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Nonviolenza. Femminile plurale. 198
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 198
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 28 Jul 2008 10:23:40 +0200
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 198 del 28 luglio 2008 In questo numero: 1. Gian Carlo Ferretti presenta "Artemisia" di Anna Banti 2. Antonio Debenedetti presenta "La follia delle sirene" di Patricia Highsmith 3. Sebastiano Triulzi presenta "Una nuova terra" di Jhumpa Lahiri 4. Ermanno Bencivenga presenta "Esistenzialisti e mistici" di Iris Murdoch 5. Giorgio Montefoschi presenta "Il piccolo hotel" di Christina Stead 6. Guido Caldiron Intervista Amelie Nothomb (2005) 7. Claudio Lenzi intervista Zadie Smith (2004) 1. LIBRI. GIAN CARLO FERRETTI PRESENTA "ARTEMISIA" DI ANNA BANTI [Dal quotidiano "L'Unita'" dell'11 luglio 2007 col titolo "Storia di Artemisia, eroina libera e geniale" e il sommario "Sessant'anni fa Anna Banti scrisse un romanzo sulla pittrice seicentesca: per la prima volta veniva raccontata la vita di questa artista, una donna in lotta con i pregiudizi del suo tempo"] Di Anna Banti c'e' una prima Artemisia scritta in piena guerra e perduta nell'estate 1944 sotto le macerie, e ce n'e' una seconda pubblicata da Sansoni a Firenze nell'estate di sessant'anni fa. Un'opera costruita sull'intreccio-alternanza di diversi livelli narrativi, e di una prima e terza persona singolare: biografia e romanzo, dialogo della scrittrice con il suo personaggio e ricostruzione inventiva di ambienti e costumi seicenteschi tra Roma, Firenze, Francia, Inghilterra. "Artemisia Gentileschi, pittrice valentissima fra le poche che la storia ricordi. Nata nel 1598 a Roma, di famiglia pisana. Figlia di Orazio, pittore eccellente. Oltraggiata, appena giovinetta, nell'onore e nell'amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro. (...) Una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e una parita' di spirito fra i due sessi". Cosi' Anna Banti la presenta in un libro dedicato con discrezione "a R. L.", il marito Roberto Longhi, grande critico e studioso principe di Caravaggio e dei caravaggeschi, tra i quali i Gentileschi padre e figlia. Artemisia dunque e' una donna ripetutamente offesa: lo stupro, il processo, la vergogna, il matrimonio riparatore con un marito "di ripiego", Antonio Stiattesi. Di qui una incapacita' di amare e una maturazione personale precoce e dolorosa. Ma Artemisia e' anche una donna che, a differenza delle altre, sa reagire con orgoglio e determinazione. Eccola percio' mortificare e insieme esaltare la sua femminilita' nel lavoro per committenti illustri e nell'autonomia della produzione artistica, trovando la sua rivincita anche nella rappresentazione di antiche eroine, come Giuditta: "tutto quel sangue di Oloferne che stagnava sulla tela". C'e' in lei la consapevolezza di una privilegiata superiorita' e liberta', sia rispetto agli uomini schiavi del loro stesso potere, sia rispetto alle altre donne chiuse nelle loro silenziose rivolte: "Poveri uomini (...) travagliati di arroganza e di autorita', costretti da millenni a comandare, (...) queste donne che fingono di dormire al loro fianco e stringono fra le ciglia (...) recriminazioni, voglie nascoste, segreti progetti. (...) 'Ma io dipingo', scopre Artemisia". Neppure lei tuttavia puo' sfuggire a una condizione femminile originaria: e' una donna eccezionale che sa dar voce e corpo alle tensioni che fermentano anche dentro la normalita' delle sue consorelle, ma al tempo stesso soffre proprio della mancanza di quella loro normalita'. Artemisia insomma ha l'inquieta coscienza di una personale incompletezza e vive un difficile processo di integrazione: la necessita' di uno status e di una strategia sociale, il recupero del matrimonio in un primo tempo subito, l'accettazione di un rapporto coniugale istituzionale e insieme paritario, il desiderio e il rinvio di un ritorno alla vera autonomia di pittrice, la ricerca di un equilibrio tra l'appartenere ad altri e l'essere se stessa. Finche' Artemisia fa la scelta di una casa e di una vita tutte sue. Anche se e' una scelta che neppure una "donna forte" come lei, puo' compiere impunemente. Il rapporto con Antonio non sara' piu' lo stesso, e Artemisia restera' sola con una figlia in grembo, costretta a trasformare la sua pur contrastata completezza di moglie, in una ormai irreversibile e dolorosa autosufficienza di donna-madre. Artemisia si trova cosi' a incarnare uno status del tutto anomalo e indefinibile: "Quale sia, di preciso, la sua condizione, nessun confessore ha saputo spiegarglielo, per quanto abbia insistito: come, del resto, per meditar che faccia, non le e' riuscito di riconoscersi e definirsi in una figura esemplare e approvata dal secolo. (...)Questa e' donna che in ogni gesto vorrebbe ispirarsi a un modello del suo sesso e del suo tempo (...) e non lo trova". Nell'affrontare il mondo allora, non le resta che armare di sicurezza e alterigia la sua vulnerabilita' e fragilita' di donna e donna-madre sola, e di artista sottostimata in quanto donna. Passano gli anni, con una carriera crescente, altri amori e insinuazioni malevole dei vari ambienti, con la figlia maritata e il padre che la chiama in Inghilterra, dove ha una posizione importante ed e' un "protetto di Sua Maesta'". Qui Artemisia vive il ricongiungimento familiare prima come accettazione di un rapporto protettivo e rassicurante, e poi come regressione filiale, domestica e in definitiva tradizionale: "lavare fazzoletti, lucidare una scatola o un piatto". E' il desiderio di normalita' sociale e affettiva che torna a farsi sentire. Il ritorno alla pittura e all'indipendenza le viene quasi imposto da una fama e da un ruolo ineludibili. Di lei si parla alla corte del re, finche' la regina siede davanti a lei per un ritratto. Ma il passato di Artemisia torna inesorabile con le sue opposte esperienze, sia nelle offese che deve scontare per la posizione di donna libera e amante, sia nelle ritornanti cure filiali al padre malato. E' come un cerchio che si chiude, fino alla morte del padre e di lei. L'Artemisia di Anna Banti si puo' interpretare in almeno tre modi. Una prima chiave di lettura sembra scaturire dal bilancio insoddisfatto e autocritico che la scrittrice traccia della sua ricostruzione letteraria, quasi sottolineando la difficolta'-impossibilita' oggettiva di liberare Artemisia dalle sue contraddizioni: "L'ho indotta a sottoscrivere i gesti di una madre sola e imperfetta, di una pittrice dal valore dubitoso, di una donna altera ma debole, una donna che vorrebbe esser uomo per sfuggire a se stessa. E da donna a donna l'ho trattata, senza discrezione, senza virile rispetto. Trecento anni di maggiore esperienza non mi hanno insegnato a riscattare una compagna dai suoi errori umani e a ricostruirle una liberta' ideale, quella che la affrancava e la esaltava nelle ore di lavoro, che furono tante. E ormai non so che cimentarla, per farla parlare, sui ricordi di una maternita' infelice, il solito argomento delle donne". Ma si puo' anche sostenere che il personaggio di Artemisia trova una pregnanza di significati proprio nella sua irrisolta contraddittorieta': in quella impossibilita' a realizzare un equilibrio tra eccezionalita' e normalita', tra l'essere donna in modo tradizionale e trasgressivo, tra il piacere e il peso dell'appartenere ad altri (il padre, il marito, la figlia) e il piacere e peso di appartenere a se stessa (la solitudine, la pittura). Impossibilita' percio' a realizzare un modello di esistenza e di comportamento veramente nuovo. E conflitto che attraversa Artemisia in tutte le sue esperienze, da quelle piu' private a quelle piu' pubbliche, dal mondo segreto dei sentimenti alla esibita vita di relazione. La terza interpretazione, che sottintende certamente molte implicazioni delle altre due, e' quella piu' evidente e diretta. Nel presentare all'inizio Artemisia e nel reinventarne poi la storia anche attraverso un ritornante dialogo con lei, Anna Banti valorizza infatti la sua sottile attualita', facendone l'eroina di un audace e vulnerabile protofemminismo. 2. LIBRI. ANTONIO DEBENEDETTI PRESENTA "LA FOLLIA DELLE SIRENE" DI PATRICIA HIGHSMITH [Dal "Corriere della sera" del 31 marzo 2008 col titolo "Racconti. Vicende di ordinaria e straordinaria follia. Patricia Highsmith: i fantasmi nascosti nelle case dei vicini"] C'e' in questi racconti della Highsmith, ispirati a vicende di ordinaria e straordinaria follia, tutta l'irrazionalita' del XX secolo giunto alla sua conclusione. Ci sono i mostri da niente e le paure che abitano le giungle metropolitane, ci sono i perfidi fantasmi della solitudine e della frustrazione. C'e' la paura di vivere che lotta con la paura di morire. Dominata dalla misantropia, la Highsmith non ha cedimenti moralistici, non fa prediche e non indica vie di salvezza. Descrive gli uomini come li vede, preda di eventi oscuri e di forze ingovernabili. Non fa della filosofia, comunque. Si mette sempre al servizio del lettore, lo ipnotizza, narrandogli dei casi estremi. Lo coinvolge, lo appassiona senza indorare la pillola. Basti, a titolo di esempio, citare quella sconcertante parabola in nero dell'amore paterno che si intitola "Il bottone". Siamo a New York, in una notte di fine aprile. Roland Markow, un giovane e scrupoloso commercialista, si e' portato il lavoro a casa. Sta cercando, a dispetto dell'ora tarda, di concentrarsi. Deve controllare e ricontrollare fatture, ricevute di pagamenti, bonifici e altre carte d'un suo cliente di riguardo. A un tratto, dalla stanza vicina, giunge un grido o forse un lamento o magari tutte e due le cose insieme. "Guuu...". L'uomo ha uno scatto, si trattiene a stento dall'imprecare contro l'idiota... anzi, si corregge, contro suo figlio, un povero bambino di cinque anni. Comincia cosI' una vicenda, venticinque pagine, da inseguire col fiato in gola. La Highsmith, scavalcando d'impeto ogni possibile obiezione del buon senso, ricostruisce la genesi e il successivo compiersi d'un delitto raccapricciante. Descrive con spietata attendibilita' un raptus omicida che piu' d'un lettore si sentira' comunque di poter giustificare. Roland Markow E' infatti un uomo ancora giovane, fino a qualche tempo prima potenziale candidato a un'esistenza felice e vincente. Anche il suo matrimonio con Jane, donna deliziosa e innamorata, sembrava dovesse concorrere a un destino piu' che fortunato. Da quell'unione, fondata su una tranquilla e gioiosa attrazione reciproca, e' nato pero' Bertie. Come definire quella povera creatura, dagli occhi vacui e dalla lingua penzoloni, se non un crudele sbaglio di natura? In ogni caso mamma Jane, con ammirevole generosita', gli si sacrifica completamente. Giunge persino a trascurarsi e a trascurare lo sposo. Un tempo bella e desiderabile, si lascia ingrassare, trascorrendo intere giornate in ginocchio sul pavimento a giocare con Bertie. Il piccolo intanto sbava, emette suoni disarticolati e nulla piu'. Ecco il punto. Roland, il papa', non accetta l'inferno domestico cui sembra averlo condannato il destino. Cosi', distolto dai suoi calcoli e dalle sue verifiche, ha un moto di ribellione. Esce nel buio di quella notte di aprile, cammina senza una meta. Intanto la sua esasperazione e il suo dolore si cambiano in "una rabbia rovente". Brutale. Tanto che all'improvviso, incrociando uno sconosciuto senza altra colpa che quella di essere grassottello, esce di testa. Gli salta addosso senza un perche', affonda i pollici nella gola del malcapitato e lo strozza. Poi "si china, afferra un bottone della giacca a quadri della sua vittima e lo strappa". Quindi si infila in tasca quel trofeo e riprende la strada di casa. Quel "tondino di corno marrone", che da quel momento accompagnera' Roland ballando nel fondo d'una tasca, sara' la prova del suo riscatto. Gli ricordera', anche nei momenti di scoramento, che "ha ucciso un uomo per vendicare Bertie", cioe' quello che pensa sia l'ingiusto destino di quell'innocente. C'e' un altro racconto, si intitola "Non in questa vita, forse nella prossima", che meriterebbe di figurare in un'antologia dedicata alle piu' agghiaccianti "short story" del secondo novecento. Racconta d'una vedova dolcemente mite, Eleonor, della sua gatta Bessie e d'un loro visitatore alto sessanta centimetri. Un essere, ne' uomo ne' animale, che a conti fatti potrebbe considerarsi la materializzazione d'una riposta, segretissima volonta' di morte della protagonista. Il pensiero leggendo corre a "Miriam" di Truman Capote o a quel pezzo di bravura, nato trattando i fumi dell'irrazionale e del fantascientifico con gli inchiostri della ragione, che Ray Bradbury ha realizzato riferendo l'agghiacciante impresa d'un neonato diabolico. Un bambolotto di carne che, con strategie che appaiono agghiaccianti proprio perche' in qualche modo plausibili, uccide i suoi genitori. Nell'inquietante "Non sono bravo come gli altri", dove un tale per invidia dei vicini arriva a distruggere la propria casa, l'angoscia fa da lievito alla suspense. La poesia, come a volte in Hitchcock che nel suo L'altro uomo si e' ispirato alla Highsmith, nasce qui da una composta freddezza nel descrivere l'orrore d'una situazione estrema. 3. LIBRI. SEBASTIANO TRIULZI PRESENTA "UNA NUOVA TERRA" DI JHUMPA LAHIRI [Dal supplemento settimanale "Alias" del quotidiano "Il manifesto", n. 29 del 19 luglio 2008 col titolo "Una nuova terra, otto racconti globali. Jhumpa Lahiri nelle solitudini" e il sommario "Sono cresciuti, i ragazzini di seconda generazione migratoria descritti dall'autrice anglo-indiana: e qui si ritrovano, rassegnati, nelle grinze di un universo sfinito"] Anche negli otto racconti che compongono la sua ultima raccolta ("Una nuova terra", trad. di Federica Oddera, Guanda, pp. 370, euro 17), Jhumpa Lahiri rimane fedele al proprio mondo narrativo e al modo in cui ha inteso raccontarlo fin dalle storie de L'interprete dei malanni, che gli valsero il premio Pulitzer nel 2000. Bisogna darle atto, indubbiamente, della costanza e della forza con cui mette in atto i propri principi retorico-stilistici, non tanto nei suoi caratteri specifici, che rientrano appunto nell'ambito della letteratura postcoloniale di seconda generazione, quanto piuttosto sul piano dello stile, cioe' delle categorie linguistiche ed espressive che connaturano il suo discorso narrativo: usando una metafora, la prosa della Lahiri somiglia a uno che va a ottanta all'ora su una autostrada lineare e potenzialmente infinita, e' una scrittura che, volontariamente, non cambia mai passo, dove regolarita' e lentezza riflettono il tentativo di riprodurre un certo ritmo della vita borghese (in particolare della comunita' indiana in America). Alcuni suoi dati biografici - l'essere nata a Londra da genitori bengalesi, nel 1967, e cresciuta nel Rhode Island e poi educata al Barnard College e alla Boston University - sembrano tracciare anche le coordinate geografiche e psicologiche di molti suoi protagonisti, appartenenti per lo piu' a quella generazione (contrassegnata con l'acronimo G2) che rappresenta il frutto dissonante dell'ondata migratoria del secondo Novecento. Per semplificare, rispetto alla letteratura precedente, ai grandi interpreti della diaspora indiana che avevano esplorato l'erosione delle identita' analizzando in primo luogo l'alienazione e il cambiamento sociale dei migranti, non limitando la conflittualita' a un ambito culturale - basti pensare all'esempio di Rushdie, di come l'invenzione narrativa possedesse un peso politico ancora rilevante -, la Lahiri ha spesso inteso calare le conseguenze della migrazione in un altro, in un successivo forse, urto, o battaglia di confine: quello tra il processo di formazione dei figli dei migranti, nella loro connotazione specificatamente ibrida, e la tipica, problematica evoluzione emotiva degli adolescenti, un processo che vede in primis la rinegoziazione delle relazioni con le figure familiari - un meccanismo di interiorizzazione, assimilazione e rifiuto dei modelli genitoriali che contiene anche i semi di un incontro/scontro tra civilta'. Su questo stesso tasto anche altre scrittrici hanno battuto, ciascuna certamente con la propria voce (Monica Ali, Zadie Smith, ecc.): ma se nel romanzo l'Omonimo era la ricerca di se' a permeare il personaggio di Gogol, stretto tra due mondi, tra assimilazione e tradizione, nell'incapacita' di adattarsi ai nuovi riferimenti culturali e tuttavia volto alla ricerca di un "terzo spazio" in grado di far interagire patrimonio bengalese e cultura americana, in Una nuova terra i protagonisti sono ormai cresciuti e devono fare i conti con le aspettative giovanili e le loro effettive realizzazioni nel presente, oltre che con tutti gli altri totem del mondo degli adulti. I temi affrontati in questi racconti sono per un certo verso collettivi, mentre la prospettiva e' sempre quella di un G2: riguardano il fallimento dell'istituzione del matrimonio ("Dove alloggiare"), la morte o la condizione di vecchiaia di un genitore (nel racconto eponimo), le devastazioni dell'alcol all'interno di una famiglia ("Solo bonta'"), la fine dell'illusione dell'amore nell'eta' della maturita' (nel trittico: "Una volta nella vita", "Fine d'anno", "Giungere a riva"), e cosi' via. Sembrano voler esplorare sullo specchio dell'assimilazione insieme anche i malanni, meglio le grinze di un universo sfinito, di una intera generazione che ha superato l'eta' dei conflitti e che accetta con rassegnazione quel poco che il mondo globalizzato e fluido gli offre. Sono proprio tutte queste solitudini a dare la misura di quella nostalgia o di quel senso di perdita che connaturano le storie della Lahiri, come se il dissenso culturale e l'alterita' e perfino la dislocazione fossero stati resi innocui dalla normalita' tanto anelata da parte di questi figli della medio-alta borghesia d'immigrazione: la delusione non e' piu' storica o politica, ma e' personale, interiore, in linea d'altronde col modo di intendere la sconfitta nel mondo anglosassone e americano in particolare. Cio' che interessa alla nostra scrittrice e' comunque sempre l'esperienza dei trapiantati, e il titolo tratto dall'introduzione alla Lettera scarlatta stesa dallo stesso Hawthorne, e' li' anche a dimostrarlo: il passo nel suo complesso - "La natura umana, al pari di un tubero, non puo' prosperare se viene piantata e ripiantata nel medesimo suolo ormai depauperato... I miei figli affonderanno le loro radici in nuove terre" - con quel riferimento alla necessita' di recidere un legame che puo' diventare morboso, suggerisce la necessita' di spostarsi altrove se non si vuole che "la natura umana", appunto, si inaridisca. Questo spiega il carattere itinerante ed etno-globale degli otto racconti, in cui i protagonisti si spostano da Cambridge a Seattle alla Thailandia, e forse ci dice anche che le disposizioni ideologiche e morali della Lahiri, le sue intenzioni esplicite, non collimano poi con la condizione or ora enunciata, con quell'aura di sostanziale infelicita', di essenziale stanchezza quasi, dei suoi trapiantati. L'aver optato per una misura piu' lunga - alcuni racconti paiono dei romanzi brevi - e una forma di narrazione piu' articolata, che va avanti e indietro e che passa da una voce all'altra, si sono rivelate scelte assai fortunate. Eppure su ogni cosa risalta quella vocazione da passista che tanto piace ai critici americani piu' influenti (come la Michiko Kakutani del "New York Times") per la penetrabilita' nella vita quotidiana delle comunita' postcoloniali e per il rigetto di quella vena sentimentale, di quelle esotiche epifanie che formano solitamente il fascino piu' popolare dell'Oriente. Una vocazione che restituisce, invece e allo stesso tempo, un senso di gelo, una trasparenza dietro cui si legge, letteralmente, l'annullamento di tutti i sensi: "consolami, divertimi, spaventami, fammi piangere, fammi sognare o fammi pensare - fammi qualcosa di bello", scriveva Henry James, con Edward Morgan Forster uno dei maestri conclamati della nostra Lahiri, la cui prosa tende, al contrario, verso un grado zero del sentimento. Nel trittico di racconti che chiude Una nuova terra, una trilogia a cui l'autrice ha inteso attribuire un sottotitolo ("Hema e Kaushik") quale segno di unita' strutturale, tutto sembra accadere quasi in superficie. Nulla tocca in profondita' i protagonisti: disperazione e felicita' non possiedono, nel moto uniforme della Lahiri, il compito di scuotere i destinatari, e perfino la morte e' solo evocata, come se il cadavere non potesse essere mostrato in scena. La parola della Lahiri si fa sempre movimento netto e preciso, diviene un atto isolato, fine a se stesso, espressione di una normalita' da cui nessuno ha interesse a liberarsi, di un io rassegnato e senza apparenti emozioni: la sua e' ancora una scrittura che riverbera, forse inconsapevolmente, un fondo di aridita', quasi una paralisi del migrante di seconda generazione, giunto al grado mediano nella scala dell'assimilazione. 4. LIBRI. ERMANNO BENCIVENGA PRESENTA "IDEALISTI E MISTICI" DI IRIS MURDOCH [Dal quotidiano "La stampa" del 22 aprile 2006 col titolo "Una filosofia solare fuori dalla caverna"] Ho letto circa duecento pagine di Esistenzialisti e mistici (Iris Murdoch, Esistenzialisti e mistici, a cura di Peter Conradi, introduzione di Luisa Muraro, prefazione di George Steiner, il Saggiatore, pp. 543), un libro che raccoglie buona parte dell'opera filosofica di Iris Murdoch, finora nota al pubblico italiano soprattutto per i suoi ventisei romanzi. Ho riscontrato una tipica formazione Oxbridge, sia pure con un'attenzione inconsueta (per gli Anni Cinquanta, cui appartengono questi primi saggi) verso un pensiero non riducibile al linguaggio o al comportamento e verso un'"esperienza particolare" che sfugge alla concettualizzazione; un interesse altrettanto idiosincratico (in un filosofo inglese) per l'esistenzialismo di Sartre e di Simone de Beauvoir (Heidegger, confessa Murdoch, "non e' del tutto certa di averlo compreso"); una solida conoscenza dei "padri fondatori" Platone, Hume e Kant. Nulla di eccitante, insomma. Inizio un testo del 1958, "Un edificio di teoria"; e a un tratto, sorprendentemente, cominciano i fuochi d'artificio. "Il socialismo, nel corso del suo rapido e riuscito sviluppo, ha perduto perfino gli ultimi resti della teoria con cui aveva preso avvio". "E' pericoloso far morire di fame l'immaginazione morale dei giovani". "Abbiamo bisogno di un rifugio, e dovrebbe fornircelo la sinistra, contro il freddo campo aperto dell'empirismo benthamiano; una struttura, un edificio di teoria". "Un profluvio di sciocchi divertimenti ostacola il pensiero, il godimento dell'arte e perfino della conversazione". "La teoria e' necessaria per rianimare la stanca immaginazione della pratica". E ancora: "Il socialismo dovrebbe dichiarare, piu' onestamente e sistematicamente, proprio perche' non puo' pretendere di essere lo studio scientifico di un inevitabile sviluppo di tipo quasi biologico, di essere un'etica". "Non si deve smettere di porre la domanda: come possiamo tenere vivi il pensiero e la preoccupazione morale riguardo al socialismo?". Tutto questo, ripeto, nel 1958: mezzo secolo fa, Murdoch parlava gia' di noi - della nostra paura di pensare, del nostro bieco "realismo", del tradimento "scientifico" della nostra vocazione liberatoria e progressista. Forse perche' parlava di una tentazione e di una colpa comuni a tutte le epoche, da cui ogni epoca si deve riscattare. Ora tutto e' chiaro, e questa luce mi accompagna nel percorso che segue. Non e' eclettismo che porta Murdoch ad affiancare analitici e continentali, a compulsare T. S. Eliot e Simone Weil, a citare Freud e Wittgenstein e Henry James: e' autentica, onesta ricerca di tutti i piccoli e grandi frammenti che possono aiutarci a comporre l'"edificio di teoria" di cui abbiamo bisogno. Non sono suggestioni letterarie a farle mettere in secondo piano i rigori della filosofia accademica e interrogarsi su temi pericolosamente generici come amore e bellezza: e' l'intima, appassionata convinzione che il lavoro filosofico puo' e deve incidere sulla nostra personalita' e sulla nostra convivenza - e "amore significa comprendere, ed e' molto difficile, che qualcosa di altro da se' e' reale". Non e' sperimentalismo o divulgazione a suggerirle di scrivere in pieno XX secolo due dialoghi platonici, rappresentati dal National Theatre nel febbraio 1980: e' l'ideale di una filosofia che si mette costantemente in gioco, che entra ed esce ripetutamente dalla caverna offrendosi di volta in volta al fuoco e al sole, la cui essenza si situa al margine, all'imboccatura di quella caverna. E' destino di un recensore leggere libri dall'inizio alla fine, in un periodo di tempo piuttosto limitato. Ci e' mancato poco che tale pratica scrivesse le mie opinioni per me. Per fortuna ero ancora abbastanza sveglio quando sono arrivato a quel saggio del 1958; per fortuna ho capito. Adesso so che questo non e' un libro da leggere dall'inizio alla fine, ma a cui tornare quando la "professione" ci soffoca, e aprirlo a caso, e ritrovarci l'esempio di un'anima lucida e coraggiosa che continua a cercare la verita'. 5. LIBRI. GIORGIO MONTEFOSCHI PRESENTA "IL PICCOLO HOTEL" DI CHRISTINA STEAD [Dal "Corriere della sera" del 15 luglio 2008 col titolo "Le vite perdute di Christina Stead"] Subito, fin dall'inizio de Il piccolo hotel, il romanzo di Christina Stead pubblicato da Adelphi, appena un ospite sale le scale della modesta pensione che la signora Bonnard gestisce sulle rive del Lago Lemano, ponendo magari il problema dell'ascensore che e' troppo stretto, ecco che un altro ospite quelle stesse scale, nello stesso momento, le scende: e il problema dell'ascensore non esiste piu', perche' adesso l'argomento da affrontare riguarda il caffe' fatto male per esempio, o un biglietto da cento franchi rubato da una mano misteriosa in una borsa lasciata sconsideratamente in una stanza, o il fatto che le pareti delle camere sono cosi' sottili che si sente proprio tutto. Se nella sala da pranzo fa irruzione il sindaco, certamente pazzo, di un fantomatico villaggio del Belgio ossessionato dal prossimo e inevitabile arrivo dei comunisti russi che di sicuro lo metteranno al muro (perche' la seconda guerra mondiale e' finita ma un'altra guerra, "fredda", e' iniziata ben piu' terribile), ecco che dagli altri tavoli saliranno immediate valutazioni sulla inconsistenza del popolo svizzero, sulla ottusita' dei tedeschi nonche' sulla decadenza di quegli spocchiosi tirchi che sono i cittadini della Gran Bretagna. Se l'ora e' quella del te', o si sta sul lungolago o in giardino, non c'e' personaggio che si azzardi a esprimere vuoi una calibrata opinione, vuoi una considerazione perfettamente inutile, vuoi un semplice pensiero distratto, senza che nel giro di pochissime righe, a quella opinione assennata si risponda con una opinione altrettanto assennata ma che non ha nulla a che vedere con il discorso, alla considerazione perfettamente inutile si risponda con una considerazione ancora piu' inutile, al pensiero distratto faccia seguito un pensiero ugualmente distratto. Il mondo - sembra volerci dire la piu' grande scrittrice australiana con questo delizioso, comico e amarissimo romanzo che amo' tanto Saul Bellow e per normali motivi cronologici (mori' quattro anni prima della sua apparizione nel 1973) avrebbe adorato Ivy Compton-Burnett: un'altra perfida, appassionata di vicende minime e comuni - e' un posto assai confuso, nel quale chiunque puo' essere scambiato per un altro, tutto conta moltissimo e pochissimo. E, certo, le parole (in particolar modo per chi sa usarle con tanta bravura), sono pietre, pero' non sveleranno mai alcuna luce al di sopra delle nostre modeste esistenze; potranno al massimo certificare che ogni giorno, da quando ci svegliamo a quando andiamo a letto, siamo un po' felici e un po' infelici, un po' preoccupati e un po' no a causa di svariate piccole o meno piccole incombenze, e molto, molto disponibili a lasciarci condizionare da una di quelle parole mal dette, dalla nostra malinconia e dal nostro rancore, dal nostro - gelosamente conservato - malumore. Si', nessuno di noi conta cosi' tanto - pensa l'autrice del famosissimo Sabba familiare - da aver diritto a piu' di due battute di seguito in un romanzo; nessuno ha una storia cosi' importante da occuparlo per intero: ognuno di noi ha le sue sofferenze, le sue delusioni, le sue beghe; e anche se i nostri vicini non fanno altro che bussarci continuamente alla parete o alla porta della stanza, invadono la nostra vita con la quotidiana elencazione dei problemi e delle ansie che li tormentano, noi al massimo possiamo ambire ad essere uno di loro, uno dei tanti ospiti sbandati che affollano Il piccolo hotel. Perche', certo, il sindaco del villaggio belga, alla fine, si capira' che e' proprio pazzo, al di la' dei proclami deliranti, dell'abitudine di attraversare il parco tutto nudo con sciarpa e cappello, ma non e' altrettanto pazza la scheletrica signorina Chillard che ha la valigia piena di soldi e non paga il conto, tratta l'umile madre come una parente povera o una badante, se ne stara' a letto tutto il tempo non toccando cibo, minacciando di lasciarsi morire se non la riporteranno a Zermatt, dove c'e' un medico che ama moltissimo? E che dire della signora Trollope e del signor Wilkins, alloggiati in due camere comunicanti? Loro, alloggiano in due camere comunicanti, perche' pur essendo amanti dalla bellezza di ventisette anni, per motivi di bon ton si fanno passare per cugini. Ma nella camera accanto, c'e' Madame Blaise, la moglie di un medico svizzero che vive a Basilea e ogni tanto viene a trovarla, che quanto ad ambiguita' coniugale, la coppia Trollope-Wilkins se la mette sotto i tacchi. Laddove, rispetto a costoro, alle eterne diatribe matrimoniali e finanziarie (dal momento che, chi da una parte, chi dall'altra, i quattrini ce li hanno tutti, e tutti sono avidissimi: "Siamo una sola carne... E un solo patrimonio", sarebbe un po' la sintesi), nulla e' paragonabile alle inquietudini della attempata principessa Bili, col suo gigolo' argentino. Mentre, davvero indescrivibili risultano gli affaires del personale: in quanto, talvolta, torbidissimi. Tanto che potrebbe trasformarsi in una specie di moderna Arca di Noe', solo a volerlo, la modesta pensione del Piccolo hotel. 6. LIBRI. GUIDO CALDIRON INTERVISTA AMELIE NOTHOMB (2005) [Dal quotidiano "Liberazione" del 12 aprile 2005 col titolo "La fame inesauribile di Amelie Nothomb"] Ha esordito a ventitre' anni e il suo primo romanzo, Igiene dell'assassino, e' diventato rapidamente un caso letterario, citato e preso a modello. Ora, a trentasette anni, Amelie Nothomb, voce inquieta di una letteratura europea dal cuore profondamente cosmopolita, si concede il lusso di una bizzarra autobiografia, tutta giocata intorno all'idea della "fame", Biografia della fame, Voland (pp. 146, euro 13). Nothomb rintraccia con una punta di ironia e con il consueto cinismo le tappe della sua infanzia di ragazzina anoressica in giro per il mondo, al seguito di una famiglia di diplomatici. Sul fondo, la fame per la vita e il desiderio di scoperta che ne hanno poi fatta la scrittrice eccentrica e affascinante che conosciamo. L'abbiamo incontrata a Roma in occasione della presentazione del suo libro. * - Guido Caldiron: Perche' un'autobiografia a trentasette anni? - Amelie Nothomb: Sarebbe ridicolo che avessi pensato di scrivere la mia autobiografia come se avessi gia' terminato la mia vita. Da cio' l'idea di una "autobiografia tematica". Mi sono chiesta quale fosse la parola che poteva riassumere meglio i diversi aspetti della mia esistenza e quale espressione potesse racchiudere simbolicamente il significato, e ho pensato alla parola fame. Certo, non credo di essere la sola persona al mondo che prova ora, o ha provato nella sua vita, fame, ma credo pero' di potermi considerare una campionessa della fame, e questo in tutte le categorie e i significati che si possono dare al termine. Parlo della fame di tutto cio' che esiste, che provo io: fame della realta', degli altri esseri umani, dei sentimenti, della cultura, dei libri, dei paesi... La parola fame era la chiave attraverso la quale potevo accedere al massimo degli aspetti di cio' che sono, per questo alla fine ho scelto di tracciare una Biografia della fame. * - Guido Caldiron: La fame racchiude cosi' simbolicamente la sua vita, ma si presenta anche come una sorta di motore della civilta'. Eppure il suo libro si apre raccontando del popolo dell'arcipelago Vanuatu, in Oceania, che, a suo dire, non ha mai vissuto la fame. Quale geografia esistenziale compone questa mappa della fame? - Amelie Nothomb: Da questo punto di vista si tratta di una sorta di autogeografia, un percorso metafisico attraverso la geografia e la fame che raccoglie le mie esperienze di vita. Si comincia l'itinerario in Giappone, un paese che non e' certo povero anche se non tutti, tra i suoi cittadini, se la passano benissimo ma dove, in ogni caso, non c'e' fame. Poi si passa alla Cina maoista, nella quale la fame prosperava, e si arriva fino a New York, dove c'e' un'abbondanza straordinaria, ma dove si incontra anche la fame. In ogni caso, in queste tre realta' il cibo non e' un problema. Ma a undici anni, invece, ho fatto l'esperienza del Bangladesh, il paese piu' povero del mondo e dove tutti hanno fame. Non solo, e' forse il caso di parlare di una coincidenza metafisica, ma e' proprio in quella realta' che ho scoperto la violenza del corpo, che sono entrata nell'adolescenza e ho iniziato a proiettarmi verso l'essere donna, ma anche verso l'anoressia. Quindi credo di poter parlare di un parallelismo tra la fame che vivo io e la fame geografica dei paesi che attraverso, qualcosa che da' a questa fame una sua coerenza. * - Guido Caldiron: Si pensa spesso alla fame come a una metafora della vita e soprattutto dell'amore, del desiderio: si ha "fame" di qualcuno... Per lei, in questa autobiografia, si tratta anche di questo? - Amelie Nothomb: Certamente, la fame e' la scuola del desiderio. E attraverso tutte le modalita' di descrivere la fame che raccolgo nel libro, alla fine arrivo allo stadio supremo di questa voracita' esistenziale, arrivo proprio alla fame dell'altro. * - Guido Caldiron: Lei racconta spesso di scrivere molto piu' di quanto poi riesce a pubblicare, anche due, tre romanzi contemporaneamente. Questa dimensione della fame vale percio' anche per la scrittura? - Amelie Nothomb: Io ho bisogno assolutamente di scrivere tutti i giorni, qualcosa come quattro ore al giorno. In genere comincio in piena notte e mi fermo subito dopo l'alba. Solo che poi molto di quello che scrivo non mi convince e lo lascio li'. Diciamo che se ho finora pubblicato tredici romanzi, quelli che ho iniziato a scrivere, e spesso anche finito ma senza crederci, sono almeno tre volte tanti. Ma non si preoccupi, non ho intenzione di cominciare a pubblicare tutto quello che scrivo, non lo faro' mai. Per me la scrittura e' prima di tutto un modo di vivere, una condizione per restare in vita, per questo non ritengo necessario mostrare tutto questo agli altri. E' alla mia fame di scrivere che ho bisogno di dare risposte prima che a qualunque altra cosa. 7. LIBRI. CLAUDIO LENZI INTERVISTA ZADIE SMITH (2004) [Dal quotidiano "L'Unita'" del 26 settembre 2004 col titolo "La musica della bellezza"] La ragazzina e' cresciuta, c'era da aspettarselo, ventinove anni sono abbastanza per decidere cosa si vuole dalla vita. Parliamo di Zadie Smith, la celebre scrittrice di origini giamaicane che abbiamo incontrato a Siena, dove ha partecipato al convegno organizzato dall'universita' di Siena "Memoria e disincanto. Le mille voci di Gregor von Rezzori", lo scrittore e intellettuale mitteleuropeo scomparso nel 1998 del quale ricorre quest'anno il novantesimo della nascita. L'abito da sera non le sta piu' largo e la voce si e' fatta piu' sicura, sembra uscita da un salotto buono d'Inghilterra fine '800 quando si ferma a sorseggiare una tazza di te', se non fosse per quello sguardo che ogni volta la tradisce. Diretto, pulito, inequivocabile ma pur sempre dal basso in alto, come forse le hanno insegnato a Willesden, l'umile sobborgo di Londra dov'e' nata nel 1976 da padre inglese e madre giamaicana. Giura di tornarci appena puo', ma non deve essere facile e non deve capitare spesso. Non per la fama, anche se il mondo anglosassone (e non solo) la adora, piuttosto per una vita che ormai la vuole intellettuale a tempo pieno. Questa e' oggi Zadie Smith, la giovane inglese che a 24 anni sorprese il mondo con il romanzo Denti bianchi, caso letterario del 2001, presto definito la "bibbia del multiculturalismo", pluripremiato e tradotto in piu' di venti lingue, fino alla versione cinematografica realizzata due anni piu' tardi. Milioni di copie vendute, poteva essere l'inizio di una carriera radiosa, hanno rischiato di tradursi nell'inizio della fine. Troppo successo, c'e' stato un momento in cui avrebbe preferito non averlo mai scritto quel libro, per paura di non riuscire a scriverne un secondo altrettanto ribollente, straccione, multietnico e soprattutto vero. E invece nel 2003 esce L'uomo autografo, ambientato ancora a Londra, nel quartiere di Mountjoy, dove "gli abitanti fondano la propria vita sul principio del compromesso". Un mondo dal quale fuggire: Zadie lo fa rifugiandosi nello studio. Dopo essersi laureata alla Cambridge University comincia a viaggiare molto, negli Stati Uniti, in Italia; ogni luogo e' un luogo d'apprendimento, un modo per accrescere quel bagaglio culturale e letterario che le permettera' presto di saltare dall'altra parte della cattedra per dedicarsi all'insegnamento, presso Harvard. Le sue lezioni stupiscono per rigore e completezza, l'eta' e' un dettaglio ininfluente di fronte a tanto sapere dispensato. Ama associare ogni autore a un filosofo, trovare gli infiniti punti di contatto, provare nuove combinazioni, e altre ancora. Poi pero' pensa che qualcuno sta aspettando un suo nuovo libro e allora molla tutto, riprende a scrivere. "E' per questo che torno in Toscana, per la tranquillita'. A Donnini, non lontano da Firenze, si ripete ogni anno quella esperienza intellettuale che gia' fu di von Rezzori, un divertente scambio di idee fra scrittori di tutto il mondo, un'opportunita' che forse andrebbe aperta anche agli studenti. Luoghi come questo esistono anche a Yaddo, negli Stati Uniti, o in Scozia, ma il taglio istituzionale che la' viene dato finisce per ridurne le potenzialita'". * - Claudio Lenzi: Parla come se Denti bianchi e L'uomo autografo non le appartenessero piu'. Dov'e' finita la sua Londra colorata e caotica, l'Inghilterra dai tanti volti, la sua voglia di indagare come cambia il mondo, come cambiamo noi? - Zadie Smith: L'uomo autografo, il mio secondo libro, era molto diverso da Denti bianchi, e il prossimo romanzo, On Beauty (Sulla bellezza), sara' diverso ancora. * - Claudio Lenzi: Un titolo quanto mai ricorrente nella storia della letteratura. Voglia di recuperare una certa classicita'? - Zadie Smith: Al contrario - sorride -, sara' classico rispetto ai romanzi precedenti ma totalmente libero da ogni riferimento a quella tradizione britannica che ha caratterizzato finora i miei scritti. Ho lavorato molto sul romanzo americano del '900, leggendo le opere di Wharton ed Henry James. Credo che tutto il romanzo risenta di questi studi ma aspetto il giudizio di critici e lettori. Arrivera' presto, visto che il libro e' ormai completato. * - Claudio Lenzi: E' possibile accennare la trama? Di cosa si tratta? - Zadie Smith: Molto brevemente, la storia si sviluppa nel panorama universitario, dove s'intrecciano le vite di due famiglie, una inglese, l'altra statunitense. Lo definirei un romanzo divertente, ma non caricaturale. * - Claudio Lenzi: Di nuovo quei personaggi che credono di conoscere il mondo per aver visto un film o magari anche solo sentito una canzone. E se invece di scrivere romanzi, avesse fatto la musicista, oppure la sceneggiatrice? - Zadie Smith: Mi hanno chiesto spesso, dopo l'uscita di Denti bianchi, di scrivere sceneggiature, ma ho sempre risposto di no. Non fa per me, e' una pelle che non mi appartiene. Pero' sto scrivendo un musical per il teatro, da non credere, vero? * Zadie Smith sorride di nuovo, fa segno di non volerne parlare, di non voler aggiungere altro. Porge la mano per i saluti, lasciando tante domande senza risposta, meno che una: "L'anello? Mi sono sposata lo scorso 11 settembre". Vorremmo chiederle perche' proprio quel giorno, e con chi: qualcuno dice un poeta. Vorremmo ma non possiamo, Zadie si e' gia' alzata, le mani a sistemare i capelli raccolti dietro. Scortese? "Macche', timida", giurano coloro che la conoscono bene. Parla poco, e' vero, ma scrive tanto, e per lei e' questo quello che conta. Poco piu' tardi la vedi in piedi, in mezzo alla gente, a leggere un racconto di qualche anno fa. La voce sicura, lo sguardo pulito, diretto, inequivocabile. E' proprio vero, la ragazzina e' cresciuta. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 198 del 28 luglio 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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