Voci e volti della nonviolenza. 183



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 183 del 27 maggio 2008

In questo numero:
1. Claude Levi-Strauss: Lavoro, natura, cultura (1986)
2. Marino Niola: Claude Levi-Strauss
3. Antonio Gnoli presenta "Tristi tropici" di Claude Levi-Strauss
4. Et coetera

1. CLAUDE LEVI-STRAUSS: LAVORO, NATURA, CULTURA (1986)
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 4 maggio 2008 col titolo "Levi-Strauss:
elogio del lavoro manuale. Intorno all'uomo", il sommario "La cultura
materiale, le discipline sociali e umane non rientrano nelle scienze
cosiddette 'dure', dove le ipotesi possono essere rifiutabili... Dietro la
cultura materiale, i costumi, le credenze e le istituzioni, tentiamo di
capire quel che avviene nella coscienza degli uomini, e al di qua di essa
nessuno fra noi potra' mai affermare che il livello in cui ha scelto di
collocarsi e' l'ultimo; e nemmeno che, sotto tale livello, se ne possa
raggiungere un altro, e cosi' via indefinitamente... Il piu' grande
antropologo vivente, insignito di una serie di premi e onorificenze per la
sua lunga carriera di studi, sta per raggiungere il traguardo dei cento
anni. Pubblichiamo un suo intervento inedito che, per la prima volta, mette
al centro della riflessione l'Italia e la sua cultura e fa il bilancio di
una proficua vita di ricerca", e la seguente nota "Questo testo inedito e'
stato letto da alla cerimonia di conferimento del Premio Internazionale
Nonino il primo febbraio 1986 a Percoto in provincia di Udine. Si
ringraziano Claude Levi-Strauss e Antonella Nonino per l'autorizzazione a
riprodurlo. Diritti riservati Premio Nonino"]

In Italia sembra esista un detto: "Avere piu' debiti della lepre". Perche'
la lepre? Forse perche', come dice il nostro La Fontaine, e' un animale
preoccupato. Ebbene, se mi sento carico di debiti e quindi "lepre" nei
vostri confronti, siate certi [...] che nessuna preoccupazione mi opprime,
ma solo un senso di confusione e di gratitudine per l'onore che oggi mi
fate.
La mia gratitudine va anche ai fondatori del Premio Internazionale Nonino,
poiche' nulla mi puo' gratificare come un premio collegato nel pensiero dei
suoi creatori ad altri - i premi Risit d'Aur -, concepiti per onorare dei
contadini e dei ricercatori dediti a difendere e illustrare le tradizioni
contadine.
Posso permettermi una confidenza? Nel corso della mia vita ho ricevuto un
buon numero di onorificenze, ottenute non tanto per i miei modesti meriti
quanto per l'estrema lunghezza di una carriera attiva, durata mezzo secolo.
[...] Nessun altra m'ha inorgoglito piu' della medaglia [...] di "Migliore
Operaio di Francia". Io ho infatti il gusto del lavoro manuale, e solo per
averlo spesso praticato ho potuto, in uno dei miei libri, delineare la
teoria di cio' che in francese chiamiamo bricolage. In verita', sarei lieto
se un intellettuale, una volta in pensione, fosse obbligato dalla legge a
cimentarsi con un altro mestiere; in tal caso, avrei scelto senza esitare
una professione manuale.
Perche' questo? Dopo l'avvento della civilta' industriale, il lavoro e'
diventato un'operazione a senso unico, nella quale l'uomo - lui solo
attivo - modella una materia inerte, e le impone sovranamente le forme che
le convengono.
Le societa' studiate dagli etnologi hanno del lavoro un'idea ben diversa.
Esse lo associano spesso al rituale, all'atto religioso, come se, in
entrambi i casi, il fine fosse quello di intrecciare con la natura un
dialogo in virtu' del quale natura e uomo possono collaborare: l'una
concedendo all'altro cio' che lui spera, in cambio dei segni di rispetto, o
persino di pieta', cui l'uomo si obbliga nei confronti di una realta'
collegata all'ordine soprannaturale.
