loro riduzione a pedine intercambiabili
nell'organizzazione del lavoro; i rapporti sociali ingiusti e la retorica
dei buoni sentimenti, l'etica affaristica e l'ipocrisia, l'aumento dei
bisogni e la prospettiva del declassamento, la sovrabbondanza di oggetti e
il vuoto dei valori; e la solitudine.
E' un'inquietudine profonda sul destino dell'individuo nella societa' di
massa, una difficolta' a capire un mondo sempre piu' complesso e caotico.
Le avanguardie culturali e artistiche colgono questi stati d'animo, reagendo
con programmi e modi espressivi anche molto diversi fra loro per contenuti e
qualita': dal mito della tecnologia, della velocita' e della potenza caro ai
futuristi italiani allo scavo dell'interiorita' dell'espressionismo tedesco
alla sfida contro ogni regola dichiarata dal movimento dada. Ma un tratto le
accomuna: sono movimenti di giovani che si contrappongono dichiaratamente
alla societa' dei piu' anziani, e che guardano alla propria generazione per
dar vita a un mondo nuovo, esemplificando e diffondendo una sensibilita'
generazionale prima mai cosi' spiccata.
Nella massa molto piu' vasta di giovani che manifestano nelle piazze il loro
entusiasmo per la guerra, il sogno di un mondo diverso e' rivolto piuttosto
all'indietro, a un passato visto con gli occhi nostalgici di chi non c'era.
Ma e' simile l'inquietudine nei confronti del proprio futuro e il desiderio
di cambiamento.
La guerra viene allora immaginata come l'esatto contrario della societa'
industriale: poverta' e naturalezza contro spreco e artificiosita';
sacrificio e coesione morale anziche' profitto e competizione; un'esistenza
rigidamente strutturata anziche' l'ansia di dover fare scelte. E' il sogno
della comunita' preindustriale, fantasticata come regno dell'autenticita' e
dell'armonia.
*
Il senso di comunanza
La descrizione che il romanziere e commediografo viennese Stefan Zweig fa
delle folle manifestanti riunisce molti aspetti del senso comunitario
dell'agosto 1914: "Centinaia di migliaia di persone sentivano allora come
non mai quel che esse avrebbero dovuto sentire in pace, di appartenere cioe'
a una grande unita'... Tutte le differenze di classe, di lingua, di
religione erano in quel momento grandioso sommerse dalla grande corrente
della fraternita'. Estranei si rivolgevano amichevolmente la parola per
strada, gente che si era evitata per anni si porgeva la mano, dovunque non
si vedevano che volti fervidamente animati. Ciascun individuo assisteva a un
ampliamento del proprio io, non era cioe' piu' una persona isolata, ma si
sentiva inserito in una massa, faceva parte del popolo, e la sua persona
trascurabile aveva acquisito una ragion d'essere".
*
Una comunita' maschile, cittadina, di classe media
Basterebbe spostarsi a pochi chilometri dalle citta' per trovare tutt'altro
clima. Non solo i contadini sono, nella stragrande maggioranza, ostili alla
guerra, ma guardano con scetticismo o con rabbia all'enfasi comunitaria dei
loro connazionali cittadini. Per chi ci vive, la comunita' preindustriale -
o meglio quel che ne rimane - vuole dire lavoro durissimo ed emarginazione;
forse piu' rapporti umani, di sicuro pero' anche maggior controllo e
chiusura.
Ma a improntare l'immagine di quella estate e' l'esperienza dei volontari di
classe media colta, la cosiddetta "generazione del '14". Oltre che
essenzialmente giovanile, la "comunita'"  dell'agosto 1914 e' dunque
cittadina. Ed e' maschile. Anche se a volte le donne sono accesamente
nazionaliste - come le ragazze che a Londra offrono una piuma bianca,
simbolo della codardia, a chi non si e' arruolato - a dominare e'
l'equazione virilita'-violenza, e' la mascolinita' pronta a realizzarsi
nella guerra.
E' infine una "comunita'" di classe, dove le differenze sociali e culturali
non venivano ne' superate ne' abolite, ma semplicemente messe da parte.
Non per questo il sentimento comunitario e' meno reale. Sara' necessario il
confronto diretto, nelle trincee, con i soldati di leva, per chiarire ai
volontari che il loro atteggiamento verso la guerra e la nazione e'
condiviso molto raramente da contadini, operai, braccianti, artigiani.
*
2. Il mondo delle trincee: gli uomini
Nella memorialistica di guerra e con parole diverse anche nei resoconti
ufficiali, le trincee sono descritte come un labirinto di cunicoli che si
intersecano, gelidi o soffocanti, puzzolenti e brutalmente squallidi, con il
terreno sempre intriso di acqua e una popolazione di ratti e di pidocchi.
In questo ambiente da topi, da talpe o da "trogloditi", come loro stessi si
definiscono, i soldati vivono per giorni o anche per settimane in attesa del
cambio, assordati dal frastuono delle artiglierie, esposti ai colpi dei
tiratori scelti, i cecchini, senza vedere altro che due pareti di terra e in
alto il cielo.
Per milioni di uomini e' l'esperienza di un isolamento e di una chiusura
totali e irreali. Dalla trincea si usciva solo per essere buttati
all'attacco contro l'altro schieramento, o di notte per tagliare i
reticolati nemici, riparare i propri, trasportare materiali, prolungare i
cunicoli sotterranei - un lavoro da formiche che il giorno dopo sarebbe
spesso stato distrutto dai tiri dell'artiglieria. Come scrive Siegfried
Sassoon, poeta e scrittore inglese ufficiale di fanteria sul fronte
occidentale, "alla fin fine la guerra fu principalmente una questione di
buche e di trincee".
