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La domenica della nonviolenza. 175
- Subject: La domenica della nonviolenza. 175
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 3 Aug 2008 09:36:38 +0200
- Importance: Normal
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 175 del 3 agosto 2008 In questo numero: 1. Pierluigi Panza ricorda Rudolf Arnheim 2. Fernanda Pivano ricorda Saul Bellow 3. Claudio Strinati ricorda Ernst Gombrich 4. Maurizio Giufre' ricorda Ettore Sottsass 1. MEMORIA. PIERLUIGI PANZA RICORDA RUDOLF ARNHEIM [Dal "Corriere della sera" del 14 giugno 2007 col titolo "Addio a Rudolf Arnheim, lo psicologo dell'arte" e il sottotitolo "Era nato a Berlino 102 anni fa. Spiego' che la percezione e' un atto creativo"] Nel suo piu' celebre libro, Arte e percezione visiva del 1954, Rudolf Arnheim mostro' come il vedere fosse un atto creativo e come il giudizio visivo e la comprensione intellettuale del mondo dell'arte fossero tutt'uno con l'atto stesso del percepire. Con questa intuizione rivoluziono' la critica e la teoria dell'arte piu' ancora che la psicologia e, per un paio di decenni (anche con l'affermarsi dello strutturalismo), il suo pensiero divenne il fulcro delle interpretazioni di quadri e facciate d'architettura. Rudolf Arnheim e' morto il 9 giugno nella sua casa di Ann Arbor, in Michigan, all'invidiabile eta' di 102 anni. Ne ha dato notizia la sua famiglia ieri al "Washington Post". Arnheim era nato a Berlino il 15 luglio del 1904, dove si era laureato in psicologia sperimentale con i fondatori della scuola della Gestalt (disciplina che studia il rapporto tra immagine e percezione) Max Wertheimer, Wolfgang Kohler e Kurt Lewin. Dai suoi esperimenti sulla percezione nacque nel 1932 il suo primo libro, Film come arte. Con l'avvento del nazismo (era di famiglia ebraica) si trasferi' a Roma; quindi, nel 1938 (con la promulgazione delle leggi razziali), si rifugio' a Londra dove lavoro' anche per la Bbc e da qui, nel 1940, emigro' negli Stati Uniti, dove ha vissuto per tutto il resto della sua vita. Qui ha lavorato per le fondazioni Rockefeller e Guggenheim e ha insegnato alla Columbia di New York, poi ad Harvard e quindi, dal 1974, all'Universita' del Michigan prima di ritirarsi definitivamente. Nel '54 pubblico' Arte e percezione visiva (tradotto da Feltrinelli nel 1962) dove stabili' che il vedere era un atto creativo e il giudicare dipendeva dal ruolo che il vissuto svolgeva attivamente nel campo della percezione. Opponendosi al formalismo critico, riportando - con la costante esemplificazione di opere di pittura, scultura e architettura - la forma al significato e al contenuto, mostro' come si potessero cogliere i significati delle opere d'arte approfondendo il rapporto tra biografia e forma, spazio, luce, colore, movimento attraverso il tramite della percezione. Lo "psicologo" divenne cosi' "critico d'arte", e operando una saldatura tra le tesi di Arnheim e quelle della psicologia junghiana e dell'iconologia (e di Erwin Panofsky per quanto riguarda l'architettura) si diede vita a studi che mostrarono come le scelte dei colori e delle forme nei pittori dipendevano da modalita' psicologiche e percettive (ricerche che vennero da altri, specie su Van Gogh) e come anche la interpretazioni critiche fossero condizionata dalle modalita' percettive del singolo individuo. Si giunse cosi' a spiegare interi quadri come "Sant'Anna, la Madonna, il Bambino e San Giovannino" con la duplice presenza femminile materna negli anni infantili di Leonardo. Nelle universita' di tutto il mondo vennero allora attivate cattedre di Psicologia della percezione, molte delle quali sono andate via via sparendo. Negli anni successivi Arnheim studio' la pittura di Picasso (Guernica. Genesi di un dipinto, del 1962) e nel 1969 diede alle stampe un altro importante studio teorico intitolato Il pensiero visivo. Arnheim si puo' considerare uno dei teorici della cultura visiva, specie negli aspetti legati alla creazione e ricezione artistica, temi oggi ripresi da Hans Robert Jauss. Nel 2004, in occasione dei suoi cento anni - e dei 50 anni del suo libro piu' famoso -, ad Arnheim vennero dedicate alcune celebrazioni in Europa e negli Stati Uniti. 