[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
Voci e volti della nonviolenza. 249
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 249
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 22 Oct 2008 13:26:20 +0200
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 249 del 22 ottobre 2008 In questo numero: 1. Giorgio Calcagno ricorda Walter Binni (1997) 2. Alberto Papuzzi ricorda Norberto Bobbio (2004) 3. Marcello Benfante ricorda Carlo Cassola (2001) 4. Mirella Serri ricorda Mario Spinella (1994) 5. Nicola Tranfaglia ricorda Giorgio Spini (2006) 1. GIORGIO CALCAGNO RICORDA WALTER BINNI (1997) [Dal quotidiano "La Stampa" del 28 novembre 1997 col titolo "Binni, la fierezza della ragione" e il sommario "Morto a Roma uno dei grandi maestri della critica letteraria. Aveva 84 anni. Un ribelle che rinnovava i classici"] Walter Binni, uno fra i grandi maestri della critica letteraria italiana, e' morto ieri mattina in una clinica di Roma, dov'era ricoverato da alcuni giorni per disturbi circolatori. Aveva 84 anni. Fino al sopraggiungere della malattia aveva continuato a lavorare sulle proprie memorie, anche se da qualche tempo non poteva piu' dare contributi nuovi sui suoi autori. Binni era nato a Perugia, da una famiglia umbro-marchigiana, con buone radici garibaldine; il nonno materno, Agabiti, aveva combattuto a Bezzecca e a Mentana, e di quel personaggio il nipote aveva conservato tutto il sangue. Uomo di ragione, ma anche di ribellione, si era scelto i modelli di vita e di pensiero fra i maestri di minoranza. Primo fra tutti il suo concittadino Aldo Capitini: a cui doveva, lui laico, e per professione materialista, un non sopprimibile afflato spirituale. Suo padre, titolare della prima farmacia di Perugia, davanti al Palazzo dei Priori, sperava che quel ragazzo un giorno gli sarebbe succeduto nella bottega. E il figlio, dopo la maturita' classica, fuggi' di casa, rifugiandosi presso certi parenti in Emilia, con varie casse di libri. "In quella estate lessi di tutto, in ogni campo", ci disse un giorno. Senza dare notizie di se' ai genitori. Il suo destino era segnato da allora. E lo porto' alla Normale di Pisa, negli anni ruggenti di Giovanni Gentile, splendenti di Luigi Russo e Attilio Momigliano, i suoi maestri. Del primo prese il senso dello storicismo, del secondo la capacita' di lettura, che seppe fondere insieme con la sua personale intelligenza di critico. Binni non dimenticava mai, nel leggere un autore, il suo rapporto con la societa' e con la storia; ma seppe sempre seguirlo all'interno del testo, con una analisi della pagina che ne illuminava i risultati. Fondamentale, nel suo metodo, il concetto da lui progressivamente elaborato di "poetica": che egli intendeva come un piano medio, da individuare, fra il mondo dello scrittore e il risultato dell'opera. E' la poetica, egli ammoniva, che aiuta "a definire concretamente la situazione del poeta nel proprio tempo e nella propria societa'". E li' doveva avvenire l'incontro con il critico, il luogo dove l'autore andava esplorato. Walter Binni stupi' subito il mondo della critica italiana con il primo saggio, La poetica del decadentismo in Italia, pubblicato a 23 anni, sulla base della tesi di laurea; ancora oggi fondamentale per gli studi sull'argomento. E colpi' con sicurezza nella letteratura contemporanea attraverso le recensioni sulla rivista "La nuova Italia". Basti ricordare un solo numero, del maggio '43: dove egli si occupava, con molto favore, di due autori esordienti, entrambi ventunenni, entrambi sconosciuti. Si chiamavano Silvio D'Arzo e Pierpaolo Pasolini. Con le sue qualita', le sue frequentazioni, Binni avrebbe potuto puntare subito alla cattedra universitaria. Invece, per alcuni anni, si dedico' alla politica. Corriere della Resistenza durante la guerra, aderente al movimento liberalsocialista di Capitini e Calogero, con le elezioni del 2 giugno 1946 fu eletto alla Costituente, dove si schiero' prima con il partito socialista e, dopo la scissione di Palazzo Barberini, con il gruppo di Ignazio Silone. Rimase tutta la vita uomo di sinistra, anche estrema, negli ultimi anni, ma sempre, con fierezza indipendente nelle scelte. Alla cattedra universitaria arrivo' subito dopo l'esperienza parlamentare, nel 1948. Prima a Genova, poi a Firenze, infine a Roma. Chi ha avuto la fortuna di partecipare a quelle lezioni non puo' dimenticare il maestro, che faceva diventare nuovi i classici, con il suo approccio, insieme stretto sul testo e amplissimo sul contesto, inserendoli nel processo