*
La morte di massa
In battaglia, nella "terra di nessuno" e nelle stesse trincee, il confronto
con la morte di massa e' onnipresente. Si usano i cadaveri insepolti come
appoggio per i fucili o come riparo, li si spoglia per recuperare un
indumento in buono stato: non e' cinismo, ma una compenetrazione tra vita e
morte tale da capovolgere il significato che avevano avuto nella vita
normale. Da eccezione, la morte diventa routine. Come scrive nel luglio
1916, un soldato pistoiese di 23 anni: "Se non si muore oggi si muore
domani, perche' cara mia scamparla in questa scamparla in quest'altra e
dagli un mese e dagli due, dagli cinque e dagli dieci e dagli dodici e
quattordici giorni, poi un giorno bisogna cadere e non si puole sfuggire,
perche' la storia e' troppo lunga e mi e' venuta a noia, io non sento piu'
nulla e qualche giorno vado nel carcere e finisco di tribolare e far
guerra".
Le differenze di classe modellano la percezione di questa realta'. Per molti
soldati operai e contadini la guerra e' un nuovo insieme di mansioni
faticose, sporche e mortalmente pericolose comandate da un caposquadra in
divisa; e' un male cui bisogna innanzitutto cercare di sopravvivere; e chi
l'ha scelta di sua volonta' appare uno sciocco, un irresponsabile, un
giocatore d'azzardo, e viene trattato di conseguenza.
Per i volontari di classe media scoprire, in trincea, che il soldato e'
sempre piu' simile all'operaio e la guerra una copia mostruosa della vita
industrializzata, mette una volta per tutte la parola fine a qualsiasi
concezione eroico-romantica. L'ideale di una contesa cavalleresca, in cui la
violenza viene limitata dal culto dell'onore, dal rispetto delle norme
condivise e non invade i rapporti fra gli individui, crolla cosi', prima
ancora che nel rapporto con il nemico, in quello con i compagni: e' la prima
e una delle piu' pesanti disillusioni per la generazione del '14.
*
La guerra-macchina
Non solo: molto rapidamente, diventa impossibile capire che rapporto
esiste - e se esiste - fra quel che succede e quel che e' stato progettato,
ordinato, eseguito. Vale per i soldati, vale per gli ufficiali: il caos
diventa la norma, e la guerra sembra assumere una sua volonta' autonoma,
fino ad apparire come un'entita' impersonale, una macchina o una bestia
gigantesca e malefica, che suscita odio, ma anche stupore, e a volte
identificazione nella sua grandiosita' e potenza.
Fanno eccezione solo la guerra aerea e quella di alta quota, dove ancora
conta l'iniziativa individuale e vige una concezione dell'onore simile a
quella della cavalleria medievale. Il combattimento puo' allora essere
vissuto come un'esaltazione della mascolinita' avventurosa, e qualcosa di
simile si puo' dire anche per le truppe d'assalto (reparti scelti e ben
addestrati) come gli arditi italiani, e per una minoranza dei soldati di
linea.
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Un nuovo cameratismo
Ma tutti gli altri - milioni di uomini - perche' continuano a combattere?
Secondo Freud, un aspetto di questa guerra e' che il militare scopre il
piacere della distruzione, della violenza bruta proibita in tempo di pace.
Ma secondo moltissime testimonianze dell'epoca, i soldati combattono
innanzitutto perche' costretti: fucilazioni e decimazioni per rifiuto di
obbedienza o per "codardia" non sono fatti isolati: i tribunali militari
lavorano talmente su vasta scala che per esempio in Italia colpiscono un
numero di soldati quasi pari a quello dei caduti. Ha forse altrettanto peso
la rassegnazione, quasi un annullamento della volonta' cui si sostituisce
l'obbedienza automatica.
Ma gioca anche una spinta morale che non ha destinatari astratti - Dio re
patria - ma guarda ai compagni: si combatte per fedelta' ai piu' vicini, per
non lasciarli soli e se possibile per salvarli. E' un cameratismo che nasce,
piuttosto che da solidarieta' precedenti o da un senso di umanitarismo, dal
mondo stesso delle trincee, dove si soffre e si rischia insieme, e nella
quotidianita' condivisa uomini molto diversi finiscono per assomigliarsi.
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Modernita' e pensiero magico
Tra gli aspetti comuni, il piu' diffuso e' il ricorso a forme di pensiero e
di comportamento mitico-magico. Nascono infinite leggende e dicerie,
infinite pratiche scaramantiche e propiziatorie.
"La giornata trascorreva in uno stato completamente nevrotico... Pensavi
assurdi scongiuri per sviare la granata che sentivi sopraggiungere. Una
coazione ormai potentemente interiorizzata portava a sedersi in un certo
modo anziche' in un altro, a toccare oggetti particolari, a biascicare tra i
denti ritornelli. Se questo rituale era completato, si era salvi... fino
alla bomba successiva. Questa assurdita' aveva assunto i toni oscuri del
fatalismo: ci si accorgeva con orrore di essere scivolati nella
superstizione, ovvero che i segni che tu stesso creavi ti si rivolgevano
contro, e si finiva per attribuire alle granate in arrivo una deliberazione
e un'accuratezza che di fatto non avevano. Cosi' trascorrevi tutto il
giorno, ascoltando, calcolando, sperando o disperando, cercando compromessi
con il destino e scommettendo con te stesso sulle possibilita' di questi
orrori vari".
Sono parole di un ufficiale inglese di stanza sul fronte occidentale, che
vive queste pratiche come un sollievo necessario ma in qualche modo
degradante. Anche alcuni studiosi hanno visto nel proliferare di
atteggiamenti mitico-magici, una regressione a livelli mentali primitivi, e
un'anomalia rispetto alla modernita' della guerra.
