Nonviolenza. Femminile plurale. 198



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 198 del 28 luglio 2008

In questo numero:
1. Gian Carlo Ferretti presenta "Artemisia" di Anna Banti
2. Antonio Debenedetti presenta "La follia delle sirene" di Patricia
Highsmith
3. Sebastiano Triulzi presenta "Una nuova terra" di Jhumpa Lahiri
4. Ermanno Bencivenga presenta "Esistenzialisti e mistici" di Iris Murdoch
5. Giorgio Montefoschi presenta "Il piccolo hotel" di Christina Stead
6. Guido Caldiron Intervista Amelie Nothomb (2005)
7. Claudio Lenzi intervista Zadie Smith (2004)

1. LIBRI. GIAN CARLO FERRETTI PRESENTA "ARTEMISIA" DI ANNA BANTI
[Dal quotidiano "L'Unita'" dell'11 luglio 2007 col titolo "Storia di
Artemisia, eroina libera e geniale" e il sommario "Sessant'anni fa Anna
Banti scrisse un romanzo sulla pittrice seicentesca: per la prima volta
veniva raccontata la vita di questa artista, una donna in lotta con i
pregiudizi del suo tempo"]

Di Anna Banti c'e' una prima Artemisia scritta in piena guerra e perduta
nell'estate 1944 sotto le macerie, e ce n'e' una seconda pubblicata da
Sansoni a Firenze nell'estate di sessant'anni fa. Un'opera costruita
sull'intreccio-alternanza di diversi livelli narrativi, e di una prima e
terza persona singolare: biografia e romanzo, dialogo della scrittrice con
il suo personaggio e ricostruzione inventiva di ambienti e costumi
seicenteschi tra Roma, Firenze, Francia, Inghilterra.
"Artemisia Gentileschi, pittrice valentissima fra le poche che la storia
ricordi. Nata nel 1598 a Roma, di famiglia pisana. Figlia di Orazio, pittore
eccellente. Oltraggiata, appena giovinetta, nell'onore e nell'amore. Vittima
svillaneggiata di un pubblico processo di stupro. (...) Una delle prime
donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro
congeniale e una parita' di spirito fra i due sessi". Cosi' Anna Banti la
presenta in un libro dedicato con discrezione "a R. L.", il marito Roberto
Longhi, grande critico e studioso principe di Caravaggio e dei
caravaggeschi, tra i quali i Gentileschi padre e figlia. Artemisia dunque e'
una donna ripetutamente offesa: lo stupro, il processo, la vergogna, il
matrimonio riparatore con un marito "di ripiego", Antonio Stiattesi. Di qui
una incapacita' di amare e una maturazione personale precoce e dolorosa.
Ma Artemisia e' anche una donna che, a differenza delle altre, sa reagire
con orgoglio e determinazione. Eccola percio' mortificare e insieme esaltare
la sua femminilita' nel lavoro per committenti illustri e nell'autonomia
della produzione artistica, trovando la sua rivincita anche nella
rappresentazione di antiche eroine, come Giuditta: "tutto quel sangue di
Oloferne che stagnava sulla tela".
C'e' in lei la consapevolezza di una privilegiata superiorita' e liberta',
sia rispetto agli uomini schiavi del loro stesso potere, sia rispetto alle
altre donne chiuse nelle loro silenziose rivolte: "Poveri uomini (...)
travagliati di arroganza e di autorita', costretti da millenni a comandare,
(...) queste donne che fingono di dormire al loro fianco e stringono fra le
ciglia (...) recriminazioni, voglie nascoste, segreti progetti. (...) 'Ma io
dipingo', scopre Artemisia".
Neppure lei tuttavia puo' sfuggire a una condizione femminile originaria: e'
una donna eccezionale che sa dar voce e corpo alle tensioni che fermentano
anche dentro la normalita' delle sue consorelle, ma al tempo stesso soffre
proprio della mancanza di quella loro normalita'. Artemisia insomma ha
l'inquieta coscienza di una personale incompletezza e vive un difficile
processo di integrazione: la necessita' di uno status e di una strategia
sociale, il recupero del matrimonio in un primo tempo subito, l'accettazione
di un rapporto coniugale istituzionale e insieme paritario, il desiderio e
il rinvio di un ritorno alla vera autonomia di pittrice, la ricerca di un
equilibrio tra l'appartenere ad altri e l'essere se stessa.
Finche' Artemisia fa la scelta di una casa e di una vita tutte sue. Anche se
