Nonviolenza. Femminile plurale. 200



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 200 del 7 agosto 2008

In questo numero:
1. Monica Ruocco presenta "Il canto perduto" di Laila al-Giuhni
2. Beatrice Busi presenta "La mamma" di Marina D'Amelia e "L'impero del
ventre" di Marcela Jacub
3. Barbara Romagnoli presenta "Le mie cose" di Raffaella Malaguti
4. Felice Piemontese presenta "I cani e i lupi" di Irene Nemirovsky
5. Caterina Ricciardi presenta "Gilead" di Marilynne Robinson
6. Giuseppe Conte presenta "La bastarda di Istanbul" di Elif Shafak

1. LIBRI. MONICA RUOCCO PRESENTA "IL CANTO PERDUTO" DI LAILA AL-GIUHNI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 21 agosto 2007 col titolo "Sulla scena
letteraria dell'Arabia Saudita. Il canto perduto - neelwafurat" e il
sommario "Intitolato Il canto perduto, il primo romanzo saudita approdato in
Italia e' un intreccio iperrealista ambientato nella citta' di Gedda. Opera
della scrittrice Laila al-Giuhni e' stato pubblicato dalla Ilisso per la
traduzione di Francesca Addabbo"]

Sebbene poco conosciuta all'infuori del mondo di lingua araba, la scena
letteraria del Regno dell'Arabia Saudita e' diventata, in quest'ultimo
decennio, tra le piu' interessanti della regione mediorientale. Dopo
scrittori affermati come 'Abd al-Rahman Munif e Ghazi bin Abdelrahman
Qusaybi - emersi gia' negli anni '80 e oggi tra i piu' venduti della
libreria on-line www.neelwafurat.com  con sede in Libano - si e' fatta
strada una nuova generazione di autori i cui lavori riportano l'esperienza
di un paese dove i giovani, soprattutto quelli appartenenti alla elite che
si e' formata all'estero, sono sempre piu' partecipi di un respiro
internazionale; respiro che si scontra, all'interno del regno, con
convenzioni sociali e culturali difficili da sradicare, cui si aggiunge
l'ingerenza delle autorita' censorie, ancora oggi impegnate, pur senza
regole precise, a ostacolare la pubblicazione di opere non gradite. Ed e'
questo il motivo per cui gli scrittori sauditi si affidano per lo piu' a
case editrici libanesi o con sede in paesi europei.
Malgrado questa situazione, il paese pullula di riviste, circoli letterari e
centri culturali molto attivi che, a dispetto della segregazione sessuale,
hanno come protagoniste molte significative presenze femminili. Le autorita'
ministeriali, d'altronde, piu' ancora di quanto non avvenisse in passato,
chiudono un occhio sui libri che arrivano dall'estero o vengono acquistati
on-line, e sulla vendita, nelle librerie del regno, di titoli la cui
pubblicazione era stata precedentemente vietata. Il che non impedisce a
gruppi di reazionari di boicottare determinati volumi: e' il caso del
romanzo La bottiglia di Yusuf Mohaimeed, fatto sparire dagli scaffali. Tra i
libri ancora vietati, oltre quelli di Qusaybi, a lungo ambasciatore in Gran
Bretagna, c'e' il romanzo intitolato Maimuna di Mahmud Trawri, sulla storia
di una famiglia di immigrati africani in Arabia Saudita, che tratta temi
relativi al razzismo e al commercio degli schiavi, vincitore nel 2001 del
premio Sharjah istituito negli Emirati: il romanzo circola in fotocopie,
come era accaduto anche al piu' celebre libro di Munif All'est del
Mediterraneo (Jouvence, Roma 1993).
Ma una vera e propria avanguardia di scrittori sauditi si sta imponendo
anche in altri paesi arabi e, tra questi molte sono le donne, dalla piu'
conosciuta Raja 'Alem fino a Badriyya al-Bashar e a Laila al-Giuhni il cui
romanzo Il canto perduto, considerato una vera e propria pietra miliare
della letteratura femminile saudita, esce oggi in Italia nella traduzione di
Francesca Addabbo per la casa editrice Ilisso di Nuoro (pp. 91, euro 12).
Nata a Tabuk nel 1969, Laila al-Giuhni vive non lontano dalla citta' santa
di Medina, dove insegna alla Facolta' femminile dell'Universita'. Pubblicato
nel 1998, Il canto perduto e' il primo romanzo di una scrittrice saudita
uscito nel nostro paese dove, fino ad ora, la sola possibilita' di gettare
uno sguardo sulla produzione delle donne del regno era affidata alla
antologia Rose d'Arabia (a cura di Isabella Camera d'Afflitto, edizioni e/o,
