Voci e volti della nonviolenza. 240



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 240 del 7 ottobre 2008

In questo numero:
Roberto Mancini: Le conseguenze politiche della speranza (parte prima)

OGNI GIORNO LA NONVIOLENZA. ROBERTO MANCINI: LE CONSEGUENZE POLITICHE DELLA
SPERANZA (PARTE PRIMA)
[Ringraziamo Roberto Mancini (per contatti: r.mancini at unimc.it) per averci
messo a disposizione come contributo per la Giornata della nonviolenza il
testo inedito di una relazione svolta a un convegno promosso
dall'associazione Macondo ad Asiago a fine agosto]

Premessa
Parlare insieme di politica in un contesto come quello che ci accomuna qui
non puo' voler dire farsi una rappresentazione pessimista oppure ottimista
delle cose; deve piuttosto essere un modo per rivitalizzare un potenziale di
energia e per imparare insieme a contribuire a processi di liberazione, di
risanamento, di democratizzazione, di umanizzazione. Vi propongo di entrare
in questa prospettiva seguendo lo svolgimento di una riflessione che tocca
questi nuclei tematici: la crisi della mediazione politica, la speranza, il
metodo dell'agire politico e la possibilita' di una politica di servizio.
Tutto ruota attorno alle conseguenze politiche della speranza vera.
*
1. La societa' ridotta a economia
Su come vanno le cose oggi vorrei solo evidenziare quello che, secondo me,
e' il nucleo contraddittorio del nostro presente storico. La parte oscura e'
sintetizzabile nella riduzione della societa' a economia e dell'economia a
capitalismo distruttivo. L'indole distruttiva di questo sistema si coglie
inoppugnabilmente gia' dal fatto enorme per cui l'economia attuale potrebbe
eliminare la fame e invece la produce.
Tale tendenza sistematica e' a suo modo il culmine della logica di dominio
che si e' dispiegata lungo la storia dell'Occidente. Horkheimer e Adorno,
nel mostrare il codice genetico e le trasformazioni storiche per cui la
societa' occidentale, e poi mondiale, ha organizzato tutto secondo tale
logica, osservano: "il dominio sopravvive come fine a se stesso in forma di
potere economico" (M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica
dell'illuminismo, Torino, Einaudi, 2002, p. 110). Questa traccia va letta
nella profondita' di cio' che mostra. Perche' il dominio radicale, il
dominio puro, assume nella societa' proprio la forma dell'economia?
Anzitutto occorre una precisazione. Quando parlo di economia non intendo
solo l'economia puramente materiale, la produzione, la distribuzione, il
consumo, la dialettica del capitale e del lavoro. Intendo anche e
indissolubilmente una forma globale di vita, una sovracultura mondiale, una
civilta', uno sguardo collettivo sulla realta'. Anzi, oggi l'economia e'
soprattutto questo e, di conseguenza, e' anche un modo di produzione, di
distribuzione, di consumo. Pertanto l'economia attuale e' una forma di
religione, di metafisica, di senso totale, di antropologia effettiva (che
cioe' tende a realizzare l'immagine di uomo in cui si specchia), di etica,
di cultura, di logica. Dunque deve essere chiaro che non sto criticando il
predominio dell'economia, instaurato secondo una logica che di solito viene
definita economicismo, adottando a mia volta un approccio che, senza
avvedermene, sarebbe altrettanto economicista. Questo era l'errore del
marxismo meccanicista e determinista. La mia critica si volge contro
l'economia fattasi pensiero globale e unico, divenuta spiritualita' perversa
e concreta degli esseri umani, eretta a modello finale di ogni civilta'.
Di tutte le sfere di esperienza dell'essere umano, l'economia e' quella che
riguarda la sopravvivenza. Ma la sopravvivenza pura, fine a se stessa, e'
tutt'altro che naturale. Quando essa, in quanto finalita', viene
assolutizzata si deforma la condizione umana. La vita, nell'anelito che la
fa respirare - cioe' la vita umana ma anche la vita delle altre creature e
della natura - non cerca solo la sopravvivenza, tende a una vita liberata
dal male e dalla morte come distruzione finale. Ridurre ogni cosa a economia
significa fabbricare un sistema in cui la sopravvivenza bruta si sostituisce
alla vita e, ancor piu', a ogni possibilita' di vita vera. Se noi siamo un
tessuto di vite uniche e tutte legate tra loro e tutte tendenti a una
liberazione integrale, allora ridurre la condizione dei viventi alla
megamacchina dell'economia significa isolare ogni filo del tessuto e
costringerlo a fare di tutto per continuare a sussistere in questo stato
contronatura e anticreaturale. La sopravvivenza diventa lo sforzo di vivere
al di sopra degli altri, senza e contro di loro. Una civilta' della
sopravvivenza resta incompatibile con una societa' della convivenza, dove
"convivere vuol dire sentire e sapere che la nostra vita, seppure nella sua
traiettoria personale, e' aperta a quella di tutti gli altri" (M. Zambrano,
Persona e democrazia, Milano, Bruno Mondadori, 2000, p. 14).