storico. Leopardi innanzitutto, il poeta nel quale si identificava, di cui tendeva a ridurre l'idillico per sottolineare il tragico; e subito dopo Ariosto, che sottraeva all'immagine un po' troppo idealizzante di Croce per vedere in lui il poeta del "ritmo vitale", come sintesi della civilta' del Rinascimento. Ma anche Alfieri, anche Foscolo, anche la poesia dell'Illuminismo; e - terreno da lui per primo arato con tanta intelligenza - il Preromanticismo. Formatore di una scuola, Binni non sceglieva i suoi allievi in base ad affinita' ideologiche, rispettoso com'era delle opinioni altrui, anche quando non coincidevano con le sue. Fra quelli oggi in cattedra, si possono citare Franco Croce e Giovanni Ponte a Genova, Giulio Ferroni, Riccardo Scrivano e Biancamaria Frabotta a Roma; soprattutto Enrico Ghidetti a Firenze, che ne continua l'opera, con la "Rassegna della letteratura italiana", la rivista diretta da Binni per 45 anni. Ma piu' numerosi sono gli allievi che non lo hanno seguito nella strada universitaria, e ricordano, riconoscenti, la sua lezione nella vita; sanno di dovere a lui la loro capacita' di lettura. 2. ALBERTO PAPUZZI RICORDA NORBERTO BOBBIO (2004) [Dal quotidiano "La Stampa" del 10 gennaio 2004 col titolo "La vita. Protagonista del Novecento, dalla lotta contro il fascismo fino agli interrogativi etici 'Mi sento vecchio con la consapevolezza del non raggiunto e non piu' raggiungibile' Tra i dilemmi dell'uomo moderno"] "La morte si e' dimenticata di me", confessava Norberto Bobbio a chi andava a trovarlo, negli ultimi tempi. Superata la soglia dei novant'anni, e soprattutto dopo l'improvvisa scomparsa dell'amatissima moglie, pativa la fatica di vivere della vecchiaia. La morte della signora Valeria, il 22 aprile 2001, dopo 58 anni di matrimonio, l'aveva lasciato sconsolato e indifeso, nonostante l'amorevole e assidua presenza dei tre figli e dei cinque nipoti. Si era fatto sottile e diafano, anche la voce era diventata fioca. Continuava a ricevere amici e allievi, gli piaceva soprattutto vagabondare nei ricordi: aveva mantenuto una prodigiosa memoria per quelli piu' lontani nel tempo, era ancora capace di accennare un'aria d'opera o il motivetto d'una rivista. Ma poi sussurrava quasi fra se': "Purtroppo la morte non viene a comando". Alla vecchiaia il filosofo aveva dedicato uno dei suoi ultimi saggi, De senectute (1996), in cui spiegava di essere entrato in una stagione malinconica, "intesa la malinconia come la consapevolezza del non raggiunto e del non piu' raggiungibile". E nell'Autobiografia (1999) confessava di sentirsi un vecchio "nel vero senso della parola". Ormai percepiva una distanza con il mondo fuori di lui: "Ogni giorno che passa mi sento sempre piu' distaccato, lontano, spaesato, sradicato". Ora che di lui la morte si e' rammentata, quella stanchezza, che lo faceva spesso ripiegare sul passato, che gli faceva dire di essere in un'eta' in cui gli affetti contavano piu' dei concetti e che lo induceva a interrogarsi sulle questioni estreme - le ragioni del Male, le illusioni del Progresso -, suona come l'ultimo insegnamento. Nell'affievolirsi di una esistenza che ha attraversato un secolo si e' rispecchiata la fine di un'epoca storica. Bobbio e' vissuto nell'Italia della monarchia, della dittatura e della repubblica, e ha visto governare Giolitti, Mussolini, De Gasperi, Moro, Craxi, D'Alema. E' stato intellettuale militante in una societa' percorsa dai grandi movimenti politici e accesa dalle battaglie per la difesa della democrazia. Nel tempo della sua vita sono nati e morti il Pci e la Dc. Ricordava l'origine del fascismo e contribui' a combatterlo e abbatterlo. Ha fatto parte del Partito d'azione e del Tribunale Russell. Figlio del Novecento, ha ritenuto un dovere l'impegno pubblico, si pensi alla discussione con Palmiro Togliatti e Galvano della Volpe su cultura e politica e ai 25 anni di assidua collaborazione con "La Stampa". Al declino del secolo ha maturato un distacco: si sentiva un uomo della Prima Repubblica. Norberto Bobbio nasce il 18 ottobre 1909, in una agiata famiglia della borghesia torinese. Il padre Luigi, originario dell'alessandrino, era uno dei piu' noti chirurghi di Torino, primario al San Giovanni. Il nonno Antonio, direttore didattico, era stato un cattolico progressista, che aveva scritto due saggi sui pensatori positivisti Ardigo' e Spencer. La madre si chiamava Rosa Caviglia, di Rivalta Bormida, dove c'era una casa di famiglia che nelle vacanze era un festoso ritrovo di parenti e amici. Li' Bobbio