2001). Quando apparve sulla scena letteraria saudita, questo romanzo ha
subito duri attacchi dalla fazione piu' reazionaria dell'accademia e venne
aspramente criticato, tra gli altri, da una docente della King Abdul Aziz
University, che lo defini' "un oltraggio alla letteratura saudita". Ancora
piu' aspre furono, a suo tempo, le reazioni provocate dalle Ragazze di
Riyadh della giovane Rajaa al-Sanea, di prossima pubblicazione per
Mondadori, ma il romanzo di Laila al-Giuhni e' dotato di un diverso e piu'
elevato spessore, sia per quanto riguarda la scrittura sia per il tema
trattato.
La protagonista, Saba', e' una intellettuale in conflitto con se stessa e
con il contesto sociale, descritta mentre si trova ad affrontare due prove
particolarmente ardue per una donna del suo paese: i rapporti
prematrimoniali e l'aborto. Si definisce "solo una donna che e' sfuggita
alla sorveglianza e si e' addentrata nel paradiso prima che Dio lo
concedesse alle altre creature". E il paradiso della sua vita diventa un
"Paradiso perduto" (questo il titolo arabo) allorche', dopo un suo sporadico
incontro con Amir, uomo destinato alla sua amica Khalida, scopre di essere
incinta. Nonostante lo spunto non sia tra i piu' originali, il romanzo
rivela una sua singolarita', non tanto relativamente al panorama della
letteratura araba, ma grazie all'iperrealismo, a tratti violento, con cui
Laila al-Giuhni decide di narrare la scelta finale e definitiva di Saba'.
Significativo e' anche il fatto che l'ambientazione scelta dalla scrittrice
non sia Riyadh ma Gedda, capitale commerciale del paese, citta' con la quale
la protagonista si identifica totalmente: "Devi scrivere due parole su
Gedda, sprofondata nelle acque del mare, su Gedda distesa sulle orme che Eva
ha lasciato su questa sabbia da tempo immemorabile". Come suggerisce in una
nota Francesca Addabbo, competente traduttrice del romanzo, l'autrice si
riferisce alla leggenda secondo la quale Eva sarebbe stata sepolta proprio
nelle vicinanze di Gedda; la sua tomba venne poi distrutta dalla dinastia
saudita nel 1928. Saba', dunque, intraprende la sua faticosa e vana lotta
per la liberta' sentimentale e sessuale, proiettando il suo destino su
quello della citta': "Gedda e' una donna come me, solo che lei e' molto piu'
furba. Non affida le sue chiavi a chiunque. Ha molti amanti, ma ognuno di
essi sa bene di non conoscerla completamente".
Uno tra i motivi di interesse introdotti da Laila al-Giuhni nel suo romanzo
sta nell'inserire la vicenda di Saba' in un contesto politico dominato
dall'americanizzazione del paese e dalla corsa sfrenata al denaro che "sta
in fondo al mare, sulla riva, per le strade e negli edifici imponenti, e che
non si ferma davanti a nulla". Denaro responsabile del fatto che la morte e'
ovunque: e' "sulle sponde del Tigri, volteggia sul sud del Libano, sopra la
striscia di Gaza, aleggia nei cieli del Cairo e di Riyadh". E, ancora, alla
libido legata al denaro e' imputabile il fatto che nel regno si cominci a
parlare di terrorismo e di estremismo, parole una volta proibite e ormai
usate pubblicamente. L'unica strada per sfuggire a questa follia, tanto per
Saba' quanto per la sua autrice, e' nei sentimenti, nei romanzi e alla fin
fine nei sogni, inevitabilmente infranti.
Lo scorso aprile, proprio a Gedda, e' stato presentato il secondo romanzo
che Laila al-Giuhni ha scritto dopo dieci anni dall'uscita del Canto
perduto: il titolo e' Jahiliyya, termine che indica in arabo l'epoca
preislamica, e fa riferimento al principio secondo cui l'Islam degli esordi
sanci' l'abolizione di qualsiasi discriminazione razziale. Sullo sfondo
dell'intreccio, dunque, la denuncia del razzismo tuttora presente nelle
societa' musulmane, e in primo piano la relazione tra una donna saudita
dalla pelle chiara e un uomo di colore. Anche la diffusione di questo libro,
di cui il ministero della cultura e dell'informazione non ha mai permesso la
vendita pur non avendolo ufficialmente vietato, e' emblematica
dell'ambiguita' del paese: una ambiguita' che ha reso al tempo stesso
possibile l'acquisto del romanzo durante la Fiera di Riyadhda e il
persistere della sua irreperibilita' in libreria.