Dal punto di vista della sua struttura ontologica, una simile "economia" e'
vita separata che pensa a se stessa, a riprodursi cosi' com'e', senza
neppure pensare piu' alla propria felicita'. Anzi, questa vita teme sia la
morte che la felicita' stessa, perche' entrambe sono incompatibili con il
fine della mera sopravvivenza. La radice dell'eclissi della speranza in una
societa' ridotta a economia sta proprio nella coazione a non credere piu'
nella felicita' per perseguire sempre e comunque la sopravvivenza puramente
biologica. Perche' invece gia' solo l'idea di felicita' evoca l'armonia del
tessuto degli unici, la sua possibile vita nuova comune.
La prima frode implicata nell'adattare la vita all'economia sta nel credere
nella scarsita' naturale e nella conseguente necessita' della lotta di tutti
contro tutti. La sopravvivenza cosi' intesa ha le sue coordinate appunto
nella scarsita' di risorse e di beni e nella lotta universale. Coordinate
ritenute nel contempo naturali, necessarie, logiche e promotrici di
progresso, dunque benefiche. Percio' l'economia diviene non solo la scienza
della sopravivenza selettiva e mai universale, perche' infatti e' la
sopravvivenza di pochi a scapito della sopravivenza di molti altri, ma anche
la profezia autorealizzantesi della societa' come giungla mortale.
Sotto la frode della scarsita' che esige la lotta e' all'opera una
dialettica realmente metafisica che e' quella del confronto tra il male e il
bene. Non parlo di un'ideologia del bene, che coinciderebbe con la mia parte
o tradizione, ne' di un'identificazione di comodo del male, che risulterebbe
impersonato da chi e' altro per me, nemico o pericolo per la mia vita. Parlo
invece del male come forza violenta e dinamica reale di distruzione, e del
bene come corrente di condivisione della pace, della giustizia, del
rispetto, della liberta', della cura, dell'amore nonviolento. Se e' chiaro
che il male opera distruggendo, e che e' in se' distruzione, d'altronde, per
cosi' dire, il male non "vuole" cessare, estinguersi, "vuole" vivere. Quindi
intrattiene con la vita un rapporto ambiguo e contraddittorio. La vuole
distruggere, ma anche la vuole per se'. Deve assestarsi esso stesso e
rigenerarsi al livello della sopravvivenza; deve distruggere la vita e
insieme mettere un limite alla distruzione. In cio' il criterio operativo
del male assomiglia allo schema logico della tortura: offendere, negare,
colpire, ma possibilmente senza giungere alla morte della vittima, o
comunque senza giungervi troppo presto. Il male infatti non e' una tortura
per le creature che lo subiscono e, in altro modo, per gli esseri che lo
servono? E il sistema economico vigente non tortura forse la vita del mondo
naturale e la vita di milioni di persone?
Il male vuole usurpare il bene, sostituirglisi, ma non puo' e non vuole
distruggere totalmente la vita per sempre. Sarebbe distruggere la vita del
male stesso. Lo schema logico e sistemico dell'operare del male e' lo stesso
dell'economia della sopravivenza selettiva. Ecco perche' la forma sociale e
storica piu' pura di dominio, quella piu' "adeguata" a esprimere e
perpetuare il male, e' l'economia impazzita, l'economia della sopravvivenza
selettiva e della distruzione prevalente. Il male ha un interesse costante
alla disuguaglianza, alla divisione, al privilegio e alla discriminazione,
tutti frutti velenosi che l'economia attuale produce sempre di nuovo.
E' vero che il male puo' avere mille forme e rivelarsi ubiquo: essendo una
perversione delle relazioni (con se', con gli altri, con Dio, con la natura,
con la realta' e con la verita'), esso sfugge a ogni localizzazione e
identificazione determinata. Percio' non sto identificando il male con
l'economia, dato che l'economia puo' e deve essere al servizio della vita e
dell'umanita', e nemmeno con il capitalismo, che e' invece solo una forma
storica del male stesso. Ogni identificazione di questo tipo e' un
cortocircuito e sfocia nell'ideologia, il che concede al male il vantaggio
di prenderti alle spalle perche' tu lo stai ravvisando solo in cio' che
critichi, mentre esso probabilmente e' gia' altrove e gia' dentro di te. E'
la lezione di Hegel nella sua critica della coscienza giudicante (cfr. G. W.
F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Torino, Einaudi, 2008, pp. 418-444).
Sto dicendo una cosa un po' diversa, cioe' che il male e l'economia della
sopravvivenza selettiva sono omeomorfici e omologhi, hanno una forma e una
logica che si corrispondono. Quindi piu' della politica o della morale,
dell'arte o della religione, del diritto o della scienza, l'economia
impazzita si presta al gioco del male, visto che l'economia e' per vocazione
la sfera d'esperienza piu' direttamente impegnata con la sopravvivenza, la
prospettiva piu' esposta (insieme a ogni naturalismo metafisico) a cadere
nell'errore di risolvere la vita entro la dialettica di scarsita',
sopravvivenza e lotta. In sintesi: l'economia della globalizzazione non e'
il male, e' l'organo oggi piu' sistematico dell'operare del male nella
societa'.