ha portato le ceneri della moglie. Ricordava spesso come la sua fosse stata una famiglia filofascista, convinta che il regime mussoliniano potesse essere un antidoto (certo temporaneo) contro i sovversivi del Psi e del Pci. In uno dei numerosi scritti d'occasione, ha descritto la sua Torino di bambino: abitava in una casa signorile, non lontana da via Sacchi, giocava sui marciapiedi a trottola e a biglie. Aveva un fratello, Antonio, di due anni piu' vecchio, che seguira' la carriera medica del padre e morira' a soli sessant'anni. Con lui, nel 1921, partecipo' a un concorso a premi sui pronostici per le elezioni politiche. Seguiva il Giro d'Italia e faceva il tifo per la Juventus (del portiere Giacone e dell'ala Grabbi); era anzi iscritto all'associazione dei giovani juventini. Nell'infanzia aveva contratto una malattia che lo aveva costretto a passare un anno con un braccio al collo: attribuiva a questo morbo, rimasto misterioso, la vena malinconica e pessimistica. Studente del Liceo D'Azeglio, dal 1919 al 1927, fa parte del gruppo che si raccoglie attorno al professor Augusto Monti, capace di suscitare negli allievi l'antifascismo commentando i canti della Divina Commedia. C'erano, fra gli altri, Vittorio Foa e Massimo Mila, mentre Cesare Pavese gli dava lezioni d'inglese. Ma e' la personalita' del capoclasse Leone Ginzburg, appartenente a una famiglia di ebrei russi, a esercitare l'influenza piu' autorevole: "Sembrava venuto da un altro mondo". Da lui prende una passione vorace e onnivora per i libri: ne legge anche una ventina al mese. Suona il pianoforte, ha una band jazzistica, ama la rivista di Mimi' Bluette e vince il concorso per una rivista goliardica, con Fra gonne e colonne, musicata dal cugino Norberto Caviglia. Ma la profonda passione di Bindi (come lo chiamavano gli amici) sono gli studi. Prende due lauree: in Giurisprudenza nel 1931, con Gioele Solari, e in Filosofia nel 1933, con Annibale Pastore; fra l'una e l'altra, con Ludovico Geymonat e Renato Treves, va in Germania, dove conosce il giurista Hans Kelsen e il filosofo Karl Jaspers. Scrive un saggio sulla fenomenologia di Husserl che gli vale nel '34 la libera docenza. Nel maggio 1935 cade nella retata contro il gruppo di Giustizia e Liberta', su delazione di Pitigrilli. Se la cava con un'ammonizione (mentre pesanti condanne colpiscono suoi amici). Ricevuto un incarico all'Universita' di Camerino, scrive in luglio di quell'anno una lettera al Duce, in cui chiede che l'ammonizione non pesi sulla carriera accademica. Allora incontra Valeria Cova, di otto anni piu' giovane, giunta da Palermo (il padre e' ordinario di ginecologia). Con la sorella di lei e Roberto Ago, futuro giudice della Corte dell'Aja, fanno le prime gite sciistiche in Val Tournanche. Bobbio la chiamera' "l'angelo sorridente della mia vita". Quel tempo cemento' amicizie durate una vita: come quella con Vittorio Foa, politico per vocazione, punto di riferimento della rete antifascista di Giustizia e Liberta', anche compagno di serate in osteria, a giocare a tarocchi "per darci un'aria popolaresca e non passare da mondani". Nel 1938 Bobbio frequenta a Cortona le prime riunioni del movimento liberalsocialista, nato attorno a Guido Calogero e ad Aldo Capitini, documentate in uno schizzo di Renato Guttuso. Insegna a Siena e nel 1940 vince la cattedra a Padova di filosofia del diritto. Nel suo istituto s'incontrano gli antifascisti e, nell'ottobre del 1942, Bobbio partecipa alla nascita del Partito d'azione veneto. E' sospinto da un senso di responsabilita' morale, che ha il modello in Ginzburg (ucciso a Regina Coeli): all'inizio del 1943 si rifiuta di partecipare a una cerimonia fascista, per cui il ministro apre un procedimento per togliergli l'incarico. Due mesi piu' tardi sposa Valeria e, temendo di restare senza reddito, chiede a Giulio Einaudi di intensificare la collaborazione alla sua casa editrice (nata nel 1934): pubblicato nel 1941 il suo primo libro einaudiano, un'edizione critica della Citta' del Sole, progetta collane filosofiche e giuridiche. Dal matrimonio nasceranno tre figli: Luigi nel '44, Andrea nel '46 e Marco nel '51. Il 25 luglio 1943, caduta del fascismo, Bobbio e' in vacanza a Rivalta Bormida. Senza sapere nulla, l'indomani parte per Padova, attraversa un'Italia dove esplode un sentimento di liberazione e ne prende nota in un frammento di diario: "Su un negozio di macellaio: 'Duce: frattaglie'". Passa l'estate badogliana in montagna. Tornato a Padova, il 6 dicembre '43 sta pranzando con Valeria quando