Ma per altri autori, anziche' di un paradosso si tratta di un aspetto della
modernita', di un bisogno attualissimo: quello di opporre a una realta'
materiale sempre piu' complessa e incontrollabile, risposte che vengono da
altri livelli dell'esperienza, dal mondo dei miti, dei simboli, da tutto
quello che si potrebbe definire il sacro.
*
Le trincee e l'ambiente naturale
Scrivendo a casa nell'agosto del '16, un soldato di stanza nella zona della
Somme nella Francia settentrionale, dove era stata combattuta una delle piu'
lunghe battaglie della grande guerra, si chiedeva come sarebbe mai stato
possibile spianare di nuovo il terreno. Per chilometri e chilometri intorno
alla linea del fuoco il paesaggio era sfregiato dalle buche delle granate e
dai crateri delle bombe, contaminato dai gas.
Ma al di la' della devastazione provocata dalle armi, gia' gli apprestamenti
difensivi avevano stravolto il paesaggio naturale: il terreno era bucato da
un labirinto di trincee e di cunicoli, barriere continue di filo spinato
color ruggine davano l'idea di un autunno perenne, alberi erano stati
abbattuti per farne ripari. La stessa presenza di milioni di uomini
rappresentava di per se' un'alterazione tale da distruggere l'equilibrio
dell'ambiente. La Grande guerra e' anche una guerra contro la natura.
Nella Somme gli edifici distrutti sono stati ricostruiti; ma il paesaggio
artificiale creato dalla guerra non si e' mai potuto cancellare del tutto.
Restano buche mal riempite, tratti di camminamenti e trincee, un'infinita'
di materiali di guerra sparsi. Ancora oggi il terreno espelle frammenti
metallici, pezzi di filo spinato, proiettili inesplosi.
La violazione della natura e' ancora piu' drastica nelle zone di montagna.
Sul fronte italo-austriaco delle Dolomiti, la guerra porta masse di uomini,
materiali, tecnologie. La montagna viene attraversata da sentieri,
mulattiere, gallerie, da strade camionabili e carrozzabili (2.500 km. sul
solo versante italiano), teleferiche e funivie. Dove gli alpinisti non erano
mai arrivati, arrivano i soldati, usando chiodi e scale, scavando caverne
nella roccia e abitandoci per mesi e anni; non scalatori solitari, ma tribu'
di decine di migliaia di uomini. Costoni e massicci rocciosi che avevano
impiegato millenni a formarsi vengono fatti saltare in un secondo. Si
cominciano a scavare gallerie nei ghiacciai, fino alla costruzione della
"citta' di ghiaccio" dentro la Marmolada: un vero complesso con alloggi,
magazzini, viveri, una centrale elettrica, un centralino telefonico, una
camera a tenuta di gas per il controllo delle maschere e una rete stradale
di otto chilometri.
E' il primo incontro della montagna con la modernita', e ne derivano
alterazioni definitive dell'ambiente. Ne scaturira' a guerra finita un nuovo
interesse per la montagna che assumera' la fisionomia del turismo di massa:
decine di migliaia di soldati tornano in quota da borghesi, un mare di
neofiti ne segue l'esempio portando gusti e stili totalmente diversi da
quelli dei "pionieri" ottocenteschi. Anche per la montagna niente sarebbe
stato piu' come prima.
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3. La patria, il nemico
Patriottismo e militarismo
Il nazionalismo "comunitario" che agli inizi della guerra porta grandi masse
a mobilitarsi e' anche impregnato di militarismo, piu' di quello
ottocentesco. Gli eventi piu' memorabili della memoria collettiva vengono
identificati nella vittoria su altre nazioni, sentirsi parte di una
comunita' implica sentirsi estranei a tutte le altre: la Francia e' Marengo,
Austerlitz e Jena, la Gran Bretagna e' Trafalgar, la Russia e' il trionfo su
Napoleone.
I volontari (tre milioni nella sola Inghilterra) vanno a morire per tre
parole, Dio, re e Patria, e spesso basta l'ultima: la patria e' identificata
quasi integralmente con lo stato, con la sua religione e con il suo capo, la
guerra e' per eccellenza la guerra giusta, cosi' giusta da legittimare
controlli e persecuzioni contro chiunque sia giudicato inaffidabile:
pacifisti, "imboscati", traditori veri o presunti, cittadini di origine
straniera naturalizzati.
In Italia il motivo conduttore della propaganda e' il Risorgimento, non
quello statal-diplomatico di Cavour, ma quello di Mazzini, Garibaldi, dei
mille. "Alato", sanguinolento, spesso infarcito di accenni alla romanita',
questo richiamo dilaga da D'Annunzio alle canzonette alle ballate dei
cantastorie. Persino un interventista democratico e socialisteggiante come
Cesare Battisti non sfugge a questi toni.
E' cosi' anche per molti liberali e progressisti di paesi a lunga tradizione
democratica, attratti dal risalto che la propaganda da' alla cosiddetta
"voce del popolo".
*
La patria-natura
Viene adattato alla propaganda di guerra anche un elemento per definizione
pacifico, la natura, totalmente assimilata alla patria. In accordo con la
fuga dal moderno che la guerra per molti aspetti rappresenta, le immagini
che prevalgono in tutti i paesi sono tipicamente preindustriali, campi,
boschi, montagne, villaggi, animali: una natura arcaica, presa a simbolo
dell'autenticita', della dolcezza, di valori eterni in nome dei quali si
chiede agli uomini di morire, e nello stesso tempo si promette loro che ne
condivideranno l'immortalita'.