Ancor oggi sussiste una convivenza tra questa visione delle cose e la
sensibilita' del contadino e dell'artigiano tradizionali. Costoro infatti,
siccome continuano a mantenere un diretto contatto con la natura e con la
materia, sanno di non avere il diritto di violentarle, ma devono cercare
pazientemente di capirle, di sollecitarle con precauzione, direi quasi di
sedurle, attraverso la dimostrazione perennemente rinnovata di una
familiarita' ancestrale fatta di cognizioni, di ricette e di abilita'
manuali trasmessi di generazione in generazione.
Ecco perche' il lavoro manuale, meno lontano di quanto sembri da quello del
pensatore e dello scienziato, costituisce anch'esso un aspetto dell'immenso
sforzo dispiegato dall'umanita' per capire il mondo: probabilmente l'aspetto
piu' antico e durevole, quello che, piu' prossimo alle cose, e' anche il
piu' adatto a farci concretamente cogliere la loro ricchezza, e ad
alimentare la meraviglia che proviamo allo spettacolo della loro diversita'.
Ci si prodiga oggigiorno ad allestire banche di geni per preservare il poco
che sopravvive delle specie vegetali originali create nel corso dei secoli
da modi di produzione totalmente diversi da quelli ora praticati. Si spera
anche di eludere i pericoli della cosiddetta "rivoluzione verde", vale a
dire un'agricoltura ridotta a poche specie vegetali di grande rendimento, ma
tributarie di concimi chimici e sempre piu' vulnerabili agli agenti
patogeni.
Non dovremmo forse andare ancora piu' in la' e, non contenti di conservare i
risultati di quei modi di produzione arcaici, sforzarci anche di tutelare
gli insostituibili savoir-faire grazie ai quali quei risultati furono
acquisiti? Chissa', infatti, se le minacce che pesano attualmente sulla
civilta' occidentale non li renderanno, un giorno, provvidenziali per coloro
che verranno dopo di noi.
Tale e', mi pare, la filosofia che ha ispirato i fondatori dei premi al cui
novero appartiene quello che oggi ricevo. E se l'avete, quest'anno,
conferito a un etnologo, la ragione mi sembra stia nel fatto che questa
disciplina si adopera, anch'essa, a preservare la memoria dei generi di vita
e di nozioni che, nei paesi esotici e nei nostri, si sono meglio mantenuti
fra piccoli gruppi umani rimasti a diretto contatto con la natura.
Jean-Jacques Rousseau lo diceva gia' nell'Emilio: "Proprio nelle province
piu' remote, dove minori sono il movimento e il commercio, dove gli
stranieri transitano meno, e meno si spostano i nativi, proprio li' bisogna
recarsi a studiare il genio e i costumi di una nazione [...] Studiate un
popolo fuori dalle sue citta', perche' non e' nelle citta' che lo
conoscerete [...] e' la campagna a costituire il paese".
Ebbene i ricercatori italiani sono stati fra i primi a metterla in pratica
questa dottrina. Verso la meta' del XVIII secolo uno di essi, Giuseppe
Baretti, indagava gia' su usi e costumi popolari. Curiosita' che il
razionalismo romantico avrebbe sviluppato nel corso del XIX secolo e che,
nell'ultimo quarto, da' luogo alla creazione di quelle prodigiose fonti
documentarie che sono [...] l'Archivio per lo studio delle tradizioni
popolari e la Rivista delle tradizioni popolari italiane, che raccolgono i
lavori di una pleiade di studiosi fra i quali mi limitero' a citare il nome
giustamente celebre di Giuseppe Pitre'.
Mi sono spesso chiesto perche' mai l'Italia sia uno dei primissimi paesi dal
quale mi sono giunti segni di attenzione. In nessun altro si e' manifestata
altrettanta sollecitudine nel tradurmi. Fra la pubblicazione francese e
quella italiana di taluni miei libri, anche voluminosi, sono intercorsi tre
anni, o due, o addirittura uno solo. Paolo Caruso, che fra l'altro ha
tradotto con talento Antropologia strutturale e Il pensiero selvaggio, certo
si ricordera' di nostre vecchie conversazioni: esse furono, credo, le mie
prime conversazioni con uno scrittore straniero pubblicate dalla stampa. E
si ricordera' anche che con la Rai, piu' di vent'anni fa, lavorammo alla mia
prima trasmissione televisiva, nelle gallerie del Musee de l'homme e nei
giardini zoologici parigini, dove egli mi faceva raccontare certi miti
sudamericani davanti alle gabbie degli animali che ne sono i protagonisti...