viene arrestato dalla polizia repubblichina. Portato in un carcere veronese, vi resta fino a febbraio. Solo agli amici confidera' di essere stato picchiato. Ritorna a Torino, dove si occupa della stampa clandestina. Franco Antonicelli e' presidente del Cln piemontese, Franco Venturi dirige "Giustizia e Liberta'". Dell'esperienza di resistente cosi' ha detto: "Bisogna distinguere fra resistenza attiva, resistenza armata e resistenza passiva". Oltre ai partigiani, rischiava anche chi si occupava di documenti o propaganda. Nella zona grigia stavano gli attendisti, "che aspettavano di vedere dove sarebbe spirato il vento". Il Partito d'azione e' l'unico partito per conto del quale Bobbio si impegna in una campagna elettorale: siamo in Veneto nel 1946, elezioni dell'Assemblea Costituente. Accetta la candidatura nel collegio Padova-Vicenza-Verona. Si spende in comizi, ma l'esperienza non e' felice: "Non lo facevo volentieri. Come oratore di comizi non avevo ne' attitudine ne' esperienza". Per l'azionismo i risultati sono un fiasco: il partito prende una manciata di voti. Il filosofo non ha dubbi: "Basta, la mia vita politica e' finita". Dopo un viaggio, nel 1945, alla scoperta della democrazia inglese, si dedica all'esplorazione della cultura liberale: "Noi antifascisti democratici eravamo anglofili per reazione all'anglofobia dei fascisti". Contribuisce alla fondazione della rivista "Occidente", ha un carteggio con Carl Schmitt e introduce Popper nella cultura italiana, con un saggio sul "Ponte" ("Societa' chiusa e societa' aperta", dicembre 1946). Dal '48-'49 insegna filosofia del diritto all'Universita' di Torino, dove resta fino al 1984, quando diventa professore emerito. Nel dopoguerra la sua militanza si concentra su europeismo e pacifismo. Una pagina poco conosciuta e' l'impegno nella Societa' europea di cultura (Sec), fondata nel 1950 per superare le barriere della guerra fredda. Il promotore e' Umberto Campagnolo, collaboratore di Adriano Olivetti. La Sec rivendica un'Europa della cultura, contro le divisioni della "cortina di ferro". Bobbio partecipa a convegni a Praga, Belgrado, Budapest, Varsavia, che hanno lo scopo di stabilire contatti con quegli intellettuali che nei regimi comunisti riescono a mantenere indipendenza di giudizio. Questo e' l'humus di Politica e cultura, libro del 1955. Famoso l'incipit: "Il compito degli uomini di cultura e' piu' che mai oggi quello di seminare dubbi, non gia' di raccogliere certezze". Sul primato della cultura il filosofo dialoga con gli intellettuali comunisti (Bianchi Bandinelli, Galvano Della Volpe e lo stesso Togliatti, che Bobbio conosce in casa di Antonicelli). Nello stesso '55, con Calamandrei, Fortini, Cassola, Musatti e alcuni altri, compie un viaggio nella Cina di Mao. Ne resta un ritratto che gli dedica Fortini, ribattezzandolo Delle Carte. Nel 1961 Bobbio partecipa alla prima Marcia della pace, organizzata da Aldo Capitini, tra Perugia ed Assisi. Scrive che sotto l'incubo della guerra atomica l'alternativa non e' piu' tra pace o guerra ma tra "essere o non essere", come diceva Gunther Andersen. Nel 1966 nasce il Tribunale Russell, fondato dal pensatore e pacifista inglese Bertrand Russell per processare i crimini contro l'umanita'. Bobbio viene nominato responsabile della sezione italiana, per iniziativa di Joyce Lussu e si trova a collaborare con Lelio Basso, Cesare Cases, Adriano Buzzati Traverso, Paolo Sylos Labini. Bobbio pero' non aveva fiducia nella linea del disarmo: senza una autorita' sovranazionale che controlli la riduzione degli armamenti, non e' possibile una efficace strategia di pace. Il problema verra' clamorosamente a galla nel gennaio del 1991 con la guerra del Golfo, quando Bobbio incontrera' a Torino un gruppo di intellettuali di sinistra, nella maggioranza suoi allievi, i quali lo contestano sostenendo che non esistono guerre giuste. Il filosofo distingue fra guerra giusta e guerra efficace e ribatte che "rinunciare alla forza in certi casi significa favorire la forza del prepotente". Ritorniamo al suo lavoro di docente, che considera la sua principale attivita'. Diversi suoi corsi diventano testi di studio (Studi sulla teoria generale del diritto, 1950, o Giusnaturalismo e positivismo giuridico, 1965). Due pensatori sono al centro della sua attenzione: Hans Kelsen e Thomas Hobbes. La sua carriera e' scandita da due date: il 1972, quando decide di passare alla cattedra di filosofia della politica (nella neonata facolta' di Scienze politiche), e il 1979 quando tiene, 16 maggio, l'ultima