2. LIBRI. BEATRICE BUSI PRESENTA "LA MAMMA" DI MARINA D'AMELIA E "L'IMPERO
DEL VENTRE" DI MARCELA JACUB
[Dal quotidiano "Liberazione" del 5 gennaio 2006 col titolo "Il ventre
materno conteso da Chiesa e Stato" e il sommario "Il saggio di Marina
D'Amelia e quello di Marcela Jacub raccontano la storia della
rappresentazione della maternita': un discorso pubblico in cui dio e legge
convergono nel definire e stabilire regole"]

Con la modernita' il ventre materno e' diventato uno dei campi di
competizione preferiti negli esercizi di biopotere di Stato e Chiesa, molto
interessati al disciplinamento e al controllo di corpi e anime.
Se, come ha suggerito Benedetto XVI, e' vero che lo "sguardo benevolo e
amoroso degli occhi di Dio" si posa sull'essere umano fin da quando e'
ancora informe nell'utero materno, e' pero' indubbio che su quella "piccola
realta' ovale e arrotolata" si sono gia' posati anche gli occhi del grande
Leviatano, il "Dio mortale". L'inquietante consapevolezza delle donne di
essere state oggetto di questo incrocio di sguardi indiscreti, viene
accresciuta dagli interessanti testi di due storiche, Marina D'Amelia e
Marcela Jacub.
Due modi di fare la storia della maternita' e della rappresentazione del
materno molto diversi tra loro ma che insieme ci raccontano efficacemente
come la Legge e il discorso pubblico convergano nello sforzo incessante di
definire non solo regole, comportamenti e codici morali delle madri, ma
anche nel giudicare e stabilire che cosa sia la maternita'. Insomma se "Dio
ci scruta e ci conosce", anche lo Stato fa piuttosto sul serio.
In Italia la storia delle donne si e' occupata del tema molto proficuamente,
producendo ricerche e studi importanti tra le quali la Storia della
maternita' pubblicata nel 1997 e curata dalla stessa D'Amelia per Laterza e
Madri. Storia di un ruolo sociale, un testo curato da Giovanna Fiume e
pubblicato da Marsilio nel 1995. Gia' allora, dieci anni prima del
referendum sulla procreazione medicalmente assistita e degli attacchi
scomposti alla legge sull'interruzione di gravidanza, l'introduzione di
Giovanna Fiume delineava i contorni della posta in gioco. "Attorno alla
maternita' si sta svolgendo, in questo scorcio di millennio, una dura
battaglia che vede coinvolti molti e agguerriti combattenti. (...) Gerarchie
ecclesiastiche, governi, scienziati, giuristi e magistrati, persino
organismi internazionali, combattono, prima che per imporre il proprio punto
di vista per orientare scelte demografiche, politiche sociali o altro, sul
piano delle rappresentazioni culturali che, a ben guardare, fanno perno
attorno alla delicata questione della riproduzione della specie. E, dunque,
alle donne che biologicamente sono predisposte a tale compito".
Recentemente, Marina D'Amelia con il suo libro La mamma pubblicato da
Laterza (pp. 331, euro 14,50), ci ha offerto un altro notevole contributo,
dimostrando come non solo nel "maternalismo fascista" ma anche in eta'
liberale la rappresentazione pubblica della maternita' sia stata
un'importante tecnologia discorsiva nella costruzione dell'identita'
nazionale.
Infatti all'origine del "nation building" all'italiana emerge quella figura
della "madre eroica e sacrificale" che avra' una lunga egemonia come
rappresentazione idealtipica. D'Amelia ne descrive assestamenti e
adeguamenti anche attraverso schizzi biografici e vissuti familiari di donne
esemplari per la cultura e la societa' italiana, dal Risorgimento alla
Resistenza: il ruolo pubblico delle "madri patriottiche" come Maria Mazzini
Drago e Adelaide Cairoli, o lo scambio polemico di lettere tra Sibilla
Aleramo e la fondatrice dell'Unione femminile Ersilia Majno sul libro Una
donna, ma anche il ruolo dell'esaltazione della figura di Rosa Maltoni, "una
donna all'antica", nella mitopoiesi fascista del Duce.
L'impero del ventre della storica e femminista francese Marcela Jacub,
tradotto in Italia da Ombre corte (pp. 214, euro 17,50), ci riconduce invece
all'azione direttamente intrusiva dello Stato nei legami genitoriali e il
suggestivo titolo del libro si riferisce all'autoevidenza di cui pare dotato
il giudizio di senso comune che la madre di un bambino sia colei che l'ha
partorito. In realta', sul piano giuridico si tratta di un'acquisizione
recente e per imporla "e' stato necessario ricorrere a mezzi estremi:
sorvegliare le gravidanze, mettere in galera gli 'impostori', proibire
determinati accordi, strappare i bambini dalle mani degli usurpatori; in
breve far capire che la questione biologica del parto e' un vero e proprio
affare di Stato".
Ripercorrendo i mutamenti del diritto francese dall'Ancien regime ai giorni
nostri e ricostruendo lunghi e ingarbugliati processi che sono divenuti
anche clamorose vicende di cronaca, Jacub ci mostra come il "voyeurismo
giudiziario" abbia preso corpo in una vera e propria "polizia della
maternita'". Se il Codice napoleonico si basava sull'istituto del "possesso
di stato" ed e' stata la riforma francese del 1972 ad instaurare il
cosiddetto "impero del ventre" fondato sul parto, il regime di verita' che
governa la legittimazione dei legami di filiazione e' in continua
ridefinizione e la sfida lanciata dalle nuove tecnologie riproduttive
all'antico adagio "mater semper certa est" ha complicato di molto la
questione.
Ma uteri in affitto e contratti di gestazione, donazioni di ovuli e di
sperma, fanno semplicemente da lente d'ingrandimento su un dato storico: la
maternita' lungi dall'essere una relazione naturale e' una "costruzione
giuridica come un'altra". Del resto, come sottolinea la studiosa francese,
"il fascino del diritto sta nella sua capacita' di mostrarci come cio' che
ci sembra la cosa piu' evidente e personale poggi in realta' su impalcature
istituzionali complesse, impalcature che e' sempre possibile smontare e
rimontare".
Il suggerimento suona attualissimo nel clima politico italiano e mette
sull'avviso ad intraprendere battaglie limitandosi alla difesa di leggi
dello Stato, piu' o meno laico che sia, soprattutto se in gioco c'e' la
liberta' delle donne.
La lezione che ci viene dalla storia e' che il piano delle rappresentazioni
simboliche e quello giuridico sono entrambi continuamente coinvolti
nell'irregimentazione dei comportamenti sociali. Si tratta dunque di
concentrare l'azione politica sulla potenza affermativa della cultura e
dell'etica delle donne, sedimentate nei decenni ma sempre in continua
interrogazione per non lasciarsi mai (sor)prendere dalle tecnologie del
potere.