In questo manifesto inglese di arruolamento, ne' una fabbrica ne' un centro
abitato turbano l'immagine rurale e pastorale della nazione; nella cartolina
tedesca intitolata Il camerata caduto, il soldato, morto ma senza un
graffio, giace compostamente in un bosco, con una pietra per cuscino, il
cavallo accanto ad aggiungere l'ultimo tocco sentimentale e arcaico.
*
La patria-donna
Spesso assimilata alla natura, la figura femminile e' ancora piu' presente
nella propaganda di guerra. C'e' la madre-patria austera o sofferente, con
il suo corpo-territorio minacciato dalla "penetrazione" del nemico, e ci
sono le patrie-ragazze decisamente sensuali che popolano le cartoline in
viaggio tra il fronte e il paese.
Nei paesi cattolici e' centrale la figura della Madonna, arruolata come
suprema protettrice e protagonista di ballate popolaresche intitolate per
esempio Visioni e prodigi, racconti in versi dei miracoli e delle visioni di
Maria Vergine ai soldati combattenti. Ovunque ci sono bimbe e fanciulle. E
naturalmente madri: le patriottiche, che invitano gli uomini a partire; e le
sabotatrici, che non vogliono saperne della guerra o che instillano nei
figli piu' amore per loro stesse che per la patria. "La patria e' la mamma
che sta al di sopra di tutte le mamme", spiega un giornale per bambini, a
conferma del timore che queste madri protettive svirilizzino i combattenti:
se la patria e' metaforicamente femminile, il suo esercito deve essere
maschio, pena la decadenza della nazione.
C'e' infine, leva fortissima per accendere la combattivita' maschile,
l'immagine della donna - madre, fanciulla o sposa  che sia - preda di
guerra: ferita, uccisa, vittima di violenze sessuali.
*
Il nemico-mostro
La demonizzazione del nemico gioca a fondo su questi terreni. Assimilato fin
dall'inizio e da tutti i belligeranti a un animale da preda o a un'entita'
disgustosa o grottesca, il nemico perde ogni forma umana, e la storia della
sue atrocita' diventa un argomento corrente. Secondo uno dei maggiori
studiosi dell'esperienza di guerra, il tedesco George Mosse, durante il
conflitto mondiale i tabu' sociali e sessuali che in passato avevano
contribuito a tenere a freno l'iconografia della brutalita' vengono
abbandonati: sono moltissime le cartoline che rappresentano il nemico
coperto di escrementi e con gli organi sessuali in vista, o che illustrano
stupri di guerra e sodomie. Tutti si accusano reciprocamente di tutto, con
qualche particolare fantasia macabra riservata ai tedeschi.
E' un generale processo di riduzione del nemico o dell'estraneo -
l'"altro" - a prototipo negativo, simile a quello che colpisce i cosiddetti
diversi, ebrei, zingari, "devianti" sessuali: la guerra funziona come una
spinta potente alla conformita' a tutti i livelli.
Al fronte gli stereotipi sono rafforzati dalla clausura della vita di
trincea e dalla invisibilita' del nemico chiuso nelle trincee opposte. Anche
su questo piano si ha un enorme sviluppo di miti e credenze: fantasmi di
ufficiali tedeschi che si palesano alla vigilia di ogni attacco, spie
misteriose, odori insopportabili emanati dal nemico.
Fra le leggende piu' diffuse, una racconta di un soldato canadese
prigioniero dei tedeschi e mostrato ai suoi compagni su una croce a braccia
e gambe divaricate, mani e piedi inchiodati dalle baionette; si diceva che
fosse morto lentamente: e' la raffigurazione del crocifisso, suggerita ai
soldati dalle tante immagini della Passione di Cristo collocate ai crocevia
in Francia e in Belgio, e forse anche dall'aver visto soldati inglesi legati
per punizione a braccia e gambe aperte su tavole o ruote, e a volte frustati
dai loro ufficiali.
*
Una leggenda esemplare
Ma la leggenda piu' ricca e piu' bella - come ricorda lo studioso americano
Paul Fussell - riguarda la zona piu' inquietante del fronte, la sempre
bombardata e disabitata terra di nessuno fra le opposte linee, e narra che
in qualche punto sconosciuto "si trovava un grande gruppo di disertori
semi-impazziti provenienti da tutti gli eserciti, alleati e nemici, che
vivevano sottoterra perfettamente in pace tra loro in trincee abbandonate,
da dove uscivano di notte per saccheggiare cadaveri e procurarsi cibo e
bevande". Raramente una storia riesce a unire tanti elementi significativi:
il rimorso per i tanti feriti lasciati a soffrire in mezzo alle linee, una
fantasia universale di disobbedienza alle autorita', l'idea realistica che
la "normale" vita al fronte e' assimilabile alla bestialita' e alla follia.
Non ultimo, un sogno di capovolgimento: tedeschi e inglesi (e francesi,
italiani, austriaci, canadesi, tutti ricompresi nel gruppo dei disertori)
non sono nemici fra loro. Per tutti il nemico e' la guerra.
*
4. La patria, il nemico: capovolgimenti
Gia' alla vigilia della guerra sono moltissimi quelli che cercano di
sfuggire al reclutamento. La pratica piu' diffusa, e in continua crescita,
e' l'autolesionismo: timpani forati con chiodi, ascessi ottenuti con
iniezioni di benzina, colpi d'arma da fuoco sparati a bruciapelo ai piedi e
alle mani. Molto meno frequenti renitenza e diserzione, perche' e' alto il
rischio  - persino la pena di morte - se si viene presi.
A giudicare dai dati italiani, la renitenza e' invece la scelta piu' diffusa
fra gli emigrati. Dei circa 400.000 uomini in eta' di leva che dovrebbero
rimpatriare per arruolarsi, nel novembre del 1915 solo 60.000 sono tornati.
Secondo una sdegnato interventista democratico, per la comunita' italiana
negli Stati Uniti essere renitente o reduce e' esattamente la stessa cosa.