e' una scelta che neppure una "donna forte" come lei, puo' compiere
impunemente. Il rapporto con Antonio non sara' piu' lo stesso, e Artemisia
restera' sola con una figlia in grembo, costretta a trasformare la sua pur
contrastata completezza di moglie, in una ormai irreversibile e dolorosa
autosufficienza di donna-madre. Artemisia si trova cosi' a incarnare uno
status del tutto anomalo e indefinibile: "Quale sia, di preciso, la sua
condizione, nessun confessore ha saputo spiegarglielo, per quanto abbia
insistito: come, del resto, per meditar che faccia, non le e' riuscito di
riconoscersi e definirsi in una figura esemplare e approvata dal secolo.
(...)Questa e' donna che in ogni gesto vorrebbe ispirarsi a un modello del
suo sesso e del suo tempo (...) e non lo trova".
Nell'affrontare il mondo allora, non le resta che armare di sicurezza e
alterigia la sua vulnerabilita' e fragilita' di donna e donna-madre sola, e
di artista sottostimata in quanto donna. Passano gli anni, con una carriera
crescente, altri amori e insinuazioni malevole dei vari ambienti, con la
figlia maritata e il padre che la chiama in Inghilterra, dove ha una
posizione importante ed e' un "protetto di Sua Maesta'". Qui Artemisia vive
il ricongiungimento familiare prima come accettazione di un rapporto
protettivo e rassicurante, e poi come regressione filiale, domestica e in
definitiva tradizionale: "lavare fazzoletti, lucidare una scatola o un
piatto". E' il desiderio di normalita' sociale e affettiva che torna a farsi
sentire.
Il ritorno alla pittura e all'indipendenza le viene quasi imposto da una
fama e da un ruolo ineludibili. Di lei si parla alla corte del re, finche'
la regina siede davanti a lei per un ritratto. Ma il passato di Artemisia
torna inesorabile con le sue opposte esperienze, sia nelle offese che deve
scontare per la posizione di donna libera e amante, sia nelle ritornanti
cure filiali al padre malato. E' come un cerchio che si chiude, fino alla
morte del padre e di lei.
L'Artemisia di Anna Banti si puo' interpretare in almeno tre modi. Una prima
chiave di lettura sembra scaturire dal bilancio insoddisfatto e autocritico
che la scrittrice traccia della sua ricostruzione letteraria, quasi
sottolineando la difficolta'-impossibilita' oggettiva di liberare Artemisia
dalle sue contraddizioni: "L'ho indotta a sottoscrivere i gesti di una madre
sola e imperfetta, di una pittrice dal valore dubitoso, di una donna altera
ma debole, una donna che vorrebbe esser uomo per sfuggire a se stessa. E da
donna a donna l'ho trattata, senza discrezione, senza virile rispetto.
Trecento anni di maggiore esperienza non mi hanno insegnato a riscattare una
compagna dai suoi errori umani e a ricostruirle una liberta' ideale, quella
che la affrancava e la esaltava nelle ore di lavoro, che furono tante. E
ormai non so che cimentarla, per farla parlare, sui ricordi di una
maternita' infelice, il solito argomento delle donne".
Ma si puo' anche sostenere che il personaggio di Artemisia trova una
pregnanza di significati proprio nella sua irrisolta contraddittorieta': in
quella impossibilita' a realizzare un equilibrio tra eccezionalita' e
normalita', tra l'essere donna in modo tradizionale e trasgressivo, tra il
piacere e il peso dell'appartenere ad altri (il padre, il marito, la figlia)
e il piacere e peso di appartenere a se stessa (la solitudine, la pittura).
Impossibilita' percio' a realizzare un modello di esistenza e di
comportamento veramente nuovo. E conflitto che attraversa Artemisia in tutte
le sue esperienze, da quelle piu' private a quelle piu' pubbliche, dal mondo
segreto dei sentimenti alla esibita vita di relazione.
La terza interpretazione, che sottintende certamente molte implicazioni
delle altre due, e' quella piu' evidente e diretta. Nel presentare
all'inizio Artemisia e nel reinventarne poi la storia anche attraverso un
ritornante dialogo con lei, Anna Banti valorizza infatti la sua sottile
attualita', facendone l'eroina di un audace e vulnerabile protofemminismo.

