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Nonviolenza. Femminile plurale. 200
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 200
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 7 Aug 2008 10:03:41 +0200
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 200 del 7 agosto 2008 In questo numero: 1. Monica Ruocco presenta "Il canto perduto" di Laila al-Giuhni 2. Beatrice Busi presenta "La mamma" di Marina D'Amelia e "L'impero del ventre" di Marcela Jacub 3. Barbara Romagnoli presenta "Le mie cose" di Raffaella Malaguti 4. Felice Piemontese presenta "I cani e i lupi" di Irene Nemirovsky 5. Caterina Ricciardi presenta "Gilead" di Marilynne Robinson 6. Giuseppe Conte presenta "La bastarda di Istanbul" di Elif Shafak 1. LIBRI. MONICA RUOCCO PRESENTA "IL CANTO PERDUTO" DI LAILA AL-GIUHNI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 21 agosto 2007 col titolo "Sulla scena letteraria dell'Arabia Saudita. Il canto perduto - neelwafurat" e il sommario "Intitolato Il canto perduto, il primo romanzo saudita approdato in Italia e' un intreccio iperrealista ambientato nella citta' di Gedda. Opera della scrittrice Laila al-Giuhni e' stato pubblicato dalla Ilisso per la traduzione di Francesca Addabbo"] Sebbene poco conosciuta all'infuori del mondo di lingua araba, la scena letteraria del Regno dell'Arabia Saudita e' diventata, in quest'ultimo decennio, tra le piu' interessanti della regione mediorientale. Dopo scrittori affermati come 'Abd al-Rahman Munif e Ghazi bin Abdelrahman Qusaybi - emersi gia' negli anni '80 e oggi tra i piu' venduti della libreria on-line www.neelwafurat.com con sede in Libano - si e' fatta strada una nuova generazione di autori i cui lavori riportano l'esperienza di un paese dove i giovani, soprattutto quelli appartenenti alla elite che si e' formata all'estero, sono sempre piu' partecipi di un respiro internazionale; respiro che si scontra, all'interno del regno, con convenzioni sociali e culturali difficili da sradicare, cui si aggiunge l'ingerenza delle autorita' censorie, ancora oggi impegnate, pur senza regole precise, a ostacolare la pubblicazione di opere non gradite. Ed e' questo il motivo per cui gli scrittori sauditi si affidano per lo piu' a case editrici libanesi o con sede in paesi europei. Malgrado questa situazione, il paese pullula di riviste, circoli letterari e centri culturali molto attivi che, a dispetto della segregazione sessuale, hanno come protagoniste molte significative presenze femminili. Le autorita' ministeriali, d'altronde, piu' ancora di quanto non avvenisse in passato, chiudono un occhio sui libri che arrivano dall'estero o vengono acquistati on-line, e sulla vendita, nelle librerie del regno, di titoli la cui pubblicazione era stata precedentemente vietata. Il che non impedisce a gruppi di reazionari di boicottare determinati volumi: e' il caso del romanzo La bottiglia di Yusuf Mohaimeed, fatto sparire dagli scaffali. Tra i libri ancora vietati, oltre quelli di Qusaybi, a lungo ambasciatore in Gran Bretagna, c'e' il romanzo intitolato Maimuna di Mahmud Trawri, sulla storia di una famiglia di immigrati africani in Arabia Saudita, che tratta temi relativi al razzismo e al commercio degli schiavi, vincitore nel 2001 del premio Sharjah istituito negli Emirati: il romanzo circola in fotocopie, come era accaduto anche al piu' celebre libro di Munif All'est del Mediterraneo (Jouvence, Roma 1993). Ma una vera e propria avanguardia di scrittori sauditi si sta imponendo anche in altri paesi arabi e, tra questi molte sono le donne, dalla piu' conosciuta Raja 'Alem fino a Badriyya al-Bashar e a Laila al-Giuhni il cui romanzo Il canto perduto, considerato una vera e propria pietra miliare della letteratura femminile saudita, esce oggi in Italia nella traduzione di Francesca Addabbo per la casa editrice Ilisso di Nuoro (pp. 91, euro 12). Nata a Tabuk nel 1969, Laila al-Giuhni vive non lontano dalla citta' santa di Medina, dove insegna alla Facolta' femminile dell'Universita'. Pubblicato nel 1998, Il canto perduto e' il primo romanzo di una scrittrice saudita uscito nel nostro paese dove, fino ad ora, la sola possibilita' di gettare uno sguardo sulla produzione delle donne del regno era affidata alla antologia Rose d'Arabia (a cura di Isabella Camera d'Afflitto, edizioni e/o, 2001). Quando apparve sulla scena letteraria saudita, questo romanzo ha subito duri attacchi dalla fazione piu' reazionaria dell'accademia e venne aspramente criticato, tra gli altri, da una docente della King Abdul Aziz University, che lo defini' "un oltraggio alla letteratura saudita". Ancora piu' aspre furono, a suo tempo, le reazioni provocate dalle Ragazze di Riyadh della giovane Rajaa al-Sanea, di prossima pubblicazione per Mondadori, ma il romanzo di Laila al-Giuhni e' dotato di un diverso e piu' elevato spessore, sia per quanto riguarda la scrittura sia per il tema trattato. La protagonista, Saba', e' una intellettuale in conflitto con se stessa e con il contesto sociale, descritta mentre si trova ad affrontare due prove particolarmente ardue per una donna del