2. MEMORIA. FERNANDA PIVANO RICORDA SAUL BELLOW [Dal "Corriere della sera" del 6 aprile 2005 col titolo "E' morto Saul Bellow: racconto' l'anima dell'uomo moderno"] Come faremo senza Saul Bellow, senza la sua ironia, senza la sua eleganza, senza la sua inesorabile tenacia? L'aria e' piena di suoi ricordi, sue frasi, sue battute, le stanze sono piene di sue immagini, suoi incontri, sue attese, le strade sono piene di sue passeggiate, di suoi pensieri, di suoi rimpianti, le fotografie sono piene del suo viso, della sua sicurezza, della sua indipendenza. E lui, Saul Bellow, dov'e'? Il primo ricordo che mi viene in mente e' di qualche giorno favoloso che abbiamo passato a Capri, quando lui aveva 69 anni, capelli d'argento sui grandi occhi a mandorla, asciutto e affascinante, tre divorzi con un figlio per divorzio, quarta moglie romena, una quindicina di libri tra romanzi, commedie e raccolte di saggi e di racconti, Premio Pulitzer e tre National Book Awards, innumerevoli premi internazionali e lauree ad honorem, tutto culminato nel 1976 col Premio Nobel. Prima di venire a Capri a prendere il Premio Malaparte di Graziella Lonardi si e' fermato a Roma in un albergo del centro, ha cenato una sera con Paolo Milano, suo intimo amico, e una sera con me. E' andato dall'ambasciatore americano a una riunione in onore del colonnello Joe Kittinger, trasvolatore solitario dell'Atlantico in mongolfiera, commentando l'avvenimento: "Molto coraggioso. Ma occorre piu' coraggio per affrontare un matrimonio". A Capri, fra un solleone e un acquazzone, ha partecipato a una cena alla Grande Gatsby nella ex casa della principessa Mafalda di Savoia, e' andato alla Villa di Tiberio in cerca del fantasma dell'imperatore, ha detto davanti a un pubblico di intellettuali: "Se dovessi cercare un eremo in cui vivere sicuramente sceglierei Capri, ma sento di dover restare nella lotta di Chicago", ha passato una giornata chiuso nella camera dell'albergo di lusso di Capri, l'indomani ha subito senza drammi l'insolenza di un giovane editore che si e' presentato al lunch in suo onore con un'ora di ritardo e tutto sbracato perche' arrivava "dalla barca" con un gruppo di amici sbracati come lui, e la sera si e' accorto che gli editori lo avevano lasciato solo a Capri, tra grandi risate l'ho accompagnato a Roma io e sono stata con lui a cena a luci basse a parlare piu' delle sue donne che dei suoi libri. Caro Saul Bellow, fascinoso e rubacuori, che raccontava le sue esperienze con gli orgoni di Wilhelm Reich, e i suoi problemi piu' o meno sessuali con le varie mogli e solo di sfuggita parlava dei suoi libri o di quello che stava scrivendo o delle sue proteste per recensioni con cui non era d'accordo. Ormai di lui tutti sappiamo tutto perche' e' uscita líanno scorso, anche in Italia, una superba biografia di James Atlas, di quelle americane dove si trova tutto, tutte le notizie come su Internet, ma senza errori. La biografia comincia con l'affermazione che "gli scrittori americani per lo piu' sono autodidatti". La cultura era un'attivita' marginale, Chicago, come diceva il suo massimo poeta Carl Sandburg, era la citta' "dalle grosse palle", la letteratura autoctona produceva romanzi come The Pit (del 1903) di Frank Norris sugli speculatori del grano, The Jungle (1906) di Upton Sinclair su una famiglia di immigrati lituani, la trilogia su Frank Cowperwood di Theodore Dreiser ispirata da un magnate della ferrovia, i romanzi amorosi di Sherwood Anderson; ma il Rinascimento di Chicago esisteva, ed Henry Louis Mencken sosteneva che era impossibile trovare uno scrittore americano che non avesse qualche legame col mattatoio sulle rive del lago Michigan. Eppure per i giovani Chicago rappresentava nel XX secolo quello che Parigi era stata nel XIX per il protagonista di un romanzo di Honore' de Balzac; rappresentava, come dice Saul Bellow nella sua autobiografia, la prova "che la vita vissuta nei grandi centri manifatturieri, con la puzza di carne macellata, immensi slums, carceri e ospedali, era anche vita umana". In questa citta' si e' trovato a crescere Saul Bellow, che l'ha fatta diventare un personaggio: la sua ventina di libri l'ha resa familiare quanto la Dublino di James Joyce. A permetterglielo e' stata la fiducia nel proprio destino di artista, cioe', diceva Saul Bellow, "di una persona consacrata alla funzione piu' alta di cui e' capace l'essere umano: fare, appunto, l'artista". Non c'e' dubbio che artista Saul Bellow e' stato, senza esitazioni e fino in fondo: in quella Chicago ha vissuto in una famiglia di emigrati, ma nato nel Nuovo Mondo, cioe' "diverso" dal resto della famiglia. Che era costituita dal padre poverissimo, la madre figlia di un rabbino e dai loro cinque figli, di cui Saul era il minore. A tre anni Saul si e' trovato trasferito con la famiglia a Montreal e a otto anni e' finito in un ospedale dove ha letto La capanna dello Zio Tom e, ha detto piu' tardi, ha visto la morte in faccia (ha descritto l'esperienza in Humbold't Gift), e in Herzog ha raccontato il disastro di suo padre nel 1923, quando non ha avuto piu' i tre dollari che