lezione, citando Max Weber: "La cattedra universitaria non e' ne' per i demagoghi ne' per i profeti". In questo percorso s'inserisce il turbine della contestazione sessantottina, con un risvolto personale: il figlio Luigi e' un leader del movimento studentesco. Vive direttamente il confronto con i contestatori quando viene nominato membro per due anni (con Beniamino Andreatta e Marcello Boldrini) del comitato coordinatore dell'Istituto di Scienze sociali di Trento, un luogo bollente. Concorda su una parte delle richieste degli studenti ma dissente sul modo in cui le formulano. Considera inaccettabile la sostituzione dei normali corsi disciplinari con i corsi autogestiti e, infine, riconosce che il dialogo e' impossibile. Nel 1976 comincia una nuova attivita': editorialista della "Stampa". Bobbio era stato alla Festa nazionale dell'Unita': "Non puo' parlare ad alcune centinaia di persone e rifiutarsi di scrivere per milioni di lettori", gli telefona Arrigo Levi. Nascono cosi' quattro articoli su marxismo e pluralismo che provocano interventi di Giolitti, Ingrao, La Malfa, Zaccagnini. Aveva scritto solo su "Giustizia e Liberta'", ma si dimostra un giornalista di razza, "il migliore di tutti noi", per Giorgio Bocca. L'attivita' giornalistica comporta pubbliche prese di posizione: "Mi sono sempre sforzato - dira' - di tenere un atteggiamento equanime". Ma le polemiche non mancano, piu' di tutti con Craxi e con Berlusconi. C'e' anche una appendice politica: dopo il congresso del Midas che elegge segretario Craxi, il filosofo s'impegna nel grande dibattito sui rapporti fra socialisti e comunisti. Quindi si schiera coi dissidenti che sostengono Giolitti in opposizione a Craxi, prima del congresso di Torino del 1978. E' riconosciuto come il numero uno degli intellettuali militanti. I suoi saggi mettono a nudo i grandi problemi con cui si confronta l'uomo moderno, usando anche il linguaggio della divulgazione. Riceve richieste per candidature elettorali che regolarmente declina: "Mi conosco troppo bene per non sapere di non essere adatto alla vita politica". Ma il 18 luglio 1984 il presidente Pertini lo nomina senatore a vita (con lo scrittore Carlo Bo). Riceve la notizia al Centro Gobetti, di cui e' un fedele collaboratore. Si iscrive come indipendente al gruppo socialista: "In parlamento - ammettera' - mi sono sentito come un pesce fuor d'acqua". Gli anni Novanta si aprono con una amarezza. Il settimanale "Panorama" riesuma dagli archivi la lettera al Duce, nell'acceso dibattito sulle ambiguita' dell'antifascismo. Foa difende Bobbio, parlando di "legittima difesa". Numerosi intellettuali ricordano come il filosofo avesse tutto il diritto di opporsi a un torto che il regime gli faceva. Cio' non toglie che lui confessi un senso di colpa: "Mi sono ritrovato faccia a faccia con un altro me stesso, che credevo di aver sconfitto per sempre", scrive nell'Autobiografia. In una discussa intervista al "Foglio" dichiara: "Mi vergogno. Mi vergogno!". Per contro un suo piccolo libro - Destra e sinistra (Donzelli, 1993) - conosce un successo del tutto imprevisto, sia in Italia sia all'estero, a dimostrazione di come Bobbio sappia mettere il dito sui nodi dell'attualita'. Ma l'incalzare dei mutamenti introdotti dalla caduta del Muro e i successi registrati dalla discesa in campo di Berlusconi alimentano il suo tradizionale pessimismo: si definisce infatti "un deluso cronico". In una delle ultime interviste confessa di trovarsi disorientato di fronte all'universo globalizzato: "Che cosa ne so io, vecchio e malandato, di come i potentati economici e finanziari muovono il mondo?". Nella sua riflessione premono le nuove questioni etiche. Quando riceve il Premio Agnelli (aprile 1995), mette in dubbio il concetto di progresso: "Il nostro senso morale avanza, posto che avanzi, molto piu' lentamente del potere economico, di quello politico, di quello tecnologico". Quando gli conferiscono il Premio Hegel (novembre 2000) ricorda come il grande tedesco considerasse la storia un immenso mattatoio: "Devo ammettere che sinora ha avuto ragione lui". Chiude l'Autobiografia con queste parole: "La storia umana, tra salvezza e perdizione, e' ambigua. Non sappiamo neppure se siamo padroni del nostro destino". 