suo paese: i rapporti prematrimoniali e l'aborto. Si definisce "solo una donna che e' sfuggita alla sorveglianza e si e' addentrata nel paradiso prima che Dio lo concedesse alle altre creature". E il paradiso della sua vita diventa un "Paradiso perduto" (questo il titolo arabo) allorche', dopo un suo sporadico incontro con Amir, uomo destinato alla sua amica Khalida, scopre di essere incinta. Nonostante lo spunto non sia tra i piu' originali, il romanzo rivela una sua singolarita', non tanto relativamente al panorama della letteratura araba, ma grazie all'iperrealismo, a tratti violento, con cui Laila al-Giuhni decide di narrare la scelta finale e definitiva di Saba'. Significativo e' anche il fatto che l'ambientazione scelta dalla scrittrice non sia Riyadh ma Gedda, capitale commerciale del paese, citta' con la quale la protagonista si identifica totalmente: "Devi scrivere due parole su Gedda, sprofondata nelle acque del mare, su Gedda distesa sulle orme che Eva ha lasciato su questa sabbia da tempo immemorabile". Come suggerisce in una nota Francesca Addabbo, competente traduttrice del romanzo, l'autrice si riferisce alla leggenda secondo la quale Eva sarebbe stata sepolta proprio nelle vicinanze di Gedda; la sua tomba venne poi distrutta dalla dinastia saudita nel 1928. Saba', dunque, intraprende la sua faticosa e vana lotta per la liberta' sentimentale e sessuale, proiettando il suo destino su quello della citta': "Gedda e' una donna come me, solo che lei e' molto piu' furba. Non affida le sue chiavi a chiunque. Ha molti amanti, ma ognuno di essi sa bene di non conoscerla completamente". Uno tra i motivi di interesse introdotti da Laila al-Giuhni nel suo romanzo sta nell'inserire la vicenda di Saba' in un contesto politico dominato dall'americanizzazione del paese e dalla corsa sfrenata al denaro che "sta in fondo al mare, sulla riva, per le strade e negli edifici imponenti, e che non si ferma davanti a nulla". Denaro responsabile del fatto che la morte e' ovunque: e' "sulle sponde del Tigri, volteggia sul sud del Libano, sopra la striscia di Gaza, aleggia nei cieli del Cairo e di Riyadh". E, ancora, alla libido legata al denaro e' imputabile il fatto che nel regno si cominci a parlare di terrorismo e di estremismo, parole una volta proibite e ormai usate pubblicamente. L'unica strada per sfuggire a questa follia, tanto per Saba' quanto per la sua autrice, e' nei sentimenti, nei romanzi e alla fin fine nei sogni, inevitabilmente infranti. Lo scorso aprile, proprio a Gedda, e' stato presentato il secondo romanzo che Laila al-Giuhni ha scritto dopo dieci anni dall'uscita del Canto perduto: il titolo e' Jahiliyya, termine che indica in arabo l'epoca preislamica, e fa riferimento al principio secondo cui l'Islam degli esordi sanci' l'abolizione di qualsiasi discriminazione razziale. Sullo sfondo dell'intreccio, dunque, la denuncia del razzismo tuttora presente nelle societa' musulmane, e in primo piano la relazione tra una donna saudita dalla pelle chiara e un uomo di colore. Anche la diffusione di questo libro, di cui il ministero della cultura e dell'informazione non ha mai permesso la vendita pur non avendolo ufficialmente vietato, e' emblematica dell'ambiguita' del paese: una ambiguita' che ha reso al tempo stesso possibile l'acquisto del romanzo durante la Fiera di Riyadhda e il persistere della sua irreperibilita' in libreria. 2. LIBRI. BEATRICE BUSI PRESENTA "LA MAMMA" DI MARINA D'AMELIA E "L'IMPERO DEL VENTRE" DI MARCELA JACUB [Dal quotidiano "Liberazione" del 5 gennaio 2006 col titolo "Il ventre materno conteso da Chiesa e Stato" e il sommario "Il saggio di Marina D'Amelia e quello di Marcela Jacub raccontano la storia della rappresentazione della maternita': un discorso pubblico in cui dio e legge convergono nel definire e stabilire regole"] Con la modernita' il ventre materno e' diventato uno dei campi di competizione preferiti negli esercizi di biopotere di Stato e Chiesa, molto interessati al disciplinamento e al controllo di corpi e anime. Se, come ha suggerito Benedetto XVI, e' vero che lo "sguardo benevolo e amoroso degli occhi di Dio" si posa sull'essere umano fin da quando e' ancora informe nell'utero materno, e' pero' indubbio che su quella "piccola realta' ovale e arrotolata" si sono gia' posati anche gli occhi del grande Leviatano, il "Dio mortale". L'inquietante consapevolezza delle donne di essere state oggetto di questo incrocio di sguardi indiscreti, viene accresciuta dagli interessanti testi di due storiche, Marina D'Amelia e Marcela Jacub. Due modi di fare la storia della maternita' e della rappresentazione del materno molto diversi tra loro ma che insieme ci raccontano efficacemente come la Legge e il discorso pubblico convergano nello sforzo incessante di definire non solo regole, comportamenti e codici morali delle madri, ma anche nel giudicare e stabilire che cosa sia la maternita'. Insomma se "Dio ci scruta e ci conosce", anche lo Stato fa piuttosto sul serio. In Italia la storia delle donne si e' occupata del tema molto proficuamente, producendo ricerche e studi importanti tra le quali la Storia della maternita' pubblicata nel 1997 e curata dalla stessa D'Amelia per Laterza e Madri. Storia di un ruolo sociale, un testo curato da Giovanna Fiume e pubblicato da Marsilio nel 1995. Gia' allora, dieci anni prima del referendum sulla procreazione medicalmente assistita e degli attacchi scomposti alla legge sull'interruzione di gravidanza, l'introduzione di Giovanna Fiume delineava i contorni della posta in gioco. "Attorno alla maternita' si sta svolgendo, in questo scorcio di millennio, una dura battaglia che vede coinvolti molti e agguerriti combattenti. (...) Gerarchie ecclesiastiche, governi, scienziati, giuristi e magistrati, persino organismi internazionali, combattono, prima che per imporre il proprio punto di vista per orientare scelte demografiche, politiche sociali o altro, sul piano delle rappresentazioni culturali che, a ben guardare, fanno perno attorno alla delicata questione della riproduzione della specie. E, dunque, alle donne che biologicamente sono predisposte a tale compito". Recentemente, Marina D'Amelia con il suo libro La mamma pubblicato da Laterza (pp. 331, euro 14,50), ci ha offerto un altro notevole contributo, dimostrando come non solo nel "maternalismo fascista" ma anche in eta' liberale la rappresentazione pubblica della maternita' sia stata un'importante tecnologia discorsiva nella costruzione dell'identita' nazionale. Infatti all'origine del "nation building" all'italiana emerge quella figura della "madre eroica e sacrificale" che avra' una lunga egemonia come rappresentazione idealtipica. D'Amelia ne descrive assestamenti e adeguamenti anche attraverso schizzi biografici e vissuti familiari di donne esemplari per la cultura e la societa' italiana, dal Risorgimento alla Resistenza: il ruolo pubblico delle "madri patriottiche" come Maria Mazzini Drago e Adelaide Cairoli, o lo scambio polemico di lettere tra Sibilla Aleramo e la fondatrice dell'Unione femminile Ersilia Majno sul libro Una donna, ma anche il ruolo dell'esaltazione della figura di Rosa Maltoni, "una donna all'antica", nella mitopoiesi fascista del Duce. L'impero del ventre della storica e femminista francese Marcela Jacub, tradotto in Italia da Ombre corte (pp. 214, euro 17,50), ci riconduce invece all'azione direttamente intrusiva dello Stato nei legami genitoriali e il suggestivo titolo del libro si riferisce all'autoevidenza di cui pare dotato il giudizio di senso comune che la madre di un bambino sia colei che l'ha partorito. In realta', sul piano giuridico si tratta di un'acquisizione recente e per imporla "e' stato necessario ricorrere a mezzi estremi: sorvegliare le gravidanze, mettere in galera gli 'impostori', proibire determinati accordi, strappare i bambini dalle mani degli usurpatori; in breve far capire che la questione biologica del parto e' un vero e proprio affare di Stato". Ripercorrendo i mutamenti del diritto francese dall'Ancien regime ai giorni nostri e ricostruendo lunghi e ingarbugliati processi che sono divenuti anche clamorose vicende di cronaca, Jacub ci mostra come il "voyeurismo giudiziario" abbia preso corpo in una vera e propria "polizia della maternita'". Se il Codice napoleonico si basava sull'istituto del "possesso di stato" ed e' stata la riforma francese del 1972 ad instaurare il cosiddetto "impero del ventre" fondato sul parto, il regime di verita' che governa la legittimazione dei legami di filiazione e' in continua ridefinizione e la sfida lanciata dalle nuove tecnologie riproduttive all'antico adagio "mater semper certa est" ha complicato di molto la questione. Ma uteri in affitto e contratti di gestazione, donazioni di ovuli e di sperma, fanno semplicemente da lente d'ingrandimento su un dato storico: la maternita' lungi dall'essere una relazione naturale e' una "costruzione giuridica come un'altra". Del resto, come sottolinea la studiosa francese, "il fascino del diritto sta nella sua capacita' di mostrarci come cio' che ci sembra la cosa piu' evidente e personale poggi in realta' su impalcature istituzionali complesse, impalcature che e' sempre possibile smontare e rimontare". Il suggerimento suona attualissimo nel clima politico italiano e mette sull'avviso ad intraprendere battaglie limitandosi alla difesa di leggi dello Stato, piu' o meno laico che sia, soprattutto se in gioco c'e' la liberta' delle donne. La lezione che ci viene dalla storia e' che il piano delle rappresentazioni simboliche e quello giuridico sono entrambi continuamente coinvolti nell'irregimentazione dei comportamenti sociali. Si tratta dunque di concentrare l'azione politica sulla potenza affermativa della cultura e dell'etica delle donne, sedimentate nei decenni ma sempre in continua interrogazione per non lasciarsi mai (sor)prendere dalle tecnologie del potere. 3. LIBRI. BARBARA ROMAGNOLI PRESENTA "LE MIE COSE" DI RAFFAELLA MALAGUTI [Dalla rivista elettronica "Aprile on line" del 22 dicembre 2005 col titolo "Non solo sangue. Ovvero mestruazioni e dintorni" e il sommario "Editoria. Un libro di Raffaella Malaguti sul ciclo mestruale, vissuto da milioni di donne ogni mese ma di cui non si parla mai"] Di alcune cose non si parla. Cosi' ci viene insegnato da piccole, specialmente se si tratta delle "nostre cose", quelle che arrivano solo a noi donne una volta al mese, circa, che quando arrivano la prima volta ci fanno diventare "signorine", anche se siamo ancora bambine nel corpo e nello spirito e abbiamo tanta voglia di giocare alle bambole e rotolarci a terra con i nostri amichetti maschi. E' storia vecchia, sono duemila anni e piu' che di queste cose, benedette e maledette assieme, non si dovrebbe parlare. Raffaella Malaguti lo fa, oddio che scandalo - di questi tempi poi -, e ne parla in modo divertente e ironico. In Le mie cose. Mestruazioni: storia, tecnica, linguaggio, arte e musica (Bruno Mondadori, 13 euro, 2005) cerca di spiegare e descrivere cosa e' successo in questi duemila anni. Non entra nel dettaglio, e' certamente un libro didascalico e divulgativo il suo, ma fa bene leggere questo piccolo ma denso libro: solleva dei veli, sollecita ricordi e stimola riflessioni. Malaguti, giornalista di professione, scrive in modo chiaro e diretto, non si perde in elucubrazioni velleitarie e quando dice la sua lo fa con lo sguardo di chi e' abituata per mestiere a interrogare la realta' e a offrire risposte con dati e testimonianze. Per questo il percorso seguito dall'autrice si muove dalla storia e la letteratura per approdare, con un finale riuscito alla perfezione, all'eco delle note di una canzone, Blood in the boardroom - Sangue in consiglio di amministrazione, della straordinaria Ani Di Franco. Gia', perche' e' di sangue che si parla in questo libro e di tutti gli annessi e connessi e conseguenti ricadute simboliche in cui e' stato precipitato. Di un sangue che significa dolore, gioia, turbamento ma anche impurita', inferiorita', maleficio, stregoneria... Insomma, una storia, quella delle nostre cose, che va di pari passo con quella delle donne in generale, relegate per parecchio tempo ad essere comparse e non protagoniste del discorso ufficiale. Eppure, e' proprio l'aspetto linguistico, su come e' stato costruito il discorso sociale attorno alle nostre cose, quello che piu' rimane impresso della lettura. Come gli eschimesi hanno tanti modi per nominare la neve, elemento primario nella loro sopravvivenza, cosi' molteplici e diversissimi sono i modi (singole parole o complesse perifrasi) per nominare queste strane cose che dovrebbero riguardare solo le donne. Malaguti racconta di un museo virtuale delle mestruazioni (www.mum.org), visitando il quale veniamo a scoprire che negli Stati Uniti, patria del museo, per definire il ciclo si usa Surfing the crimson wave (fare surf sull'onda rossa) oppure i piu' familiari aunt Martha, aunt Rosie o aunt Flo (gioco di parole con flow che significa flusso). In Gran Bretagna e in Australia si usa l'espressione I've got the painters (ho gli imbianchini a casa), in Brasile "il marziano" o "visitante", in Canada si dice I'm occupied (sono occupata) o The moody monthly (l'umore mensile), nella Repubblica Ceca si usa il politicizzato "Primo maggio" e l'elfico "fenomeno delle fragole", simile al finlandese "giornate del mirtillo rosso", cosi' come in Cina si dice "piccola sorella rossa", "il generale rosso ha bussato alla porta" e il piu' bello "acque lunari". Insomma la fantasia non manca e dovunque andremo troveremo un eufemismo, una metafora, una immagine che rimanda a questa esperienza vissuta da milioni di donne, spesso, ancora oggi, nella totale ignoranza sul che fare e su una conoscenza vaga del proprio corpo. Malaguti non si sofferma solo su un ragionamento letterario-linguistico nel quale riporta anche le mutazioni avvenute con la rivoluzione culturale del femminismo e le ricadute sulle nuove generazioni, ma affronta anche le cifre di un fenomeno che e' diventato business e pubblicita' (sul tema della comunicazione pubblicitaria molto interessanti sono i brani di interviste riportate dall'autrice e il cambiamento dei messaggi utilizzati per vendere i prodotti che riguardano le mestruazioni). Chi ha mai pensato quanti sono gli assorbenti che utilizza una donna in media nella propria vita? O che nel 1999 in Gran Bretagna sono stati gettati nel wc ogni giorno circa 2,5 milioni di tamponi, 1,4 milioni di assorbenti esterni e 700.000 salvaslip? Che impatto ha tutto questo sull'ambiente se si pensa che, scrive l'autrice, "per fabbricare i 18 miliardi di pannolini per bambini venduti ogni anno nel mondo si utilizzano 82.000 tonnellate di plastica (che non sara' mai riciclata), 1,5 milioni di tonnellate di polpa di legno (anch'essa non sara' mai riciclata) e 14 miliardi di litri di olio, senza considerare le migliaia di megawatt di energia impiegata per la produzione". E Malaguti ci dice anche che questo e' solo un esempio per immagine del business intorno a assorbenti, tamponi, salvaslip ecc. visto che su questo non c'e' uno studio accurato. Come poco si sa della composizione con cui vengono confezionati questi prodotti per le donne. Ma state tranquille, almeno una notizia e' smentita: quella, arrivata attraverso una mail girata a lungo in rete, che parlava della presenza di amianto. A quanto indagato finora non c'e' traccia. Ma questo non rassicura del tutto le sostenitrici della dea madre, che fanno della "naturalita'" delle mestruazioni la loro religione. Accanto ai loro rituali, in questo libro incontriamo anche le mestruo-attiviste e le cyberfemministe, chi sostiene l'uso del tampone e chi lo rifugge come la peste, chi ha disegnato l'assorbente leopardato e chi preferisce i filtranti in garza. Malaguti ha trovato un modo originale e diverso per parlare di sangue e dintorni, senza risposte definitive ma con domande sane e intelligenti. 4. LIBRI. FELICE PIEMONTESE PRESENTA "I CANI E I LUPI" DI IRENE NEMIROVSKY [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "L'Unita'" del 16 luglio 2008 col titolo "Il romanzesco enigma di Irene Nemirovsky"] Il "caso Irene Nemirovsky" si arricchisce di sempre nuovi elementi, man mano che la pubblicazione delle sue opere da parte della casa editrice Adelphi va avanti (sono finora apparsi cinque romanzi e un racconto lungo). Tutto comincio', come molti ricorderanno, con la pubblicazione della Suite francese (2004), un bellissimo romanzo tragico-picaresco sull'invasione nazista della Francia, best seller mondiale, che riporto' all'attualita' il nome di questa scrittrice fino a quel momento del tutto dimenticata. Nata a Kiev nel 1903, figlia di un ricco banchiere rifugiato in Francia allo scoppio della Rivoluzione, la Nemirovsky esordi' giovanissima nelle lettere, ottenendo subito un vivo successo con romanzi come David Golder. Era ebrea, ma le sue descrizioni del mondo ebraico e dei personaggi che lo popolavano erano talmente crude e impietose da attirarle l'accusa di antisemitismo. Del resto sembra accertato (come dice la biografia di Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt recentemente pubblicata in Francia) che abbia collaborato con vari pseudonimi - durante l'occupazione nazista - a giornali d'estrema destra (ma anche a uno di sinistra). In piu', c'e' una conversione in extremis al cattolicesimo, fatta solo ed esclusivamente (la Nemirovsky era agnostica) per mettere al riparo se stessa e la sua famiglia dai pericoli incombenti. Per tragica ironia della sorte, tutto questo non le impedira' di essere arrestata dalla polizia francese nel luglio del 1942 ed essere deportata ad Auschwitz, dove morira' dopo qualche mese. Il testo della Suite francese e' rimasto per decenni in un baule, fino a quando le figlie della scrittrice hanno trovato il coraggio di portarlo alla luce e di darlo alle stampe. E ovviamente, dopo il successo mondiale del romanzo, gli editori si sono buttati a pesce sui libri pubblicati in precedenza dalla scrittrice, che negli anni Trenta (dopo l'esordio avvenuto nel '29) era gia' considerata molto piu' di una promessa delle lettere francesi. Una conferma ulteriore delle sue qualita' viene dalla pubblicazione, sempre da parte di Adelphi, di un romanzo intitolato I cani e i lupi, apparso in Francia nel 1940 (la traduzione e' di Marina Di Leo, pagine 234, 18,50 euro) e che e' tra i piu' significativi tra quelli pubblicati dalla scrittrice. La prima edizione del libro recava un'avvertenza dell'autrice in cui si sottolineava il fatto che il romanzo non poteva non essere "una storia di ebrei" e che lei, convinta che "in letteratura non ci sono argomenti tabu'", aveva descritto l'ambiente a cui del resto apparteneva "con i suoi pregi e i suoi difetti". Dichiarazione ineccepibile, e sciocco sarebbe (come pure qualcuno ha fatto) affrontare i cani e i lupi con argomentazioni extra-letterarie. Tutti i romanzi della Nemirovsky si svolgono del resto nell'ambiente che volente o meno era il suo, ed hanno protagonisti che sono spesso ricchi (e sordidi) affaristi, spregiudicati banchieri, giovanotti ambiziosi e senza scrupoli, donne fatue e capricciose, preoccupate solo della propria bellezza e dei propri gioielli piuttosto che dei drammi che le circondano e talvolta le sfiorano. Qui, ne I cani e i lupi, siamo a Kiev negli anni precedenti la Rivoluzione, e gli ebrei che vi risiedono sono suddivisi in tre aree distinte e distanti tra loro anni-luce: i ricchi in collina, in grandi e lussuose ville che testimoniano la loro riuscita negli affari, i poveri, anzi "i dannati", nella citta' bassa, "tra le tenebre e le fiamme dell'inferno". Al centro i comuni mortali, piccoli commercianti, mediatori, medici, farmacisti, sempre in bilico tra l'ascesa e la caduta. Ada, la protagonista del libro, e' la bambina, figlia di un modesto intermediario che vive men che modestamente, convinto che la "condizione naturale" dell'uomo e' quella di "spargere molto sudore per guadagnarsi un tozzo di pane". Un giorno Ada vede un bambino della citta' alta, ricco, ben vestito, riccioli bruni, grandi occhi splendenti, e sa - oscuramente ma con certezza assoluta - che sara' quello l'uomo della sua vita, colui che amera' per sempre di un amore assoluto e pressoche' indifferente a cio' che la vita riservera' ad entrambi. Si rivedranno in circostanze drammatiche - uno dei periodici pogrom di cui gli ebrei erano vittime - e poi, molti anni dopo, a Parigi, dove le rispettive famiglie si sono trasferite. Lui, Harry, erede di una colossale fortuna, sposa la figlia di un banchiere francese, lei, Ada, sposa senza amarlo l'intraprendente cugino. Ma i loro destini sono destinati a incontrarsi, e a fondersi, per un certo periodo. Poi, le cose si mettono in modo tale, da indurre Ada a rinunciare per sempre al suo amore, talmente assoluto del resto da autoalimentarsi quali che siano le circostanze esterne che lo condizionano. E' uno strano libro, quello della Nemirovsky: se la parte iniziale sembra debitrice del romanzo naturalista francese in versione yiddish, il seguito e' animato da preoccupazioni del tutto moderne, in cui la psicoanalisi ha un ruolo non secondario. Sta proprio in questo contrasto uno degli elementi di fascino del romanzo, che peraltro da' il meglio di se' nella descrizione, spesso crudele, dell'ambiente alto-borghese parigino che e' quello che la scrittrice meglio conosceva, e rispetto al quale era animata da sentimenti decisamente ambivalenti: attrazione e repulsione profonda, fino all'odio (qualcuno ha parlato di "odio di se'" come caratteristica tipica di un certo ebraismo). E se quella di Harry e' una figura tutto sommato scialba, splendido e' invece il personaggio di Ada, indifferente alle convenzioni e ad ogni idea di riuscita sociale e di carriera artistica (dipinge). A caratterizzare inoltre il libro e' quel tono febbrile tipico della Nemirovsky, di chi teme che il tempo a disposizione sia troppo scarso rispetto all'urgenza delle cose da dire, delle storie da raccontare. 5. LIBRI. CATERINA RICCIARDI PRESENTA "GILEAD" DI MARILYNNE ROBINSON [Dal supplemento settimanale del quotidiano "Il manifesto" "Alias" n. 21 del 24 maggio 2008 col titolo "Gilead di Marlynne Robinson, un romanzo controcorrente (premio Pulitzer 2003). Fede scrittura gelosia" e il sommario "1956, Iowa: nello stile dei padri Puritani del New England, questa lunga lettera-testamento al figlio bambino del reverendo Ames, anziano pastore congregazionalista, e' soprattutto un dialettico pellegrinaggio 'teologico' nell'America contemporanea"] Nel libro della Genesi "Gilead" designa un cumulo di pietre nella regione di Galaad, la terra a est del Giordano (oggi Giordania), il fiume dove fu battezzato Cristo. Quella stele, o "mucchio di testimonianza", segnava il patto di pace fra Giacobbe e Labano, al termine della loro turbinosa relazione. In Geremia Gilead e' invece il luogo in cui si trova un "balsamo" salvifico, capace di guarire ogni male. Geremia e' profeta di guerre e distruzioni, eppure quel balsamo e' indicato come l'antidoto utile a preservare pace e salvezza in tempi di difficolta': "Non v'e' piu' balsamo in Gilead?", egli lamenta. E qualche passo piu' avanti esorta: "Sali a Gilead a prendervi del balsamo". Il nome del luogo e il balsamo (una semplice resina) daranno voce a uno "spiritual" degli schiavi afroamericani, "There Is a Balm in Gilead" ("C'e' un balsamo a Gilead, / per sanare la ferita"), ma entrambe le letture (l'atto di testimonianza, la salvezza o speranza) si radicano nella tradizione protestante americana. Puo' capitare di trovarne menzione, magari con funzioni diverse, in opere di Stephen King, Ken Kesey, Eldridge Cleaver, Margaret Atwood, Mark Twain e persino nel Corvo di E. A. Poe. Nella nostra cultura cattolica la parola non rievoca nulla. Marilynne Robinson, esordiente prodigio nel 1980 con il romanzo Housekeeping (Padrona di casa, Serra e Riva, 1988), libro vincitore del Pen-Hemingway Award, ha lasciato trascorrere molto tempo prima di tornare a far parlare di se' con due polemiche raccolte di saggi e un secondo acclamato romanzo, Gilead, premio Pulitzer 2003, ora in italiano (traduzione di Eva Kampmann, Einaudi, pp. 257, euro 17,50). Anche qui siamo a Gilead, che questa volta e' una cittadina rurale nel piatto Iowa, fondata a meta' Ottocento da un gruppo di abolizionisti per accogliere gli schiavi fuggiaschi dal Kansas. E' dunque la citta' del balsamo. Cento anni dopo, nel 1956 (l'anno dell'incidente di Montgomery, Alabama, che, con Martin Luther King, porto' alla ribalta Rosa Parks, l'attivista nera per i diritti civili; l'anno della campagna elettorale per Eisenhower), la nuova Gilead offre al protagonista del romanzo, John Ames, l'anziano pastore congregazionalista, discendente di altri pastori tutti "John Ames", la piattaforma da dove rilasciare una lunga lettera-testimonianza a un figlio ancora bambino, del quale egli tace il nome (non sappiamo infatti chi potra' diventare), come tace il nome della giovane moglie, dal passato oscuro, forse poco esemplare, ma ormai, a quanto pare, redento. Prossimo alla morte, Ames sa che non potra' guidare il figlio sulla strada della vita, come fecero con lui suo padre e il nonno. Ecco la ragione di questo suo unico lascito, redatto nella consapevolezza di abbandonare una Agar (la brunita schiava egiziana della Bibbia) e un Ismaele nel deserto. Il romanzo si impianta dunque come un monologo che, pur all'interno della cronaca genealogica della famiglia Ames e della gloriosa storia dimenticata della citta', e' inteso inizialmente quale sermone autobiografico, una sorta di confessione pubblica dall'alto di un pulpito nello stile dei vecchi padri puritani del New England. Quella lettera, tuttavia, e' destinata a una lettura nel futuro, nell'eta' adulta del figlio (e dei lettori di oggi), il quale, a sua volta, avra' attraversato - come si puo' immaginare - altre rivoluzioni della cultura americana. Ma la stesura dell'atto di testimonianza del reverendo, influenzata e turbata dal corso dei pochi eventi dei suoi ultimi giorni (dalla primavera all'autunno), prende a trasformarsi in un pellegrinaggio piu' intimo dentro il suo cuore e la mente, un'indagine intellettuale oltre che spirituale, dialettica e problematica, ancora attratta dal mondano, eppure volta a soppesare la giustezza del proprio operato, il rapporto controverso con i progenitori, il fardello dell'eredita' famigliare e della teocrazia fondatrice della nazione, il valore della fede, il significato del cristianesimo di ieri e di oggi. Sebbene riprenda, a livelli alti, la tradizionale tendenza a una periodica reviviscenza religiosa della gente d'America, Gilead e', nel panorama contemporaneo, un romanzo controcorrente. Ciononostante, l'analisi che Robinson fa stillare dalla voce e dalla penna - talvolta piatte e coriacee, e punteggiate da un domestico umorismo - del reverendo Ames ha tutte le qualita' di un'attenta riflessione teologica che, partendo da un Calvino addolcito ("ciascuno di noi e' un attore su una scena e Dio e' il pubblico"), si avventura in Feuerbach, Karl Barth, Bernanos, Dietrich Bonhoeffer, Gide e gli esistenzialisti francesi, pensatori atei e credenti, per affrontare cavilli eterni come la distanza fra l'umano e il divino, il finito e l'infinito (lo Iowa, in piena prateria, si presta bene alla difficile ricerca di orizzonti), la grazia e la predestinazione, il peccato e la redenzione, la differenza fra creatura e creatore, l'uomo e Dio, come pure fra il figlio e il padre: Abramo e Isacco, e Ismaele. E su quest'ultimo rapporto si innesta la scarna trama lungo due diversi percorsi. Da un lato, attraverso la rappresentazione della guerresca figura del nonno, collaboratore di John Brown nel Kansas insanguinato e sanguinario, e della figura del padre, pacifista fino al punto di unirsi ai Quaccheri, si ricostruiscono alcuni momenti della storia della Guerra Civile e dell'abolizionismo; dall'altro, in una nuova intramatura storica (la guerra mondiale, quella di Spagnola e le depressioni economiche: segni e castighi divini per aver l'uomo indugiato nella cultura della guerra), l'epistola che si va scrivendo iniziera' a sollecitare la nostra attenzione nel sospetto di un intrigo capace di causare i tormenti dell'ultima debolezza terrena di Ames, quella che ce lo rende piu' umano: la gelosia. Un espediente ben usato da Robinson al fine di insistere sul nodo padre-figlio e al contempo animare la severita' dottrinale del romanzo. La scena pastorale dell'addio e della consegna testamentaria di Ames si scuote infatti quando a Gilead ritorna John Ames Boughton, figlio di un collega presbiteriano e figlioccio, o primo figlio, come insiste il nome, di John Ames. Jack Boughton, "prodigo" o incallita pecora nera, contribuisce a riproporre i temi dell'integrita' genealogica e delle diversita' fra le generazioni, generazioni formate, oltre che dal sangue, dalla storia che si trovano a attraversare. Forse si tratta di un monito per lo stesso Ames su quello che, nonostante l'eredita' posposta del decalogo, potra' diventare il proprio figlio nel futuro. Ma Jack Boughton, in apparenza, non e' tornato a Gilead per assumersi, alla morte del reverendo, il ruolo paterno sposandone la moglie Lila (e' lui che per una volta ne pronuncia il nome), bensi' per poter trovarvi presto rifugio (come gli schiavi nell'Ottocento) con la sua famiglia: una moglie di colore e un figlio mulatto. Pochi Stati, nel 1956, accettavano la legalita' dei matrimoni interrazziali. Benedicendo il reprobo e ripudiato Jack Boughton, l'Ismaele nel deserto, Ames conclude serenamente il suo percorso con la convinzione che "la paternita' e' di Dio", e da lui dipende fare del proprio figlio "un uomo coraggioso in un paese coraggioso". Una simbologia religiosa sostiene la tessitura del quotidiano morire, e rivivere attraverso la scrittura e la gelosia, di John Ames. Il battesimo, l'eucarestia, la benedizione sono atti sacramentali che si ripetono in una varieta' di situazioni: epifanie, sprazzi luminosi, volti a far scintillare la fede, e le sorprese liriche della scrittura. Sono questi i balsami della Gilead americana, utili magari a curare anche i mali e le ferite di guerra del paese di oggi. Ma e' sull'acqua, battesimale e lustrale, che si insiste con maggiore frequenza, quasi a voler assentire con Feuerbach, che il reverendo aveva letto da giovane a dispetto di suo padre, e che ora, in fin di vita, cita: "L'acqua e' il liquido piu' puro, piu' limpido, piu' trasparente: in grazia di queste sue qualita' naturali e' l'immagine della purezza immacolata dello spirito divino [...] per le sue qualita' naturali viene santificata, prescelta quale organo o strumento dello Spirito Santo". La Trinita' si ricompone cosi' attraverso le parole dell'ateismo. Ma il sentimento religioso, forse vuole dirci Robinson, non ha sette ne' ideologie, ne' appartiene ai padri perche' sia loro prerogativa trasmetterlo ai figli. 6. LIBRI. GIUSEPPE CONTE PRESENTA "LA BASTARDA DI ISTANBUL" DI ELIF SHAFAK [Dal quotidiano "Il giornale" del 20 luglio 2007 col titolo "Raccontare Istanbul con un tocco feroce e sensuale" e il sommario "Nel romanzo di Elif Shafak due ragazze in bilico tra tradizione e modernita'"] Molta della letteratura di oggi e' impastata da sicure mani femminili. Le nipoti delle donne che nel mondo passavano il tempo a fare il pane e le pietanze piu' succulente per i loro uomini, oggi fanno romanzi, e mettono nella ricetta la sensualita', la concretezza, la crudelta' di cui Dio ha fornito ad abundatiam le discendenti di Eva. Noi ci perdiamo spesso in giri di intellettualismo astratto, in propositi cervellotici, in utopie generose ma folli. Le donne sanno molto piu' di noi quello che vogliono. Per loro raccontare e' spesso un riscatto, l'acquisizione di una identita' nuova, una piena e decisa presa di coscienza di se' e del mondo. Questo e' ancora piu' chiaro per donne nate in societa' dove sono state a lungo oppresse, e dove rischiano di esserlo ancora. Li' ci vuole coraggio. E il coraggio, al femminile, non e' una virtu' eroica e guerriera come per l'uomo, e' una necessita', naturale, dolce e straziante come lo e' dare alla luce un bambino. Facevo queste riflessione leggendo il romanzo di Elif Shafak, La bastarda di Istanbul (Rizzoli, pp. 388, euro 18,50). L'autrice e' turca, ha trentasei anni, vive oggi tra Istanbul e Tucson, in Arizona, dove insegna all'Universita'. E scrive in inglese un libro che sa di sesamo e di pistacchi, di sangue e di abominio, di nichilismo e di amore, una saga familiare ed epica che fonde i grandi eventi della storia con i piccoli eventi della famiglia, le vicende delle anime con quelle dei corpi. Come l'autrice, anche il libro si divide tra Istanbul e l'Arizona. E' Istanbul pero' che fornisce il materiale piu' meravigliosamente vivo con il suo fascino pieno di sedimenti, con la sua aria di frontiera decisiva tra Occidente e Oriente, con la sua vita metropolitana e il suo profilo irto di moschee, con il suo essere una citta' di mare, di riflessi, di gabbiani, di sogni. Delle due ragazze protagoniste, una appartiene a una famiglia turca, l'altra a una famiglia armena. Si sa quale odio divide le due comunita', e come pesi sui turchi il ricordo di una persecuzione mai confessata. Elif Shafak affonda il coltello in questa piaga nazionale. Quando cita in epigrafe al libro l'inizio di una fiaba turca che e' anche l'inizio di una fiaba armena, questa giovane donna mostra di comprendere come il patrimonio di miti, leggende, poesia affratelli sempre popoli che il resto, politica, economia, eserciti, ideologie, fanno di tutto per dividere. La ragazza turca, Asya, la bastarda, e' una strepitosa nichilista ribelle figlia illegittima di una madre ancor piu' ribelle, una che ha sfidato con minigonna e piercing la realta' in cui si e' trovata a vivere. L'altra, Armanoush, e' studiosa e disciplinata, figlia di un'americana dell'Arizona e di un armeno della diaspora finito con la famiglia a San Francisco. I ritratti femminili sono magistrali, in queste pagine. Asya, che ignora l'identita' del padre, vive in un universo interamente femminile, tra una bisnonna, una nonna, le zie e la madre, tutte colte mirabilmente nei loro caratteri spesso stravaganti, sullo sfondo di sapori e odori di spezie e di cibo tradizionale. Ma lei della tradizione se ne infischia. Frequenta il Caffe' Kundera, che nessuno sa perche' si chiami con il nome del grande scrittore, si fa un amante, prende dall'Occidente quello che ha di piu' distruttivo e vincente, il non credere in nulla. Armanoush al contrario e' una lettrice appassionata, un'anima che cerca di conoscersi nei suoi valori, e se finisce a Istanbul e' per riandare sulle tracce della nonna armena che a Istanbul viveva prima che scoppiasse la terribile, disumana persecuzione. Il romanzo e' ampliamente, felicemente matriarcale. La stessa scansione in capitoli che hanno per titolo ingredienti della sapientissima cucina e pasticceria turca e' un colpo di genio inventivo, che soltanto una donna poteva avere. Dalla cannella alle scorze d'arancia, dalle nocciole tostate all'uva passa, dalla vaniglia ai semi di melagrana, sono stato man mano sedotto da questa narrazione cosi' aromatica e cosi' sensuale. E l'ultimo capitolo, intitolato Cianuro di potassio, assegna al veleno per eccellenza inodore il compito di ricordarci che le tragedie al mondo sono sempre parto della violenza cieca e astratta, insapore, dei figli di Adamo. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 200 del 7 agosto 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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