doveva al rabbino per le lezioni di ebraico. Nel 1924, il 4 luglio, a nove anni, aveva attraversato clandestinamente il confine con l'aiuto di un contrabbandiere e aveva preso un treno per Chicago; anche questa storia la racconta in Herzog. A quindici anni la famiglia aveva traslocato in un quartiere dove abitavano gli ebrei che "ce l'avevano fatta"; in Herzog, racconta anche la morte drammatica della madre quando aveva 17 anni in un ricordo che lo ha ossessionato tutta la vita. Intanto si e' diplomato, si e' iscritto all'universita', e' diventato amico di Isaac Rosenfeld; con lui discuteva nei circoli universitari fra trotzkisti e stalinisti e nel 1934, mentre la famiglia traslocava in un quartiere di "ebrei agiati", a 19 anni aveva affrontato il rito di iniziazione d'obbligo durante la Depressione; poi aveva lasciato la casa paterna e aveva affittato una camera; lavorava con un fratello in un negozio di carbone che gli ha fatto da materiale per The Adventures of Augie March, si e' laureato insieme a Isaac Rosenfeld, si e' scelto per maestri scrittori fuori dalla scuola, Fedor Dostoevsky, Gustave Flaubert, James Joyce e soprattutto Theodore Dreiser, si e' sposato con Anita. Nel 1929 il Federal Writer's Project gli ha dato da fare un libro sull'Illinois, come gia' lo aveva dato da fare a Nelson Algren e Richard Wright: il libro assegnato a Saul Bellow riguardava un elenco dei giornali dell'Illinois e poi anche profili biografici contemporanei, fra cui quelli di John Dos Passos, James T. Farrell e Sherwood Anderson. Nel 1940, dopo sette anni di attesa ha ereditato 500 dollari da una vecchia assicurazione della madre ed e' andato in Messico con l'intenzione di salutare Trotzky, ma quando e' arrivato lo ha trovato assassinato, proprio come Trotzky aveva sempre annunciato che avrebbe fatto Stalin. In quel periodo ha scritto The Adventures of Augie March e ha cominciato colloqui per la ricerca di posti di lavoro; uno di questi colloqui, con Whittaker Chambers, lo ha umiliato perche' non gli ha dato un posto al "Time" e Saul Bellow racconta l'umiliazione in The Victim, che e' uscito nel 1947. Nell'attesa della chiamata alle armi aveva finito il suo primo romanzo, Dangling Man, che e' poi uscito il 23 marzo 1944, mentre Hitler aveva invaso l'Ungheria, l'aviazione americana bombardava Berlino e le camere a gas di Auschwitz erano diventate cosa nota. Il libro e' scritto sotto forma di diario ed e' la cronaca di quattro mesi della vita di un giovane. La recensione piu' importante che ne e' uscita e' stata quella di Edmund Wilson sul "New Yorker", dove Wilson lo ha presentato come una testimonianza importante sulla psicologia della generazione cresciuta durante la Depressione e la guerra; invece Diana Trilling ne ha fatto una stroncatura su "The Nation". Nell'estate 1944 era andato a stare in un bell'appartamento, finalmente, e poi in attesa del richiamo militare che non arrivava mai si era arruolato volontario ed era partito per l'Est nella Marina Mercantile, col vantaggio che la caserma si trovava a poca distanza da Manhattan, dove vivevano molti suoi amici (forse il piu' importante e' stato Isaac Rosenfeld). Continuava ad avere problemi economici: gli avevano rifiutato una borsa Guggenheim, nella primavera del 1946 si era stabilito a New York mentre portava a termine il suo secondo romanzo The Victim, non riusciva a fondersi con la societa' del Village che lo considerava un conformista, ed e' stato allora che e' andato in treno a Madrid, con un viaggio durato due notti; al ritorno dalla Spagna, dunque piu' o meno due anni dopo la fine della guerra, era uscito The Victim: Saul Bellow era riconoscente all'editore per la promozione che aveva fatto al libro e i critici cominciavano ormai ad accorgersi di lui, specialmente Robert Penn Warren e Alfred Kazin. Con questo successo ha avuto un anticipo per un nuovo romanzo ed e' andato a Parigi: era il 15 settembre 1948, e li' ha scritto praticamente The Adventures of Augie March. Nel 1950 e' ritornato a New York, e ha fatto un'esperienza con le scoperte Wilhelm Reich, che non solo non ostacolava i suoi interessi sessuali, ma li incoraggiava: ormai era considerato un donnaiolo. Per i libri ormai era proprio famoso e accettato da tutti gli intellettuali d'America, presto era diventato amico di Ralph Ellison col suo controverso ma famosissimo Invisibile Man (rimasto amico di Bellow tutta la vita e chiamato poi da lui a lavorare accanto a se' a Chicago nel suo "Committee On Social Thought"). Bellow non era soddisfatto di The Adventures of Augie March e pensava di dover rifare gli ultimi capitoli; ma ormai il suo nome era entrato nello scaffale