3. MARCELLO BENFANTE RICORDA CARLO CASSOLA (2001) [Dal quotidiano "La Repubblica" del 26 agosto 2001 (cronaca di Palermo) col titolo "Cassola, un pacifista in citta'"] Nel 1977, all'acme cioe' degli anni di piombo, appariva per le edizioni Il Vespro di Palermo una lunga intervista di Antonio Cardella a Carlo Cassola intitolata Conversazione su una cultura compromessa. Dieci anni dopo Cassola moriva, settantenne, quasi ai margini di una societa' letteraria che aveva colpevolmente scordato grandi romanzi come La ragazza di Bube e Il taglio del bosco. Ma dopo altri dieci anni il libretto veniva ripubblicato per i tipi delle Edizioni e/o nella collana Piccola biblioteca morale diretta da Goffredo Fofi. Anche a voler cedere a suggestioni numerologiche, non occorre certo aspettare lo scadere di altri due lustri per rileggere quel pamphlet e tornare a prendere in rispettosa considerazione la prosa limpida e il pensiero candido di uno dei nostri maggiori scrittori contemporanei. Ovviamente, nel riesaminare le tesi rigorosamente estreme di quell'opuscolo contrassegnato da un lucido pessimismo catastrofico non possiamo non tener conto del fatto che ci separa da esso quasi un quarto di secolo. A ridosso del tumultuoso '77, Cassola era venuto piu' volte a Palermo per portare avanti il suo discorso "disarmista" in vivaci assemblee tenute nelle aule universitarie e nelle scuole cittadine. Cardella lo aveva poi raggiunto nella sua villa di Marina di Castagneto per riprendere le fila di un colloquio i cui temi fondamentali erano il pacifismo e l'antimilitarismo, ma che fatalmente doveva allargarsi ad altre questioni (anch'esse importantissime, ma per Cassola in un certo senso secondarie) come le istanze libertarie dei movimenti giovanili, le reazioni autoritarie, quando non totalitarie, dei poteri statali, il coraggio e l'acquiescenza degli intellettuali. Nella sua introduzione, Fofi esprimeva un rammarico anche autocritico per la generale disattenzione intervenuta censoriamente nei confronti del Cassola scrittore la cui delicata poetica del "subliminale" era stata derisa e archiviata dall'ipermodernismo delle avanguardie. D'altronde, in quegli anni incombeva da un lato la deriva del terrorismo "con la sua miriade di fiancheggiatori e tutti i loro tremendi e tolleranti equivoci e distinguo", dall'altro l'ottimismo illusorio e ipocrita del craxismo con i suoi compromessi e la sua trionfante demagogia: forbice dilaniante che non costituiva certo il clima politico piu' adatto ad accogliere l'appello visionario della rivoluzione pacifista di Cassola. Appello disperato e folle, in senso erasmiano, del tutto ignorato dai mass media e quindi destinato a diventare inascoltata voce nel deserto: "ossessione totalizzante" che Fofi paragona (pur sottolineandone la fondamentale alterita') a quella altrettanto radicale, ma anche violenta, di Guenther Anders, per poi invece ricondurla, sulla scia di padre Balducci, alla mite lezione di Aldo Capitini e agli incubi di Primo Levi. Se per quest'ultimo il mondo era stato irreversibilmente mutato e perduto dallo scandalo blasfemo dell'Olocausto, per Cassola il destino dell'umanita' e della Terra era cambiato abissalmente con Hiroshima e Nagasaki: "Forse e' finita la storia ed e' cominciata l'era atomica". Ecco dunque il senso delle sue proposte anarcoilluministe per il disarmo unilaterale dell'Italia e contro l'articolo 52 della nostra Costituzione, per il quale la difesa della patria e' un sacro dovere del cittadino soldato. Per Cassola, infatti, "ogni Stato sovrano armato e' garanzia che la terza guerra mondiale verra' e distruggera' il mondo", giacche' anche i sistemi democratici, al pari dei regimi dittatoriali, sono "guerrafondai", in quanto provvisti di eserciti, e rotelline di un esiziale macromeccanismo sistemico. La distruzione degli arsenali e l'abolizione delle frontiere possono, ovviamente, apparire (o essere) delle ineffabili utopie, ma il sedicente realismo dei Signori della Guerra non e' forse un'aberrante distopia? Cassola denuncia una sua verita' difficilmente contestabile: "l'umanita' e' un gigante cieco che va verso il proprio annientamento". Egli e' consapevole dell'unica alternativa che resta al genere umano: "o la fine della divisione del mondo o la fine del mondo". Ora che i muri sono crollati e pianeta ed economia si globalizzano a vertiginosa velocita', continuiamo a temere sempre piu' un'apocalisse che si annuncia coi piu' devastanti presagi. Certo, le cose sono cambiate. Parafrasando quel che Tolstoj pensava delle famiglie, possiamo dire che anche ogni movimento contestatario "e' infelice a suo modo", benche' risuoni ancora l'eco (sinistra) delle parole del Manifesto di Port Huron del 1962: "Guardiamo con preoccupazione al mondo di cui siamo eredi". Tuttavia, quell'ormai vecchio libretto palermitano