Nonviolenza. Femminile plurale. 197



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 197 del 24 luglio 2008

In questo numero:
1. Lilli Gruber: Nawal El Saadawi
2. Eva Cantarella: Amazzoni
3. Eva Cantarella: Contro la pena di morte
4. Eva Cantarella: La Grecia a Roma
5. Eva Cantarella presenta "Pompei. La costruzione di un mito" di Luciana
Jacobelli
6. Mario Baudino presenta "La vista da Castle Rock" di Alice Munro

1. LIBRI. LILLI GRUBER: NAWAL EL SAADAWI
[Dal quotidiano "L'Unita" dell'11 novembre 2007 col titolo "La rivoluzione
pacifica delle figlie dell'Islam. Storia di Nawal che a cinque anni litigo'
con Dio" e la nota "Pubblichiamo 'La bambina che litigo' con Dio', ottavo
capitolo dell'ultimo libro di Lilli Gruber, Figlie dell'Islam. La
rivoluzione pacifica delle donna musulmane, 2007 edito da Rizzoli, pp. 354,
euro 18,50. La giornalista e saggista, prima donna ad aver presentato un
telegiornale in prima serata ed attualmente parlamentare europea della
sinistra, ha gia' scritto numerosi saggi da I miei giorni a Baghdad, (2003).
L'altro Islam (2004). Chador (2005) e America anno zero (2006)".
Lilli Gruber (Bolzano, 1957), gia' apprezzatissima giornalista televisiva,
e' attualmente parlamentare europea; nel 2003, durante i bombardamenti, era
a Baghdad sotto le bombe, con il popolo iracheno; nel parlamento europeo fa
parte sia della Commissione per le liberta' civili, la giustizia e gli
affari interni, sia della Commissione per gli affari esteri; e' presidente
della delegazione per le relazioni con gli Stati del Golfo, fa parte della
delegazione per le relazioni con l'Iran, e' vicepresidente dell'Intergruppo
stampa, comunicazione e liberta'. Opere di Lilli Gruber: (con Paolo
Borella), Quei giorni a Berlino, Rai-Eri, 1990; L'altro Islam, Rizzoli; I
miei giorni a Bagdad, Rai Eri - Rizzoli, 2003; L'altro Islam, Rizzoli, 2004;
Chador, Rizzoli, 2005; America anno zero, Rizzoli, 2006; Figlie dell'Islam,
Rizzoli, 2007.
Nawal El Saadawi (traslitterata anche in Nawal Al Saadawi o Nawal al
Sa'dawi), intellettuale femminista egiziana, scrittrice e psichiatra, nata
nel 1932 in un villaggio sul Nilo non lontano dal Cairo, laureata in
medicina e specializzata in psichiatria, autrice di rilevanti saggi e
romanzi, soprannominata "la Simone de Beauvoir egiziana", e' una delle
figure piu' rilevanti della lotta per i diritti delle donne e per il suo
impegno ha subito gravissime persecuzioni. Tra le opere di Nawal el Saadawi:
in italiano: Firdaus, storia di una donna egiziana, Giunti, 2001; Una figlia
di Iside, Nutrimenti, 2002; in inglese: The Hidden Face of Eve: Women in the
Arab World, Zed Books, 1980; God Dies by the Nile, Zed Books, 1985; Memoirs
of a Woman Doctor, City Lights Books, 1989; Innocence of the Devil,
University of California Press, 1998; A Daughter of Isis: The Autobiography
of Nawal El Saadawi, Zed Books, 1999;  Walking Through Fire: A Life of Nawal
El Saadawi, Zed Books, 2002; Woman at Point Zero, Zed Books, 2007. Una
recensione di Daniela Padoan a Una figlia di Iside (l'autobiografia di Nawal
El Saadawi) e' ne "La nonviolenza e' in cammino" n. 412. Il sito di Nawal el
Saadawi e' www.nawalsaadawi.net]