dei romanzi scritti nel dopoguerra dagli scrittori ebrei americani, The Naked and the Dead di Norman Mailer, Focus di Arthur Miller, The Natural di Bernard Malamud, Passage from Home di Isaac Rosenfeld, la raccolta di racconti di Delmore Schwartz The World is a Wedding. Nel 1953, insieme alla nomina nel Bard College era arrivata la grande fama, a parte un attacco di Norman Podhoretz sulla "Partisan Review" e uno del figlio di Rebecca West sul "New Yorker": quell'anno gli hanno dato un National Book Award. Ha divorziato dalla moglie e il primo febbraio 1956 ha sposato Sondra, ha trovato un incarico nella New School ed e' andato a preparare il suo corso a Yaddo, la colonia per artisti di Saratoga Springs, dove e' diventato amico di John Cheever. Intanto preparava il romanzo Seize the Day, che e' poi uscito nel novembre di quel 1956, ed e' stato accolto da recensioni entusiastiche. Nel 1957 gli e' nato un altro bambino e ha incontrato Susan Glassman, laureanda alla Radcliffe, dove Bellow aveva avuto un incarico; e ha creato una serie di problemi, conclusi con nuovo divorzio di Bellow. Negli anni Cinquanta l'Olocausto aveva reso indifendibile l'antisemitismo, il che non significava che non esistesse e Saul Bellow ne portava ad esempio Allen Tate, che si proclamava un Agrarian del Tennessee, e non nascondeva il suo disprezzo per il gruppo prevalentemente ebraico della "Partisan Review": non si poteva negare che nella letteratura americana una vena di antisemitismo fosse esistita negli anni Venti: per esempio gli studiosi di Hemingway sanno che l'editore gli ha chiesto di fare una modifica in The Sun Also Rises a un personaggio ebreo per renderlo sgradevole. Nei week end lo andava a trovare Sondra finche' Bellow aveva divorziato da Anita con grossi problemi economici. Dal Bard College Bellow ha dato le dimissioni nel 1954, e' andato a vivere a Cape Cod, dove ha ritrovato Mary McCarthy, divorziata da Edmund Wilson (che ora vi abitava col suo terzo marito Bowen Broadwater). Nel 1955 e' morto il padre, lasciandolo sconvolto, non diversamente da come lo aveva lasciato sconvolto la morte della madre. Seize the Day rappresentava un ritorno alla narrativa praticata in passato con la letteratura ottimistica di Dangling Man e The Victim; modello del libro e' Delmore Schwartz, che si avviava nel personaggio a diventare il relitto umano poi descritto senza pieta' in Humboldt Gift, che e' uscito nel 1959. Mentre Bellow era a Reno per divorziare da Anita e poter sposare Sondra ha incontrato Arthur Miller che stava divorziando per sposare Marilyn Monroe che stava girando Bus Stop; e finite le operazioni del divorzio era andato con Sondra in un viaggio di nozze prima di sistemarsi nella Villa Tivoli del Bard College. Bellow aveva continuato a protestare coi recensori che non lo apprezzavano ma piu' o meno allora si era trovato ad affrontare un problema importante per tutta l'America, quello del rilascio di Ezra Pound: il dibattito per Pound si era aggravato nel 1949, quando gli era stato assegnato il prestigioso premio Bollingen e Delmore Schwartz e Irving Howe avevano protestato; adesso era stato organizzato dall'amministrazione Eisenhower un comitato di scrittori per combattere la propaganda sovietica presieduto da William Faulkner di cui Bellow faceva parte. Bellow si era trovato a controbattere un Faulkner come spesso gli accadeva influenzato dal suo amato bourbon e deciso a proporre di portare oltrecortina un po' di ungheresi e offrirgli una macchina usata e un lavoro, ma Bellow gli obietto' che al ritorno in patria sarebbero finiti tutti in prigione. Questa discussione aveva distratto gli scrittori dalle proposte per la liberazione di Ezra Pound: Bellow era violentemente contrario alla liberazione di Pound e ha scritto a Faulkner una lettera di fuoco per impedirlo. A parte questo dramma etico Bellow conduceva a Villa Tivoli una vita che sembrava uscita da un romanzo russo, clima che sottolineava con un'abitudine recente di rivolgersi agli amici con il patronimico in costume fra i russi. Il suo problema era la mancanza di soldi e la sua felicita' era stata la nascita il 19 gennaio 1957 di un bambino che era stato chiamato Adam Abraham. Aveva accettato un incarico temporaneo all'Universita' del Minnesota e vi si era trasferito in febbraio, poco dopo la nascita del figlio. Li' divideva l'ufficio col poeta John Berryman e a maggio era andato alla University of Chicago per esaminare un manoscritto intitolato La conversione degli ebrei sottoposto in esame dall'autore ventitreenne che aveva voluto conservare l'anonimato: Philip Roth ha riportato l'episodio nel suo The Gost Writer del 1979, dove ha ripreso il dramma della assimilazione ebraica. A differenza di Bellow che fa conservare ai suoi personaggi tracce della loro ascendenza di immigrati, i personaggi di Philip Roth vivono nelle nuove periferie. Di Saul Bellow Philip Roth ha raccolto un ricordo molto dolce: "Dava l'idea di una persona acuta, pazzamente sicura di se', affascinante, spiritosa e molto generosa". Ormai la celebrita' di Bellow e' tale che tutti conoscono i suoi libri; tutti conoscono anche i suoi premi che sono stati i tre National Book Awards, un Pulitzer Prize e clamorosamente il Premio Nobel che Bellow e' andato a prendere a Stoccolma con moglie, parenti e amici in un gruppo di una decina di persone in una settimana che e' stata per lui un uragano di applausi. Poi ha sposato la scienziata romena che lo ha portato a visitare il suo Paese infelice e ha divorziato dopo che Bellow aveva divorziato anche dalla terza moglie Susan Glassman. Ma anche con la moglie romena Bellow ha vissuto in Europa un episodio romanzesco. Era molto innamorato di lei, in Italia si era fatto consigliare un negozio di coralli per comperare una collana che doveva regalarle come una catena da schiavo da mettere al collo, mi diceva che ogni mattina era lui a prepararle il caffe' prima che lei uscisse, che era una moglie meravigliosa eccetera, ma quando in Francia il ministro della Cultura gli ha dato il premio della cultura francese porgendogli una medaglia, Bellow aveva fatto uno scherzo sull'asservimento che la medaglia comportava e la moglie romena gli aveva detto ad alta voce: "Don't make an ass of youself". Molto tempo dopo Bellow mi ha raccontato che e' tornato in America senza dirle una parola e ha parlato solo per chiedere a un avvocato il divorzio. I giornali sono stati pieni del suo ultimo matrimonio con Janis Freedman che a 40 anni e dopo cinque aborti gli ha dato a 84 anni una bambina che e' stata chiamata Naomi Rose. 3. MEMORIA. CLAUDIO STRINATI RICORDA ERNST GOMBRICH [Dal quotidiano "La Repubblica" del 6 novembre 2001 col titolo "Gombrich. Come raccontare a tutti che cos'e' un capolavoro"] E' morto sabato scorso, nella sua casa di Londra, vicino al grande parco di Hampstead Heath, lo storico dell'arte sir Ernst Gombrich. Aveva 92 anni. Gombrich per molti E', prima di tutto, il piU' grande divulgatore del XX secolo per quel che riguarda la storia dell'arte. Furono soprattutto due grandissimi libri, scritti nella maturita', a fare la sua gloria in questo senso: Arte e illusione, e la Storia dell'arte (tradotta in italiano come "raccontata da E. Gombrich"). I due libri si integrano magistralmente e danno bene la misura di un lavoro intellettuale che si pone ai due estremi opposti di un decennio fatale nella storia della cultura, quello in cui e' successo quasi tutto, dal 1950 al 1960, o, almeno, tutto quello su cui stiamo ragionando ancora adesso. Arte e illusione e' l'aspetto piu' specialistico; e' il tentativo di dare un assetto scientifico alla semplice questione da sempre irrisolta: che cosa succede quando si osserva un'opera d'arte? Che cosa si guarda effettivamente nell'atto del vedere rivolto a un prodotto artistico? E c'e' una differenza vera tra l'osservazione generale e l'osservazione esteticamente orientata? C'e', e' ovvio, ma qual e'? La Storia dell'arte e' proprio un racconto, si chiama infatti "story" non "History" e nella differenza tra i due vocaboli inglesi e' contenuto tutto il senso della questione. Esiste una storia dell'arte con caratteristiche proprie e come si deve raccontare al di fuori della specializzazione? Ne vale la pena? Gombrich, con questi due lavori ma in realta' con tutta la sua monumentale carriera scientifica, si ingegno' di dare risposte efficaci. Non sembri strano questo, perche' chi fa il mestiere dello storico dell'arte sa bene quanto curiosa sia una disciplina che e' fatta di tante discipline insieme (e fin qui niente di nuovo, succede in ogni campo) di cui viene per lo piu' proclamata l'indispensabilita' senza che questa possa essere spiegata mai fino in fondo con totale e perentoria convinzione. L'arte e' una cosa importante, su questo siamo tutti d'accordo, sovente e' proprio l'elemento che da' meglio di ogni altro l'identita' di una nazione, sintetizzando il senso della sua storia, e' fonte di infiniti piaceri, ha pure un cospicuo valore finanziario, ma quando si tratta di esplicitarne i contenuti e il significato a volte ci si arena. "Che rapporto ha l'arte con il sapere, che senso ha parlare delle possibilita' di comprendere un capolavoro? Non sapremo mai che significato potesse avere per il suo creatore, perche' anche ammettendo che ce ne abbia parlato puo' essere che in realta' fosse ignoto persino a lui. L'opera d'arte significa dunque cio' che significa per noi, non c'e' altro criterio". Sono parole di Gombrich, ricordate efficacemente da una nostra insigne storica degli studi iconologici, Claudia Cieri Via nel suo utilissimo del libro del 1994 Nei dettagli nascosto. Perche' proprio di questo si tratta, capire il pensiero e l'opera di Gombrich in relazione a quel vastissimo e variegato universo di ricerca storico-artistica che, a partire dal 1912 e da alcune tesi di Aby Warburg, e' stata chiamato "ricerca iconologica". Iconologia e' parola antica, cinquecentesca, e fu riesumata per indicare quel campo di studio che, in storia dell'arte, viene distinto dall'iconografia. Su questa sottilissima differenza si e' ingaggiata una discussione che e' stata fruttuosissima e che ancora adesso e' determinante per rispondere adeguatamente alle domande che abbiamo appena posto. L'iconografia spiega che cosa significa cio' che vediamo in un quadro, un disegno, una scultura. E' un lessico, fatto di una grammatica e una sintassi. Se una figura alata si inginocchia davanti a una donna per lo piu' seduta e con un libro davanti, il cristiano sa che si tratta di una Annunciazione. Si vede, quindi, cio' che si sa. A partire da questo presupposto elementare si e' arrivati all'iconologia quando Warburg, appunto, di cui Gombrich scrisse una memorabile e tendenziosa biografia intellettuale, inizio' la compilazione dei suo incredibili album fotografici, in cui tentava di rintracciare costanti e varianti dell'immaginario umano. Warburg pensava a una specie di uomo universale che non ha bisogno di essere ebreo o cristiano, induista o musulmano per delineare e conoscere immagini. Il suo intento era quello di far capire che il linguaggio visivo e' un linguaggio a tutti gli effetti che segue regole proprie e che crea sbalorditive interconnessioni tra tradizioni diverse. Dipende dal patrimonio culturale in cui si forma ma non se ne identifica. Nelle immagini e' calato un sapere che va ben oltre la spiegazione di cio' che e' rappresentato in base alla convenzione culturale vigente in quel determinato ambiente. Gombrich nasce da qui anche se passa attraverso le ricerche della prima grande generazione degli iconologi, quella che si compendia nel nome mitico di Erwin Panofsky. Ma Panofsky aveva rettificato il pensiero di Warburg, razionalizzandolo e cercando le fonti soprattutto letterarie e filosofiche dell'immagine figurativa, una strada che sarebbe stata percorsa poi da tutti i grandi iconologi, Gombrich compreso. E sono nate da li' le grandi dispute della storia dell'arte. Che significa sul serio la Primavera del Botticelli, qual e' la fonte letteraria cui l'artista si ispiro'? Ed e' lecito ed esauriente cercare una fonte letteraria? A questo punto subentra Gombrich. Formatosi a Vienna in un mondo che non ammetteva alcuna possibilita' di studio umanistico che non fosse insieme filosofico, Gombrich compi' uno spostamento determinante e in un certo senso simbolico. Quando l'Istituto fondato da Warburg si dovette trasferire a Londra nel 1936, vi si reco' diventandone l'esponente di spicco e, nel 1959, il direttore, proprio mentre si accingeva a pubblicare la Storia dell'arte. L'iconologia, nata su base filosofica e speculativa, si avviava a diventare il terreno di una sorta di pragmatismo storiografico che fu il piu' grande merito e il piu' grande limite del sommo studioso. Gombrich, in sostanza, visse la crisi colossale dell'idea sistematica della filosofia che contraddistingue il grande passaggio tra la prima e la seconda meta' del Novecento in molti ambiti della ricerca umanistica. L'iconologia era nata, infatti, integrando gli studi di storia dell'arte, fiorentissimi a Vienna, con le ricerche filosofiche di Ernst Cassirer, il sistematico per antonomasia, lo scienziato filosofo che aveva rinverdito in pieno Novecento la grande idea idealistica in base a cui un sistema filosofico puo' capire l'unita' della cultura, perche' questa esiste e l'organicita' della storia ne e' la dimostrazione. In base a questo principio la Primavera del Botticelli deve significare qualcosa di preciso e rintracciabile e questo qualcosa deve essere univoco, oppure la ricerca e' sbagliata. Gombrich, nutrito di studi psicanalitici, dubito' di questo e dedico' tutta la sua vita a fare il Popper della storia dell'arte, a chiedersi, cioe', se la lettura filosofica della storia non sia globalmente sbagliata o meglio impossibile e debba essere dunque abbandonata. Ma a favore di che cosa? Della fiducia nella specificita' del linguaggio artistico che e' una struttura percettiva basata, a prescindere quasi dal concreto delle vicende storiche, sull'eterno andirivieni tra "convenzione", in cui il linguaggio funziona, e "correzione" dello schema, per cui l'opera d'arte trova la sua necessita'. L'arte e' una costruzione di linguaggi e lo storico deve ricostruire le strutture in cui i linguaggi si organizzano, strutture che sono prodotte dal singolo individuo ma anche dal funzionamento complessivo dell'ambiente che impone, condiziona e porta inevitabilmente anche alla trasformazione del sapere. In questo senso l'approccio psicanalitico fu importantissimo per Gombrich, che sull'argomento ha scritto pagine memorabili. Il presupposto e' l'impossibilita' di essere univoci, di dare spiegazioni una volta per tutte. Camminando nell'iconologia ne mino' le basi e questo ha dato fastidio a molti. Su questo presupposto Gombrich ha insegnato una cosa in cui tutti i grandi storici dell'arte credono: che, cioe', stile e significato di un'opera d'arte sono inscindibili e quindi "ogni forma e' in linea di massima un mezzo espressivo adatto a riecheggiare o rispecchiare un significato", per citare ancora una volta le sue parole. Puo' sembrare un approccio astratto e astorico e, in effetti, furono mosse a Gombrich critiche del genere anche da suoi allievi che pure ne svilupparono il metodo. Ma, in realta', lo sforzo di Gombrich e' stato quello di ridare senso all'approccio umanistico in un'epoca sempre piu' lontana da un tale genere di approccio. E' difficile negare che l'opera d'arte sia un prodotto della mentalita' umanistica, ma e' altrettanto difficile dimostrare che in una dimensione umanistica tutto si debba di necessita' tenere in una armoniosa circolazione e nesso dei significati e dei contenuti culturali, come avrebbe ancora potuto affermare un filosofo come Benedetto Croce nel nostro paese. Gombrich senti' la necessita' di innervare il tema umanistico sui veri presupposti da cui era nato nell'eta' rinascimentale. Volle studiare questo problema in particolare, carico di fascino e di implicazioni, e sovente lo fece magistralmente come testimoniano certi suoi libri, tradotti anche in italiano, come il magnifico Norma e forma, che e' un po' la quintessenza del suo pensiero, o il bellissimo A cavallo di un manico di scopa. Resta per noi il problema di fondo da lui sollevato: in che misura un artista figurativo parla un linguaggio e in che misura ne e' parlato? Fino a dove ha la necessita' assoluta di aderire alla norma, senza la quale non potrebbe esprimersi, e come e' rintracciabile da parte dello studioso tutto cio' che appartiene allo scarto dalla norma e significa per noi "creativita'"? Una ricerca incessante che soltanto il solito incidente della interruzione della vita ha portato a un incerto compimento. 4. MEMORIA. MAURIZIO GIUFRE' RICORDA ETTORE SOTTSASS [Dal quotidiano "Il manifesto" del 2 gennaio 2008, col titolo "I progetti di Ettore Sottsass allo specchio della modernita'", e il sommario "A novant'anni e' scomparso l'altro ieri a Milano il celebre architetto e designer. Fermamente convinto che disegnare e' innanzitutto un atto etico e politico, ha saputo registrare, con i suoi paesaggi domestici flessibili, le trasformazioni della societa' dei consumi"] Della pattuglia di artisti-designer che nel dopoguerra formarono il nostro "paesaggio domestico", Ettore Sottsass jr., morto novantenne a Milano il 31 dicembre, rappresento' meglio di ogni altro quella categoria di "creatori di possibilita'" che Robert Musil considerava gli unici in grado di ricongiungersi con lo "spirito del tempo". Proprio il possesso del "senso della possibilita'" gli ha infatti permesso, come a pochi, di resistere alla proliferazione e al consumo delle mode smascherandone nel corso degli anni la retorica e il segno involutivo. Il possesso di questa disposizione - spesso intesa come "randagismo culturale" - trova le sue origini nel periodo trentino, quando Sottsass, ancora giovanissimo, gia' si considerava un homo faber, intento nella falegnameria di suo zio Max a costruire cannocchiali e barometri. In quegli anni, avrebbe raccontato in seguito il designer, tutto quello che faceva si esauriva "nell'atto di farlo" perche' solo nel "fare" (artistico), misurato attraverso i limiti della tecnica, gli era possibile esprimere i propri interessi. La formazione etica ed estetica di Sottsass - per meta' austriaco, da parte di madre - si inscrive da un lato all'interno della tradizione mitteleuropea che gli trasmise il padre Ettore, architetto modernista formatosi a Vienna, e dall'altro nella cultura espressa dal Politecnico di Torino, la citta' nella quale la famiglia si trasferi' nel 1929. E' stata Barbara Radice