*
Mi interessa piu' di tutto la vita
Che quello di patria sia stato un concetto astratto o altamente negativo per
milioni di combattenti soprattutto di classe popolare e' ormai ben
documentato anche grazie alle lettere inviate dal fronte ai familiari e
bloccate dalla censura. A scrivere sono muratori, carrettieri, contadini,
braccianti: "a me interessa piu' di tutto la vita, chi e' morto non
risuscita piu'"; "ormai il morire per la patria vuol dire morire da fessi, e
io non sono un fesso"; "state pur certi che io non muoio per questa schifa
di Italia".
Ma anche per moltissimi combattenti della classe media colta, l'immagine
della patria crolla. Anni dopo, nel romanzo Addio alle armi (storia di un
tenente americano che decide di arruolarsi come volontario nell'esercito
italiano e della sua disillusione di fronte agli orrori della guerra), lo
scrittore americano Hemingway scrivera' che "parole astratte come gloria,
onore, coraggio o dedizione sembravano parole oscene accanto ai nomi
concreti dei villaggi, ai numeri delle strade, ai nomi dei fiumi, ai numeri
dei reggimenti e alle date".
E' difficile dire se la rischiosissima e limitata agitazione condotta al
fronte da socialisti, anarchici, spesso anche da cattolici, abbia un peso -
e quale - in queste manifestazioni di insofferenza per le atrocita' della
guerra, o nelle ribellioni individuali o di piccoli gruppi. Se e'
soprattutto la paura dei generali a vedere ovunque "agenti del disfattismo"
e "diabolici subornatori", e' anche vero che nelle trincee e' forte la
tendenza a piegare ogni messaggio ai propri stati d'animo. Sara' cosi' per
una nota che Benedetto XV manda ai capi di stato nell'agosto '17 per
caldeggiare una pace senza annessioni: un documento essenzialmente
diplomatico, che pero' contiene le parole "inutile strage"; molti le
vedranno come un incitamento alla disobbedienza civile e alla ribellione.
*
La loro vita e' come la nostra
Tra le espressioni di dissenso "antipatriottico", una delle piu' precoci,
temute e perseguite dai comandi e' la fraternizzazione con il nemico, che
vanifica la sua demonizzazione. Sul fronte occidentale gia' il primo Natale
di guerra vede una calma assoluta: soldati inglesi e tedeschi hanno deciso
una tregua informale, e si incontrano nella terra di nessuno per scambiarsi
sigarette e scattare fotografie. Nel corso della guerra gli accordi taciti
arrivano, attraverso la limitazione del fuoco, a coprire molte necessita'
della vita quotidiana nei settori non impegnati nelle offensive: e' pratica
diffusa non interrompere il rancio nemico con il cecchinaggio o con
cannoneggiamento intenso, non disturbare lo sgombero dei feriti, la
riparazione delle trincee, persino la cura del sole nei momenti di pausa.
Non sono che parentesi, ma aiutano a morire meno.
Anche durante i combattimenti non sono rare le intese fra soldati: a Verdun,
in un settore meno infuocato della battaglia, un volontario tedesco
riferira' che i francesi avevano l'ordine di bersagliarli con bombe a mano
anche di notte, e di fatto le lanciavano, ma, come da accordi presi con
compagni tedeschi, solo sulla destra e sulla sinistra della trincea.
Questi sforzi di contenere la violenza non riflettono affatto un'etica
prebellica di tipo cavalleresco, ne' presuppongono necessariamente
un'ideologia politica o una tradizione umanitaria. Nascono soprattutto, come
avviene per il cameratismo, dalle stesse condizioni della guerra. In uno
scontro dove tutti i combattenti sono vittime della potenza delle armi,
identificarsi con il nemico e con la sua volonta' di sopravvivere e' logico,
addirittura necessario: se ogni colpo di mortaio, ogni raffica di
mitragliatrice vengono ripagati con altrettanti colpi, un atteggiamento
"offensivo" sarebbe suicida.
Anche se questa consapevolezza non puo' da sola evitare i massacri, la
fraternizzazione resta uno dei tentativi piu' forti di riprendere in mano la
propria vita, e nello stesso tempo il momento essenziale di una ritrovata
capacita' di scoprire l'umanita' nel nemico fino a vederlo come vittima e
fratello con cui non solo si fa tregua, ma si parla, ci si scambiano notizie
e viveri, perche' "la sua vita e' uguale alla nostra". Come avviene in
questo dialogo sul fronte austro-italiano fra un militare austriaco e un
soldato di vedetta messinese, carrettiere, analfabeta, vedovo con figli,
condannato a 5 anni di carcere per "agevolazione al nemico"
"Per lettura di atti e confessione del giudicabile, soldato G. C., e'
risultato che detto militare in giorni imprecisati dell'aprile 1918, essendo
di vedetta, entrava in conversazione con un soldato austriaco. L'austriaco
ripetutamente chiamava la vedetta italiana e gli rivolgeva le parole:
'Italiano, italiano, ti metti paura a parlare?', e il G. C.: 'Non ho paura a
parlare', e l'austriaco: 'Come stai?', e la vedetta: 'Come stai tu piuttosto
che ieri ti lamentavi e come te l'hai passata la notte?', e l'austriaco:
'L'ho passata male, avevo un po' appetito, hai da buttarmi una pagnotta? e
per fumare come la passate?', e il G. C.: 'Bene, ho avuto la mia razione di
13 sigarette e 14 sigari'".