*
2. Ripensare la mediazione della politica
In una societa' "dove ormai non solo la politica e' un business, ma il
business e' tutta la politica" (M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica
dell'illuminismo, cit., p. 187) il rischio dell'impotenza e
dell'inaridimento e' molto forte. Sia per il funzionamento democratico delle
istituzioni, sia in particolare per tutti coloro che vorrebbero un
cambiamento vero. Oggi abbiamo bisogno di una deglobalizzazione liberatrice,
in parte come ci fu, a meta' del secolo scorso, una decolonizzazione. Ma
naturalmente senza le ambiguita' e le involuzioni neocolonialiste di quel
processo in Africa e in Asia.
Per capire il rapporto tra le possibilita' del cambiamento della storia,
quelle del cambiamento della politica in quanto tale e gli eventuali
risultati di quella medesima prassi politica che dovrebbe nel contempo
appunto mutare se stessa e trasformare la societa', occorre analizzare, tra
gli altri, anche il problema della mediazione. Chiunque abbia imparato
qualcosa da Hegel e, soprattutto, in modo con lui ormai pienamente adeguato
e demistificato, da Gandhi sa che la forza dirimente e decisiva nella storia
non e' data nell'origine o nella meta, e' data nella mediazione. La
mediazione non e' solo un mezzo, un processo neutro, uno strumento ambiguo,
e' la forza decisiva, qualitativa, orientativa della realta'. Anche se, come
dovro' precisare piu' avanti, questo non dice affatto che sia il soggetto
della storia.
La crisi della politica, in questo senso, deriva dal fatto che oggi e'
l'economia la forza mediatrice per eccellenza e la politica puo' svolgere
sottomediazioni o movimenti reattivi e di corto respiro. Se e' cosi' ne' il
diritto, ne' la scuola e il sistema educativo, ne' l'opinione pubblica e il
sistema informativo e neppure le culture religiose in quanto mondi vitali e
rappresentazioni della vita riescono a sfuggire a questa morsa. Il
controsenso di questa condizione e' stato reso efficacemente, una volta, da
George Orwell in questo riadattamento ironico e realistico dell'inno di
Paolo alla carita' (1 Cor, 13, 7): "tutto copre, il denaro, tutto crede,
tutto spera, tutto sopporta" (G. Orwell, Fiorira' l'aspidistra, Milano,
Mondadori, 1960, p. 7). E' il mediatore per eccellenza.
Un recupero di forza mediatrice da parte della politica sarebbe
indispensabile anche per liberare queste sfere di esperienza sociale e
queste correnti della cultura della societa' dal predominio di un'economia
impazzita. Per questa precisa finalita' sistemica, oltre che per ragioni
piu' determinate e legate alle situazioni concrete, e' urgente tornare ad
agire politicamente o, per molti, iniziare a farlo. Tuttavia il problema non
si risolve passando dall'economicismo al politicismo, enfatizzando il
significato dei fatti politici o partitici in se stessi. Perche' la politica
puo' essere e in parte e' si' la forza di mediazione che tesse la
convivenza. Ma se non si ha cura della qualita' di questa forza, della
natura e dell'energia specifica della mediazione politica, se essa e'
pervasa a sua volta di energie oscure (paura, egoismo, indifferenza), allora
la politica non assicura la buona mediazione e anzi aggrava le tendenze
distruttive dell'economia impazzita.
Oggi sulla scena mondiale si aggirano mostri etici e politici: Stati Uniti,
Russia, Cina, Iran sono paesi in vario modo totalitari, aggressivi, per
nulla incapaci di essere distruttivi. Ci sono stati tragicamente ambigui,
come Israele, e stati di recente democratizzazione, che vacillano sotto i
colpi del ritorno della violenza, come il Sud Africa. Abbiamo poi molte
democrazie indebolite, svuotate e inclini a degenerare in oligarchie, come
l'Italia. Persistono solo poche isole di democrazia evolutiva, ossia di
democrazia che tende a inverarsi, ad approfondirsi. La stessa Unione
Europea, il cui spazio di democrazia e' a rischio di erosione e di
alterazione, potra' consolidarsi nella sua fisionomia originale non certo
rincorrendo tendenze e pratiche dei mostri politici, non con il cinismo e lo
spirito mercantile, ma radicalizzando ed estendendo la qualita' democratica
della sua forma di convivenza.
Per ora la risultante di tale situazione e' una crisi mondiale della
democrazia dei diritti e dei doveri umani, della giustizia e della pace,
dove "crisi" non significa situazione di stallo ma progressiva restrizione,
erosione, frana, mutazione genetica. Questa crisi si potrebbe descrivere con
le stesse parole con cui Habermas ha descritto una volta la precarieta'
delle relazioni dialogiche e democratiche tra gli esseri umani, le quali
"assomigliano a isole minacciate da inondazione nel mare di una prassi, nel
quale non domina affatto il modello della composizione consensuale dei
conflitti" (J. Habermas, Etica del discorso, Bari, Laterza, 1985, p. 117).