3. LIBRI. BARBARA ROMAGNOLI PRESENTA "LE MIE COSE" DI RAFFAELLA MALAGUTI
[Dalla rivista elettronica "Aprile on line" del 22 dicembre 2005 col titolo
"Non solo sangue. Ovvero mestruazioni e dintorni" e il sommario "Editoria.
Un libro di Raffaella Malaguti sul ciclo mestruale, vissuto da milioni di
donne ogni mese ma di cui non si parla mai"]

Di alcune cose non si parla. Cosi' ci viene insegnato da piccole,
specialmente se si tratta delle "nostre cose", quelle che arrivano solo a
noi donne una volta al mese, circa, che quando arrivano la prima volta ci
fanno diventare "signorine", anche se siamo ancora bambine nel corpo e nello
spirito e abbiamo tanta voglia di giocare alle bambole e rotolarci a terra
con i nostri amichetti maschi.
E' storia vecchia, sono duemila anni e piu' che di queste cose, benedette e
maledette assieme, non si dovrebbe parlare. Raffaella Malaguti lo fa, oddio
che scandalo - di questi tempi poi -, e ne parla in modo divertente e
ironico. In Le mie cose. Mestruazioni: storia, tecnica, linguaggio, arte e
musica (Bruno Mondadori, 13 euro, 2005) cerca di spiegare e descrivere cosa
e' successo in questi duemila anni. Non entra nel dettaglio, e' certamente
un libro didascalico e divulgativo il suo, ma fa bene leggere questo piccolo
ma denso libro: solleva dei veli, sollecita ricordi e stimola riflessioni.
Malaguti, giornalista di professione, scrive in modo chiaro e diretto, non
si perde in elucubrazioni velleitarie e quando dice la sua lo fa con lo
sguardo di chi e' abituata per mestiere a interrogare la realta' e a offrire
risposte con dati e testimonianze.
Per questo il percorso seguito dall'autrice si muove dalla storia e la
letteratura per approdare, con un finale riuscito alla perfezione, all'eco
delle note di una canzone, Blood in the boardroom - Sangue in consiglio di
amministrazione, della straordinaria Ani Di Franco.
Gia', perche' e' di sangue che si parla in questo libro e di tutti gli
annessi e connessi e conseguenti ricadute simboliche in cui e' stato
precipitato. Di un sangue che significa dolore, gioia, turbamento ma anche
impurita', inferiorita', maleficio, stregoneria... Insomma, una storia,
quella delle nostre cose, che va di pari passo con quella delle donne in
generale, relegate per parecchio tempo ad essere comparse e non protagoniste
del discorso ufficiale.
Eppure, e' proprio l'aspetto linguistico, su come e' stato costruito il
discorso sociale attorno alle nostre cose, quello che piu' rimane impresso
della lettura. Come gli eschimesi hanno tanti modi per nominare la neve,
elemento primario nella loro sopravvivenza, cosi' molteplici e diversissimi
sono i modi (singole parole o complesse perifrasi) per nominare queste
strane cose che dovrebbero riguardare solo le donne. Malaguti racconta di un
museo virtuale delle mestruazioni (www.mum.org), visitando il quale veniamo
a scoprire che negli Stati Uniti, patria del museo, per definire il ciclo si
usa Surfing the crimson wave (fare surf sull'onda rossa) oppure i piu'
familiari aunt Martha, aunt Rosie o aunt Flo (gioco di parole con flow che
significa flusso). In Gran Bretagna e in Australia si usa l'espressione I've
got the painters (ho gli imbianchini a casa), in Brasile "il marziano" o
"visitante", in Canada si dice I'm occupied (sono occupata) o The moody
monthly (l'umore mensile), nella Repubblica Ceca si usa il politicizzato
"Primo maggio" e l'elfico "fenomeno delle fragole", simile al finlandese
"giornate del mirtillo rosso", cosi' come in Cina si dice "piccola sorella
rossa", "il generale rosso ha bussato alla porta" e il piu' bello "acque
lunari".
Insomma la fantasia non manca e dovunque andremo troveremo un eufemismo, una
metafora, una immagine che rimanda a questa esperienza vissuta da milioni di
donne, spesso, ancora oggi, nella totale ignoranza sul che fare e su una
conoscenza vaga del proprio corpo.
Malaguti non si sofferma solo su un ragionamento letterario-linguistico nel
quale riporta anche le mutazioni avvenute con la rivoluzione culturale del
femminismo e le ricadute sulle nuove generazioni, ma affronta anche le cifre
di un fenomeno che e' diventato business e pubblicita' (sul tema della
comunicazione pubblicitaria molto interessanti sono i brani di interviste
riportate dall'autrice e il cambiamento dei messaggi utilizzati per vendere
i prodotti che riguardano le mestruazioni).
Chi ha mai pensato quanti sono gli assorbenti che utilizza una donna in
media nella propria vita? O che nel 1999 in Gran Bretagna sono stati gettati
nel wc ogni giorno circa 2,5 milioni di tamponi, 1,4 milioni di assorbenti
esterni e 700.000 salvaslip? Che impatto ha tutto questo sull'ambiente se si
pensa che, scrive l'autrice, "per fabbricare i 18 miliardi di pannolini per
bambini venduti ogni anno nel mondo si utilizzano 82.000 tonnellate di
plastica (che non sara' mai riciclata), 1,5 milioni di tonnellate di polpa
di legno (anch'essa non sara' mai riciclata) e 14 miliardi di litri di olio,
senza considerare le migliaia di megawatt di energia impiegata per la
produzione".
E Malaguti ci dice anche che questo e' solo un esempio per immagine del
business intorno a assorbenti, tamponi, salvaslip ecc. visto che su questo
non c'e' uno studio accurato. Come poco si sa della composizione con cui
vengono confezionati questi prodotti per le donne. Ma state tranquille,
almeno una notizia e' smentita: quella, arrivata attraverso una mail girata
a lungo in rete, che parlava della presenza di amianto. A quanto indagato
finora non c'e' traccia. Ma questo non rassicura del tutto le sostenitrici
della dea madre, che fanno della "naturalita'" delle mestruazioni la loro
religione. Accanto ai loro rituali, in questo libro incontriamo anche le
mestruo-attiviste e le cyberfemministe, chi sostiene l'uso del tampone e chi
lo rifugge come la peste, chi ha disegnato l'assorbente leopardato e chi
preferisce i filtranti in garza.
Malaguti ha trovato un modo originale e diverso per parlare di sangue e
dintorni, senza risposte definitive ma con domande sane e intelligenti.