*
Chi odiano i soldati
Lo spirito di unita' fra soldati intensifica l'odio per gli stati maggiori,
che continuano a pretendere cecchinaggio, incremento del fuoco di disturbo e
altre misure destinate ad alterare il delicato equilibrio che protegge la
sopravvivenza; crescono le accuse di vigliaccheria mosse dai soldati agli
ufficiali: fra le truppe inglesi era in uso l'espressione "il rosso simbolo
della paura", in riferimento alle mostrine rosse degli ufficiali di stato
maggiore. E cresce l'astio verso i loro privilegi. Uccisioni di ufficiali da
parte dei soldati avvengono su tutti i fronti, e non sono eventi
eccezionali.
Ancora maggiore e' la distanza che si crea tra il fronte e la "patria",
vissuta come il regno di un bellicismo incosciente sbandierato da civili ben
protetti. In trincea si maledicono insegnanti e persone mature che hanno
mandato i giovani al macello con la loro retorica; si fantastica di
stritolare coi carri armati gli stupidi music-hall patriottici, si sogna di
essere vendicati dall'esercito nemico: i soldati, scrive un combattente
inglese, "odiavano le donne sorridenti per le strade. Detestavano i vecchi.
Avrebbero voluto che i profittatori crepassero coi gas. Pregavano Dio
affinche' i tedeschi mandassero gli Zeppelin contro l'Inghilterra, perche'
la gente capisse cosi' cosa significa guerra".
*
5. Il fronte interno: la vita pubblica
In tutti gli Stati, la guerra modella pesantemente l'insieme delle attivita'
politiche, economiche, amministrative. Lo sforzo di mobilitare intere
popolazioni in tempi brevi favorisce e fa apparire legittima una sospensione
di fatto del potere parlamentare a vantaggio di formule di unita' nazionale.
In Germania, in Austria, in Russia, ma anche nelle democrazie occidentali,
tutte le decisioni di rilievo sono centralizzate in mano a governi legati a
filo doppio ai capi di stato e ai militari, e retti da politici che si
autodefiniscono al di sopra delle parti. Cosi' succede in Francia con la
coalizione di Clemenceau, in Inghilterra con il primo ministro Lloyd George,
in Italia con Vittorio Emanuele Orlando, che sostituisce nel 1917 Boselli.
*
Stato, economia, societa' civile
Alla concentrazione del potere si accompagna una dilatazione dell'intervento
statale in ogni settore della vita civile: si censura la posta, si
intercettano le comunicazioni, si "militarizzano" i corrispondenti e i
fotografi di guerra, si minacciano di sequestro i giornali che pubblichino
notizie giudicate contrarie agli interessi nazionali, si moltiplicano le
attivita' di polizia, mentre anche l'avara assistenza erogata alle famiglie
dei combattenti viene subordinata ad accertamenti sul loro patriottismo.
L'ingerenza e' massima nella vita economica sia in agricoltura sia
nell'industria, e va dalla requisizione di veicoli, di animali, di utensili
metallici, degli stessi raccolti, alla ripartizione statale delle materie
prime; dalla militarizzazione di fatto o di diritto della forza lavoro, al
controllo pubblico su interi settori produttivi.
Da queste trasformazioni nascono una quantita' di nuovi compiti e ruoli
affidati a una burocrazia sempre piu' numerosa. Ne nasce soprattutto un
rapporto politica-economia e pubblico-privato del tutto anomalo rispetto ai
modelli liberali e liberisti. L'esempio italiano e' molto calzante: su
piccola scala e a livello comunale debuttano i Comitati civili per la
mobilitazione, che oltre a far opera di assistenza e di propaganda spesso
organizzano direttamente nuove reti di lavoro a domicilio e nuovi laboratori
artigianali. Su grande scala, si crea una vera e propria compenetrazione fra
lo stato, divenuto il maggiore committente, l'industria che cresce e
prospera al di fuori delle leggi di mercato, e i militari che premono in
nome delle esigenze belliche. In Italia fra il '15 e il '17 i profitti nella
siderurgia salgono dal 6,30 al 16,55%; quelli dell'industria automobilistica
dall'8,2 al 31,51%; quelli del settore laniero dal 5,10 al 18,74%. Ovunque
ci sono incrementi simili, e ovunque esplode il deficit dei bilanci
pubblici. Per sanarlo solo l'Inghilterra ricorre all'aumento delle tasse sui
redditi; in tutti gli altri paesi si rastrellano i risparmi privati
attraverso prestiti volontari, lanciati con grandi campagne pubblicitarie.
*
Le opposioni divise
In questo clima il dibattito politico e' compresso e le opposizioni
inizialmente perdono forza. Non e' solo effetto della repressione di polizia
e giudiziaria, ma di divisioni vecchie e profonde. Neppure in passato le
parole d'ordine del movimento operaio avevano avuto toni univoci, segnate
com'erano di volta in volta dal contrasto fra le sue diverse componenti e
dalle circostanze di un mondo in rapido movimento. Sul tema guerra e pace
anche il pensiero di Marx non si presentava affatto come sistema unitario:
al sostegno esplicito alle guerre di liberazione nazionale e a quelle capaci
di trasformare i rapporti sociali, si accompagnava la critica al
militarismo, ma anche al pacifismo di molti liberali e del socialismo
utopico, accusati di contrabbandare una comunanza di interessi fra borghesi
e proletari. Vista come momento della lotta di classe, come laboratorio di
trasformazioni, come espressione dei rapporti di forza fra stati, negli
scritti di Marx la guerra non viene mai condannata in se'.
Nella II Internazionale, dove avevano convissuto internazionalismo e
patriottismo, allo scoppio del conflitto si erano delineate grosso modo tre
tendenze: una che giustificava le guerre purche' difensive; un'altra,
maggioritaria, combattuta fra antimilitarismo e speranze di mutamento
all'interno dell'ordine esistente; un'altra ancora che vedeva nella guerra
un'occasione per l'avvio del processo rivoluzionario e nel pacifismo il
tradizionale inganno della borghesia.