Forse queste testimonianze di interesse si spiegano in base a due tradizioni
intellettuali in cui il vostro paese si e' particolarmente distinto. In
primo luogo, come ricordavo poco fa, una curiosita' appassionata per le
usanze e i costumi popolari considerati nella prospettiva piu' concreta; e
poi un'altra ben diversa, fiorita verso la fine del XIX secolo, per ricerche
d'ordine formale, che hanno dato origine alla scuola italiana di logica
matematica. Forse mi illudo, ma mi piace immaginare che abbiate potuto
riconoscere nei miei lavori un tentativo, certo rustico e maldestro, di
gettare un ponte fra i due ambiti. Poiche', partendo dalle credenze e dalle
rappresentazioni dei popoli viventi in stretta intimita' con la natura e
pensanti in termini di colori, rumori, odori, tessiture e sapori, ho cercato
di allargare i confini della nostra logica per afferrare meglio certi
meccanismi ereditari che presiedono all'attivita' intellettuale. Giuseppe
Peano, geniale fondatore della scuola matematica italiana, si era innamorato
della linguistica e della storia delle idee: tradizione che risale a Vico,
nella cui scia mi hanno talvolta collocato.
Sarei l'ultimo a pensare che dai risultati che ho creduto di raggiungere
consegua alcunche' di definitivo. Le discipline sociali e umane non
rientrano nelle scienze cosiddette "dure", dove le ipotesi possono essere
rifiutabili. Non siamo ancora giunti a questo stadio, e io dubito che ci si
possa giungere mai. Infatti, dietro la cultura materiale, i costumi, le
credenze e le istituzioni, tentiamo di capire quel che avviene nella
coscienza degli uomini, e al di qua di essa. Nessuno fra noi potra' mai
affermare che il livello in cui ha scelto di collocarsi e' l'ultimo; e
nemmeno che, sotto tale livello, se ne possa raggiungere un altro, e cosi'
via indefinitamente... Ho soltanto aspirato a render conto di fenomeni
molteplici e complicatissimi in una maniera piu' economica, e piu'
soddisfacente per l'intelletto, di quanto non si facesse prima. Ma con la
certezza che questo stadio e' provvisorio e che altri, migliori, gli
succederanno.
Mi basta sapere che il lavoro di tutta una vita non e' stato completamente
inutile, e che puo' servire da trampolino da cui altri prenderanno slancio
per catapultarsi piu' avanti. Per un uomo arrivato all'imbrunire della sua
carriera, e' confortante, anzi esaltante, sentirsi garantire che il suo
insegnamento e i suoi scritti offrono ancora un tema di riflessione...

2. MARINO NIOLA: CLAUDE LEVI-STRAUSS
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 4 maggio 2008 col titolo "L'esploratore
dell'Altro che e' in ciascuno di noi"]

"In fondo sono strutturalista fin dalla nascita. Mia madre mi ha raccontato
che, ancora incapace di camminare e molto prima di saper leggere, un giorno
ho gridato dal fondo della mia carrozzina che le prime tre lettere
dell'insegna del macellaio (boucher) e del panettiere (boulanger) dovevano
significare "bou" perche' erano le stesse in entrambi i casi. A quella eta'
gia' cercavo delle invarianti". Ricordando questo episodio della sua
primissima infanzia, Claude Levi-Strauss, il piu' grande antropologo di
tutti i tempi, ci da' una chiave proustiana per spiegare la genesi di quello
strutturalismo che lo ha proiettato nell'Olimpo dei maitres a' penser del
Novecento, per aver trasformato la conoscenza dell'Altro, lo studio delle
differenze culturali, in coscienza critica dell'Occidente, in un nuovo modo
di pensare l'uomo.
Claude Levi-Strauss, che sta per compiere cento anni, ha incarnato, piu' di
Sartre, di Nizan e di Foucault, l'ansia delle generazioni del dopoguerra di
spezzare gli angusti schemi eurocentrici che identificavano la civilta'
occidentale con la civilta' tout court, centro e motore dell'umanita'. In
questo senso l'autore di Tristi tropici si puo' considerare il Copernico
delle scienze umane.
Nessun antropologo ha esercitato un'influenza altrettanto vasta al di fuori
della propria disciplina. Dalla filosofia alla storia, dalla politica alla
critica letteraria, dalla linguistica alla sociologia, dalla poesia alla
psicanalisi, dall'arte alla musica contemporanea, l'opera di Levi-Strauss e'
ricaduta come una pioggia benefica su questi campi dando loro nuova linfa.