4. LIBRI. FELICE PIEMONTESE PRESENTA "I CANI E I LUPI" DI IRENE NEMIROVSKY
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "L'Unita'" del 16
luglio 2008 col titolo "Il romanzesco enigma di Irene Nemirovsky"]

Il "caso Irene Nemirovsky" si arricchisce di sempre nuovi elementi, man mano
che la pubblicazione delle sue opere da parte della casa editrice Adelphi va
avanti (sono finora apparsi cinque romanzi e un racconto lungo).
Tutto comincio', come molti ricorderanno, con la pubblicazione della Suite
francese (2004), un bellissimo romanzo tragico-picaresco sull'invasione
nazista della Francia, best seller mondiale, che riporto' all'attualita' il
nome di questa scrittrice fino a quel momento del tutto dimenticata. Nata a
Kiev nel 1903, figlia di un ricco banchiere rifugiato in Francia allo
scoppio della Rivoluzione, la Nemirovsky esordi' giovanissima nelle lettere,
ottenendo subito un vivo successo con romanzi come David Golder. Era ebrea,
ma le sue descrizioni del mondo ebraico e dei personaggi che lo popolavano
erano talmente crude e impietose da attirarle l'accusa di antisemitismo.
Del resto sembra accertato (come dice la biografia di Olivier Philipponnat e
Patrick Lienhardt recentemente pubblicata in Francia) che abbia collaborato
con vari pseudonimi - durante l'occupazione nazista - a giornali d'estrema
destra (ma anche a uno di sinistra). In piu', c'e' una conversione in
extremis al cattolicesimo, fatta solo ed esclusivamente (la Nemirovsky era
agnostica) per mettere al riparo se stessa e la sua famiglia dai pericoli
incombenti. Per tragica ironia della sorte, tutto questo non le impedira' di
essere arrestata dalla polizia francese nel luglio del 1942 ed essere
deportata ad Auschwitz, dove morira' dopo qualche mese.
Il testo della Suite francese e' rimasto per decenni in un baule, fino a
quando le figlie della scrittrice hanno trovato il coraggio di portarlo alla
luce e di darlo alle stampe. E ovviamente, dopo il successo mondiale del
romanzo, gli editori si sono buttati a pesce sui libri pubblicati in
precedenza dalla scrittrice, che negli anni Trenta (dopo l'esordio avvenuto
nel '29) era gia' considerata molto piu' di una promessa delle lettere
francesi.
Una conferma ulteriore delle sue qualita' viene dalla pubblicazione, sempre
da parte di Adelphi, di un romanzo intitolato I cani e i lupi, apparso in
Francia nel 1940 (la traduzione e' di Marina Di Leo, pagine 234, 18,50 euro)
e che e' tra i piu' significativi tra quelli pubblicati dalla scrittrice.
La prima edizione del libro recava un'avvertenza dell'autrice in cui si
sottolineava il fatto che il romanzo non poteva non essere "una storia di
ebrei" e che lei, convinta che "in letteratura non ci sono argomenti tabu'",
aveva descritto l'ambiente a cui del resto apparteneva "con i suoi pregi e i
suoi difetti". Dichiarazione ineccepibile, e sciocco sarebbe (come pure
qualcuno ha fatto) affrontare i cani e i lupi con argomentazioni
extra-letterarie. Tutti i romanzi della Nemirovsky si svolgono del resto
nell'ambiente che volente o meno era il suo, ed hanno protagonisti che sono
spesso ricchi (e sordidi) affaristi, spregiudicati banchieri, giovanotti
ambiziosi e senza scrupoli, donne fatue e capricciose, preoccupate solo
della propria bellezza e dei propri gioielli piuttosto che dei drammi che le
circondano e talvolta le sfiorano.
Qui, ne I cani e i lupi, siamo a Kiev negli anni precedenti la Rivoluzione,
e gli ebrei che vi risiedono sono suddivisi in tre aree distinte e distanti
tra loro anni-luce: i ricchi in collina, in grandi e lussuose ville che
testimoniano la loro riuscita negli affari, i poveri, anzi "i dannati",
nella citta' bassa, "tra le tenebre e le fiamme dell'inferno". Al centro i
comuni mortali, piccoli commercianti, mediatori, medici, farmacisti, sempre
in bilico tra l'ascesa e la caduta.
Ada, la protagonista del libro, e' la bambina, figlia di un modesto
intermediario che vive men che modestamente, convinto che la "condizione
naturale" dell'uomo e' quella di "spargere molto sudore per guadagnarsi un
tozzo di pane". Un giorno Ada vede un bambino della citta' alta, ricco, ben
vestito, riccioli bruni, grandi occhi splendenti, e sa - oscuramente ma con
certezza assoluta - che sara' quello l'uomo della sua vita, colui che amera'
per sempre di un amore assoluto e pressoche' indifferente a cio' che la vita
riservera' ad entrambi.
Si rivedranno in circostanze drammatiche - uno dei periodici pogrom di cui
gli ebrei erano vittime - e poi, molti anni dopo, a Parigi, dove le
rispettive famiglie si sono trasferite. Lui, Harry, erede di una colossale
fortuna, sposa la figlia di un banchiere francese, lei, Ada, sposa senza
amarlo l'intraprendente cugino. Ma i loro destini sono destinati a
incontrarsi, e a fondersi, per un certo periodo.
Poi, le cose si mettono in modo tale, da indurre Ada a rinunciare per sempre
al suo amore, talmente assoluto del resto da autoalimentarsi quali che siano
le circostanze esterne che lo condizionano.
E' uno strano libro, quello della Nemirovsky: se la parte iniziale sembra
debitrice del romanzo naturalista francese in versione yiddish, il seguito
e' animato da preoccupazioni del tutto moderne, in cui la psicoanalisi ha un
ruolo non secondario. Sta proprio in questo contrasto uno degli elementi di
fascino del romanzo, che peraltro da' il meglio di se' nella descrizione,
spesso crudele, dell'ambiente alto-borghese parigino che e' quello che la
scrittrice meglio conosceva, e rispetto al quale era animata da sentimenti
decisamente ambivalenti: attrazione e repulsione profonda, fino all'odio
(qualcuno ha parlato di "odio di se'" come caratteristica tipica di un certo
ebraismo).
E se quella di Harry e' una figura tutto sommato scialba, splendido e'
invece il personaggio di Ada, indifferente alle convenzioni e ad ogni idea
di riuscita sociale e di carriera artistica (dipinge).
A caratterizzare inoltre il libro e' quel tono febbrile tipico della
Nemirovsky, di chi teme che il tempo a disposizione sia troppo scarso
rispetto all'urgenza delle cose da dire, delle storie da raccontare.

5. LIBRI. CATERINA RICCIARDI PRESENTA "GILEAD" DI MARILYNNE ROBINSON
[Dal supplemento settimanale del quotidiano "Il manifesto" "Alias" n. 21 del
24 maggio 2008 col titolo "Gilead di Marlynne Robinson, un romanzo
controcorrente (premio Pulitzer 2003). Fede scrittura gelosia" e il sommario
"1956, Iowa: nello stile dei padri Puritani del New England, questa lunga
lettera-testamento al figlio bambino del reverendo Ames, anziano pastore
congregazionalista, e' soprattutto un dialettico pellegrinaggio 'teologico'
nell'America contemporanea"]

Nel libro della Genesi "Gilead" designa un cumulo di pietre nella regione di
Galaad, la terra a est del Giordano (oggi Giordania), il fiume dove fu
battezzato Cristo. Quella stele, o "mucchio di testimonianza", segnava il
patto di pace fra Giacobbe e Labano, al termine della loro turbinosa
relazione. In Geremia Gilead e' invece il luogo in cui si trova un "balsamo"
salvifico, capace di guarire ogni male. Geremia e' profeta di guerre e
distruzioni, eppure quel balsamo e' indicato come l'antidoto utile a
preservare pace e salvezza in tempi di difficolta': "Non v'e' piu' balsamo
in Gilead?", egli lamenta. E qualche passo piu' avanti esorta: "Sali a
Gilead a prendervi del balsamo". Il nome del luogo e il balsamo (una
semplice resina) daranno voce a uno "spiritual" degli schiavi afroamericani,
"There Is a Balm in Gilead" ("C'e' un balsamo a Gilead, / per sanare la
ferita"), ma entrambe le letture (l'atto di testimonianza, la salvezza o
speranza) si radicano nella tradizione protestante americana. Puo' capitare
di trovarne menzione, magari con funzioni diverse, in opere di Stephen King,
Ken Kesey, Eldridge Cleaver, Margaret Atwood, Mark Twain e persino nel Corvo
di E. A. Poe. Nella nostra cultura cattolica la parola non rievoca nulla.
Marilynne Robinson, esordiente prodigio nel 1980 con il romanzo Housekeeping
(Padrona di casa, Serra e Riva, 1988), libro vincitore del Pen-Hemingway
Award, ha lasciato trascorrere molto tempo prima di tornare a far parlare di
se' con due polemiche raccolte di saggi e un secondo acclamato romanzo,
Gilead, premio Pulitzer 2003, ora in italiano (traduzione di Eva Kampmann,
Einaudi, pp. 257, euro 17,50).
Anche qui siamo a Gilead, che questa volta e' una cittadina rurale nel
piatto Iowa, fondata a meta' Ottocento da un gruppo di abolizionisti per
accogliere gli schiavi fuggiaschi dal Kansas. E' dunque la citta' del
balsamo. Cento anni dopo, nel 1956 (l'anno dell'incidente di Montgomery,
Alabama, che, con Martin Luther King, porto' alla ribalta Rosa Parks,
l'attivista nera per i diritti civili; l'anno della campagna elettorale per
Eisenhower), la nuova Gilead offre al protagonista del romanzo, John Ames,
l'anziano pastore congregazionalista, discendente di altri pastori tutti
"John Ames", la piattaforma da dove rilasciare una lunga
lettera-testimonianza a un figlio ancora bambino, del quale egli tace il
nome (non sappiamo infatti chi potra' diventare), come tace il nome della
giovane moglie, dal passato oscuro, forse poco esemplare, ma ormai, a quanto
pare, redento. Prossimo alla morte, Ames sa che non potra' guidare il figlio
sulla strada della vita, come fecero con lui suo padre e il nonno. Ecco la
ragione di questo suo unico lascito, redatto nella consapevolezza di
abbandonare una Agar (la brunita schiava egiziana della Bibbia) e un Ismaele
nel deserto.
Il romanzo si impianta dunque come un monologo che, pur all'interno della
cronaca genealogica della famiglia Ames e della gloriosa storia dimenticata
della citta', e' inteso inizialmente quale sermone autobiografico, una sorta
di confessione pubblica dall'alto di un pulpito nello stile dei vecchi padri
puritani del New England. Quella lettera, tuttavia, e' destinata a una
lettura nel futuro, nell'eta' adulta del figlio (e dei lettori di oggi), il
quale, a sua volta, avra' attraversato - come si puo' immaginare - altre
rivoluzioni della cultura americana.
Ma la stesura dell'atto di testimonianza del reverendo, influenzata e
turbata dal corso dei pochi eventi dei suoi ultimi giorni (dalla primavera
all'autunno), prende a trasformarsi in un pellegrinaggio piu' intimo dentro
il suo cuore e la mente, un'indagine intellettuale oltre che spirituale,
dialettica e problematica, ancora attratta dal mondano, eppure volta a
soppesare la giustezza del proprio operato, il rapporto controverso con i
progenitori, il fardello dell'eredita' famigliare e della teocrazia
fondatrice della nazione, il valore della fede, il significato del
cristianesimo di ieri e di oggi.
Sebbene riprenda, a livelli alti, la tradizionale tendenza a una periodica
reviviscenza religiosa della gente d'America, Gilead e', nel panorama
contemporaneo, un romanzo controcorrente. Ciononostante, l'analisi che
Robinson fa stillare dalla voce e dalla penna - talvolta piatte e coriacee,
e punteggiate da un domestico umorismo - del reverendo Ames ha tutte le
qualita' di un'attenta riflessione teologica che, partendo da un Calvino
addolcito ("ciascuno di noi e' un attore su una scena e Dio e' il
pubblico"), si avventura in Feuerbach, Karl Barth, Bernanos, Dietrich
Bonhoeffer, Gide e gli esistenzialisti francesi, pensatori atei e credenti,
per affrontare cavilli eterni come la distanza fra l'umano e il divino, il
finito e l'infinito (lo Iowa, in piena prateria, si presta bene alla
difficile ricerca di orizzonti), la grazia e la predestinazione, il peccato
e la redenzione, la differenza fra creatura e creatore, l'uomo e Dio, come
pure fra il figlio e il padre: Abramo e Isacco, e Ismaele. E su quest'ultimo
rapporto si innesta la scarna trama lungo due diversi percorsi.
Da un lato, attraverso la rappresentazione della guerresca figura del nonno,
collaboratore di John Brown nel Kansas insanguinato e sanguinario, e della
figura del padre, pacifista fino al punto di unirsi ai Quaccheri, si
ricostruiscono alcuni momenti della storia della Guerra Civile e
dell'abolizionismo; dall'altro, in una nuova intramatura storica (la guerra
mondiale, quella di Spagnola e le depressioni economiche: segni e castighi
divini per aver l'uomo indugiato nella cultura della guerra), l'epistola che
si va scrivendo iniziera' a sollecitare la nostra attenzione nel sospetto di
un intrigo capace di causare i tormenti dell'ultima debolezza terrena di
Ames, quella che ce lo rende piu' umano: la gelosia.
Un espediente ben usato da Robinson al fine di insistere sul nodo
padre-figlio e al contempo animare la severita' dottrinale del romanzo. La
scena pastorale dell'addio e della consegna testamentaria di Ames si scuote
infatti quando a Gilead ritorna John Ames Boughton, figlio di un collega
presbiteriano e figlioccio, o primo figlio, come insiste il nome, di John
Ames. Jack Boughton, "prodigo" o incallita pecora nera, contribuisce a
riproporre i temi dell'integrita' genealogica e delle diversita' fra le
generazioni, generazioni formate, oltre che dal sangue, dalla storia che si
trovano a attraversare. Forse si tratta di un monito per lo stesso Ames su
quello che, nonostante l'eredita' posposta del decalogo, potra' diventare il
proprio figlio nel futuro. Ma Jack Boughton, in apparenza, non e' tornato a
Gilead per assumersi, alla morte del reverendo, il ruolo paterno sposandone
la moglie Lila (e' lui che per una volta ne pronuncia il nome), bensi' per
poter trovarvi presto rifugio (come gli schiavi nell'Ottocento) con la sua
famiglia: una moglie di colore e un figlio mulatto. Pochi Stati, nel 1956,
accettavano la legalita' dei matrimoni interrazziali. Benedicendo il reprobo
e ripudiato Jack Boughton, l'Ismaele nel deserto, Ames conclude serenamente
il suo percorso con la convinzione che "la paternita' e' di Dio", e da lui
dipende fare del proprio figlio "un uomo coraggioso in un paese coraggioso".
Una simbologia religiosa sostiene la tessitura del quotidiano morire, e
rivivere attraverso la scrittura e la gelosia, di John Ames. Il battesimo,
l'eucarestia, la benedizione sono atti sacramentali che si ripetono in una
varieta' di situazioni: epifanie, sprazzi luminosi, volti a far scintillare
la fede, e le sorprese liriche della scrittura. Sono questi i balsami della
Gilead americana, utili magari a curare anche i mali e le ferite di guerra
del paese di oggi.
Ma e' sull'acqua, battesimale e lustrale, che si insiste con maggiore
frequenza, quasi a voler assentire con Feuerbach, che il reverendo aveva
letto da giovane a dispetto di suo padre, e che ora, in fin di vita, cita:
"L'acqua e' il liquido piu' puro, piu' limpido, piu' trasparente: in grazia
di queste sue qualita' naturali e' l'immagine della purezza immacolata dello
spirito divino [...] per le sue qualita' naturali viene santificata,
prescelta quale organo o strumento dello Spirito Santo".
La Trinita' si ricompone cosi' attraverso le parole dell'ateismo. Ma il
sentimento religioso, forse vuole dirci Robinson, non ha sette ne'
ideologie, ne' appartiene ai padri perche' sia loro prerogativa trasmetterlo
ai figli.