La politica e' uno strumento al servizio della convivenza sociale. E' umana
appunto se e' una politica di servizio (non di potenza, non di dominio, non
di impero, non di un capo), ma proprio come strumento non e' neutro; quasi
tutti gli strumenti hanno una qualita', un orientamento, sono gravidi del
fine cui tendono. Lo strumento della politica e' ambiguo e ha bisogno di
essere affinato e umanizzato costantemente; se invece assumo la politica
cosi' come sembra essere, benche' con le migliori intenzioni, non porto
frutti buoni e anzi rischio di perpetuare gli effetti negativi che volevo
superare. Lo strumento della politica e' di solito lasciato a se stesso
perche' subito l'attenzione viene portata solo sui soggetti e sugli
obiettivi e quindi su quell'inevitabile elemento mediatore che e' il potere
non come energia della cooperazione, secondo l'idea di Hannah Arendt, ma
come potenza pura e semplice. Si afferma cosi' una spirale coattiva per cui
l'elemento mediatore stesso diventa la cosa piu' importante: la potenza
appunto, il potere per il potere. Per giunta, in una situazione in cui la
potenza per eccellenza e' economica, allora la politica stessa deve
asservirsi al gioco capriccioso dell'economia globalizzata. E una politica
asservita non potra' mai essere una politica di servizio.
In questa deformazione logica, ontologica, antropologica ed etica della
politica, in una parola in questo suo snaturamento, ricorrono alcuni tipici
fenomeni negativi, che finiscono per essere condizioni normali del fare
politica.
Uno di essi, l'immaturita', si mostra nel fatto clamorosamente evidente e
frequente che non solo i soggetti attivi in politica spesso non sono formati
adeguatamente sul piano etico, umano, spirituale, giuridico-costituzionale,
ma inoltre prevalgono piu' facilmente soggetti narcisisti, prepotenti,
talvolta ai limiti della patologia; anzi, non si tratta propriamente di
soggetti autonomi e almeno realmente unici, essi sono piuttosto il crocevia
di tendenze sistemiche che trovano in essi qualcuno che le impersona,
personaggi piu' che persone (cfr. M. Zambrano, op. cit., pp. 46-48). Basta
pensare ai capi politici del nostro tempo, in Italia e all'estero, e si vede
che un simile fenomeno si avvicina quasi alla regolarita' di una legge
statistica.
Un altro effetto tipico dello snaturamento della politica sta nel circolo
vizioso di autocentramento e frammentazione. Accade cosi' che si
moltiplicano le identita' partitiche o di schieramento e che esse siano
sempre piu' autoreferenziali, a volte addirittura identificate in un
individuo. Cio' aggrava la frammentazione dello spazio pubblico e delle
soggettivita' politiche, senza che aumenti invece l'attenzione riservata ai
processi storici, alle dinamiche concrete di cambiamento e anche al metodo
dell'agire. "Nella crisi - ha scritto Maria Zambrano - non c'e' cammino, o
non lo si vede" (ibid., p. 27). Di qui l'impressione di cambiamenti
vorticosi alla superficie, ma l'immobilita', quasi l'atemporalita' rispetto
alla dinamica del cambiamento reale e profondo in meglio. Di qui anche la
lacerazione e la frammentazione nel modo in cui una collettivita' pensa a se
stessa: la crisi e' infatti il luogo in cui si raggiunge il punto piu' forte
di divergenza tra la maggioranza e le minoranze e dove s'instaura il
disaccordo delle minoranze tra di loro (cfr. ibid., p. 23).
In questa complessiva crisi della politica si inserisce anche una sorta di
volontarismo delle rappresentazioni, per cui ognuno s'immagina a piacimento
analisi, scenari futuri, obiettivi, tattiche, strategie, identita'.
All'aumento della componente finzionale del fare politica non corrisponde
affatto un aumento della capacita' di vedere. Si fanno rappresentazioni
delle cose proprio perche' non si vedono ne' la realta', ne' la situazione
degli altri, ne' il luogo storico in cui ci si trova. Percio' non si riesce
neppure a individuare le autentiche priorita' d'azione. Rappresentazione e
visione sono inversamente proporzionali. Tutto cio' esaspera quello che
sembra un difetto strutturale della politica, cioe' che in essa al posto
della verita' conta il potere. Gruppi e organizzazioni che non riconoscono
la superiorita' della verita' rispetto al loro punto di vista, interesse
immediato o ideologia perdono il senso del limite, assolutizzano se stessi,
non sanno dialogare e diventano violenti.
Da ultimo segnalo la sterilita', ossia l'incapacita' di affrontare le
situazioni per cambiarle in meglio, il tradimento della vocazione
trasformativa e, per cosi' dire, sollevativa della politica, quella che
porta ad attivare un'energia di trasformazione e di sollevamento delle
pesanti conseguenze dell'incuria, dell'indifferenza, dell'iniquita', della
violenza. La politica, in questo modo, non alleggerisce le condizioni di
vita delle persone e dei popoli, anzi spesso le appesantisce. Pertanto,
anziche' generare dinamiche di restituzione dei diritti, di assunzione dei
doveri, di riscatto degli esclusi e di liberazione dei dominati, mantiene e
aggrava l'iniquita'.
Proprio analizzando cause e natura di questi fenomeni si capisce che la
politica non guarisce da sola. Credo che la crisi della politica sia
superabile effettivamente se la sua forza mediatrice e' sostenuta,
trasformata e resa feconda da un'altra forza. Questa forza e' l'amore, un
amore che ha imparato a farsi nonviolento, fecondo, diffusivo e che tende a
tradursi su scala collettiva, senza restare confinato ai rapporti
interpersonali di coppia o di amicizia ristretta. Lo si puo' chiamare amore
politico, senza enfasi e anzi nella consapevolezza che e' una forza
relativamente rara, che prende corpo attraverso processi delicati e risvegli
tutt'altro che diffusi. Esso richiede coraggio, generosita', costanza,
fiducia, speranza, intelligenza. Insomma condensa tutte le virtu' dell'amore
vero.
La conferma piu' chiara di questa sua autenticita' viene dal dato per cui
l'amore politico nonviolento vede le persone, nessuna esclusa, e sempre va
verso di esse. Mentre ogni altra forza mediatrice (al massimo grado il
denaro) tende ad assolutizzarsi, cioe' a farsi soggetto sovrano e unico
della realta', l'amore vero non e' mai fine a se stesso, e' sempre per
altri, per gli unici e per la loro comunione infinitamente ospitale; serve,
non domina. L'amore non e' per l'amore, e' per qualcuno. Questa rimane la
grande differenza tra la concezione hegeliana della mediazione, dove lo
Spirito e' per se stesso, e la visione di Gandhi o, anche, della Scrittura
biblica. Tale differenza e' riassunta in un lampo di intelligenza da Aldo
Capitini, quando proprio per superare Hegel egli scrive che bisogna passare
"dal Tutto ai Tutti" (A. Capitini, La realta' di tutti, in Scritti
filosofici e religiosi, Perugia, Protagon edizioni, 1994, p. 184). E'
l'alternativa tra totalitarismo e democrazia effettiva, tra astrazione e
visione reale.
Piu' si coglie la bonta' dell'amore vero e piu' sembra impossibile da
vivere. Eppure l'amore politico nonviolento non e' impossibile; infatti e'
storicamente apparso in non poche circostanze a qualsiasi latitudine e in
ogni congiuntura politica, anche la piu' tragica. Esso matura e opera quando
si sente e si comprende che ogni cosa belle e felice della vita non possiamo
ritagliarla e custodirla in un piccolo spazio privato, quasi fosse un
privilegio, ma dobbiamo condividerla, perche' essa non vive senza giustizia,
senza liberta', senza partecipare a una comunita' "bene ordinata" direbbe
John Rawls (si veda di lui in particolare il testo Giustizia come equita'.
Una riformulazione, Milano, Feltrinelli, 2002, dove Rawls non esita ad
approfondire la consapevolezza del rapporto con il bene nella vita
politica).
Ora non faro' un inventario, non dico delle esperienze storiche dell'amore
politico (che puo' essere anche quello dei nazionalisti e dei fanatici ed e'
comunque un amore distorto), ma piu' precisamente dell'amore politico
nonviolento (che e' invece l'amore guarito e illuminato); mi interessa
rilevare piuttosto come cio' che attesta la possibilita' effettiva di questo
amore sia l'accessibilita' graduale dell'agire secondo la sua forza
specifica. Faccio alcuni esempi quotidiani in ordine di crescente
coinvolgimento: non limitarsi a vedere il proprio interesse privato,
informarsi con cura circa i fatti politici, orientarsi criticamente per
votare, ascoltare gli oppressi, prendere la parola per denunciare le
iniquita', promuovere un pensiero dialogico e democratico, partecipare alla
vita collettiva del quartiere, della scuola, del comune, della regione,
rendersi disponibili a fare del proprio meglio in cariche elettive e in
ruoli di pubblica responsabilita', agire per portare giustizia, tutelare i
diritti degli altri assunti come un proprio dovere, associarsi con altre
persone e altri gruppi e in ogni caso accettare di rischiare qualcosa delle
proprie sicurezze o acquisizioni private per fare tutto questo. Si tratta di
forme e gradi diversi di coinvolgimento che molti hanno sperimentato come
modalita' quotidiane della loro esistenza, non sono eroismi irraggiungibili.
A questo punto ciascuno puo' scorgere, forse, la parte luminosa del nucleo
contraddittorio del nostro presente, di cui all'inizio del discorso dicevo
appunto che e' una tensione tra tendenze alternative. Questo versante
positivo e' quello di quanti non solo resistono alla logica di dominio
prevalente nella societa' globalizzata, ma sanno anche costruire situazioni
e avviare processi alternativi: per far nascere un'economia di servizio e
una politica di servizio, per una scuola che educhi le persone, per
situazioni interetniche di pace, per una scienza che serva a partecipare
alla vita del mondo, non a distruggerla. Sono persone e minoranze creative
di cui non conta che non abbiano tutta la potenza necessaria a "vincere",
conta che siamo mosse dall'amore vero.
Ora, per passare dalla lettura sintetica del nocciolo del nostro presente
storico all'individuazione del percorso per la svolta, dalla diagnosi della
crisi al riconoscimento del punto d'accesso della via dell'esodo, e'
necessario attingere anzitutto a una forza specifica dell'amore vero.
*
3. Il ritorno della speranza
L'amore vero infatti e' composto di tante correnti qualitative e oggi una di
esse e' decisiva per la svolta che desideriamo. Questa corrente, questa
forza luminosa e' la speranza. E' la forma di passione, di risveglio, di
intelligenza e, in radice, di risposta che permette di uscire dall'incubo
della vita mortificata. Oggi siamo sgomenti di fronte alla degenerazione
della politica, ai disastri dell'economia e ai trionfi della violenza. Ma se
ci chiediamo, ricordando le situazioni in cui si sono date primavere
culturali, politiche e storiche, quali erano allora la luce e l'energia che
le hanno suscitate, troviamo che luce ed energia erano date dalla speranza.