L'uscita delle Strutture elementari della parentela nel 1949 fu salutata da
Simone de Beauvoir come una pietra miliare nella conoscenza dell'uomo. E Il
crudo e il cotto, il primo dei sei volumi consacrati allo studio dei miti,
divento' addirittura musica nelle mani di Luciano Berio che lo inseri' in
una sua sinfonia. Mentre Max Ernst e Alberto Burri hanno tradotto le sue
opere in pittura. Un'influenza tanto vasta ha diverse ragioni. Il disegno ad
ampio raggio del progetto antropologico, le sue implicazioni filosofiche,
un'erudizione sterminata e preziosa che consente di costruire collegamenti
tra diversi campi del sapere umanistico e scientifico, e infine una grande
scrittura ricca di vibrazioni letterarie.
Capolavori come Tristi tropici, Il pensiero selvaggio, Antropologia
strutturale, nascono da questo personalissimo melange, in buona parte
inimitabile perche' frutto di un talento eterodosso e senza confini, che ha
sempre portato Levi-Strauss a pensare in grande, senza tuttavia perdersi
nell'astrazione pura che parla dell'Uomo con la maiuscola dimenticando gli
uomini in carne ed ossa, e al tempo stesso senza smarrirsi nella selva dei
particolarismi e dei localismi. E, nella scia dei suoi grandi modelli -
Vico, Rousseau, Freud e Marx - il professore del College de France ha
cercato di connettere, come due facce della stessa moneta, l'universalita'
della natura umana e la diversita' delle singole culture. Un'antropologia
degna del suo nome non puo', infatti, limitarsi ad un inventario notarile di
usi, costumi e tradizioni. Ma deve mettere insieme cio' che fa la differenza
fra le societa' con cio' che ci rende simili, tutti parenti, tutti
differenti. E che consente di riferirsi ai membri della specie con lo stesso
nome "uomo".
L'idea di fondo di Levi-Strauss e' che costruzioni culturali come il
linguaggio, la mitologia, il matrimonio, l'arte, la tecnica hanno solo in
parte origini storiche, sociali e ambientali, ma per l'altra parte
obbediscono a regole universali insite nel funzionamento della mente. Una
posizione del genere, in un'epoca in cui le scienze sociali erano dominate
da teorie empiriste come il relativismo e il comportamentismo, e' costata al
grande antropologo accuse d'idealismo, di antistoricismo, di antiumanismo.
Lo stesso Levi-Strauss, peraltro, ha affermato piu' volte che il compito
delle scienze umane non e' di costruire l'uomo, ma di dissolverlo. Ma in
realta' la provocazione levi-straussiana nasce proprio da quell'attenzione
costante al doppio filo che lega societa' e natura.
Nei primi anni Cinquanta, con una sensibilita' ecologica in largo anticipo
sui movimenti ambientalisti attuali, l'antropologo francese denunciava il
pericolo di un umanesimo narcisisticamente antropocentrico che dimentica i
diritti del vivente in nome di un'idea astratta della vita, che fa dell'uomo
il signore unico del pianeta e della sua riproduzione il fine ultimo della
natura.
Analizzando, anche sulle colonne di questo giornale, fenomeni particolari -
come i miti degli indiani d'America, il matrimonio tra gli aborigeni
australiani, il tempo libero tra i Nambikwara, la cucina in Francia, il
turismo di massa, la scultura degli Irochesi, il ready made di Marcel
Duchamp, la religione consumistica di Babbo Natale, il culto mediatico di
Lady Diana, la poesia di Baudelaire e la musica di Wagner - ha sempre
rivelato quanto in essi ci sia di universalmente umano. Il generale che si
nasconde nel fatto piu' particolare. Coniugando il rigore dell'analisi
scientifica con la sensibilita' e l'immaginazione dello scrittore. E non a
caso il suo Tristi tropici - un autentico best seller, venduto in milioni di
copie in tutto il mondo - e' diventato uno dei grandi libri del nostro
tempo, l'ultimo romanzo di formazione. Dove il racconto di viaggio e la
scelta del mestiere di antropologo, vanno ben oltre la confessione
individuale, a' la Chatwin, per fare dell'antropologia stessa un sintomo del
rimorso dell'Occidente che cerca di scoprire nelle altre civilta' i limiti
della propria, sottoponendosi alla prova delle Lettere persiane di
Montesquieu che consiste nel guardare la propria identita', i propri
costumi, le proprie credenze con gli occhi dell'altro. Ma soprattutto
Levi-Strauss ci ha insegnato a cercare l'altro dentro di noi, a riconoscerlo
anche all'angolo della strada e non solo negli scenari esotici della
Melanesia o dell'Amazzonia che, nella loro rassicurante lontananza, tolgono
al rapporto con l'alterita' quella drammatica urgenza che le migrazioni e la
globalizzazione hanno fatto esplodere.
E sessanta anni fa, quando il primo mondo ancora si cullava nell'illusione
delle magnifiche sorti e progressive, Levi-Strauss ha intravisto
profeticamente il pericolo dell'integralismo religioso che, partendo
dall'Islam, avrebbe finito per contagiare il mondo cristiano, facendo della
contrapposizione tra i due monoteismi, sempre piu' irrigiditi, un conflitto
planetario fra due identita' in armi. Tra due nemici per la pelle, che
proprio nel demonizzare la differenza dell'altro finiscono per somigliarsi
sempre di piu'.
Queste ed altre grandi questioni del presente, dal sovrappopolamento della
terra al relativismo culturale, dal riaffiorare del mito al ritorno dei
localismi, fino alla guerra del velo e alle modificazioni genetiche, si
trovano tutte nell'opera di Levi-Strauss. Con una formulazione sempre
provocatoria e anticipatrice che rappresenta l'eredita' preziosa dell'ultimo
dei classici.

3. ANTONIO GNOLI PRESENTA "TRISTI TROPICI" DI CLAUDE LEVI-STRAUSS
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 23 maggio 2008 col titolo "Sempre piu'
tristi tropici. Levi-Strauss compie cento anni" e il sommario "E'
soprattutto un grande libro sulla desolazione umana secondo Levinas, il piu'
ateo dei libri. L'antropologo trascorse diversi anni nel Mato Grosso e
scrisse un libro unico, assoluto"]

Quando nel 1934 Claude Levi-Strauss si imbarco' dal porto di Marsiglia,
destinazione le foreste del Brasile, circolava un film che alla giungla
aveva innalzato una monumentale metafora di tutte le paure che un mondo
altro e arcaico suscitano nell'uomo occidentale. King Kong usci' nelle sale
cinematografiche nel 1933 e, come tutti sanno, narra di un re spodestato dal
suo regno e portato in catene nella scintillante New York. Lo scimmione e'
un sovrano sui generis che incute terrore tra gli indigeni dell'isola, fino
a quando un manipolo di bianchi immaginano di ricavarne un grande
spettacolo: tanto piu' pittoresco ed efficace quanto piu' l'immagine del
grande gorilla risultera' teatralmente terrificante. In fondo cio' che
l'Occidente, nelle sue componenti piu' ciniche e affaristiche, ha sempre
saputo gestire e' la paura. Sia che si tratti di un sentimento nato da una
finzione, sia che sgorghi dai segreti meandri della realta', la paura -
moneta che circola abbondantemente nei giorni nostri - e' un motore
formidabile che alimenta immaginario e potere, i loro lati oscuri, notturni,
impenetrabili. Ma soprattutto disorientanti.
Levi-Strauss trascorse diversi anni nelle foreste del Mato Grosso. Vi giunse
nel 1935 e riparti' nel 1939. Su quell'esperienza lascio' per anni calare il
silenzio. Non una parola che ricordasse le difficolta', i rischi, i timori,
che gli incontri con civilta' indigene, remote e incontaminate gli avevano
procurato. Poi, quindici anni piu' tardi, decise di raccontare quello che
aveva visto e vissuto. E ne venne fuori Tristi Tropici, un'opera unica.
Assoluta, come possono esserlo quei libri senza precedenti veri. Nasceva con
pochi ingredienti: lo sguardo rivolto al concreto, il rispetto per le cose
viste e, soprattutto, il talento narrativo. Giacche' alla fine quel libro
che comparve la prima volta nel 1955 era soprattutto un grande romanzo.