Con le conferenze internazionali dei partiti socialisti tenute in Svizzera,
a Zimmerwald nel settembre 1915 e a Kienthal nell'aprile del '16, si rinnova
la condanna della guerra e si chiede una pace senza annessioni e senza
indennita'; ma resta la spaccatura fra il pacifismo dei riformisti e il
"disfattismo rivoluzionario" di gruppi come la tedesca Lega di Spartaco e i
bolscevichi russi, che predicano la necessita' di usare la guerra per
affrettare il crollo del capitalismo.
Nella base dei militanti, il contrasto politico e' reso umanamente
dolorosissimo dal faccia a faccia con domande cui nessuna teoria poteva dare
risposta: e' giusta la diserzione predicata dagli anarchici, quando al
proprio posto andra' un altro proletario? e' giusto cercare un posto in
fabbrica per fare propaganda antimilitarista, ma nello stesso tempo produrre
armi e munizioni? e' giusto andare in guerra per solidarieta' con i soldati
di classe popolare e poi ucciderne altri ugualmente fratelli?
*
6. Il fronte interno: le popolazioni
Visti dalla parte della societa', i mutamenti nella sfera pubblica portano a
una tale riduzione dei diritti civili e politici da rendere il cittadino
molto simile al militare. Ma l'assottigliamento di questa distinzione, e di
quella tra fronte bellico e fronte interno, riguarda molti altri aspetti,
innanzitutto le condizioni materiali di vita, e ha gradazioni diverse. Ci
sono aree relativamente tranquille e citta' bombardate dalle artiglierie o -
come nel caso di Londra - dai dirigibili Zeppelin; ci sono grandi territori
invasi con assoluta brutalita'.
*
La fame
Anche dove la guerra non arriva materialmente, ne arrivano gli effetti: le
citta' scintillanti che colpiscono i soldati in licenza sono uno scenario
per pochi, classi agiate e nuovi ricchi che speculano sulle forniture
belliche e sui rifornimenti ai civili; per la grandissima maggioranza delle
popolazioni iniziano presto il carovita, il razionamento alimentare e dei
combustibili, la penuria di beni essenziali, il mercato nero, fino alla fame
di massa in caso di cattivi raccolti. Con tutta la sua "modernita'", la
guerra ripropone il problema del cibo e della sua dipendenza dalla natura e
dal clima. In Germania la carestia e' tale da provocare la morte per
denutrizione di 700.000 persone e un aumento del 50% della mortalita'
infantile.
*
I lavori delle donne
Inizia da subito anche la riorganizzazione produttiva: fabbriche
ingigantite, nuovi stabilimenti, ritmi di lavoro pesantissimi, una
disciplina interna di tipo quasi militare. Per sostituire i richiamati
vengono assunti anziani, contadini, e soprattutto donne, che entrano a
milioni in settori prima loro preclusi, innanzitutto nell'industria di
guerra. Altre afferrano le nuove opportunita' di lavoro nell'amministrazione
pubblica, nei servizi, in qualche paese nelle stesse forze armate, che le
impiegano negli uffici di assistenza e sussistenza sul territorio
metropolitano. Molte sono donne sole, spesso vedove di guerra.
E' una rottura della divisione sessuale del lavoro che cambia la fisionomia
di fabbriche e uffici. Ma anche nelle campagne ci sono donne al posto degli
uomini, e a volte al posto degli animali requisiti: questa fotografia di
contadine francesi e' probabilmente una messa in posa, ma non per questo la
situazione e' meno vera.
In alcuni paesi le donne vanno anche al fronte come infermiere e guidatrici
di ambulanze. In tutti i paesi, o nelle retrovie o nei bordelli al seguito
delle truppe, altre donne esercitano la prostituzione.
Quanto la situazione sia in movimento e' mostrato anche dalle non poche che
cercano di partire vestite da soldato per combattere in prima linea, e
dall'entusiasmo con cui altre, dell'aristocrazia o della borghesia, si
mettono a capo di iniziative assistenziali e di propaganda.
Se fra citta' e campagna, fra operaie, impiegate, contadine, ci sono
differenze grandi, possono essercene altrettante anche all'interno dello
stesso settore produttivo: una cosa e' lavorare in una grande fabbrica,
un'altra in uno dei laboratori promossi dai vari comitati per "aiutare"
donne sole, dove le paghe sono irrisorie. Eppure si possono cogliere tratti
comuni: sono sempre impieghi a termine; a parita' di mansioni sono sempre
meno pagati di quelli maschili; sempre devono convivere con il compito di
provvedere alle esigenze quotidiane della famiglia  in condizioni
enormemente piu' difficili.
*
Il crollo demografico
Non c'e' pero' sforzo in grado di impedire lo schiacciamento della vita. Ne
e' indice l'andamento demografico, che per esempio in Italia ha un bilancio
negativo (piu' morti che nati) per tre anni consecutivi, 1917, '18, '19, e
senza contare i caduti. In alcune zone della Toscana nascono meno della
meta' dei bambini che ci si poteva aspettare sulla base delle medie
prebelliche. I richiami di massa e la forte riduzione dei matrimoni non
bastano a spiegare crolli del genere; bisogna mettere in conto una diffusa
rinuncia a far figli, probabilmente legata anche a un aumento della
mortalita' neonatale che nel '18 prende il carattere di una strage degli
innocenti: sotto l'effetto congiunto della guerra e di una spaventosa
epidemia influenzale (la "spagnola") appena un bambino su quattro degli
ultimi nati riesce a superare la soglia di un anno di eta'.