2. LIBRI. ANTONIO DEBENEDETTI PRESENTA "LA FOLLIA DELLE SIRENE" DI PATRICIA
HIGHSMITH
[Dal "Corriere della sera" del 31 marzo 2008 col titolo "Racconti. Vicende
di ordinaria e straordinaria follia. Patricia Highsmith: i fantasmi nascosti
nelle case dei vicini"]

C'e' in questi racconti della Highsmith, ispirati a vicende di ordinaria e
straordinaria follia, tutta l'irrazionalita' del XX secolo giunto alla sua
conclusione. Ci sono i mostri da niente e le paure che abitano le giungle
metropolitane, ci sono i perfidi fantasmi della solitudine e della
frustrazione. C'e' la paura di vivere che lotta con la paura di morire.
Dominata dalla misantropia, la Highsmith non ha cedimenti moralistici, non
fa prediche e non indica vie di salvezza. Descrive gli uomini come li vede,
preda di eventi oscuri e di forze ingovernabili. Non fa della filosofia,
comunque. Si mette sempre al servizio del lettore, lo ipnotizza, narrandogli
dei casi estremi. Lo coinvolge, lo appassiona senza indorare la pillola.
Basti, a titolo di esempio, citare quella sconcertante parabola in nero
dell'amore paterno che si intitola "Il bottone".
Siamo a New York, in una notte di fine aprile. Roland Markow, un giovane e
scrupoloso commercialista, si e' portato il lavoro a casa. Sta cercando, a
dispetto dell'ora tarda, di concentrarsi. Deve controllare e ricontrollare
fatture, ricevute di pagamenti, bonifici e altre carte d'un suo cliente di
riguardo. A un tratto, dalla stanza vicina, giunge un grido o forse un
lamento o magari tutte e due le cose insieme. "Guuu...". L'uomo ha uno
scatto, si trattiene a stento dall'imprecare contro l'idiota... anzi, si
corregge, contro suo figlio, un povero bambino di cinque anni. Comincia
cosI' una vicenda, venticinque pagine, da inseguire col fiato in gola. La
Highsmith, scavalcando d'impeto ogni possibile obiezione del buon senso,
ricostruisce la genesi e il successivo compiersi d'un delitto
raccapricciante. Descrive con spietata attendibilita' un raptus omicida che
piu' d'un lettore si sentira' comunque di poter giustificare. Roland Markow
E' infatti un uomo ancora giovane, fino a qualche tempo prima potenziale
candidato a un'esistenza felice e vincente. Anche il suo matrimonio con
Jane, donna deliziosa e innamorata, sembrava dovesse concorrere a un destino
piu' che fortunato. Da quell'unione, fondata su una tranquilla e gioiosa
attrazione reciproca, e' nato pero' Bertie. Come definire quella povera
creatura, dagli occhi vacui e dalla lingua penzoloni, se non un crudele
sbaglio di natura? In ogni caso mamma Jane, con ammirevole generosita', gli
si sacrifica completamente. Giunge persino a trascurarsi e a trascurare lo
sposo. Un tempo bella e desiderabile, si lascia ingrassare, trascorrendo
intere giornate in ginocchio sul pavimento a giocare con Bertie. Il piccolo
intanto sbava, emette suoni disarticolati e nulla piu'. Ecco il punto.
Roland, il papa', non accetta l'inferno domestico cui sembra averlo
condannato il destino. Cosi', distolto dai suoi calcoli e dalle sue
verifiche, ha un moto di ribellione. Esce nel buio di quella notte di
aprile, cammina senza una meta. Intanto la sua esasperazione e il suo dolore
si cambiano in "una rabbia rovente". Brutale. Tanto che all'improvviso,
incrociando uno sconosciuto senza altra colpa che quella di essere
grassottello, esce di testa. Gli salta addosso senza un perche', affonda i
pollici nella gola del malcapitato e lo strozza. Poi "si china, afferra un
bottone della giacca a quadri della sua vittima e lo strappa". Quindi si
infila in tasca quel trofeo e riprende la strada di casa. Quel "tondino di
corno marrone", che da quel momento accompagnera' Roland ballando nel fondo
d'una tasca, sara' la prova del suo riscatto. Gli ricordera', anche nei
momenti di scoramento, che "ha ucciso un uomo per vendicare Bertie", cioe'
quello che pensa sia l'ingiusto destino di quell'innocente.
C'e' un altro racconto, si intitola "Non in questa vita, forse nella
prossima", che meriterebbe di figurare in un'antologia dedicata alle piu'
agghiaccianti "short story" del secondo novecento. Racconta d'una vedova
dolcemente mite, Eleonor, della sua gatta Bessie e d'un loro visitatore alto
sessanta centimetri. Un essere, ne' uomo ne' animale, che a conti fatti
potrebbe considerarsi la materializzazione d'una riposta, segretissima
volonta' di morte della protagonista. Il pensiero leggendo corre a "Miriam"
di Truman Capote o a quel pezzo di bravura, nato trattando i fumi
dell'irrazionale e del fantascientifico con gli inchiostri della ragione,
che Ray Bradbury ha realizzato riferendo l'agghiacciante impresa d'un
neonato diabolico. Un bambolotto di carne che, con strategie che appaiono
agghiaccianti proprio perche' in qualche modo plausibili, uccide i suoi
genitori.
Nell'inquietante "Non sono bravo come gli altri", dove un tale per invidia
dei vicini arriva a distruggere la propria casa, l'angoscia fa da lievito
alla suspense. La poesia, come a volte in Hitchcock che nel suo L'altro uomo
si e' ispirato alla Highsmith, nasce qui da una composta freddezza nel
descrivere l'orrore d'una situazione estrema.

3. LIBRI. SEBASTIANO TRIULZI PRESENTA "UNA NUOVA TERRA" DI JHUMPA LAHIRI
[Dal supplemento settimanale "Alias" del quotidiano "Il manifesto", n. 29
del 19 luglio 2008 col titolo "Una nuova terra, otto racconti globali.
Jhumpa Lahiri nelle solitudini" e il sommario "Sono cresciuti, i ragazzini
di seconda generazione migratoria descritti dall'autrice anglo-indiana: e
qui si ritrovano, rassegnati, nelle grinze di un universo sfinito"]