non e' del tutto obsoleto ed anzi conserva, per certi aspetti, una sua integra attualita', che consiste nella consapevolezza che la forza dell'uomo scaturisce dal suo essere inerme e dalla sua "indisponibilita' alla violenza". Forse la Sicilia puo' ancora, magari ricordando il gandhismo di Danilo Dolci, farsi portatrice di valori nel contempo rivoluzionari e pacifisti in una stagione cosi' confusa in cui perfino taluni fautori di un'opposizione non violenta alla globalizzazione sentono l'esigenza di indossare una divisa, fare proclami squillanti, usare termini bellicosi, darsi grotteschi obiettivi da manovra militare tragicamente all'incrocio tra un sentiero luminoso e la via Paal. 4. MIRELLA SERRI RICORDA MARIO SPINELLA (1994) [Dal quotidiano "La Stampa" dell'8 aprile 1994 col titolo "Spinella, eretico tra Freud e Marx" e il sottotitolo "Lo scrittore morto a 76 anni"] Alto, magro, i lunghi capelli sottili grigi: la sinistra italiana che negli anni '60-'70 affollava convegni, dibattiti, case della cultura di Roma e di Milano se lo ricorda cosi', lo scrittore e critico letterario Mario Spinella, con i suoi interventi sempre polemici, con i suoi appassionati interessi di protagonista curioso: la letteratura, la psicoanalisi, ma soprattutto e sempre la politica. Spinella, nato a Varese nel 1918, e' scomparso l'altro ieri sera all'ospedale Fatebenefratelli di Milano: da tempo era sofferente di cuore. I funerali si terranno domani alle 11. Nel 1987 aveva vinto il premio Viareggio con il suo ultimo libro pubblicato che e' anche il suo romanzo piu' celebrato dalla critica: Lettera da Kupjansk. In questi ultimi tempi, dopo aver avuto un primo infarto, stava rivedendo un romanzo appena terminato, Rock. Anche quando era impegnato nella scrittura dei suoi libri, Spinella non mancava di dedicare parte rilevante del suo tempo alla politica. Ancora domenica scorsa aveva pubblicato il suo ultimo articolo per "l'Unita'", un commento ai risultati elettorali in cui citava una frase di Gramsci, per lui un punto di riferimento da sempre: "Non ridere non piangere ma cercare di capire". Oltre alla collaborazione assidua con il quotidiano pidiessino, negli ultimi anni Spinella aveva trasfuso la sua passione civile nella militanza nei movimenti antinucleari e pacifisti e la sua curiosita' intellettuale nei saggi per la rivista di psicoanalisi e letteratura "Il piccolo Hans" di cui e' stato fondatore. Lo scrittore aveva studiato lettere alla Normale di Pisa dopo aver vissuto negli anni giovanili a Messina. La sua iniziazione antifascista era nata dall'amicizia con Giaime Pintor e dall'interesse per il liberalsocialismo di Guido Calogero e Alodo Capitini. Ventiquattrenne, aveva partecipato alla campagna di Russia con l'Armir e subito dopo era stato partigiano a Firenze. Consigliere culturale di Togliatti, era stato anche direttore della scuola di partito alle Frattocchie. Nel dibattito interno del Pci aveva spesso assunto posizioni aperte contro il settarismo di chi respingeva le tendenze neopositivistiche ed esistenzialistiche condannandole come antimarxiste e borghesi, e aveva coniato la formula "specialismo piu' politica". Tra il '68 e il '70 comincio' a prendere le distanze dalla linea ufficiale del Pci, pur continuando a collaborare a "l'Unita'" e a "Rinascita". La letteratura sperimentale, l'approdo al "Gruppo 63" e successivamente la fondazione di "Alfabeta" con Leonetti, Eco, Maria Corti e Balestrini sono le ulteriori tappe della sua intensissima attivita' culturale. L'esordio narrativo era avvenuto con il racconto Sorella H, libera nos, seguito nel '71 da Conspiratio oppositorum. Polemico, battagliero, ma incapace di rancori e di inimicizie personali, lo ricorda cosi' il poeta Edoardo Sanguineti: "Non so dire esattamente quando l'ho conosciuto, forse a qualche dibattito in sedi di partito; poi ci siamo visti spesso alle riunioni del Gruppo 63 e siamo diventati amici, un legame durato negli anni. Era straordinario per la larghezza dei suoi interessi culturali che andavano dalla psicoanalisi alla storia sociale alla musica". 