6. LIBRI. GIUSEPPE CONTE PRESENTA "LA BASTARDA DI ISTANBUL" DI ELIF SHAFAK
[Dal quotidiano "Il giornale" del 20 luglio 2007 col titolo "Raccontare
Istanbul con un tocco feroce e sensuale" e il sommario "Nel romanzo di Elif
Shafak due ragazze in bilico tra tradizione e modernita'"]

Molta della letteratura di oggi e' impastata da sicure mani femminili. Le
nipoti delle donne che nel mondo passavano il tempo a fare il pane e le
pietanze piu' succulente per i loro uomini, oggi fanno romanzi, e mettono
nella ricetta la sensualita', la concretezza, la crudelta' di cui Dio ha
fornito ad abundatiam le discendenti di Eva. Noi ci perdiamo spesso in giri
di intellettualismo astratto, in propositi cervellotici, in utopie generose
ma folli. Le donne sanno molto piu' di noi quello che vogliono. Per loro
raccontare e' spesso un riscatto, l'acquisizione di una identita' nuova, una
piena e decisa presa di coscienza di se' e del mondo.
Questo e' ancora piu' chiaro per donne nate in societa' dove sono state a
lungo oppresse, e dove rischiano di esserlo ancora. Li' ci vuole coraggio. E
il coraggio, al femminile, non e' una virtu' eroica e guerriera come per
l'uomo, e' una necessita', naturale, dolce e straziante come lo e' dare alla
luce un bambino.
Facevo queste riflessione leggendo il romanzo di Elif Shafak, La bastarda di
Istanbul (Rizzoli, pp. 388, euro 18,50). L'autrice e' turca, ha trentasei
anni, vive oggi tra Istanbul e Tucson, in Arizona, dove insegna
all'Universita'. E scrive in inglese un libro che sa di sesamo e di
pistacchi, di sangue e di abominio, di nichilismo e di amore, una saga
familiare ed epica che fonde i grandi eventi della storia con i piccoli
eventi della famiglia, le vicende delle anime con quelle dei corpi.
Come l'autrice, anche il libro si divide tra Istanbul e l'Arizona. E'
Istanbul pero' che fornisce il materiale piu' meravigliosamente vivo con il
suo fascino pieno di sedimenti, con la sua aria di frontiera decisiva tra
Occidente e Oriente, con la sua vita metropolitana e il suo profilo irto di
moschee, con il suo essere una citta' di mare, di riflessi, di gabbiani, di
sogni. Delle due ragazze protagoniste, una appartiene a una famiglia turca,
l'altra a una famiglia armena. Si sa quale odio divide le due comunita', e
come pesi sui turchi il ricordo di una persecuzione mai confessata. Elif
Shafak affonda il coltello in questa piaga nazionale. Quando cita in
epigrafe al libro l'inizio di una fiaba turca che e' anche l'inizio di una
fiaba armena, questa giovane donna mostra di comprendere come il patrimonio
di miti, leggende, poesia affratelli sempre popoli che il resto, politica,
economia, eserciti, ideologie, fanno di tutto per dividere. La ragazza
turca, Asya, la bastarda, e' una strepitosa nichilista ribelle figlia
illegittima di una madre ancor piu' ribelle, una che ha sfidato con
minigonna e piercing la realta' in cui si e' trovata a vivere. L'altra,
Armanoush, e' studiosa e disciplinata, figlia di un'americana dell'Arizona e
di un armeno della diaspora finito con la famiglia a San Francisco.
I ritratti femminili sono magistrali, in queste pagine. Asya, che ignora
l'identita' del padre, vive in un universo interamente femminile, tra una
bisnonna, una nonna, le zie e la madre, tutte colte mirabilmente nei loro
caratteri spesso stravaganti, sullo sfondo di sapori e odori di spezie e di
cibo tradizionale. Ma lei della tradizione se ne infischia. Frequenta il
Caffe' Kundera, che nessuno sa perche' si chiami con il nome del grande
scrittore, si fa un amante, prende dall'Occidente quello che ha di piu'
distruttivo e vincente, il non credere in nulla. Armanoush al contrario e'
una lettrice appassionata, un'anima che cerca di conoscersi nei suoi valori,
e se finisce a Istanbul e' per riandare sulle tracce della nonna armena che
a Istanbul viveva prima che scoppiasse la terribile, disumana persecuzione.
Il romanzo e' ampliamente, felicemente matriarcale. La stessa scansione in
capitoli che hanno per titolo ingredienti della sapientissima cucina e
pasticceria turca e' un colpo di genio inventivo, che soltanto una donna
poteva avere. Dalla cannella alle scorze d'arancia, dalle nocciole tostate
all'uva passa, dalla vaniglia ai semi di melagrana, sono stato man mano
sedotto da questa narrazione cosi' aromatica e cosi' sensuale. E l'ultimo
capitolo, intitolato Cianuro di potassio, assegna al veleno per eccellenza
inodore il compito di ricordarci che le tragedie al mondo sono sempre parto
della violenza cieca e astratta, insapore, dei figli di Adamo.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 200 del 7 agosto 2008

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