Anche negli otto racconti che compongono la sua ultima raccolta ("Una nuova
terra", trad. di Federica Oddera, Guanda, pp. 370, euro 17), Jhumpa Lahiri
rimane fedele al proprio mondo narrativo e al modo in cui ha inteso
raccontarlo fin dalle storie de L'interprete dei malanni, che gli valsero il
premio Pulitzer nel 2000. Bisogna darle atto, indubbiamente, della costanza
e della forza con cui mette in atto i propri principi retorico-stilistici,
non tanto nei suoi caratteri specifici, che rientrano appunto nell'ambito
della letteratura postcoloniale di seconda generazione, quanto piuttosto sul
piano dello stile, cioe' delle categorie linguistiche ed espressive che
connaturano il suo discorso narrativo: usando una metafora, la prosa della
Lahiri somiglia a uno che va a ottanta all'ora su una autostrada lineare e
potenzialmente infinita, e' una scrittura che, volontariamente, non cambia
mai passo, dove regolarita' e lentezza riflettono il tentativo di riprodurre
un certo ritmo della vita borghese (in particolare della comunita' indiana
in America).
Alcuni suoi dati biografici - l'essere nata a Londra da genitori bengalesi,
nel 1967, e cresciuta nel Rhode Island e poi educata al Barnard College e
alla Boston University - sembrano tracciare anche le coordinate geografiche
e psicologiche di molti suoi protagonisti, appartenenti per lo piu' a quella
generazione (contrassegnata con l'acronimo G2) che rappresenta il frutto
dissonante dell'ondata migratoria del secondo Novecento. Per semplificare,
rispetto alla letteratura precedente, ai grandi interpreti della diaspora
indiana che avevano esplorato l'erosione delle identita' analizzando in
primo luogo l'alienazione e il cambiamento sociale dei migranti, non
limitando la conflittualita' a un ambito culturale - basti pensare
all'esempio di Rushdie, di come l'invenzione narrativa possedesse un peso
politico ancora rilevante -, la Lahiri ha spesso inteso calare le
conseguenze della migrazione in un altro, in un successivo forse, urto, o
battaglia di confine: quello tra il processo di formazione dei figli dei
migranti, nella loro connotazione specificatamente ibrida, e la tipica,
problematica evoluzione emotiva degli adolescenti, un processo che vede in
primis la rinegoziazione delle relazioni con le figure familiari - un
meccanismo di interiorizzazione, assimilazione e rifiuto dei modelli
genitoriali che contiene anche i semi di un incontro/scontro tra civilta'.
Su questo stesso tasto anche altre scrittrici hanno battuto, ciascuna
certamente con la propria voce (Monica Ali, Zadie Smith, ecc.): ma se nel
romanzo l'Omonimo era la ricerca di se' a permeare il personaggio di Gogol,
stretto tra due mondi, tra assimilazione e tradizione, nell'incapacita' di
adattarsi ai nuovi riferimenti culturali e tuttavia volto alla ricerca di un
"terzo spazio" in grado di far interagire patrimonio bengalese e cultura
americana, in Una nuova terra i protagonisti sono ormai cresciuti e devono
fare i conti con le aspettative giovanili e le loro effettive realizzazioni
nel presente, oltre che con tutti gli altri totem del mondo degli adulti.
I temi affrontati in questi racconti sono per un certo verso collettivi,
mentre la prospettiva e' sempre quella di un G2: riguardano il fallimento
dell'istituzione del matrimonio ("Dove alloggiare"), la morte o la
condizione di vecchiaia di un genitore (nel racconto eponimo), le
devastazioni dell'alcol all'interno di una famiglia ("Solo bonta'"), la fine
dell'illusione dell'amore nell'eta' della maturita' (nel trittico: "Una
volta nella vita", "Fine d'anno", "Giungere a riva"), e cosi' via. Sembrano
voler esplorare sullo specchio dell'assimilazione insieme anche i malanni,
meglio le grinze di un universo sfinito, di una intera generazione che ha
superato l'eta' dei conflitti e che accetta con rassegnazione quel poco che
il mondo globalizzato e fluido gli offre. Sono proprio tutte queste
solitudini a dare la misura di quella nostalgia o di quel senso di perdita
che connaturano le storie della Lahiri, come se il dissenso culturale e
l'alterita' e perfino la dislocazione fossero stati resi innocui dalla
normalita' tanto anelata da parte di questi figli della medio-alta borghesia
d'immigrazione: la delusione non e' piu' storica o politica, ma e'
personale, interiore, in linea d'altronde col modo di intendere la sconfitta
nel mondo anglosassone e americano in particolare.
Cio' che interessa alla nostra scrittrice e' comunque sempre l'esperienza
dei trapiantati, e il titolo tratto dall'introduzione alla Lettera scarlatta
stesa dallo stesso Hawthorne, e' li' anche a dimostrarlo: il passo nel suo
complesso - "La natura umana, al pari di un tubero, non puo' prosperare se
viene piantata e ripiantata nel medesimo suolo ormai depauperato... I miei
figli affonderanno le loro radici in nuove terre" - con quel riferimento
alla necessita' di recidere un legame che puo' diventare morboso, suggerisce
la necessita' di spostarsi altrove se non si vuole che "la natura umana",
appunto, si inaridisca. Questo spiega il carattere itinerante ed
etno-globale degli otto racconti, in cui i protagonisti si spostano da
Cambridge a Seattle alla Thailandia, e forse ci dice anche che le
disposizioni ideologiche e morali della Lahiri, le sue intenzioni esplicite,
non collimano poi con la condizione or ora enunciata, con quell'aura di
sostanziale infelicita', di essenziale stanchezza quasi, dei suoi
trapiantati.
L'aver optato per una misura piu' lunga - alcuni racconti paiono dei romanzi
brevi - e una forma di narrazione piu' articolata, che va avanti e indietro
e che passa da una voce all'altra, si sono rivelate scelte assai fortunate.
Eppure su ogni cosa risalta quella vocazione da passista che tanto piace ai
critici americani piu' influenti (come la Michiko Kakutani del "New York
Times") per la penetrabilita' nella vita quotidiana delle comunita'
postcoloniali e per il rigetto di quella vena sentimentale, di quelle
esotiche epifanie che formano solitamente il fascino piu' popolare
dell'Oriente. Una vocazione che restituisce, invece e allo stesso tempo, un
senso di gelo, una trasparenza dietro cui si legge, letteralmente,
l'annullamento di tutti i sensi: "consolami, divertimi, spaventami, fammi
piangere, fammi sognare o fammi pensare - fammi qualcosa di bello", scriveva
Henry James, con Edward Morgan Forster uno dei maestri conclamati della
nostra Lahiri, la cui prosa tende, al contrario, verso un grado zero del
sentimento.
Nel trittico di racconti che chiude Una nuova terra, una trilogia a cui
l'autrice ha inteso attribuire un sottotitolo ("Hema e Kaushik") quale segno
di unita' strutturale, tutto sembra accadere quasi in superficie. Nulla
tocca in profondita' i protagonisti: disperazione e felicita' non
possiedono, nel moto uniforme della Lahiri, il compito di scuotere i
destinatari, e perfino la morte e' solo evocata, come se il cadavere non
potesse essere mostrato in scena.
La parola della Lahiri si fa sempre movimento netto e preciso, diviene un
atto isolato, fine a se stesso, espressione di una normalita' da cui nessuno
ha interesse a liberarsi, di un io rassegnato e senza apparenti emozioni: la
sua e' ancora una scrittura che riverbera, forse inconsapevolmente, un fondo
di aridita', quasi una paralisi del migrante di seconda generazione, giunto
al grado mediano nella scala dell'assimilazione.