per prima ad accorgersi che il disegno "colorato, metafisico, molle" di Sottsass si iscriveva nell'eleganza jugendstil, cosi' come viennesi erano la loro "trasparenza e acidita'". Fu pero' nel "laboratorio" torinese degli anni '30, nel clima di entusiastiche sperimentazioni del Movimento razionalista (Pagano, Aloisio, Cuzzi, Levi Montalcini, Sartoris) e di aspre delusioni e sconfitte, che Sottsass apprese come ogni "evento della vita" sia determinato dalla sua condizione politica e sociale. Invitato nel 1987 dal Metropolitan Museum per una conferenza, affermo' che il design italiano, nato intorno agli anni '30, cosi' come l'architettura espressa dai gruppi dei giovani razionalisti, si fondavano sull'idea che disegnare qualcosa e' soprattutto "un evento politico, cioe' un evento etico". E dagli anni '30 rimase sempre convinto che solo dal confronto con la storia e la societa' l'attivita' di un designer o di un architetto puo' "dare un'immagine all'ambiente" nel quale vive. Lo dimostro' del resto nel dopoguerra partecipando al dibattito sulla ricostruzione e cercando di superare l'angusta contrapposizione tra industria e artigianato con argomenti non allineati alle teorie funzionaliste del Bauhaus o del Werkbund, le scuole di arte e mestieri d'oltralpe. Dalle pagine del "Politecnico" dichiaro' anacronistico non accorgersi che "tante cose fatte da artigiani si fanno a macchina, piu' belle e meno costose", pur nella consapevolezza che la bonta' e l'utilita' del prodotto seriale non potevano sostituirsi al mito della creazione artistica. Da qui scaturi' il suo interesse per le espressioni meno ortodosse dell'architettura (Maillart, Candela) e per la cultura figurativa dei paesi orientali, alla ricerca di quelle espressioni "radicali" che nella varieta' e disomogeneita' delle loro componenti, assumevano un'intima connessione alla vita e si rivelavano complementari all'astratta razionalita' di qualsiasi processo produttivo. Anche quando nel '59 l'Olivetti lo chiamo' per disegnare la prima macchina per scrivere elettrica, la Tekne, le sue preoccupazioni si rivolsero al modo in cui questi nuovi oggetti potevano influenzare "i nervi, il sangue, i muscoli, gli occhi e gli umori delle persone". La curiosita' di Sottsass non puntava sul disegno industriale delle singole macchine da scrivere (Valentine) o da calcolo (Praxis), ma mirava a costruire "paesaggi" complessi in grado di produrre una coerente figurazione ambientale. Il passaggio dalla tecnologia meccanica a quella elettronica permise a Sottsass di essere il protagonista privilegiato di un mutamento industriale significativo. Occorreva misurarsi non piu' con la forma del singolo oggetto, ma con le relazioni che una famiglia di macchine e arredi producevano nell'ambiente. Per la prima volta, sono gli anni '50, si assiste alla produzione di oggetti che insieme all'alto contenuto tecnico ed estetico fissano modelli di comportamento integrando nuove forme di comunicazione e di valori per la societa' dei consumi. Sottsass come un sismografo ne registro' le trasformazioni. Nella seconda meta' degli anni '60, alla mostra del MoMa di New York Italy, the New Domestic Landscape, il suo ambiente domestico flessibile, fatto di elementi in plastica aggregabili, risulto' in fastidiosa dissonanza rispetto al "design reale" proposto dagli altri partecipanti. La sua riflessione in merito fu nettissima: "Il design italiano pareva alla ricerca di un luogo asettico ideale, dove la scaltrezza, il cinismo, la durezza, gli imbrogli, gli intrighi dell'industria potessero essere nascosti o dimenticati o forse neppure presi in considerazione". A questa involuzione della cultura progettuale e industriale Sottsass reagi' cercando di restituire ritualita' agli oggetti in quelle fucine di idee e di linguaggi che furono prima la Sottsass Associati, nel 1980, e un anno dopo Memphis. Con l'incarico di progettare la catena di negozi per il marchio Esprit, il designer dispiego' una nuova concezione dell'oggetto di arredo in "micro-paesaggi". La consapevolezza che nell'epoca della tardomodernita' non si e' piu' "creatori di forme" ma solo "ricettori di forme" lo spinse negli ultimi anni verso l'architettura, con autentiche opere d'arte totale come la Casa Wolfe in Colorado. Le sue intenzioni non furono quelle di "costruire una casa in piu' nel mondo bensi' un pensiero in piu' sulle case": una posizione esemplare davanti al disinvolto e incolto scempio edificatorio che ovunque si manifesta. ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 175 del 3 agosto 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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