Si puo' pensare ad esempio alla svolta della nonviolenza con Gandhi dal 1906
in poi, alla svolta di meta' Novecento con la nascita delle nuove democrazie
costituzionali e dell'Onu, con l'esperimento dello stato sociale di diritto,
con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, con i trattati e le convenzioni
che essa ha ispirato negli anni seguenti. Penso poi ai processi di
decolonizzazione in Africa e in Asia, alla primavera del Concilio Vaticano
II nella Chiesa cattolica e alla primavera mondiale del 1968, alle lotte
sindacali e dei lavoratori, all'azione del movimento delle donne, alla lotta
della popolazione nera negli Stati Uniti, alla parte trasformatrice e
nonviolenta degli anni Settanta, con la fine dei manicomi o l'impegno per
una scuola educativa e democratica, alla fine dell'apartheid in Sud Africa,
ai movimenti politici nonviolenti in America Latina dal Brasile al Paraguay,
ai gruppi per la difesa della natura, al movimento mondiale contro la
globalizzazione, alla lotta contro le mafie.
Tutte queste esperienze storiche di risveglio, di esodo, di espressione di
una politica di servizio erano ispirate e sospinte dal vento di una speranza
speciale, unica, eppure risorgente nel corso dei secoli con la stessa
natura. Non si tratta della speranza di una parte dell'umanita' per se
stessa, non e' la brama di vincere su qualcuno. Quelle esperienze che ho
ricordato sono state emersioni dell'unita' della speranza umana, la speranza
riunita dell'umanita'. Questo tipo di speranza, l'unica intera e universale,
crede e vuole la liberazione dal male, dall'infelicita' e dalla morte, la
trasfigurazione della vita in un'armonia per noi ancora sconosciuta. Si
tratta di una speranza per tutti, nella cui visione si riconosce che il bene
degli uni non e' compatibile con il male degli altri, perche' la
realizzazione del sogno della speranza e' un bene condiviso sino a
comprendere l'umanita' intera e il mondo vivente. E' una speranza per la
terra e per la storia.
Solo questa speranza dischiude lo spazio della laicita' positiva, che
consiste nell'assunzione della creaturalita' dei viventi, nella
corresponsabilita' per il bene comune, nell'imparare a stare nel tessuto
della vita del mondo senza rovinarlo. Oltre le angustie della laicita'
negativa e contrappositiva - per cui "laico" vuol dire colui che non e'
cattolico o non e' religioso nella societa', e colui che non e' sacerdote o
comunque non consacrato alla vita religiosa nella chiesa -, la laicita'
positiva da' alle culture, alle tradizioni, alle prospettive politiche uno
spazio cosi' ampio da permettere la loro convivenza e cosi' vincolante da
esigere il loro impegno leale per il bene di tutti. Quando invece la
speranza si eclissa, le culture decadono a mentalita' sclerotiche, le
visioni a fanatismi e rappresentazioni arbitrarie, la politica s'inaridisce,
i processi educativi a schemi di addestramento che mortificano la novita'
incarnata da ogni bambina, bambino o giovane, la vita si ritrova privata di
ogni bellezza.
Ma se e' vero che stagioni, eventi, rivelazioni e frutti della speranza
riunita ci sono stati, oggi si tratta di favorire e anzitutto di desiderare
il ritorno della speranza. Un desiderio simile non e' un auspicio, e' gia'
una concentrazione interiore, un raccoglimento, una nuova lucidita' comune
tra quanti si ricordano della felicita' che e' la vocazione dell'esistenza
umana e delle sofferenze di quanti sono tenuti a forza lontani da quella
felicita'. Desiderare un futuro vero e' desiderare in primo luogo di sperare
e riuscire a diventare piccole fonti di speranza per altri. Questa
conversione interiore ed esistenziale non ha nulla a che fare con la
fortuna, l'immunita' al patire, le rappresentazioni astratte. Devo essere
chiaro su questo punto: augurarsi un cambiamento della situazione economica,
sociale, politica e storica attuale e' ben altro che attendere la rivincita,
rimpiangere qualche stagione passata o ergersi a giudici degli altri.
Volere davvero il cambiamento significa anzitutto esporsi al proprio
cambiamento, accettare di fare un viaggio, approfondire la propria
umanizzazione affinche' l'agire sia davvero un servizio per il bene comune.