4. LIBRI. ERMANNO BENCIVENGA PRESENTA "IDEALISTI E MISTICI" DI IRIS MURDOCH
[Dal quotidiano "La stampa" del 22 aprile 2006 col titolo "Una filosofia
solare fuori dalla caverna"]

Ho letto circa duecento pagine di Esistenzialisti e mistici (Iris Murdoch,
Esistenzialisti e mistici, a cura di Peter Conradi, introduzione di Luisa
Muraro, prefazione di George Steiner, il Saggiatore, pp. 543), un libro che
raccoglie buona parte dell'opera filosofica di Iris Murdoch, finora nota al
pubblico italiano soprattutto per i suoi ventisei romanzi. Ho riscontrato
una tipica formazione Oxbridge, sia pure con un'attenzione inconsueta (per
gli Anni Cinquanta, cui appartengono questi primi saggi) verso un pensiero
non riducibile al linguaggio o al comportamento e verso un'"esperienza
particolare" che sfugge alla concettualizzazione; un interesse altrettanto
idiosincratico (in un filosofo inglese) per l'esistenzialismo di Sartre e di
Simone de Beauvoir (Heidegger, confessa Murdoch, "non e' del tutto certa di
averlo compreso"); una solida conoscenza dei "padri fondatori" Platone, Hume
e Kant. Nulla di eccitante, insomma.
Inizio un testo del 1958, "Un edificio di teoria"; e a un tratto,
sorprendentemente, cominciano i fuochi d'artificio. "Il socialismo, nel
corso del suo rapido e riuscito sviluppo, ha perduto perfino gli ultimi
resti della teoria con cui aveva preso avvio". "E' pericoloso far morire di
fame l'immaginazione morale dei giovani". "Abbiamo bisogno di un rifugio, e
dovrebbe fornircelo la sinistra, contro il freddo campo aperto
dell'empirismo benthamiano; una struttura, un edificio di teoria". "Un
profluvio di sciocchi divertimenti ostacola il pensiero, il godimento
dell'arte e perfino della conversazione". "La teoria e' necessaria per
rianimare la stanca immaginazione della pratica". E ancora: "Il socialismo
dovrebbe dichiarare, piu' onestamente e sistematicamente, proprio perche'
non puo' pretendere di essere lo studio scientifico di un inevitabile
sviluppo di tipo quasi biologico, di essere un'etica". "Non si deve smettere
di porre la domanda: come possiamo tenere vivi il pensiero e la
preoccupazione morale riguardo al socialismo?".
Tutto questo, ripeto, nel 1958: mezzo secolo fa, Murdoch parlava gia' di
noi - della nostra paura di pensare, del nostro bieco "realismo", del
tradimento "scientifico" della nostra vocazione liberatoria e progressista.
Forse perche' parlava di una tentazione e di una colpa comuni a tutte le
epoche, da cui ogni epoca si deve riscattare. Ora tutto e' chiaro, e questa
luce mi accompagna nel percorso che segue.
Non e' eclettismo che porta Murdoch ad affiancare analitici e continentali,
a compulsare T. S. Eliot e Simone Weil, a citare Freud e Wittgenstein e
Henry James: e' autentica, onesta ricerca di tutti i piccoli e grandi
frammenti che possono aiutarci a comporre l'"edificio di teoria" di cui
abbiamo bisogno. Non sono suggestioni letterarie a farle mettere in secondo
piano i rigori della filosofia accademica e interrogarsi su temi
pericolosamente generici come amore e bellezza: e' l'intima, appassionata
convinzione che il lavoro filosofico puo' e deve incidere sulla nostra
personalita' e sulla nostra convivenza - e "amore significa comprendere, ed
e' molto difficile, che qualcosa di altro da se' e' reale".
Non e' sperimentalismo o divulgazione a suggerirle di scrivere in pieno XX
secolo due dialoghi platonici, rappresentati dal National Theatre nel
febbraio 1980: e' l'ideale di una filosofia che si mette costantemente in
gioco, che entra ed esce ripetutamente dalla caverna offrendosi di volta in
volta al fuoco e al sole, la cui essenza si situa al margine,
all'imboccatura di quella caverna.
E' destino di un recensore leggere libri dall'inizio alla fine, in un
periodo di tempo piuttosto limitato. Ci e' mancato poco che tale pratica
scrivesse le mie opinioni per me. Per fortuna ero ancora abbastanza sveglio
quando sono arrivato a quel saggio del 1958; per fortuna ho capito. Adesso
so che questo non e' un libro da leggere dall'inizio alla fine, ma a cui
tornare quando la "professione" ci soffoca, e aprirlo a caso, e ritrovarci
l'esempio di un'anima lucida e coraggiosa che continua a cercare la verita'.