Nawal El-Saadawi e' una veterana della "jihad femminile". Ha cominciato a
protestare nel 1936, all'eta' di cinque anni, e direttamente con Dio.
Scrivendogli una lettera. "Caro Dio, perche' preferisci mio fratello? Lui e'
pigro e stupido, non fa nulla ne' a scuola, ne' a casa, mentre io m'impegno.
Come fai a preferire lui?". Era l'inizio di una carriera letteraria, e di un
rapporto con le autorita' a dir poco tormentato.
Nawal proviene da una famiglia colta e benestante, ma questo non e' bastato
a evitarle la mutilazione genitale. A dieci anni e' scampata a un matrimonio
combinato e ha deciso di continuare a studiare nonostante le perplessita'
familiari. "Se non fossi stata la migliore, mio padre avrebbe smesso di
pagarmi gli studi, ma lo ero". Nel 1955 si laurea in medicina,
specializzazione in psichiatria, e comincia a lavorare a Kafr Tahla, il
piccolo villaggio rurale dove e' nata. "Ogni giorno combattevo con le
difficolta', i soprusi e le ingiustizie subite dalle donne". Nawal e'
richiamata al Cairo e nominata direttrice della Sanita' pubblica.
Nel 1972 pubblica Women and Sex, un atto d'accusa contro la disumana pratica
dell'infibulazione. Nawal e' la prima donna araba a portare allo scoperto un
tema cosi' scomodo e scabroso e di li' a poco cominciano i guai. Perde il
lavoro e la rivista che ha fondato, "Health", viene chiusa. Ma non si
abbatte: per tre anni conduce una ricerca sulle nevrosi femminili presso la
facolta' di medicina dell'Ain Shams University, e nel 1979 diventa
consigliera presso le Nazioni Unite per il programma a favore delle donne in
Africa e Medio Oriente.
I suoi studi la portano nei manicomi e nelle carceri, e la sua critica alle
religioni, in particolare all'Islam, e al sistema politico egiziano, finisce
per inasprire i gia' tesi rapporti con le istituzioni. Nel 1981 viene
incarcerata senza processo con altri 1.600 intellettuali ed esponenti
politici. Sara' liberata lo stesso anno, esattamente un mese dopo
l'assassinio del presidente Sadat, che aveva ordinato il suo arresto. Tra i
fermati c'e' anche suo marito, il dottor Sherif Hetata, che invece scontera'
ben quindici anni nel carcere di massima sicurezza del Cairo. "Il pericolo
e' stato parte della mia vita fin da quando ho impugnato una penna", mi
spiega la donna-simbolo del femminismo egiziano. "Non c'e' niente di piu'
pericoloso della verita' in un mondo che mente".
Ma proprio quando il governo sperava di averla messa a tacere, scrive in
prigione il suo libro piu' importante, che sara' tradotto in dodici lingue e
pubblicato in tutto il mondo: Memorie dal carcere delle donne. "Mi negavano
perfino la carta", mi racconta. "La prostituta nella cella accanto mi
allungava penna e carta igienica. Non ci credera', ma le altre donne
facevano di tutto affinche' io potessi sempre scrivere. La creativita' e' il
mezzo piu' efficace per porre un freno alle mutilazioni dell'intelletto!".
Quando compare nella lista nera di un gruppo fondamentalista, Nawal si
trasferisce in North Carolina. Insegna alla Duke e alla Washington
University, ma nel 1996 decide di tornare a casa. Cinque anni dopo viene
nuovamente accusata di eresia: grazie a un'imponente mobilitazione
internazionale riesce a evitare il processo per apostasia, che l'avrebbe
costretta al divorzio forzato dal marito. Oggi nel suo Paese Nawal rischia
un nuovo procedimento penale in seguito alla pubblicazione, nel gennaio
2007, della commedia teatrale Dio rassegna le dimissioni nel corso del
vertice.
Ma oggi vede sviluppi positivi all'orizzonte grazie al lavoro delle
femministe islamiche, prezioso nella battaglia per i diritti. Anche se il
suo approccio alle religioni e' piu' scientifico: "Ho speso vent'anni della
mia vita a confrontare i tre libri sacri: l'Antico Testamento, il Nuovo
Testamento e il Corano. Sono andata in India e ho studiato anche la
Bhagavadgita. Non si puo' conoscere l'Islam senza uno studio comparativo.
Prendiamo per esempio la questione del velo. Se i sedicenti esperti avessero
fatto i dovuti confronti, si sarebbero accorti che le donne si coprivano il
capo anche nell'Ebraismo e nel Cristianesimo. In forme diverse, sono sempre
state considerate inferiori in qualsiasi religione. In piu' il Corano e'
molto difficile da capire: esistono numerose scuole che lo interpretano in
modo diverso, cosi' come sono diverse le interpretazioni che i vari governi
danno dell'Islam".
L'Egitto, negli ultimi anni, e' molto cambiato, sostiene Nawal: "Quando
studiavo medicina, negli anni Cinquanta al Cairo, nessuna portava l'hijab;
quando mia figlia era studentessa a sua volta, negli anni Settanta, il 45%
delle ragazze lo indossava. E la percentuale e' aumentata ancora. Sono stati
l'imperialismo americano e il neocolonialismo a sfruttare la religione e
fomentare ovunque il fondamentalismo. Il velo e l'infibulazione sono le
dirette conseguenze. Oggi in Egitto tutti parlano di religione:
professoresse universitarie, scrittrici e perfino le femministe indossano il
foulard, magari con i jeans e la pancia scoperta! Le donne si trovano tra
due fuochi, tra americanizzazione e islamizzazione".
Per loro il clima nel Paese si sta facendo piu' pesante e anche il sistema
giudiziario non e' certo incline a tutelarle. Come quello legislativo e' un
sistema misto, secolare e religioso. Esistono corti separate: islamica,
cristiana e laica, e per quanto riguarda la prima il codice di riferimento
e' ovviamente la Sharia. "Ma viene applicata in modo assolutamente
arbitrario: gli uomini continuano a essere poligami e a divorziare dalle
mogli quando vogliono. Il figlio deve portare il nome del padre, e se questi
e' ignoto il bambino e' illegittimo. I fondamentalisti sostengono che lo
dice il Corano. Il nome della madre e' considerato tuttora una vergogna
sociale per la legge islamica". Quando sua figlia ha deciso di portare il
suo cognome, hanno dovuto comparire entrambe in tribunale con l'accusa di
apostasia. "In Egitto ci sono due milioni di bambini illegittimi. E' giusto
punire i piccoli che non hanno alcuna colpa?".
Mi racconta l'esperienza traumatica della circoncisione, praticata una
mattina, nella sua stanza, da quattro donne del villaggio vestite di nero,
senza anestesia ne' disinfettanti. "Mi dissero che era Dio a volerlo. Da
allora ho cominciato a ribellarmi contro di Lui. Anche se i miei genitori mi
dicevano di pregare, non mi sono mai convinta che Dio fosse giusto, mai.
Perche' io ho un cervello che ha sempre lavorato a pieno regime. Per me il
vero piacere e' quello della conoscenza, e della sfida. Ho settantacinque
anni e vivo come se ne avessi trenta. Faccio ginnastica, suono, nuoto: certo
mi stanco, mi viene mal di testa, ma non importa. Essere attivi tiene viva
la mente".
Quando le chiedo se il velo possa essere considerato anche un simbolo di
liberta' risponde senza esitare: "Da un punto di vista politico,
assolutamente no. La schiavitu' non e' un simbolo di liberta'". Quindi,
secondo lei il velo equivale sempre a oppressione? "Si', certo, ma anche la
mercificazione e' oppressione. Sono due facce della stessa medaglia. Ci sono
donne che lo portano come altre usano il trucco: per questo definisco il
make-up un velo postmoderno. Perche' secondo te si mettono il rossetto sulla
labbra? Perche' mostrano il reggiseno e indossano minigonne cortissime?
Perche' sono considerate un oggetto sessuale. Essere coperte per dettami
religiosi oppure spogliate per leggi di mercato e' sempre una forma di
schiavitu'".
Secondo Nawal chi dice che l'Islam e' incompatibile con la democrazia ha
ragione: "In nessuna religione esiste democrazia perche' Dio e' un
dittatore. La religione si fonda sull'obbedienza, non si puo' discutere con
il Creatore. E i potenti della Terra non fanno altro che seguire il loro
maestro in Cielo. Non esiste separazione tra religione e politica, sono una
cosa sola: nella storia Dio era il re".
Come molte altre intellettuali che ho incontrato, ritiene siano le donne
l'elemento chiave nascosto, il vero motore del cambiamento: "Per questo la
politica e' contro di noi. Ci hanno rese cosi' stupide da farci credere in
un Dio che ci opprime. Ma come si puo' credere davvero che Dio sia contro di
noi?".
Mi saluta con un invito a dir poco perentorio: "Ricordati che la mutilazione
peggiore non e' quella genitale ma quella intellettuale. Il velo sul
cervello e' molto peggio del velo sui capelli".

2. MITI. EVA CANTARELLA: AMAZZONI
[Dal "Corriere della sera" del 30 maggio 2007 col titolo "Indomite, crudeli,
'snaturate' Amazzoni, terrore dell'uomo" e il sommario "Dagli scavi presso
il Don la conferma delle parole di Erodoto. Donne 'contro'. Si tagliavano un
seno per usare meglio l'arco, si accoppiavano con i prigionieri, rifiutavano
matrimonio e maternita'".
Eva Cantarella, docente universitaria di diritto romano e di diritto greco;
ha pubblicato molte opere sulla cultura antica ed e' autrice di fondamentali
ricerche sulla condizione della donna nelle culture antiche.
Dall'enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche riprendiamo la
seguente scheda: "Nata nel 1936 a Roma, Eva Cantarella si e' laureata in
giurisprudenza nel 1960 presso l'universita' di Milano. Ha compiuto la
propria formazione postuniversitaria negli Stati Uniti all'Universita' di
Berkeley e in Germania all'universita' di Heidelberg. Ha svolto attivita'
didattica e di ricerca in Italia presso le universita' di Camerino, Parma e
Pavia e all'estero all'Universita' del Texas ad Austin ed alla Global Law
School della New York University. E' professore ordinario di Istituzioni di
diritto romano presso la facolta' di giurisprudenza dell'universita' di
Milano, dove insegna anche diritto greco. Partendo dalla ricostruzione delle
regole giuridiche, le ricerche di Eva Cantarella, sia in campo romanistico
che grecistico, tendono da un lato a individuare la connessione tra le
vicende politiche ed economiche e la produzione normativa, e dall'altro a
verificare la effettivita' delle norme stesse, analizzando lo scarto tra
diritto e societa', la direzione di questo scarto e le ragioni di esso". Tra
le opere di Eva Cantarella: La fideiussione reciproca, Milano 1965; Studi
sull'omicidio in diritto greco e romano, Milano 1976; Norma e sanzione in
Omero. Contributo alla protostoria del diritto greco, Giuffre', Milano 1979;
L'ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell'antichita' greca e
romana, Editori Riuniti, Roma 1981; Tacita Muta. La donna nella citta'
antica, Editori Riuniti, Roma 1985; Pandora's Daughters, Bpod, 1987; Secondo
natura. La bisessualita' nel mondo antico, Editori Riuniti, Roma 1988; I
supplizi capitali in Grecia e a Roma, Rizzoli, Milano 1991; Diritto greco,
Cuem 1994; Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, Feltrinelli,
Milano 1996; (con Giulio Guidorizzi), Profilo di storia antica e medievale,
Einaudi Scuola, 1997; Pompei. I volti dell'amore, Mondadori, Milano 1998;
(con Luciana Jacobelli), Un giorno a Pompei. Vita quotidiana, cultura,
societa', Electa, Napoli 1999; Storia del diritto romano, Cuem, 1999;
Istituzioni di diritto romano, Cuem, 2001; (con Giulio Guidorizzi), Le
tracce della storia, Einaudi Scuola, 2001; Itaca. Eroi, donne, potere tra
vendetta e diritto, Feltrinelli, Milano 2002; (con Lorenzo Gagliardi,
Marxiano Melotti), Diritto e sessualita' in Grecia e a Roma, Cuem, 2003;
(con Giulio Guidorizzi), L'eredita' antica e medievale, Einaudi Scuola,
2005; L'amore e' un dio, Feltrinelli, Milano 2006; Il ritorno della
vendetta, Rizzoli, Milano 2007; altre opere a destinazione scolastica: (con
Giulio Guidorizzi), Corso di storia antica e medievale, Einaudi Scuola; (con
Giulio Guidorizzi), Il mondo antico e medievale, Einaudi Scuola; (con Giulio
Guidorizzi), La cultura della storia. Laboratorio, Einaudi Scuola; (con
Giulio Guidorizzi), Lo studio della storia. Laboratorio, Einaudi Scuola;
(con Giulio Guidorizzi), Storia antica e medievale, Einaudi Scuola; (con
Giulio Guidorizzi), Antologia latina, Einaudi Scuola; (con Giulio
Guidorizzi, Laura Pepe), Letteratura e storia di Roma antica. Antologia
degli autori latini, Einaudi Scuola; (con G. Martinotti), Cittadini si
diventa, Einaudi Scuola; (con E. Varni, Franco Della Peruta), La memoria
dell'uomo, Einaudi Scuola]