Trovo una grande saggezza nella scelta di muoversi, mentre ci si trova
nell'impotenza, verso una maggiore integrita' anziche' verso la conquista di
strumenti di potenza. Quando Gandhi subiva una sconfitta, non cercava un
modo per garantirsi maggiore potenza per poi rivalersi alla prossima
occasione. Faceva un digiuno. Cercava cioe' di trasformare il proprio
errore, di portarsi sino a un grado piu' alto di integrita', a uno stadio
piu' profondo della realta', li' dove fosse possibile attingere alla mite
forza del vero cambiamento. Era una costante conversione, conversione per la
fecondita', non per la perfezione individuale. Tale atteggiamento non va
confuso con il narcisismo morale di chi pensa alla propria purezza. Se
giustamente l'azione politica e storica non e' tanto per se stessi, quanto
per il riscatto dei dominati, tale impegno viene comunque riconfermato da
chi sente il bisogno di risanare se' e il proprio modo di agire, come ha
dimostrato la storia di Gandhi. La coscienza di chi agisce con questa
responsabilita' si rende conto del fatto che non e' seguendo la scorciatoia
eventualmente offerta da mezzi di potenza a consentire davvero quel
riscatto. Esso potra' essere preparato solo da persone consapevoli, disposte
a purificare il proprio modo di essere, umili, consapevoli del limite della
propria soggettivita' e anche dei propri progetti. Questo e' l'ineludibile
passaggio personale e, in altra maniera, collettivo che attende chi si
interroga seriamente sulle sorti della politica, del paese e del mondo.
Il cammino di maturazione della capacita' di sperare e' indicato, a mio
avviso, dalla traccia lasciata da san Paolo nella Lettera ai Romani. Qui
egli offre una chiave che va al cuore del nostro presente. Scrive Paolo che
"la sofferenza genera la pazienza, la pazienza l'esperienza e l'esperienza
la speranza" (Rm 5, 3-4). Io leggo questa sorprendente sequenza generativa
come un viaggio di trasformazione della persona, ma si potrebbe anche dire
di comunita' e di popoli interi. E' necessario dapprima sentire il carico di
sofferenza che grava sul tessuto della vita del mondo, sentire quanto sia
insopportabile la violazione dei diritti degli altri, come fosse una ferita
nostra, intima. Anziche' identificarci con i persecutori, anziche' difendere
la nostra normalita' che si erige gravando sulla fatica, sulla
mortificazione, sull'esclusione di molti altri, iniziamo a renderci conto
della sofferenza dei perseguitati, cominciamo a conoscerli di persona, ad
ascoltarli, a stabilire relazioni quotidiane con loro.
La sofferenza viene sperimentata a causa dei colpi del male, ma essa di per
se' non e' l'antidoto. Paolo nel testo non si riferisce pero' alla
sofferenza come se di per se' fosse dotata di virtu' generatrici, ne' si
mette a parlare di sacrificio. Egli parla della sofferenza di chi si e'
aperto all'amore di Dio ("noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore
nostro Gesu' Cristo" Rm 5, 1). Quindi le forze in campo sono tre, diverse
l'una dall'altra. La forza del male, quella della sofferenza e quella
dell'amore. L'essenziale e' portarsi nella corrente d'azione di quest'ultima
forza. E' allora che nella sofferenza l'amore risponde generando pazienza. E
la pazienza non e' mera sopportazione, ne' tanto meno rassegnazione. E' la
perseveranza in quanto capacita' di "portare" nel senso di resistere, di
fare fronte, di sostenere, di andare avanti e oltre senza farsi sommergere.
"Portare" la sofferenza dunque, da un lato, e' la vera alternativa
all'ignorarla, eluderla, scaricarla sugli altri o addirittura produrla,
moltiplicarla, esportarla; dall'altro lato, questo "portare" non vuol dire
subire, al contrario vuol dire sollevare e attraversare. Pazienza e passione
sono i nomi appropriati per dire cio' che, in un'ottica distorta e
pericolosa, evoca la parola "sacrificio". La pazienza e' il farsi carico
della sofferenza, anche della sofferenza di altri, per superarla, per non
cedere ne' a essa ne' al male. E la passione, che qui accosto alla pazienza,
e' nel contempo sia il patire con questo coraggio del farsi carico senza
fuggire, sia l'appassionamento amorevole che non smette di cercare il
superamento della sofferenza stessa e del male in direzione della felicita'
di tutti.
Dice poi Paolo che la pazienza genera l'esperienza ("dokime'"), parola
tradotta spesso con "virtu' provata", ossia una forza che resiste,
collaudata, comprovata, consolidata nella conferma e capace di fedelta'. E'
evidente che qui non viene evocata un'ostinazione cieca. Non si tratta di
ripetere quello che si e' sperimentato in passato, ne' di fare della propria
esperienza un modello conclusivo e insuperabile. Infatti l'esperienza non si
risolve in se stessa, genera la speranza. Qui viene indicato qualcosa di
diverso dall'idea che l'esperienza inventi la speranza, la produca da se' e
arbitrariamente. La speranza umana, infatti, e' sempre anzitutto la risposta
a un appello, a una promessa, a una vocazione, a un bene, a qualcuno il cui
amore suscita appunto, come corrispondenza, la speranza.
Questo tratto essenziale, che si colloca nel cuore della ricerca metafisica,
e' fondamentale al tempo stesso anche per la riflessione sull'agire politico
e per il tipo di consapevolezza che lo guida. A riguardo non basta dire che
ognuno deve verificare con se stesso le ragioni ultime del suo sperare.
Questo e' vero, ma non costituisce un'indicazione risolutiva; se tutto si
risolvesse in una opzione individuale, l'esito sarebbe quello, oggi diffuso,
della mera privatizzazione delle questioni ultime, come se riguardassero
semplicemente l'individuo isolato. Il dibattito culturale in Italia, ad
esempio, non e' riuscito a superare la falsa alternativa tra l'integrismo e
l'uso politico-partitico della fede da un lato, e la privatizzazione del
senso della vita e della speranza, in nome della laicita', dall'altro. Tale
strettoia tra integrismo e laicita' minimale ha intanto permesso un rapporto
equivoco tra fede religiosa e politica, per cui e' facilissimo dichiararsi
paladini della fede, basta far propria qualche parola d'ordine cara alle
autorita' religiose. Inoltre questa autentica strozzatura culturale ha
lasciato senza respiro e senza visione, in particolare, sia le tradizioni
della sinistra, sia l'azione politica dei cristiani. Questi ultimi hanno
guadagnato un pluralismo ambiguo e, in fin dei conti, apparente, pagando
tutti il prezzo dell'equivocita', e poi pagando, alcuni, il prezzo della
complicita' con i dominatori e, altri, il prezzo della sterilita' politica.
Quindi si tratta si' di rinunciare alla pretesa che la propria
configurazione del senso e della speranza sia vincolante per tutti, ma anche
di non ridursi a considerarla politicamente e storicamente nulla in quanto
privata; occorre invece assumere la propria prospettiva di speranza
nell'unita' della speranza umana. La sua inappropriabilita', dato che
sperare e' rispondere a un bene piu' grande di noi, si traduce sul piano
politico in una costante consapevolezza dei limiti del proprio progetto e in
una disponibilita' a non assolutizzare analisi, mezzi, finalita'. La
speranza non e' un progetto e la sua meta non e' ne' disegnabile ne'
realizzabile semplicemente per opera del nostro pensiero e della nostra
azione. Il compimento della speranza si puo' e si deve preparare, ma non e'
la mera applicazione di un disegno che abbiamo gia' tracciato. La coscienza
di questo limite salvaguarda la capacita' autocritica di ogni soggettivita'
politica e le permette di agire come uno strumento di servizio e non nello
spirito totalitario dell'identita' conclusa ed escludente.
Per la sua natura universale, solidale, ospitale e per l'impossibilita' di
chiuderla in un orizzonte personale privato o in una identita' collettiva
esclusiva, si comprende che la speranza e' un movimento della
responsabilita'. Quando Paolo dice che l'esperienza genera la speranza
mostra non gia' la sua scaturigine prima, bensi' come sorga in noi la
capacita' di sperare, la forza di rispondere sperando a cio', anzi a chi ci
chiama alla speranza. Il senso da cogliere qui, percio', non e' quello che
invita a darsi una speranza per tirare avanti, non e' un invito
all'ottimismo. Il senso sta invece nel comprendere che solo chi nel patire
giunge alla pazienza e si forma cosi' la sua esperienza, matura in se' la
forza della vera speranza. Si puo' esplicitare anche, a riguardo, che chi
spera in questo modo, lasciandosi trasformare da questi passaggi, diventa
una fonte di alimentazione della speranza per altri.
La riprova che la speranza cosi' maturata non e' un'invenzione soggettiva e
arbitraria, ma sorge in risposta all'attrazione di un bene cosi' universale
da riguardare la vita del mondo, sta nel fatto che tale speranza riguarda
ciascuno e tutti, non e' per qualcuno contro qualcun altro perche' questo
vorrebbe dire volere e produrre nuova sofferenza da infliggere a degli altri
che, oltre ogni identificazione distorcente, vanno riconosciuti come
fratelli e sorelle. Ebbene, e' precisamente questa speranza a permettere le
primavere della storia, a illuminare e a suscitare forme di convivenza e di
giustizia prima ritenute impossibili. E infatti se la sofferenza portata con
amore, se la pazienza, se l'esperienza sono tutte forze capaci di generare,
quanto piu' la speranza sapra' generare una realta' liberata.
La speranza sa risvegliare all'impegno politico, permette di vedere un
orizzonte di bene per cui vale la pena mettersi in cammino. Puo' allora
generare un metodo dell'azione storica, come pure uno spirito di convergenza
operativa e feconda, un agire di concerto che non si lascia distrarre o
paralizzare dai narcisismi, dai settarismi, dal culto dell'identita', dal
sentimento di impotenza. La speranza non solo consente di superare la paura
e l'indifferenza, ma vissuta e interpretata onestamente sa ispirare un agire
storico che non incute paura agli altri, che anzi si presenta ospitale nei
confronti di tutti. Perche' mette finalmente a nudo la non necessita' della
violenza e dell'ordine del mondo esistente, lasciando intuire che ha senso
cercare qualcosa di meglio e di molto diverso.
Queste conseguenze politiche della speranza possono essere apprezzate
proprio quando si comprende che essa non va mitizzata, ne' ammette
automatismi e comunque non fa da sola. La speranza vera illumina, rende
visibile e credibile il bene latente, cosi' come quello gia' evidente eppure
non visto. Attrae e mette in cammino. Pero' spetta all'azione
metodologicamente sapiente di svolgere la speranza nelle situazioni date, di
coinvolgere molte persone, di estendere le zone di realta' che gia'
anticipano il bene che essa annuncia. Senza questa azione la speranza si
eclissa, lasciando alcuni nella disperazione e altri nel cinismo che irride
il sogno della realta' liberata.
(Parte prima - segue)

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 240 del 7 ottobre 2008

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