5. LIBRI. GIORGIO MONTEFOSCHI PRESENTA "IL PICCOLO HOTEL" DI CHRISTINA STEAD
[Dal "Corriere della sera" del 15 luglio 2008 col titolo "Le vite perdute di
Christina Stead"]

Subito, fin dall'inizio de Il piccolo hotel, il romanzo di Christina Stead
pubblicato da Adelphi, appena un ospite sale le scale della modesta pensione
che la signora Bonnard gestisce sulle rive del Lago Lemano, ponendo magari
il problema dell'ascensore che e' troppo stretto, ecco che un altro ospite
quelle stesse scale, nello stesso momento, le scende: e il problema
dell'ascensore non esiste piu', perche' adesso l'argomento da affrontare
riguarda il caffe' fatto male per esempio, o un biglietto da cento franchi
rubato da una mano misteriosa in una borsa lasciata sconsideratamente in una
stanza, o il fatto che le pareti delle camere sono cosi' sottili che si
sente proprio tutto. Se nella sala da pranzo fa irruzione il sindaco,
certamente pazzo, di un fantomatico villaggio del Belgio ossessionato dal
prossimo e inevitabile arrivo dei comunisti russi che di sicuro lo
metteranno al muro (perche' la seconda guerra mondiale e' finita ma un'altra
guerra, "fredda", e' iniziata ben piu' terribile), ecco che dagli altri
tavoli saliranno immediate valutazioni sulla inconsistenza del popolo
svizzero, sulla ottusita' dei tedeschi nonche' sulla decadenza di quegli
spocchiosi tirchi che sono i cittadini della Gran Bretagna. Se l'ora e'
quella del te', o si sta sul lungolago o in giardino, non c'e' personaggio
che si azzardi a esprimere vuoi una calibrata opinione, vuoi una
considerazione perfettamente inutile, vuoi un semplice pensiero distratto,
senza che nel giro di pochissime righe, a quella opinione assennata si
risponda con una opinione altrettanto assennata ma che non ha nulla a che
vedere con il discorso, alla considerazione perfettamente inutile si
risponda con una considerazione ancora piu' inutile, al pensiero distratto
faccia seguito un pensiero ugualmente distratto.
Il mondo - sembra volerci dire la piu' grande scrittrice australiana con
questo delizioso, comico e amarissimo romanzo che amo' tanto Saul Bellow e
per normali motivi cronologici (mori' quattro anni prima della sua
apparizione nel 1973) avrebbe adorato Ivy Compton-Burnett: un'altra perfida,
appassionata di vicende minime e comuni - e' un posto assai confuso, nel
quale chiunque puo' essere scambiato per un altro, tutto conta moltissimo e
pochissimo. E, certo, le parole (in particolar modo per chi sa usarle con
tanta bravura), sono pietre, pero' non sveleranno mai alcuna luce al di
sopra delle nostre modeste esistenze; potranno al massimo certificare che
ogni giorno, da quando ci svegliamo a quando andiamo a letto, siamo un po'
felici e un po' infelici, un po' preoccupati e un po' no a causa di svariate
piccole o meno piccole incombenze, e molto, molto disponibili a lasciarci
condizionare da una di quelle parole mal dette, dalla nostra malinconia e
dal nostro rancore, dal nostro - gelosamente conservato - malumore.
Si', nessuno di noi conta cosi' tanto - pensa l'autrice del famosissimo
Sabba familiare - da aver diritto a piu' di due battute di seguito in un
romanzo; nessuno ha una storia cosi' importante da occuparlo per intero:
ognuno di noi ha le sue sofferenze, le sue delusioni, le sue beghe; e anche
se i nostri vicini non fanno altro che bussarci continuamente alla parete o
alla porta della stanza, invadono la nostra vita con la quotidiana
elencazione dei problemi e delle ansie che li tormentano, noi al massimo
possiamo ambire ad essere uno di loro, uno dei tanti ospiti sbandati che
affollano Il piccolo hotel. Perche', certo, il sindaco del villaggio belga,
alla fine, si capira' che e' proprio pazzo, al di la' dei proclami
deliranti, dell'abitudine di attraversare il parco tutto nudo con sciarpa e
cappello, ma non e' altrettanto pazza la scheletrica signorina Chillard che
ha la valigia piena di soldi e non paga il conto, tratta l'umile madre come
una parente povera o una badante, se ne stara' a letto tutto il tempo non
toccando cibo, minacciando di lasciarsi morire se non la riporteranno a
Zermatt, dove c'e' un medico che ama moltissimo? E che dire della signora
Trollope e del signor Wilkins, alloggiati in due camere comunicanti? Loro,
alloggiano in due camere comunicanti, perche' pur essendo amanti dalla
bellezza di ventisette anni, per motivi di bon ton si fanno passare per
cugini. Ma nella camera accanto, c'e' Madame Blaise, la moglie di un medico
svizzero che vive a Basilea e ogni tanto viene a trovarla, che quanto ad
ambiguita' coniugale, la coppia Trollope-Wilkins se la mette sotto i tacchi.
Laddove, rispetto a costoro, alle eterne diatribe matrimoniali e finanziarie
(dal momento che, chi da una parte, chi dall'altra, i quattrini ce li hanno
tutti, e tutti sono avidissimi: "Siamo una sola carne... E un solo
patrimonio", sarebbe un po' la sintesi), nulla e' paragonabile alle
inquietudini della attempata principessa Bili, col suo gigolo' argentino.
Mentre, davvero indescrivibili risultano gli affaires del personale: in
quanto, talvolta, torbidissimi.
Tanto che potrebbe trasformarsi in una specie di moderna Arca di Noe', solo
a volerlo, la modesta pensione del Piccolo hotel.