5. NICOLA TRANFAGLIA RICORDA GIORGIO SPINI (2006) [Dal quotidiano "La Stampa" del 15 gennaio 2006 col titolo "Spini, l'uomo della Resistenza che studiava la liberta'" e il sommario "E' morto a 89 anni il grane storico fiorentino, figlio spirituale dei fratelli Rosselli, Salvemini, Capitini"] L'ultimo incontro con Giorgio Spini, il grande storico fiorentino scomparso ieri a 89 anni, l'ho avuto due anni fa in Toscana in occasione del 25 aprile. Eravamo stati chiamati tutti e due da alcuni sindaci a discutere del significato storico di quella data e fui colpito ancora una volta per l'entusiasmo fervido che caratterizzo' l'intervento di Spini. Parlo' in quell'occasione dell'emozione straordinaria che aveva provato il giorno della Liberazione di Firenze quando era entrato di qua dall'Arno nella citta' mentre i partigiani stavano combattendo contro l'ultima resistenza dei nazisti e dei franchi tiratori fascisti e dal suo discorso emergeva con chiarezza come per lui che aveva vissuto con disagio e sofferenza gli anni della dittatura quello fosse stato il giorno magico della rinascita e della ripresa di un'esistenza finalmente libera cui da tempo aspirava. Nella sua generazione che ha annoverato altri grandi studiosi, da Franco Venturi ad Alessandro Galante Garrone a Gastone Manacorda, la lotta contro il regime che si conclude con la Resistenza, la Repubblica e l'approvazione di una Costituzione democratica e' l'evento centrale decisivo per la loro formazione politica e culturale. La sua era una famiglia approdata nel secolo precedente alla fede protestante e, nell'ultima opera autobiografica La strada della Liberazione. Dalla riscoperta di Calvino al Fronte dell'VIII Armata pubblicato tre anni fa dalla Claudiana, Spini aveva spiegato con grande lucidita' come la fede religiosa e quella politica volta agli ideali di democrazia e di liberta' si fossero incrociate e fortificate a vicenda e lo avessero portato a vedere in Gaetano Salvemini, nei fratelli Carlo e Nello Rosselli e poi in Aldo Capitini i suoi maestri ideali. Cosi' aveva aderito al partito d'Azione e si era legato a Piero Calamandrei e alla rivista "Il Ponte" su cui aveva scritto molti memorabili articoli e saggi sulla storia d'Italia. Un'altra caratteristica essenziale del suo lungo lavoro di storico era stata la larghezza degli orizzonti di ricerca e di interesse che spaziavano dallo stato mediceo fiorentino nei secoli decisivi della sua ascesa alla storia religiosa dell'Italia e dell'Europa tra Rinascimento e Riforma, dal ruolo dei protestanti nel Risorgimento italiano all'influenza della Spagna nei primi tentativi di rivoluzione agli inizi dell'Ottocento. E' difficile dire se il suo capolavoro sia stato il magistrale ritratto di Cosimo I dei Medici pubblicato nel 1945 e piu' volte ritoccato e integrato fino all'edizione degli anni Settanta o invece il bellissimo saggio dedicato alla Giovane America e pubblicato da Einaudi nel 1968 in cui lo storico ripercorre la riflessione che gli storici americani fecero per piu' di due secoli, dai Padri Pellegrini all'Indipendenza, e mette in luce, in maniera eccezionalmente chiara e convincente, il senso della ricerca identitaria degli americani nei secoli decisivi di formazione della loro nazione. E un forte interesse per la dimensione didattica della ricerca storica, favorito da uno stile limpido e letterariamente pregevole, che gli consentirono negli anni Sessanta di scrivere uno dei manuali che ebbero maggior successo nelle scuole italiane per alcuni decenni e che ancor oggi si leggono come un esempio di testo aperto ai non addetti ai lavori e scritti anzi in modo da attrarre chi si avvicina alla storia partendo da altri interessi e altre esperienze (Storia dell'eta' moderna da Carlo V all'Illuminismo, 1960). La prima volta che lo avevo incontrato e' stato invece molto tempo fa quando studiavo a Firenze, nella casa di Maria vedova di Nello Rosselli, la giovinezza di Carlo Rosselli. Allora mi rimase impresso il forte interesse dello storico fiorentino per la Firenze del primo decennio del Novecento, delle riviste letterarie che avevano avuto una notevole influenza sulla famiglia Rosselli. Ricordo che segui' i miei studi in modo costante e quando usci' il mio libro mi scrisse una lunga lettera di osservazioni, una sorta di dibattito alla pari, lui storico di fama internazionale (con molti anni di insegnamento nelle universita' americane) con un giovane che incominciava allora a pubblicare la sua prima opera di impegno scientifico. Tra gli storici accademici, lui e l'indimenticabile Sandro Galante Garrone, erano le eccezioni, non la regola, per un rapporto democratico e paritario con i giovani allievi. ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 249 del 22 ottobre 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/ L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
- Prev by Date: Minime. 616
- Next by Date: Minime. 617
- Previous by thread: Minime. 616
- Next by thread: Minime. 617
- Indice: