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Nonviolenza. Femminile plurale. 197
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 197
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 24 Jul 2008 09:35:24 +0200
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 197 del 24 luglio 2008 In questo numero: 1. Lilli Gruber: Nawal El Saadawi 2. Eva Cantarella: Amazzoni 3. Eva Cantarella: Contro la pena di morte 4. Eva Cantarella: La Grecia a Roma 5. Eva Cantarella presenta "Pompei. La costruzione di un mito" di Luciana Jacobelli 6. Mario Baudino presenta "La vista da Castle Rock" di Alice Munro 1. LIBRI. LILLI GRUBER: NAWAL EL SAADAWI [Dal quotidiano "L'Unita" dell'11 novembre 2007 col titolo "La rivoluzione pacifica delle figlie dell'Islam. Storia di Nawal che a cinque anni litigo' con Dio" e la nota "Pubblichiamo 'La bambina che litigo' con Dio', ottavo capitolo dell'ultimo libro di Lilli Gruber, Figlie dell'Islam. La rivoluzione pacifica delle donna musulmane, 2007 edito da Rizzoli, pp. 354, euro 18,50. La giornalista e saggista, prima donna ad aver presentato un telegiornale in prima serata ed attualmente parlamentare europea della sinistra, ha gia' scritto numerosi saggi da I miei giorni a Baghdad, (2003). L'altro Islam (2004). Chador (2005) e America anno zero (2006)". Lilli Gruber (Bolzano, 1957), gia' apprezzatissima giornalista televisiva, e' attualmente parlamentare europea; nel 2003, durante i bombardamenti, era a Baghdad sotto le bombe, con il popolo iracheno; nel parlamento europeo fa parte sia della Commissione per le liberta' civili, la giustizia e gli affari interni, sia della Commissione per gli affari esteri; e' presidente della delegazione per le relazioni con gli Stati del Golfo, fa parte della delegazione per le relazioni con l'Iran, e' vicepresidente dell'Intergruppo stampa, comunicazione e liberta'. Opere di Lilli Gruber: (con Paolo Borella), Quei giorni a Berlino, Rai-Eri, 1990; L'altro Islam, Rizzoli; I miei giorni a Bagdad, Rai Eri - Rizzoli, 2003; L'altro Islam, Rizzoli, 2004; Chador, Rizzoli, 2005; America anno zero, Rizzoli, 2006; Figlie dell'Islam, Rizzoli, 2007. Nawal El Saadawi (traslitterata anche in Nawal Al Saadawi o Nawal al Sa'dawi), intellettuale femminista egiziana, scrittrice e psichiatra, nata nel 1932 in un villaggio sul Nilo non lontano dal Cairo, laureata in medicina e specializzata in psichiatria, autrice di rilevanti saggi e romanzi, soprannominata "la Simone de Beauvoir egiziana", e' una delle figure piu' rilevanti della lotta per i diritti delle donne e per il suo impegno ha subito gravissime persecuzioni. Tra le opere di Nawal el Saadawi: in italiano: Firdaus, storia di una donna egiziana, Giunti, 2001; Una figlia di Iside, Nutrimenti, 2002; in inglese: The Hidden Face of Eve: Women in the Arab World, Zed Books, 1980; God Dies by the Nile, Zed Books, 1985; Memoirs of a Woman Doctor, City Lights Books, 1989; Innocence of the Devil, University of California Press, 1998; A Daughter of Isis: The Autobiography of Nawal El Saadawi, Zed Books, 1999; Walking Through Fire: A Life of Nawal El Saadawi, Zed Books, 2002; Woman at Point Zero, Zed Books, 2007. Una recensione di Daniela Padoan a Una figlia di Iside (l'autobiografia di Nawal El Saadawi) e' ne "La nonviolenza e' in cammino" n. 412. Il sito di Nawal el Saadawi e' www.nawalsaadawi.net] Nawal El-Saadawi e' una veterana della "jihad femminile". Ha cominciato a protestare nel 1936, all'eta' di cinque anni, e direttamente con Dio. Scrivendogli una lettera. "Caro Dio, perche' preferisci mio fratello? Lui e' pigro e stupido, non fa nulla ne' a scuola, ne' a casa, mentre io m'impegno. Come fai a preferire lui?". Era l'inizio di una carriera letteraria, e di un rapporto con le autorita' a dir poco tormentato. Nawal proviene da una famiglia colta e benestante, ma questo non e' bastato a evitarle la mutilazione genitale. A dieci anni e' scampata a un matrimonio combinato e ha deciso di continuare a studiare nonostante le perplessita' familiari. "Se non fossi stata la migliore, mio padre avrebbe smesso di pagarmi gli studi, ma lo ero". Nel 1955 si laurea in medicina, specializzazione in psichiatria, e comincia a lavorare a Kafr Tahla, il piccolo villaggio rurale dove e' nata. "Ogni giorno combattevo con le difficolta', i soprusi e le ingiustizie subite dalle donne". Nawal e' richiamata al Cairo e nominata direttrice della Sanita' pubblica. Nel 1972 pubblica Women and Sex, un atto d'accusa contro la disumana pratica dell'infibulazione. Nawal e' la prima donna araba a portare allo scoperto un tema cosi' scomodo e scabroso e di li' a poco cominciano i guai. Perde il lavoro e la rivista che ha fondato, "Health", viene chiusa. Ma non si abbatte: per tre anni conduce una ricerca sulle nevrosi femminili presso la facolta' di medicina dell'Ain Shams University, e nel 1979 diventa consigliera presso le Nazioni Unite per il programma a favore delle donne in Africa e Medio Oriente. I suoi studi la portano nei manicomi e nelle carceri, e la sua critica alle religioni, in particolare all'Islam, e al sistema politico egiziano, finisce per inasprire i gia' tesi rapporti con le istituzioni. Nel 1981 viene incarcerata senza processo con altri 1.600 intellettuali ed esponenti politici. Sara' liberata lo stesso anno, esattamente un mese dopo l'assassinio del presidente Sadat, che aveva ordinato il suo arresto. Tra i fermati c'e' anche suo marito, il dottor Sherif Hetata, che invece scontera' ben quindici anni nel carcere di massima sicurezza del Cairo. "Il pericolo e' stato parte della mia vita fin da quando ho impugnato una penna", mi spiega la donna-simbolo del femminismo egiziano. "Non c'e' niente di piu' pericoloso della verita' in un mondo che mente". Ma proprio quando il governo sperava di averla messa a tacere, scrive in prigione il suo libro piu' importante, che sara' tradotto in dodici lingue e pubblicato in tutto il mondo: Memorie dal carcere delle donne. "Mi negavano perfino la carta", mi racconta. "La prostituta nella cella accanto mi allungava penna e carta igienica. Non ci credera', ma le altre donne facevano di tutto affinche' io potessi sempre scrivere. La creativita' e' il mezzo piu' efficace per porre un freno alle mutilazioni dell'intelletto!". Quando compare nella lista nera di un gruppo fondamentalista, Nawal si trasferisce in North Carolina. Insegna alla Duke e alla Washington University, ma nel 1996 decide di tornare a casa. Cinque anni dopo viene nuovamente accusata di eresia: grazie a un'imponente mobilitazione internazionale riesce a evitare il processo per apostasia, che l'avrebbe costretta al divorzio forzato dal marito. Oggi nel suo Paese Nawal rischia un nuovo procedimento penale in seguito alla pubblicazione, nel gennaio 2007, della commedia teatrale Dio rassegna le dimissioni nel corso del vertice. Ma oggi vede sviluppi positivi all'orizzonte grazie al lavoro delle femministe islamiche, prezioso nella battaglia per i diritti. Anche se il suo approccio alle religioni e' piu' scientifico: "Ho speso vent'anni della mia vita a confrontare i tre libri sacri: l'Antico Testamento, il Nuovo Testamento e il Corano. Sono andata in India e ho studiato anche la Bhagavadgita. Non si puo' conoscere l'Islam senza uno studio comparativo. Prendiamo per esempio la questione del velo. Se i sedicenti esperti avessero fatto i dovuti confronti, si sarebbero accorti che le donne si coprivano il capo anche nell'Ebraismo e nel Cristianesimo. In forme diverse, sono sempre state considerate inferiori in qualsiasi religione. In piu' il Corano e' molto difficile da capire: esistono numerose scuole che lo interpretano in modo diverso, cosi' come sono diverse le interpretazioni che i vari governi danno dell'Islam". L'Egitto, negli ultimi anni, e' molto cambiato, sostiene Nawal: "Quando studiavo medicina, negli anni Cinquanta al Cairo, nessuna portava l'hijab; quando mia figlia era studentessa a sua volta, negli anni Settanta, il 45% delle ragazze lo indossava. E la percentuale e' aumentata ancora. Sono stati l'imperialismo americano e il neocolonialismo a sfruttare la religione e fomentare ovunque il fondamentalismo. Il velo e l'infibulazione sono le dirette conseguenze. Oggi in Egitto tutti parlano di religione: professoresse universitarie, scrittrici e perfino le femministe indossano il foulard, magari con i jeans e la pancia scoperta! Le donne si trovano tra due fuochi, tra americanizzazione e islamizzazione". Per loro il clima nel Paese si sta facendo piu' pesante e anche il sistema giudiziario non e' certo incline a tutelarle. Come quello legislativo e' un sistema misto, secolare e religioso. Esistono corti separate: islamica, cristiana e laica, e per quanto riguarda la prima il codice di riferimento e' ovviamente la Sharia. "Ma viene applicata in modo assolutamente arbitrario: gli uomini continuano a essere poligami e a divorziare dalle mogli quando vogliono. Il figlio deve portare il nome del padre, e se questi e' ignoto il bambino e' illegittimo. I fondamentalisti sostengono che lo dice il Corano. Il nome della madre e' considerato tuttora una vergogna sociale per la legge islamica". Quando sua figlia ha deciso di portare il suo cognome, hanno dovuto comparire entrambe in tribunale con l'accusa di apostasia. "In Egitto ci sono due milioni di bambini illegittimi. E' giusto punire i piccoli che non hanno alcuna colpa?". Mi racconta l'esperienza traumatica della circoncisione, praticata una mattina, nella sua stanza, da quattro donne del villaggio vestite di nero, senza anestesia ne' disinfettanti. "Mi dissero che era Dio a volerlo. Da allora ho cominciato a ribellarmi contro di Lui. Anche se i miei genitori mi dicevano di pregare, non mi sono mai convinta che Dio fosse giusto, mai. Perche' io ho un cervello che ha sempre lavorato a pieno regime. Per me il vero piacere e' quello della conoscenza, e della sfida. Ho settantacinque anni e vivo come se ne avessi trenta. Faccio ginnastica, suono, nuoto: certo mi stanco, mi viene mal di testa, ma non importa. Essere attivi tiene viva la mente". Quando le chiedo se il velo possa essere considerato anche un simbolo di liberta' risponde senza esitare: "Da un punto di vista politico, assolutamente no. La schiavitu' non e' un simbolo di liberta'". Quindi, secondo lei il velo equivale sempre a oppressione? "Si', certo, ma anche la mercificazione e' oppressione. Sono due facce della stessa medaglia. Ci sono donne che lo portano come altre usano il trucco: per questo definisco il make-up un velo postmoderno. Perche' secondo te si mettono il rossetto sulla labbra? Perche' mostrano il reggiseno e indossano minigonne cortissime? Perche' sono considerate un oggetto sessuale. Essere coperte per dettami religiosi oppure spogliate per leggi di mercato e' sempre una forma di schiavitu'". Secondo Nawal chi dice che l'Islam e' incompatibile con la democrazia ha ragione: "In nessuna religione esiste democrazia perche' Dio e' un dittatore. La religione si fonda sull'obbedienza, non si puo' discutere con il Creatore. E i potenti della Terra non fanno altro che seguire il loro maestro in Cielo. Non esiste separazione tra religione e politica, sono una cosa sola: nella storia Dio era il re". Come molte altre intellettuali che ho incontrato, ritiene siano le donne l'elemento chiave nascosto, il vero motore del cambiamento: "Per questo la politica e' contro di noi. Ci hanno rese cosi' stupide da farci credere in un Dio che ci opprime. Ma come si puo' credere davvero che Dio sia contro di noi?". Mi saluta con un invito a dir poco perentorio: "Ricordati che la mutilazione peggiore non e' quella genitale ma quella intellettuale. Il velo sul cervello e' molto peggio del velo sui capelli". 2. MITI. EVA CANTARELLA: AMAZZONI [Dal "Corriere della sera" del 30 maggio 2007 col titolo "Indomite, crudeli, 'snaturate' Amazzoni, terrore dell'uomo" e il sommario "Dagli scavi presso il Don la conferma delle parole di Erodoto. Donne 'contro'. Si tagliavano un seno per usare meglio l'arco, si accoppiavano con i prigionieri, rifiutavano matrimonio e maternita'". Eva Cantarella, docente universitaria di diritto romano e di diritto greco; ha pubblicato molte opere sulla cultura antica ed e' autrice di fondamentali ricerche sulla condizione della donna nelle culture antiche. Dall'enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche riprendiamo la seguente scheda: "Nata nel 1936 a Roma, Eva Cantarella si e' laureata in giurisprudenza nel 1960 presso l'universita' di Milano. Ha compiuto la propria formazione postuniversitaria negli Stati Uniti all'Universita' di Berkeley e in Germania all'universita' di Heidelberg. Ha svolto attivita' didattica e di ricerca in Italia presso le universita' di Camerino, Parma e Pavia e all'estero all'Universita' del Texas ad Austin ed alla Global Law School della New York University. E' professore ordinario di Istituzioni di diritto romano presso la facolta' di giurisprudenza dell'universita' di Milano, dove insegna anche diritto greco. Partendo dalla ricostruzione delle regole giuridiche, le ricerche di Eva Cantarella, sia in campo romanistico che grecistico, tendono da un lato a individuare la connessione tra le vicende politiche ed economiche e la produzione normativa, e dall'altro a verificare la effettivita' delle norme stesse, analizzando lo scarto tra diritto e societa', la direzione di questo scarto e le ragioni di esso". Tra le opere di Eva Cantarella: La fideiussione reciproca, Milano 1965; Studi sull'omicidio in diritto greco e romano, Milano 1976; Norma e sanzione in Omero. Contributo alla protostoria del diritto greco, Giuffre', Milano 1979; L'ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell'antichita' greca e romana, Editori Riuniti, Roma 1981; Tacita Muta. La donna nella citta' antica, Editori Riuniti, Roma 1985; Pandora's Daughters, Bpod, 1987; Secondo natura. La bisessualita' nel mondo antico, Editori Riuniti, Roma 1988; I supplizi capitali in Grecia e a Roma, Rizzoli, Milano 1991; Diritto greco, Cuem 1994; Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, Feltrinelli, Milano 1996; (con Giulio Guidorizzi), Profilo di storia antica e medievale, Einaudi Scuola, 1997; Pompei. I volti dell'amore, Mondadori, Milano 1998; (con Luciana Jacobelli), Un giorno a Pompei. Vita quotidiana, cultura, societa', Electa, Napoli 1999; Storia del diritto romano, Cuem, 1999; Istituzioni di diritto romano, Cuem, 2001; (con Giulio Guidorizzi), Le tracce della storia, Einaudi Scuola, 2001; Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Feltrinelli, Milano 2002; (con Lorenzo Gagliardi, Marxiano Melotti), Diritto e sessualita' in Grecia e a Roma, Cuem, 2003; (con Giulio Guidorizzi), L'eredita' antica e medievale, Einaudi Scuola, 2005; L'amore e' un dio, Feltrinelli, Milano 2006; Il ritorno della vendetta, Rizzoli, Milano 2007; altre opere a destinazione scolastica: (con Giulio Guidorizzi), Corso di storia antica e medievale, Einaudi Scuola; (con Giulio Guidorizzi), Il mondo antico e medievale, Einaudi Scuola; (con Giulio Guidorizzi), La cultura della storia. Laboratorio, Einaudi Scuola; (con Giulio Guidorizzi), Lo studio della storia. Laboratorio, Einaudi Scuola; (con Giulio Guidorizzi), Storia antica e medievale, Einaudi Scuola; (con Giulio Guidorizzi), Antologia latina, Einaudi Scuola; (con Giulio Guidorizzi, Laura Pepe), Letteratura e storia di Roma antica. Antologia degli autori latini, Einaudi Scuola; (con G. Martinotti), Cittadini si diventa, Einaudi Scuola; (con E. Varni, Franco Della Peruta), La memoria dell'uomo, Einaudi Scuola] "Un tempo esistevano le Amazzoni, figlie di Ares, e abitavano presso il fiume Termodonte" racconta Lisia, nella orazione funebre in onore dei caduti in guerra. "Sole fra i popoli vicini, esse indossavano armature di ferro. Furono le prime ad apprendere l'arte di cavalcare: sorprendevano a cavallo il nemico disorientato, raggiungendolo se fuggiva, sfuggendolo se le inseguiva. Donne quanto al sesso, erano considerate uomini per il coraggio. Padrone di molte genti, avevano asservito i popoli vicini, ma quando conobbero la fama di Atene, per desiderio di gloria avanzarono in armi contro di noi. Ma nonostante i loro costumi il loro animo era femminile, e furono sconfitte...". Le Amazzoni: mitiche guerriere, che secondo Erodoto vivevano nelle steppe a nord-est del fiume Don. Nei racconti dei greci, si tagliavano un seno per maneggiare meglio l'arco (di qui il nome a-mazon, "senza un seno", appunto) e combattevano al comando di una regina. Della piu' celebre di queste, Pentesilea, si raccontava che, avendo condotto il suo esercito a Troia per soccorrere i Troiani, era stata trafitta da una lancia di Achille, che dopo averla uccisa ne aveva oltraggiato il cadavere; ma si raccontava anche che incrociando lo sguardo della regina morente Achille se ne era perdutamente innamorato. Detestando gli uomini e rifiutando il matrimonio, le Amazzoni si riproducevano accoppiandosi con i loro prigionieri, che successivamente uccidevano, o, secondo un'altra versione del mito, li tenevano come schiavi, dopo averli mutilati perche' non potessero usare le armi. Quanto ai figli, superfluo dire che se maschi venivano uccisi (o, in una versione piu' benevola del mito, solamente accecati). Questo raccontavano i greci delle Amazzoni. Un mito al servizio dell'ideologia, dunque. L'iconografia e' chiara: dopo le guerre persiane, vestite in abiti orientali e fornite d'arco e frecce, le Amazzoni simbolizzano l'effeminatezza e la mancanza di autocontrollo del barbaro sconfitto. Nelle metope del Partenone, la battaglia tra loro e i Greci e' collegata alla guerra dei Lapiti contro i Centauri, e non a caso. In modo diverso, Centauri e Amazzoni sono sfide all'ordine civilizzato: i Centauri sono espressione della mascolinita' selvaggia, violenta, fuori controllo; le Amazzoni, popolo di sole donne snaturate e crudeli, simbolizzano l'opposizione a matrimonio e maternita'. Il rifiuto di quel ruolo - insegnava il mito - e' possibile solo in un mondo incivile, per i greci addirittura impensabile. Ma quello che era impensabile per i greci poteva essere una realta' in altre parti del mondo? Esistono tracce di un momento in cui le donne, prima di essere destinate allo spazio interno della casa, partecipavano ad attivita' esterne, come la caccia e forse anche la guerra? Durante gli scavi condotti dagli archeologi russi nei pressi di Millerovo, sulle rive del Don, all'interno di uno dei grandi tumuli che sorgono nella zona, e' stato trovato uno scheletro femminile accanto al quale erano stati deposti da un lato una spada e un giavellotto, dall'altro un arco e una faretra piena di frecce, nonche' uno specchietto di bronzo, un anello e una collana. Le Amazzoni esistevano, ha titolato la stampa di tutto il mondo. Qualche precisazione e' indispensabile: una donna guerriera non e' la prova dell'esistenza di un'organizzazione sociale composta di sole donne, o in cui le donne comandano. Il ritrovamento di Millerovo dimostra solo che nelle steppe in cui Erodoto collocava le Amazzoni e' esistita una societa' in cui le donne potevano avere ruoli diversi da quello familiare. Nulla a che vedere, per intenderci, con un eventuale matriarcato, della cui storicita', nell'Ottocento, le Amazzoni sono state considerate una prova. Ma oggi sappiamo - questo si' - che Erodoto non raccontava solo leggende: durante i suoi viaggi, era venuto a contatto con societa' dai costumi molto diversi dai suoi, dove le donne che combattevano non erano solo un mito. I greci, cui simili donne facevano orrore, avevano costruito su questa realta' un mito a loro uso e consumo: che riflette, quasi a esorcizzarlo, alcuni aspetti di un mondo realmente esistito. In questo senso e con queste avvertenze, la storicita' del mito delle Amazzoni va rivalutata. 3. RIFLESSIONE. EVA CANTARELLA: CONTRO LA PENA DI MORTE [Dal "Corriere della Sera" del 13 gennaio 2008 col titolo "La pena di morte in America. La cicuta di Socrate, l'iniezione letale e la moratoria"] Dopo aver bevuto la cicuta - racconta Platone - Socrate rimprovero' i suoi allievi, che non riuscivano a frenare il pianto: "Che stranezza e' mai questa, amici? Si dice che sia bene morire fra serene parole di augurio". E serenamente spiro'. Cosi' nel Fedone. Ma che la cicuta (koneion) desse una morte indolore e' tutt'altro che certo. Platone, probabilmente, voleva idealizzare gli ultimi momenti del maestro ma altri resoconti, piu' realistici, descrivono la morte di chi aveva ingerito il veleno in modo molto diverso: la mente oscurata, la vista deformata, gli occhi che selvaggiamente roteavano, la gola attanagliata, le estremita' paralizzate. La cicuta, infatti, non venne introdotta per alleviare le sofferenze dei condannati a morte. Venne introdotta per calcolo politico dai Trenta Tiranni (V secolo a.C.), che per liberarsi senza troppo rumore degli oppositori mandavano loro in carcere una pozione di veleno: per ovvie ragioni, queste esecuzioni dovevano avvenire senza suscitare scalpore. La cicuta, insomma, doveva risolvere un problema politico: esattamente come negli Usa, a distanza di duemilacinquecento anni, l'iniezione letale, introdotta in un momento molto delicato per i sostenitori della pena capitale. Nel 1972, nel corso di una lunga moratoria, la Corte Suprema (Furman vs Georgia) aveva dichiarato l'incostituzionalita' di questa pena, perche' nei modi e nelle forme in cui era applicata era contraria all'VIII Emendamento, che proibisce pene "crudeli e inusuali". Ma nel 1976 (Gregg vs Georgia) la Corte, i cui componenti erano cambiati, muto' opinione. Senonche' nel frattempo era cambiato anche l'atteggiamento dell'opinione pubblica e un forte malessere serpeggiava anche fra i sostenitori della pena. Per evitare che la reintroduzione provocasse traumi eccessivi, era necessario trovare altre forme di esecuzione. La fucilazione e l'impiccagione apparivano crudeli e disumane; la camera a gas e la sedia elettrica provocavano lunghe agonie: inoltre, la camera a gas era stata usata dai nazisti. Una morte "medicalizzata", con aghi e siringhe, era una concessione a sentimenti di umana solidarieta' che avrebbe contribuito a dare della pena un'immagine piu' accettabile. E cosi' e' stato, fino a quando la verita' e' andata facendosi strada. Nel 2005, un articolo sulla rivista medica "The Lancet" spiegava che le iniezioni che inducono prima la paralisi e quindi l'arresto cardiaco devono essere precedute dalla somministrazione di un anestetico, senza il quale il condannato, in preda a fortissimi spasmi muscolari, si sente soffocare e ha, letteralmente, la sensazione di venire bruciato vivo. Ma nelle camere della morte l'anestesia viene praticata senza test clinici, da personale non addestrato, senza controllo medico sui metodi: le iniezioni letali attualmente in uso per gli esseri umani - era la conclusione della ricerca - vengono praticate secondo standard che non raggiungono neppure quelli richiesti per l'esecuzione degli animali. E purtroppo la conferma della denunzia dei medici venne da esecuzioni successive. Un solo esempio tra i tanti: il 13 dicembre 2006, a Jacksonville, in Florida, il portoricano Angel Nives Diaz ha agonizzato sul lettino per 34 minuti. Cosi' stando le cose, per evitare l'obiezione che l'esecuzione fosse contraria all'Ottavo Emendamento, ai medici venne fatta una richiesta: quella che un anestesista fungesse da supervisore all'esecuzione. Il rifiuto fu netto. Nel Code of Medical Ethic, del 1992, si legge: "Un medico, in quanto esponente di una professione il cui scopo e' salvare la vita, quando vi sono speranze di farlo, non dovrebbe partecipare a un'esecuzione" anche se l'opinione personale del medico sulla pena capitale rimane una scelta morale individuale. L'iniezione letale si e' ritorta contro coloro che ipocritamente, per calcolo politico, ne hanno sostenuto l'introduzione. Ora, la parola e' alla Suprema Corte. Se la crudelta' della "morte dolce" americana verra' riconosciuta, gli Usa, credo, saranno probabilmente costretti a fare buon viso a cattivo gioco, e applicare la moratoria promossa dall'Italia approvata all'Onu. Come altre volte, la Suprema Corte potrebbe scrivere una sentenza veramente storica. 4. STORIA. EVA CANTARELLA: LA GRECIA A ROMA [Dal "Corriere della sera" del 26 marzo 2008 col titolo "Le due civilta'. L'acculturamento dell'aristocrazia terriera. Non appoggiato da tutti. E Roma si divise sullo stile 'alla greca'. La critica di Plinio: 'Noi viaggiamo per strade e mari per vedere cio' che non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi...'"] Nel 167 a.C. Lucio Emilio Paolo, il conquistatore della Macedonia, "decise di visitare la Grecia - racconta Livio - per vedere quelle bellezze che erano state magnificate alle sue orecchie come superiori a quanto l'occhio umano potesse contemplare". I romani, ormai, avevano imparato ad apprezzare le opere d'arte greche, inizialmente ammirate come trofei di guerra. Al termine della seconda guerra punica, il generale Marco Claudio Marcello aveva fatto sfilare nelle strade della citta', durante il trionfo, le opere d'arte trafugate nel 212 a.C. a Siracusa. In eta' precedente, scrive Strabone, i romani, "presi da cose piu' grandi e piu' necessarie, non avevano mai prestato attenzione alla bellezza". Ma poi le cose cambiarono. Tra il periodo tardo repubblicano e quello imperiale un numero crescente di opere greche giunse a Roma: nel 146 a.C., in un portico fatto costruire appositamente, vennero collocate le splendide statue di Lisippo raffiguranti Alessandro Magno e i suoi ufficiali morti nella battaglia di Granico. Altre opere vennero esposte in altri portici, nei templi, alle porte di questi, e con il tempo trovarono collocazione anche nelle abitazioni. Il collezionismo privato si diffuse al punto da preoccupare Cicerone: e' ingiusto ed egoista, scrisse, segregare tante meraviglie, impedendone il godimento ai meno fortunati (evidentemente, in quel momento non pensava alla splendida collezione che conservava nella sua villa di Tuscolo). Roma non era piu' quella di un tempo, ma i romani non si accontentavano di quel che vedevano nella loro citta': come Emilio Paolo, volevano visitare la Grecia, vedere l'Afrodite di Prassitele, Europa sul toro di Pitagora di Reggio, i dipinti del grande pittore Apelle. Secondo Plinio il Giovane il turismo culturale era diventata una moda per molti aspetti criticabile: "Noi viaggiamo per strade e mari per vedere cio' che non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi...". Ma la Grecia era diventata il luogo ideale e irrinunciabile della formazione culturale: da Cicerone a Cornelio Nepote, da Varrone a Lucullo, da Cesare a Virgilio, da Augusto a Orazio a Properzio, tutti gli intellettuali la visitavano. Ma non tutti i romani condividevano questo amore. Dopo le guerre puniche, pur essendo divenuta una superpotenza mediterranea, Roma continuava a essere dominata da poche famiglie aristocratiche, la cui ricchezza era basata sulla proprieta' terriera. Molti esponenti di questa nobilta' stentavano a staccarsi dall'orizzonte provinciale in cui erano nati i costumi dei loro antenati, educati alla guerra e temprati al sacrificio: l'arte, per questi nostalgici dei bei temi andati, era parte di una nuova cultura che rischiava di corrompere lo stile di vita che aveva fatto grande Roma. Il II secolo a.C. vide dunque un imponente scontro tra due opposte tendenze: da un lato i tradizionalisti, il cui maggior esponente era Catone il Censore; dall'altro alcuni circoli della medesima nobilta' (celebre quello degli Scipioni), per i quali il confronto con le culture diverse, in particolare quella greca, era indispensabile perche' Roma potesse svolgere il suo nuovo compito. Evidentemente, la prima posizione era destinata alla sconfitta: l'influenza culturale greca, definita da Cicerone "un fiume impetuoso di civilta' e di dottrina" ebbe il sopravvento. Graecia capta - scrisse Orazio - ferum victorem cepit: la Grecia conquistata conquisto' il rude vincitore. I romani sapevano bene quanti fossero i loro debiti verso i greci. Tutto era cambiato: le abitazioni, piu' ampie, aperte a giardini e paesaggi; i mobili, le suppellettili. Con lo stile abitativo erano cambiati lo stile di vita e i rapporti sociali: i nobili si scambiavano visite nelle loro ville sul golfo di Napoli o sulle colline attorno a Roma, offrivano banchetti luculliani, gareggiando in lusso. Il rinvio alla cultura greca era costante: a Pompei, sulle pareti della "Casa del Menandro" erano raffigurate le scene piu' celebri dell'Iliade; nella "Casa del Poeta Tragico" il sacrificio di Ifigenia era la copia di un quadro del celebre pittore greco Timante. Gli esempi potrebbero continuare, ovviamente. Ma, tutto cio' premesso, resta da dire che sarebbe sbagliato sia pensare ai romani, prima dell'incontro con i greci, come a un popolo assolutamente incolto, sia pensare alla cultura della Roma ellenizzata come a una cultura priva di ogni originalita'. I debiti dall'esterno vengono sempre elaborati, sino a diventare, a volte, rielaborazioni creative. Per limitarci alla pittura: fu a Roma, e non in Grecia, che nacque il ritratto. La cultura romana, certamente conquistata dai greci, ci riconduce a una Grecia vista dai romani, vale a dire vista da una cultura diversa, certamente eclettica, ma comunque romana. 5. LIBRI. EVA CANTARELLA PRESENTA "POMPEI. LA COSTRUZIONE DI UN MITO" DI LUCIANA JACOBELLI [Dal "Corriere della sera" del 26 giugno 2008 col titolo "Simboli oltre la storia. Pompei, alle origini di un mito universale". Luciana Jacobelli e' docente universitaria e saggista. Tra le opere di Luciana Jacobelli: Le pitture erotiche delle terme suburbane di Pompei, L'Erma di Bretschneider, 1995; Gladiators at Pompei, L'Erma di Bretschneider, 2003; (con Eva Cantarella), Un giorno a Pompei. Vita quotidiana, cultura, societa', Electa, 2003; Pompei. La costruzione di un mito, Bardi, 2008] Sono oltre due milioni e mezzo, ogni anno, i turisti che visitano Pompei. Ovviamente, le ragioni non mancano. Ma perche' non ha la stessa fama la non meno straordinaria Ercolano, che ne ha condiviso il destino di morte? La risposta in un libro interessante e originale, Pompei: la costruzione di un mito. Arte, letteratura, aneddotica di un'icona turistica, curato da Luciana Jacobelli (Bardi editore). Distrutta il 24 agosto del 79 d.C., Pompei scomparve sotto una valanga di pomice, ceneri e lapilli eruttati dal Vesuvio. Solo nel 1748 venne riscoperta: e subito scatto' il processo di costruzione del suo mito. Artisti famosissimi, re, regine, dame, persino papi si precipitarono a visitarla. Ad alcuni di essi i Borboni regalavano addirittura l'emozione del "ritrovamento in diretta": dalla terra vulcanica, sotto i loro occhi estasiati, si materializzavano tesori precedentemente preparati da solerti funzionari istruiti dal sovrano di turno. A Pompei, scrisse Stendhal, ci si trova "faccia a faccia con l'antichita'". Le circostanze della sua distruzione annullano la distanza storica. Chi entra nelle case e nelle taverne, vede i resti del cibo, legge i graffiti sulle pareti, stabilisce un rapporto con il passato molto diverso da quello di estraneita' in genere suscitato dall'antico. La storia diventa qualcosa di personale, che fa scattare un processo di identificazione, realizzando il sogno del viaggio nel tempo. Non a caso edifici sullo stile delle case e delle ville pompeiane sono stati realizzati in tutto il mondo, dalla Casa dei Dioscuri ad Aschaffenburg in Baviera (1840-'48) alla Villa di Diomede realizzata per volere di Girolamo Napoleone a Parigi. Pompei non e' solo un sito archeologico, e' un mito, che il libro segue dai suoi albori all'epoca odierna del turismo di massa, in cui la citta' si conferma inossidabile e inarrivabile icona turistica. 6. LIBRI. MARIO BAUDINO PRESENTA "LA VISTA DA CASTLE ROCK" DI ALICE MUNRO [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo la seguente recensione apparsa sul quotidiano "La Stampa" del 9 luglio 2008 col titolo "Alice Munro, le bugie buone e giuste" e il sottotitolo "Storia di una bambina cresciuta nel duro mondo dei presbiteriani". Mauro Baudino (Chiusa di Pesio, 1952) e' scrittore e giornalista. Ha pubblicato vari volumi di poesia, narrativa, saggistica. Alice Munro (Wingham, Ontario, 1931), scrittrice canadese, e' autrice di assai apprezzate raccolte di racconti. Tra le opere di Alice Munro: La danza delle ombre felici, La Tartaruga, Milano 1994; Chi ti credi di essere, Edizioni e/o, Roma 1995; Tienimi forte, non lasciarmi andare, La Tartaruga, Milano 1998; Segreti svelati, La Tartaruga, Milano 2000; Il sogno di mia madre, Einaudi, Torino 2001; Nemico, amico, amante..., Einaudi, Torino 2003; In fuga, Einaudi, Torino 2004; Il percorso dell'amore, Einaudi, Torino 2005; La vista da Caste Rock, Einaudi, Torino 2007] Lo ha scritto in un breve saggio, anni fa: "Un racconto non e' una strada che ci si mette a percorrere, e' una casa. Ci entri e ci rimani per un po', andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo i rapporti tra camere e corridoio, e come il mondo esterno viene alterato se lo si guarda da queste finestre". E' un'immagine perfetta del suo modo di lavorare, e anche del suo pensarsi in quanto scrittrice. Alice Munro e' la regina della short story, del racconto magari anche lungo, ma pur sempre di quel genere letterario piuttosto difficile che in Italia pare avere poca cittadinanza. Sara' per questo che finora non aveva mai varcato i confini del nostro Paese, dove sono passati tutti, ma proprio tutti tra festival, premi e vacanze private gli scrittori internazionali? Non proprio. Einaudi ha tradotto i suoi libri piu' importanti, da Il sogno di mia madre al recente Segreti svelati, storie di donne soprattutto, donne alle prese con svolte decisive. Lei, che di svolte ne ha avute, e' persona schiva, molto legata a Clinton, paese di tremila anime nell'Ontario dove trascorre sei mesi all'anno. Semplicemente, aveva sempre declinato gli inviti. E' venuta invece a Pescara, per il premio Flaiano vinto con Alberto Arbasino e Ismail Kadare' (la giuria dei lettori le ha conferito poi il "Superflaiano") cogliendo di sorpresa i suoi editori e l'agente londinese, ma tenendo fede alla sua estrema riservatezza. Niente interviste, solo un incontro col pubblico; e un vago, cortese sorriso. Settantasette anni domani (auguri), alta e appena un po' incurvata dall'eta', Alice Munro e' da tempo una autorevole cadidata al Nobel, gode di un vasto consenso critico, pubblica sulle riviste piu' intellettuali del mondo anglosassone come il "New Yorker", l'"Atlantic Monthly" o la "Paris Review", rifugge dai media per quanto e' possibile. E distilla i suoi racconti, spesso dalla forte componente autobiografica - il genere in cui eccelle e' il "memoir" -, con una secchezza e una precisione che sono figlie del severo mondo protestante dei presbiteriani scozzesi in cui e' cresciuta. Nel libro con cui ha vinto il Flaiano, La vista da Castle Rock, lo racconta attraverso la storia della sua famiglia, i Laidlaw (Munro e' il cognome del primo marito), venuti in Canada dalla Scozia nell'Ottocento: contadini poveri e austeri, ma grandi lettori della Bibbia, tormentati e "filosofi" a modo loro, permeati da quella cultura che puo' apparire soffocante ma che ha prodotto, per dire, un filosofo come David Hume. Lei non filosofeggia. Racconta. "E' un libro un po' particolare - ci spiega - perche' mischia la realta' documentale, ricostruita anche grazie al fatto che nelle varie generazioni della mia famiglia qualcuno ha sempre scritto quel che gli accadeva. Mio padre ha addirittura lasciato un romanzo sull'epopea dei pionieri in Canada. Su questo materiale sono intervenuta con la fiction, l'immaginazione". Lo ha fatto soprattutto quando parla di se' bambina, adolescente e poi giovane donna alle prese con un mondo durissimo, che non smette di amare. C'e' un rapporto ambiguo con i valori contadini? "I valori, anche quelli contadini, anche quelli delle generazioni di immigrati che si sono avvicendate nell'Ontario, cambiano. Tutto cambia. Ma il cuore degli uomini e' rimasto lo stesso. Per una donna della mia eta' resta profondo il senso di responsabilita'. Il dovere direi di salvare certe cose". In questo, la fiction, che poi e' una "menzogna" letteraria, diventa un problema in una letteratura che ha un cosi' forte senso etico. E' un po' come se affrontando i durissimi antenati, la scrittrice chiedesse loro il permesso di raccontare bugie, come osserva il professor Luigi Sampietro, uno dei critici italiani che piu' si sono occupati di lei. "In realta' non e' un problema di menzogna. Piuttosto non bisogna dimenticare che per lungo tempo in quella societa' essere 'solo' uno scrittore non era sufficiente. Non sembrava abbastanza, come ruolo. Per una donna, poi: bisognava badare alla casa, innanzi tutto. La scrittura non era 'utile', e quindi in un certo senso non importante". In Castle Rock, sulla nave che porta gli emigranti in America, un commerciante scopre che il giovane Walter, uno dei tanti antenati in cerca di fortuna, sta tenendo una sorta di diario di bordo e gli chiede perche'. Lui risponde: "Io scrivo solo quello che capita". Quel che annota gli serve solo, dice, per mandare poi una lettera a casa. Scrive cose "utili". "Ed e' molto protestante - commenta la scrittrice - questo insistere sull'utilita'". E' successo anche a lei? "All'inizio non mi ponevo questi problemi. Ma andando avanti con gli anni l'ho sentito come un impegno". Essere "solo" uno scrittore forse non basta ancora, non basta mai. E' questo il motore della sue storie perfette? Cynthia Ozick, un'altra importante scrittrice canadese, l'ha definita "il nostro Cechov". Lei Cechov lo ha riletto, ma si schermisce. Scrive racconti perche' desidera che il lettore "percepisca qualcosa come stupefacente, e non perche' succede, ma per il modo in cui tutto succede". Su questo, i suoi severi antenati non avrebbero trovato da ridire. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 197 del 24 luglio 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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