6. LIBRI. GUIDO CALDIRON INTERVISTA AMELIE NOTHOMB (2005)
[Dal quotidiano "Liberazione" del 12 aprile 2005 col titolo "La fame
inesauribile di Amelie Nothomb"]

Ha esordito a ventitre' anni e il suo primo romanzo, Igiene dell'assassino,
e' diventato rapidamente un caso letterario, citato e preso a modello. Ora,
a trentasette anni, Amelie Nothomb, voce inquieta di una letteratura europea
dal cuore profondamente cosmopolita, si concede il lusso di una bizzarra
autobiografia, tutta giocata intorno all'idea della "fame", Biografia della
fame, Voland (pp. 146, euro 13). Nothomb rintraccia con una punta di ironia
e con il consueto cinismo le tappe della sua infanzia di ragazzina
anoressica in giro per il mondo, al seguito di una famiglia di diplomatici.
Sul fondo, la fame per la vita e il desiderio di scoperta che ne hanno poi
fatta la scrittrice eccentrica e affascinante che conosciamo. L'abbiamo
incontrata a Roma in occasione della presentazione del suo libro.
*
- Guido Caldiron: Perche' un'autobiografia a trentasette anni?
- Amelie Nothomb: Sarebbe ridicolo che avessi pensato di scrivere la mia
autobiografia come se avessi gia' terminato la mia vita. Da cio' l'idea di
una "autobiografia tematica". Mi sono chiesta quale fosse la parola che
poteva riassumere meglio i diversi aspetti della mia esistenza e quale
espressione potesse racchiudere simbolicamente il significato, e ho pensato
alla parola fame. Certo, non credo di essere la sola persona al mondo che
prova ora, o ha provato nella sua vita, fame, ma credo pero' di potermi
considerare una campionessa della fame, e questo in tutte le categorie e i
significati che si possono dare al termine. Parlo della fame di tutto cio'
che esiste, che provo io: fame della realta', degli altri esseri umani, dei
sentimenti, della cultura, dei libri, dei paesi... La parola fame era la
chiave attraverso la quale potevo accedere al massimo degli aspetti di cio'
che sono, per questo alla fine ho scelto di tracciare una Biografia della
fame.
*
- Guido Caldiron: La fame racchiude cosi' simbolicamente la sua vita, ma si
presenta anche come una sorta di motore della civilta'. Eppure il suo libro
si apre raccontando del popolo dell'arcipelago Vanuatu, in Oceania, che, a
suo dire, non ha mai vissuto la fame. Quale geografia esistenziale compone
questa mappa della fame?
- Amelie Nothomb: Da questo punto di vista si tratta di una sorta di
autogeografia, un percorso metafisico attraverso la geografia e la fame che
raccoglie le mie esperienze di vita. Si comincia l'itinerario in Giappone,
un paese che non e' certo povero anche se non tutti, tra i suoi cittadini,
se la passano benissimo ma dove, in ogni caso, non c'e' fame. Poi si passa
alla Cina maoista, nella quale la fame prosperava, e si arriva fino a New
York, dove c'e' un'abbondanza straordinaria, ma dove si incontra anche la
fame. In ogni caso, in queste tre realta' il cibo non e' un problema. Ma a
undici anni, invece, ho fatto l'esperienza del Bangladesh, il paese piu'
povero del mondo e dove tutti hanno fame. Non solo, e' forse il caso di
parlare di una coincidenza metafisica, ma e' proprio in quella realta' che
ho scoperto la violenza del corpo, che sono entrata nell'adolescenza e ho
iniziato a proiettarmi verso l'essere donna, ma anche verso l'anoressia.
Quindi credo di poter parlare di un parallelismo tra la fame che vivo io e
la fame geografica dei paesi che attraverso, qualcosa che da' a questa fame
una sua coerenza.
*
- Guido Caldiron: Si pensa spesso alla fame come a una metafora della vita e
soprattutto dell'amore, del desiderio: si ha "fame" di qualcuno... Per lei,
in questa autobiografia, si tratta anche di questo?
- Amelie Nothomb: Certamente, la fame e' la scuola del desiderio. E
attraverso tutte le modalita' di descrivere la fame che raccolgo nel libro,
alla fine arrivo allo stadio supremo di questa voracita' esistenziale,
arrivo proprio alla fame dell'altro.
*
- Guido Caldiron: Lei racconta spesso di scrivere molto piu' di quanto poi
riesce a pubblicare, anche due, tre romanzi contemporaneamente. Questa
dimensione della fame vale percio' anche per la scrittura?
- Amelie Nothomb: Io ho bisogno assolutamente di scrivere tutti i giorni,
qualcosa come quattro ore al giorno. In genere comincio in piena notte e mi
fermo subito dopo l'alba. Solo che poi molto di quello che scrivo non mi
convince e lo lascio li'. Diciamo che se ho finora pubblicato tredici
romanzi, quelli che ho iniziato a scrivere, e spesso anche finito ma senza
crederci, sono almeno tre volte tanti. Ma non si preoccupi, non ho
intenzione di cominciare a pubblicare tutto quello che scrivo, non lo faro'
mai. Per me la scrittura e' prima di tutto un modo di vivere, una condizione
per restare in vita, per questo non ritengo necessario mostrare tutto questo
agli altri. E' alla mia fame di scrivere che ho bisogno di dare risposte
prima che a qualunque altra cosa.

7. LIBRI. CLAUDIO LENZI INTERVISTA ZADIE SMITH (2004)
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 26 settembre 2004 col titolo "La musica della
bellezza"]

La ragazzina e' cresciuta, c'era da aspettarselo, ventinove anni sono
abbastanza per decidere cosa si vuole dalla vita. Parliamo di Zadie Smith,
la celebre scrittrice di origini giamaicane che abbiamo incontrato a Siena,
dove ha partecipato al convegno organizzato dall'universita' di Siena
"Memoria e disincanto. Le mille voci di Gregor von Rezzori", lo scrittore e
intellettuale mitteleuropeo scomparso nel 1998 del quale ricorre quest'anno
il novantesimo della nascita.
L'abito da sera non le sta piu' largo e la voce si e' fatta piu' sicura,
sembra uscita da un salotto buono d'Inghilterra fine '800 quando si ferma a
sorseggiare una tazza di te', se non fosse per quello sguardo che ogni volta
la tradisce. Diretto, pulito, inequivocabile ma pur sempre dal basso in
alto, come forse le hanno insegnato a Willesden, l'umile sobborgo di Londra
dov'e' nata nel 1976 da padre inglese e madre giamaicana. Giura di tornarci
appena puo', ma non deve essere facile e non deve capitare spesso. Non per
la fama, anche se il mondo anglosassone (e non solo) la adora, piuttosto per
una vita che ormai la vuole intellettuale a tempo pieno.
Questa e' oggi Zadie Smith, la giovane inglese che a 24 anni sorprese il
mondo con il romanzo Denti bianchi, caso letterario del 2001, presto
definito la "bibbia del multiculturalismo", pluripremiato e tradotto in piu'
di venti lingue, fino alla versione cinematografica realizzata due anni piu'
tardi. Milioni di copie vendute, poteva essere l'inizio di una carriera
radiosa, hanno rischiato di tradursi nell'inizio della fine. Troppo
successo, c'e' stato un momento in cui avrebbe preferito non averlo mai
scritto quel libro, per paura di non riuscire a scriverne un secondo
altrettanto ribollente, straccione, multietnico e soprattutto vero. E invece
nel 2003 esce L'uomo autografo, ambientato ancora a Londra, nel quartiere di
Mountjoy, dove "gli abitanti fondano la propria vita sul principio del
compromesso". Un mondo dal quale fuggire: Zadie lo fa rifugiandosi nello
studio. Dopo essersi laureata alla Cambridge University comincia a viaggiare
molto, negli Stati Uniti, in Italia; ogni luogo e' un luogo d'apprendimento,
un modo per accrescere quel bagaglio culturale e letterario che le
permettera' presto di saltare dall'altra parte della cattedra per dedicarsi
all'insegnamento, presso Harvard. Le sue lezioni stupiscono per rigore e
completezza, l'eta' e' un dettaglio ininfluente di fronte a tanto sapere
dispensato. Ama associare ogni autore a un filosofo, trovare gli infiniti
punti di contatto, provare nuove combinazioni, e altre ancora. Poi pero'
pensa che qualcuno sta aspettando un suo nuovo libro e allora molla tutto,
riprende a scrivere.
"E' per questo che torno in Toscana, per la tranquillita'. A Donnini, non
lontano da Firenze, si ripete ogni anno quella esperienza intellettuale che
gia' fu di von Rezzori, un divertente scambio di idee fra scrittori di tutto
il mondo, un'opportunita' che forse andrebbe aperta anche agli studenti.
Luoghi come questo esistono anche a Yaddo, negli Stati Uniti, o in Scozia,
ma il taglio istituzionale che la' viene dato finisce per ridurne le
potenzialita'".
*
- Claudio Lenzi: Parla come se Denti bianchi e L'uomo autografo non le
appartenessero piu'. Dov'e' finita la sua Londra colorata e caotica,
l'Inghilterra dai tanti volti, la sua voglia di indagare come cambia il
mondo, come cambiamo noi?
- Zadie Smith: L'uomo autografo, il mio secondo libro, era molto diverso da
Denti bianchi, e il prossimo romanzo, On Beauty (Sulla bellezza), sara'
diverso ancora.
*
- Claudio Lenzi: Un titolo quanto mai ricorrente nella storia della
letteratura. Voglia di recuperare una certa classicita'?
- Zadie Smith: Al contrario - sorride -, sara' classico rispetto ai romanzi
precedenti ma totalmente libero da ogni riferimento a quella tradizione
britannica che ha caratterizzato finora i miei scritti. Ho lavorato molto
sul romanzo americano del '900, leggendo le opere di Wharton ed Henry James.
Credo che tutto il romanzo risenta di questi studi ma aspetto il giudizio di
critici e lettori. Arrivera' presto, visto che il libro e' ormai completato.
*
- Claudio Lenzi: E' possibile accennare la trama? Di cosa si tratta?
- Zadie Smith: Molto brevemente, la storia si sviluppa nel panorama
universitario, dove s'intrecciano le vite di due famiglie, una inglese,
l'altra statunitense. Lo definirei un romanzo divertente, ma non
caricaturale.
*
- Claudio Lenzi: Di nuovo quei personaggi che credono di conoscere il mondo
per aver visto un film o magari anche solo sentito una canzone. E se invece
di scrivere romanzi, avesse fatto la musicista, oppure la sceneggiatrice?
- Zadie Smith: Mi hanno chiesto spesso, dopo l'uscita di Denti bianchi, di
scrivere sceneggiature, ma ho sempre risposto di no. Non fa per me, e' una
pelle che non mi appartiene. Pero' sto scrivendo un musical per il teatro,
da non credere, vero?
*
Zadie Smith sorride di nuovo, fa segno di non volerne parlare, di non voler
aggiungere altro. Porge la mano per i saluti, lasciando tante domande senza
risposta, meno che una: "L'anello? Mi sono sposata lo scorso 11 settembre".
Vorremmo chiederle perche' proprio quel giorno, e con chi: qualcuno dice un
poeta. Vorremmo ma non possiamo, Zadie si e' gia' alzata, le mani a
sistemare i capelli raccolti dietro. Scortese? "Macche', timida", giurano
coloro che la conoscono bene. Parla poco, e' vero, ma scrive tanto, e per
lei e' questo quello che conta. Poco piu' tardi la vedi in piedi, in mezzo
alla gente, a leggere un racconto di qualche anno fa. La voce sicura, lo
sguardo pulito, diretto, inequivocabile. E' proprio vero, la ragazzina e'
cresciuta.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 198 del 28 luglio 2008

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