Per la grande maggioranza delle classi popolari e per la parte meno solida
del ceto medio la guerra e' una lunga storia di difficolta' e di smarrimento
che rimescola idee e stati d'animo. Ne escono radicalizzati molti
orientamenti spirituali, a partire dal rapporto con la religione: cresce il
distacco fino all'ateismo, e cresce ugualmente la fede, spesso intrisa di
pratiche superstiziose. Mentre Benedetto XV consacra nel 1917 tutti i
combattenti al Sacro cuore di Gesu', pullulano voti e devozioni, e nello
stesso tempo tutte le forme di lettura del futuro e di pratiche
propiziatorie. Anche nel fronte interno, dove la modernita' mostra i suoi
orrori subentrano mito e magia.
*
7. Donne e uomini
Sebbene il lavoro femminile fuori casa non fosse affatto una novita', le
caratteristiche e le dimensioni che assume in guerra rappresentano un
allarme per il senso comune, specialmente nei paesi latini, dominati da una
tradizione culturale e religiosa che vede nel lavoro extradomestico una
minaccia alla purezza femminile e all'integrita' della famiglia.
*
Paura dei cambiamenti femminili
Mentre governi e autorita' esaltano strumentalmente la mobilitazione
femminile, le reazioni, popolari e non, sono spesso malevole. Poco importa
se le operaie lavorano in condizioni simili a quelle documentate da questa
fotografia di una fabbrica francese; lo stereotipo e' quello della popolana
corrotta, potenziale prostituta o mantenuta. Poco importa se nella pubblica
amministrazione si esige un rigore da convento; le riviste esibiscono
poliziotte identiche alle figurine frivole della belle epoque, con 40
centimetri di gonna in meno.
Al sarcasmo si accompagna spesso l'astio: in Francia militanti socialisti
accusano le donne di non aver saputo impedire che i loro figli venissero
mandati al macello, a Torino parenti di soldati che non trovano niente da
ridire se un vecchio entra in fabbrica come operaio, si imbestialiscono
contro le donne, "colpevoli" di occupare un posto dove qualcuno avrebbe
potuto imboscarsi. Non e' dunque solo un problema di competizione per il
lavoro, ma di panico davanti alla possibilita' di cambiamenti nei ruoli
sessuali.
Al fronte corrono voci sulle mogli che si consolano fra le braccia degli
imboscati o si prostituiscono, nasce la leggenda del reduce che torna dopo
tanto per trovare nel suo letto uno sconosciuto (la leggenda parla di letto,
e l'incubo e' proprio quello): salvo che per la rilevante eccezione
dell'emigrazione oltreoceano, mai uomini e donne erano stati separati cosi'
a lungo.
Ma piu' che la lontananza in se' a pesare e' l'isolamento, che da un lato
moltiplica l'ansia di fronte a figure nuove, diverse dal binomio
moglie/prostituta che riempe le fantasie dei soldati; d'altro lato - vale
soprattutto per le classi medie - porta a vedere le donne anche come le
rappresentanti per eccellenza della vita civilizzata, cui molti si sentono
ormai inadatti: meglio dunque un mondo non complicato dalla loro presenza,
che imporrebbe le convenzioni di prima, dal lavarsi e radersi, al divieto di
turpiloquio, ai riti sociali e religiosi.
*
Uomini in guerra: compassione e violenza
Ancora di piu' pesa la vicinanza con la morte. Puo' nascerne, come spiega la
politologa americana Jean Bethke Elsthain, una pieta' dolorosa e affettuosa
verso "le cose piccole, particolari e vulnerabili: sul fronte occidentale
gli uomini coltivavano fiori e verdure fuori delle trincee, (adottavano)
cuccioli randagi e perfino dei piccoli topi, una pratica documentata anche
dai corrispondenti di guerra". Il soldato si trasforma cosi' in "guerriero
compassionevole", teso, anziche' a distruggere, a conservare: una
sensibilita' difficile da comunicare a chi e' lontano, e invece
paradossalmente vicina a quella dei disprezzati obbiettori di coscienza, che
andavano al fronte come infermieri e barellanti - sara' uno di questi, un
soldato semplice, l'inglese piu' decorato della guerra. Ma trovarsi immersi
nello sterminio di massa genera anche, e lo si vedra' in molti paesi nel
dopoguerra, apatia, freddezza, una predisposizione incontrollata e apolitica
alla violenza. I veterani, scrive un oservatore inglese, erano aspri,
bizzarri, violenti, depressi, imprevedibili: "non erano piu' gli stessi
uomini: qualcosa s'era alterato in loro (...)tanto da spaventare".
Incivilimento e imbarbarimento si mischiano, ma il referente e' sempre e
solo maschile. Al fronte ci si chiede se e come le donne siano cambiate; nel
paese le donne si accorgono che molti uomini lo sono gia', e ne temono sia
l'inaridimento sia l'amore per i compagni, che avvertono in antagonismo con
l'amore romantico e coniugale. I rapporti fra i sessi diventano opachi, e
non basta scriversi per capire una realta' ormai a molte facce.
E' dunque difficile valutare il peso della guerra su questi piani.
Nonostante le trasformazioni, sembra ancora operante lo schema per cui le
donne rappresentano lo spazio familiare e sicuro cui l'uomo puo' tornare in
cerca di stabilita'; forse l'unico spazio che si puo' sperare sia o almeno
torni come prima.
Il fatto che questa guerra, decisa anche per rafforzare i gruppi al potere,
veda quasi tutti i governi cadere o vacillare, non e' la sua sola ironia;
presentata come trionfo della virilita', ne e' la messa in croce; sognata
come unione del popolo, lo restituisce piu' che mai diviso fra schieramenti
contrapposti, innanzitutto fra quelli che hanno combattuto e tutto il resto
degli uomini e delle donne.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 255 del 3 novembre 2008

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