"Un tempo esistevano le Amazzoni, figlie di Ares, e abitavano presso il
fiume Termodonte" racconta Lisia, nella orazione funebre in onore dei caduti
in guerra. "Sole fra i popoli vicini, esse indossavano armature di ferro.
Furono le prime ad apprendere l'arte di cavalcare: sorprendevano a cavallo
il nemico disorientato, raggiungendolo se fuggiva, sfuggendolo se le
inseguiva. Donne quanto al sesso, erano considerate uomini per il coraggio.
Padrone di molte genti, avevano asservito i popoli vicini, ma quando
conobbero la fama di Atene, per desiderio di gloria avanzarono in armi
contro di noi. Ma nonostante i loro costumi il loro animo era femminile, e
furono sconfitte...".
Le Amazzoni: mitiche guerriere, che secondo Erodoto vivevano nelle steppe a
nord-est del fiume Don. Nei racconti dei greci, si tagliavano un seno per
maneggiare meglio l'arco (di qui il nome a-mazon, "senza un seno", appunto)
e combattevano al comando di una regina. Della piu' celebre di queste,
Pentesilea, si raccontava che, avendo condotto il suo esercito a Troia per
soccorrere i Troiani, era stata trafitta da una lancia di Achille, che dopo
averla uccisa ne aveva oltraggiato il cadavere; ma si raccontava anche che
incrociando lo sguardo della regina morente Achille se ne era perdutamente
innamorato.
Detestando gli uomini e rifiutando il matrimonio, le Amazzoni si
riproducevano accoppiandosi con i loro prigionieri, che successivamente
uccidevano, o, secondo un'altra versione del mito, li tenevano come schiavi,
dopo averli mutilati perche' non potessero usare le armi. Quanto ai figli,
superfluo dire che se maschi venivano uccisi (o, in una versione piu'
benevola del mito, solamente accecati).
Questo raccontavano i greci delle Amazzoni. Un mito al servizio
dell'ideologia, dunque. L'iconografia e' chiara: dopo le guerre persiane,
vestite in abiti orientali e fornite d'arco e frecce, le Amazzoni
simbolizzano l'effeminatezza e la mancanza di autocontrollo del barbaro
sconfitto. Nelle metope del Partenone, la battaglia tra loro e i Greci e'
collegata alla guerra dei Lapiti contro i Centauri, e non a caso. In modo
diverso, Centauri e Amazzoni sono sfide all'ordine civilizzato: i Centauri
sono espressione della mascolinita' selvaggia, violenta, fuori controllo; le
Amazzoni, popolo di sole donne snaturate e crudeli, simbolizzano
l'opposizione a matrimonio e maternita'. Il rifiuto di quel ruolo -
insegnava il mito - e' possibile solo in un mondo incivile, per i greci
addirittura impensabile.
Ma quello che era impensabile per i greci poteva essere una realta' in altre
parti del mondo? Esistono tracce di un momento in cui le donne, prima di
essere destinate allo spazio interno della casa, partecipavano ad attivita'
esterne, come la caccia e forse anche la guerra?
Durante gli scavi condotti dagli archeologi russi nei pressi di Millerovo,
sulle rive del Don, all'interno di uno dei grandi tumuli che sorgono nella
zona, e' stato trovato uno scheletro femminile accanto al quale erano stati
deposti da un lato una spada e un giavellotto, dall'altro un arco e una
faretra piena di frecce, nonche' uno specchietto di bronzo, un anello e una
collana.
Le Amazzoni esistevano, ha titolato la stampa di tutto il mondo. Qualche
precisazione e' indispensabile: una donna guerriera non e' la prova
dell'esistenza di un'organizzazione sociale composta di sole donne, o in cui
le donne comandano. Il ritrovamento di Millerovo dimostra solo che nelle
steppe in cui Erodoto collocava le Amazzoni e' esistita una societa' in cui
le donne potevano avere ruoli diversi da quello familiare. Nulla a che
vedere, per intenderci, con un eventuale matriarcato, della cui storicita',
nell'Ottocento, le Amazzoni sono state considerate una prova. Ma oggi
sappiamo - questo si' - che Erodoto non raccontava solo leggende: durante i
suoi viaggi, era venuto a contatto con societa' dai costumi molto diversi
dai suoi, dove le donne che combattevano non erano solo un mito. I greci,
cui simili donne facevano orrore, avevano costruito su questa realta' un
mito a loro uso e consumo: che riflette, quasi a esorcizzarlo, alcuni
aspetti di un mondo realmente esistito. In questo senso e con queste
avvertenze, la storicita' del mito delle Amazzoni va rivalutata.

3. RIFLESSIONE. EVA CANTARELLA: CONTRO LA PENA DI MORTE
[Dal "Corriere della Sera" del 13 gennaio 2008 col titolo "La pena di morte
in America. La cicuta di Socrate, l'iniezione letale e la moratoria"]

Dopo aver bevuto la cicuta - racconta Platone - Socrate rimprovero' i suoi
allievi, che non riuscivano a frenare il pianto: "Che stranezza e' mai
questa, amici? Si dice che sia bene morire fra serene parole di augurio". E
serenamente spiro'. Cosi' nel Fedone. Ma che la cicuta (koneion) desse una
morte indolore e' tutt'altro che certo. Platone, probabilmente, voleva
idealizzare gli ultimi momenti del maestro ma altri resoconti, piu'
realistici, descrivono la morte di chi aveva ingerito il veleno in modo
molto diverso: la mente oscurata, la vista deformata, gli occhi che
selvaggiamente roteavano, la gola attanagliata, le estremita' paralizzate.
La cicuta, infatti, non venne introdotta per alleviare le sofferenze dei
condannati a morte. Venne introdotta per calcolo politico dai Trenta Tiranni
(V secolo a.C.), che per liberarsi senza troppo rumore degli oppositori
mandavano loro in carcere una pozione di veleno: per ovvie ragioni, queste
esecuzioni dovevano avvenire senza suscitare scalpore. La cicuta, insomma,
doveva risolvere un problema politico: esattamente come negli Usa, a
distanza di duemilacinquecento anni, l'iniezione letale, introdotta in un
momento molto delicato per i sostenitori della pena capitale. Nel 1972, nel
corso di una lunga moratoria, la Corte Suprema (Furman vs Georgia) aveva
dichiarato l'incostituzionalita' di questa pena, perche' nei modi e nelle
forme in cui era applicata era contraria all'VIII Emendamento, che proibisce
pene "crudeli e inusuali". Ma nel 1976 (Gregg vs Georgia) la Corte, i cui
componenti erano cambiati, muto' opinione.
Senonche' nel frattempo era cambiato anche l'atteggiamento dell'opinione
pubblica e un forte malessere serpeggiava anche fra i sostenitori della
pena.
Per evitare che la reintroduzione provocasse traumi eccessivi, era
necessario trovare altre forme di esecuzione. La fucilazione e
l'impiccagione apparivano crudeli e disumane; la camera a gas e la sedia
elettrica provocavano lunghe agonie: inoltre, la camera a gas era stata
usata dai nazisti. Una morte "medicalizzata", con aghi e siringhe, era una
concessione a sentimenti di umana solidarieta' che avrebbe contribuito a
dare della pena un'immagine piu' accettabile. E cosi' e' stato, fino a
quando la verita' e' andata facendosi strada.
Nel 2005, un articolo sulla rivista medica "The Lancet" spiegava che le
iniezioni che inducono prima la paralisi e quindi l'arresto cardiaco devono
essere precedute dalla somministrazione di un anestetico, senza il quale il
condannato, in preda a fortissimi spasmi muscolari, si sente soffocare e ha,
letteralmente, la sensazione di venire bruciato vivo. Ma nelle camere della
morte l'anestesia viene praticata senza test clinici, da personale non
addestrato, senza controllo medico sui metodi: le iniezioni letali
attualmente in uso per gli esseri umani - era la conclusione della ricerca -
vengono praticate secondo standard che non raggiungono neppure quelli
richiesti per l'esecuzione degli animali. E purtroppo la conferma della
denunzia dei medici venne da esecuzioni successive. Un solo esempio tra i
tanti: il 13 dicembre 2006, a Jacksonville, in Florida, il portoricano Angel
Nives Diaz ha agonizzato sul lettino per 34 minuti. Cosi' stando le cose,
per evitare l'obiezione che l'esecuzione fosse contraria all'Ottavo
Emendamento, ai medici venne fatta una richiesta: quella che un anestesista
fungesse da supervisore all'esecuzione. Il rifiuto fu netto. Nel Code of
Medical Ethic, del 1992, si legge: "Un medico, in quanto esponente di una
professione il cui scopo e' salvare la vita, quando vi sono speranze di
farlo, non dovrebbe partecipare a un'esecuzione" anche se l'opinione
personale del medico sulla pena capitale rimane una scelta morale
individuale.
L'iniezione letale si e' ritorta contro coloro che ipocritamente, per
calcolo politico, ne hanno sostenuto l'introduzione. Ora, la parola e' alla
Suprema Corte. Se la crudelta' della "morte dolce" americana verra'
riconosciuta, gli Usa, credo, saranno probabilmente costretti a fare buon
viso a cattivo gioco, e applicare la moratoria promossa dall'Italia
approvata all'Onu. Come altre volte, la Suprema Corte potrebbe scrivere una
sentenza veramente storica.

4. STORIA. EVA CANTARELLA: LA GRECIA A ROMA
[Dal "Corriere della sera" del 26 marzo 2008 col titolo "Le due civilta'.
L'acculturamento dell'aristocrazia terriera. Non appoggiato da tutti. E Roma
si divise sullo stile 'alla greca'. La critica di Plinio: 'Noi viaggiamo per
strade e mari per vedere cio' che non degniamo di uno sguardo quando si
trova sotto i nostri occhi...'"]

Nel 167 a.C. Lucio Emilio Paolo, il conquistatore della Macedonia, "decise
di visitare la Grecia - racconta Livio - per vedere quelle bellezze che
erano state magnificate alle sue orecchie come superiori a quanto l'occhio
umano potesse contemplare". I romani, ormai, avevano imparato ad apprezzare
le opere d'arte greche, inizialmente ammirate come trofei di guerra. Al
termine della seconda guerra punica, il generale Marco Claudio Marcello
aveva fatto sfilare nelle strade della citta', durante il trionfo, le opere
d'arte trafugate nel 212 a.C. a Siracusa. In eta' precedente, scrive
Strabone, i romani, "presi da cose piu' grandi e piu' necessarie, non
avevano mai prestato attenzione alla bellezza". Ma poi le cose cambiarono.
Tra il periodo tardo repubblicano e quello imperiale un numero crescente di
opere greche giunse a Roma: nel 146 a.C., in un portico fatto costruire
appositamente, vennero collocate le splendide statue di Lisippo raffiguranti
Alessandro Magno e i suoi ufficiali morti nella battaglia di Granico. Altre
opere vennero esposte in altri portici, nei templi, alle porte di questi, e
con il tempo trovarono collocazione anche nelle abitazioni. Il collezionismo
privato si diffuse al punto da preoccupare Cicerone: e' ingiusto ed egoista,
scrisse, segregare tante meraviglie, impedendone il godimento ai meno
fortunati (evidentemente, in quel momento non pensava alla splendida
collezione che conservava nella sua villa di Tuscolo).
Roma non era piu' quella di un tempo, ma i romani non si accontentavano di
quel che vedevano nella loro citta': come Emilio Paolo, volevano visitare la
Grecia, vedere l'Afrodite di Prassitele, Europa sul toro di Pitagora di
Reggio, i dipinti del grande pittore Apelle. Secondo Plinio il Giovane il
turismo culturale era diventata una moda per molti aspetti criticabile: "Noi
viaggiamo per strade e mari per vedere cio' che non degniamo di uno sguardo
quando si trova sotto i nostri occhi...". Ma la Grecia era diventata il
luogo ideale e irrinunciabile della formazione culturale: da Cicerone a
Cornelio Nepote, da Varrone a Lucullo, da Cesare a Virgilio, da Augusto a
Orazio a Properzio, tutti gli intellettuali la visitavano. Ma non tutti i
romani condividevano questo amore.
Dopo le guerre puniche, pur essendo divenuta una superpotenza mediterranea,
Roma continuava a essere dominata da poche famiglie aristocratiche, la cui
ricchezza era basata sulla proprieta' terriera. Molti esponenti di questa
nobilta' stentavano a staccarsi dall'orizzonte provinciale in cui erano nati
i costumi dei loro antenati, educati alla guerra e temprati al sacrificio:
l'arte, per questi nostalgici dei bei temi andati, era parte di una nuova
cultura che rischiava di corrompere lo stile di vita che aveva fatto grande
Roma. Il II secolo a.C. vide dunque un imponente scontro tra due opposte
tendenze: da un lato i tradizionalisti, il cui maggior esponente era Catone
il Censore; dall'altro alcuni circoli della medesima nobilta' (celebre
quello degli Scipioni), per i quali il confronto con le culture diverse, in
particolare quella greca, era indispensabile perche' Roma potesse svolgere
il suo nuovo compito.
Evidentemente, la prima posizione era destinata alla sconfitta: l'influenza
culturale greca, definita da Cicerone "un fiume impetuoso di civilta' e di
dottrina" ebbe il sopravvento.
Graecia capta - scrisse Orazio - ferum victorem cepit: la Grecia conquistata
conquisto' il rude vincitore. I romani sapevano bene quanti fossero i loro
debiti verso i greci.
Tutto era cambiato: le abitazioni, piu' ampie, aperte a giardini e paesaggi;
i mobili, le suppellettili. Con lo stile abitativo erano cambiati lo stile
di vita e i rapporti sociali: i nobili si scambiavano visite nelle loro
ville sul golfo di Napoli o sulle colline attorno a Roma, offrivano
banchetti luculliani, gareggiando in lusso. Il rinvio alla cultura greca era
costante: a Pompei, sulle pareti della "Casa del Menandro" erano raffigurate
le scene piu' celebri dell'Iliade; nella "Casa del Poeta Tragico" il
sacrificio di Ifigenia era la copia di un quadro del celebre pittore greco
Timante. Gli esempi potrebbero continuare, ovviamente. Ma, tutto cio'
premesso, resta da dire che sarebbe sbagliato sia pensare ai romani, prima
dell'incontro con i greci, come a un popolo assolutamente incolto, sia
pensare alla cultura della Roma ellenizzata come a una cultura priva di ogni
originalita'. I debiti dall'esterno vengono sempre elaborati, sino a
diventare, a volte, rielaborazioni creative. Per limitarci alla pittura: fu
a Roma, e non in Grecia, che nacque il ritratto. La cultura romana,
certamente conquistata dai greci, ci riconduce a una Grecia vista dai
romani, vale a dire vista da una cultura diversa, certamente eclettica, ma
comunque romana.

5. LIBRI. EVA CANTARELLA PRESENTA "POMPEI. LA COSTRUZIONE DI UN MITO" DI
LUCIANA JACOBELLI
[Dal "Corriere della sera" del 26 giugno 2008 col titolo "Simboli oltre la
storia. Pompei, alle origini di un mito universale".
Luciana Jacobelli e' docente universitaria e saggista. Tra le opere di
Luciana Jacobelli: Le pitture erotiche delle terme suburbane di Pompei,
L'Erma di Bretschneider, 1995; Gladiators at Pompei, L'Erma di
Bretschneider, 2003; (con Eva Cantarella), Un giorno a Pompei. Vita
quotidiana, cultura, societa', Electa, 2003; Pompei. La costruzione di un
mito, Bardi, 2008]

Sono oltre due milioni e mezzo, ogni anno, i turisti che visitano Pompei.
Ovviamente, le ragioni non mancano. Ma perche' non ha la stessa fama la non
meno straordinaria Ercolano, che ne ha condiviso il destino di morte? La
risposta in un libro interessante e originale, Pompei: la costruzione di un
mito. Arte, letteratura, aneddotica di un'icona turistica, curato da Luciana
Jacobelli (Bardi editore).
Distrutta il 24 agosto del 79 d.C., Pompei scomparve sotto una valanga di
pomice, ceneri e lapilli eruttati dal Vesuvio. Solo nel 1748 venne
riscoperta: e subito scatto' il processo di costruzione del suo mito.
Artisti famosissimi, re, regine, dame, persino papi si precipitarono a
visitarla. Ad alcuni di essi i Borboni regalavano addirittura l'emozione del
"ritrovamento in diretta": dalla terra vulcanica, sotto i loro occhi
estasiati, si materializzavano tesori precedentemente preparati da solerti
funzionari istruiti dal sovrano di turno. A Pompei, scrisse Stendhal, ci si
trova "faccia a faccia con l'antichita'". Le circostanze della sua
distruzione annullano la distanza storica. Chi entra nelle case e nelle
taverne, vede i resti del cibo, legge i graffiti sulle pareti, stabilisce un
rapporto con il passato molto diverso da quello di estraneita' in genere
suscitato dall'antico.
La storia diventa qualcosa di personale, che fa scattare un processo di
identificazione, realizzando il sogno del viaggio nel tempo. Non a caso
edifici sullo stile delle case e delle ville pompeiane sono stati realizzati
in tutto il mondo, dalla Casa dei Dioscuri ad Aschaffenburg in Baviera
(1840-'48) alla Villa di Diomede realizzata per volere di Girolamo Napoleone
a Parigi. Pompei non e' solo un sito archeologico, e' un mito, che il libro
segue dai suoi albori all'epoca odierna del turismo di massa, in cui la
citta' si conferma inossidabile e inarrivabile icona turistica.

6. LIBRI. MARIO BAUDINO PRESENTA "LA VISTA DA CASTLE ROCK" DI ALICE MUNRO
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo la seguente recensione apparsa sul quotidiano "La Stampa" del 9
luglio 2008 col titolo "Alice Munro, le bugie buone e giuste" e il
sottotitolo "Storia di una bambina cresciuta nel duro mondo dei
presbiteriani".
Mauro Baudino (Chiusa di Pesio, 1952) e' scrittore e giornalista. Ha
pubblicato vari volumi di poesia, narrativa, saggistica.
Alice Munro (Wingham, Ontario, 1931), scrittrice canadese, e' autrice di
assai apprezzate raccolte di racconti. Tra le opere di Alice Munro: La danza
delle ombre felici, La Tartaruga, Milano 1994; Chi ti credi di essere,
Edizioni e/o, Roma 1995; Tienimi forte, non lasciarmi andare, La Tartaruga,
Milano 1998; Segreti svelati, La Tartaruga, Milano 2000; Il sogno di mia
madre, Einaudi, Torino 2001; Nemico, amico, amante..., Einaudi, Torino 2003;
In fuga, Einaudi, Torino 2004; Il percorso dell'amore, Einaudi, Torino 2005;
La vista da Caste Rock, Einaudi, Torino 2007]

Lo ha scritto in un breve saggio, anni fa: "Un racconto non e' una strada
che ci si mette a percorrere, e' una casa. Ci entri e ci rimani per un po',
andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo i rapporti
tra camere e corridoio, e come il mondo esterno viene alterato se lo si
guarda da queste finestre". E' un'immagine perfetta del suo modo di
lavorare, e anche del suo pensarsi in quanto scrittrice.
Alice Munro e' la regina della short story, del racconto magari anche lungo,
ma pur sempre di quel genere letterario piuttosto difficile che in Italia
pare avere poca cittadinanza. Sara' per questo che finora non aveva mai
varcato i confini del nostro Paese, dove sono passati tutti, ma proprio
tutti tra festival, premi e vacanze private gli scrittori internazionali?
Non proprio. Einaudi ha tradotto i suoi libri piu' importanti, da Il sogno
di mia madre al recente Segreti svelati, storie di donne soprattutto, donne
alle prese con svolte decisive. Lei, che di svolte ne ha avute, e' persona
schiva, molto legata a Clinton, paese di tremila anime nell'Ontario dove
trascorre sei mesi all'anno. Semplicemente, aveva sempre declinato gli
inviti. E' venuta invece a Pescara, per il premio Flaiano vinto con Alberto
Arbasino e Ismail Kadare' (la giuria dei lettori le ha conferito poi il
"Superflaiano") cogliendo di sorpresa i suoi editori e l'agente londinese,
ma tenendo fede alla sua estrema riservatezza. Niente interviste, solo un
incontro col pubblico; e un vago, cortese sorriso.
Settantasette anni domani (auguri), alta e appena un po' incurvata
dall'eta', Alice Munro e' da tempo una autorevole cadidata al Nobel, gode di
un vasto consenso critico, pubblica sulle riviste piu' intellettuali del
mondo anglosassone come il "New Yorker", l'"Atlantic Monthly" o la "Paris
Review", rifugge dai media per quanto e' possibile. E distilla i suoi
racconti, spesso dalla forte componente autobiografica - il genere in cui
eccelle e' il "memoir" -, con una secchezza e una precisione che sono figlie
del severo mondo protestante dei presbiteriani scozzesi in cui e' cresciuta.
Nel libro con cui ha vinto il Flaiano, La vista da Castle Rock, lo racconta
attraverso la storia della sua famiglia, i Laidlaw (Munro e' il cognome del
primo marito), venuti in Canada dalla Scozia nell'Ottocento: contadini
poveri e austeri, ma grandi lettori della Bibbia, tormentati e "filosofi" a
modo loro, permeati da quella cultura che puo' apparire soffocante ma che ha
prodotto, per dire, un filosofo come David Hume. Lei non filosofeggia.
Racconta. "E' un libro un po' particolare - ci spiega - perche' mischia la
realta' documentale, ricostruita anche grazie al fatto che nelle varie
generazioni della mia famiglia qualcuno ha sempre scritto quel che gli
accadeva. Mio padre ha addirittura lasciato un romanzo sull'epopea dei
pionieri in Canada. Su questo materiale sono intervenuta con la fiction,
l'immaginazione". Lo ha fatto soprattutto quando parla di se' bambina,
adolescente e poi giovane donna alle prese con un mondo durissimo, che non
smette di amare. C'e' un rapporto ambiguo con i valori contadini? "I valori,
anche quelli contadini, anche quelli delle generazioni di immigrati che si
sono avvicendate nell'Ontario, cambiano. Tutto cambia. Ma il cuore degli
uomini e' rimasto lo stesso. Per una donna della mia eta' resta profondo il
senso di responsabilita'. Il dovere direi di salvare certe cose". In questo,
la fiction, che poi e' una "menzogna" letteraria, diventa un problema in una
letteratura che ha un cosi' forte senso etico. E' un po' come se affrontando
i durissimi antenati, la scrittrice chiedesse loro il permesso di raccontare
bugie, come osserva il professor Luigi Sampietro, uno dei critici italiani
che piu' si sono occupati di lei. "In realta' non e' un problema di
menzogna. Piuttosto non bisogna dimenticare che per lungo tempo in quella
societa' essere 'solo' uno scrittore non era sufficiente. Non sembrava
abbastanza, come ruolo. Per una donna, poi: bisognava badare alla casa,
innanzi tutto. La scrittura non era 'utile', e quindi in un certo senso non
importante".
In Castle Rock, sulla nave che porta gli emigranti in America, un
commerciante scopre che il giovane Walter, uno dei tanti antenati in cerca
di fortuna, sta tenendo una sorta di diario di bordo e gli chiede perche'.
Lui risponde: "Io scrivo solo quello che capita". Quel che annota gli serve
solo, dice, per mandare poi una lettera a casa. Scrive cose "utili". "Ed e'
molto protestante - commenta la scrittrice - questo insistere
sull'utilita'". E' successo anche a lei? "All'inizio non mi ponevo questi
problemi. Ma andando avanti con gli anni l'ho sentito come un impegno".
Essere "solo" uno scrittore forse non basta ancora, non basta mai. E' questo
il motore della sue storie perfette?
Cynthia Ozick, un'altra importante scrittrice canadese, l'ha definita "il
nostro Cechov". Lei Cechov lo ha riletto, ma si schermisce. Scrive racconti
perche' desidera che il lettore "percepisca qualcosa come stupefacente, e
non perche' succede, ma per il modo in cui tutto succede". Su questo, i suoi
severi antenati non avrebbero trovato da ridire.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 197 del 24 luglio 2008

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