Levi-Strauss (il grande vecchio compira' cento anni a novembre, si sono
tenuti convegni sulla sua figura e altre celebrazioni sono previste in
Francia e in Italia) scrisse Tristi tropici in quattro mesi. Il libro
nasceva da urgenze diverse: il divorzio dalla prima moglie, la bocciatura al
College de France, il progetto - vago, seducente e poi abortito - di
scrivere un romanzo che avesse come protagonista una specie di truffatore
europeo che circuisce gli indigeni della foresta amazzonica. Non so se
davvero Levi-Strauss si sentisse alla pari di un mestatore occidentale
pronto a carpire la buona fede del selvaggio, di sicuro c'e' che Tristi
tropici e' attraversato da un singolare senso di colpa, che lo spinge a
raccontare, con nostalgia e realismo, un mondo che sarebbe sparito. In certe
pagine egli non esita a mettere sotto accusa il mestiere dell'etnologo,
condizionato da un'ambiguita' che mina, almeno in parte, la legittimita'
scientifica della ricerca sul campo. Da un lato egli indaga le regole che
governano le relazioni di parentela, la forza del mito, la logica del
pensiero selvaggio; dall'altro e' consapevole che ogni intervento, anche il
piu' neutrale, puo' risultare devastante per la realta' che si intende
indagare. E' la ragione per cui odia viaggiare. Lo dichiara fin dall'inizio.
Tristi tropici si apre con un'affermazione sconcertante: "Odio i viaggi e
gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni".
L'odio e' un sentimento tagliente e pericoloso. Va maneggiato con cura. E le
prime righe del libro sono rivelatrici di qualcosa che prima di allora si
trova, in maniera cosi' esplicita, solo in un altro autore: Jean-Jacques
Rousseau. Entrambi condividono lo stesso subbuglio psichico, il medesimo
impeto e sdegno. Rousseau non odia i viaggi, ma odia tutto cio' che e'
civilizzazione. Il peso di quell'odio bilancia l'amore che nutre per
l'innocenza perduta, per quello stato di natura che, con qualche sforzo di
immaginazione, potremmo vedere abitato dalle tribu' dei Bororo, dei
Nambikwara, dai Tupi Kawahib che Levi-Strauss visita, fotografa, filma,
racconta.
E' uno sforzo immane quello a cui l'etnologo si sottopone in quegli anni,
segnati da fatiche, privazioni, pericoli e dalla convinzione che un mondo
opposto per stile e sostanza all'Occidente stia lentamente morendo. Ai suoi
occhi il Brasile e' un paradigma della storia mutevole, del passaggio dal
fugace splendore di alcune citta' alla loro decadenza, dalla ricchezza della
terra alla desolazione dei frutti. Quel mondo, che descrive con raro talento
narrativo, e' condannato alla sparizione. E il fatto di ricordarne cosi'
ossessivamente la decadenza, gli appare un modo sinistro di speculare sulle
altrui miserie: di accelerarne la fine. Considera Tristi tropici un'opera di
corruzione del lavoro dell'etnografo. Resta colpito dalle considerazioni che
Baudelaire svolge sull'impressionismo e Manet in particolare. E le adatta
alle proprie convinzioni. Non e' che gli impressionisti non sapessero
dipingere, ma essi cercavano l'illusione di un'arte spontanea. La stessa
illusione e' convinto si celi nella sua narrazione: cio' che vede e' davvero
dettato dallo sguardo dello scienziato o e' puro colore di superficie?
Si e' presi da una certa spossatezza nella prolungata lettura di Tristi
tropici. Il lettore e' sopraffatto dalla lussureggiante messe di dettagli,
dalle esperienza improvvise, dalle imprevedibili deviazioni sull'India e le
caste, sul buddismo e l'islam. Ma a uno sguardo piu' attento si avverte che
sotto quel caos di emozioni e di avventure, regna un ordine nascosto, un
sapere che fa appello alle semplici regole dello strutturalismo. Nonostante
cio' egli considera Tristi tropici un libro impudente, scritto piu' con le
passioni del cuore che con quelle della mente. Alla fine del libro ci si
imbatte nell'omaggio a Rousseau che egli considera il piu' etnologo tra i
filosofi. Frainteso, dileggiato, disprezzato, Rousseau e' stato il modo in
cui l'Occidente ha provato a leggere e capire il cuore dell'altro senza
oltraggiarlo. Naturalmente, per il ginevrino quel cuore era la prova che
l'Occidente si sarebbe potuto salvare solo a patto di lasciarselo
trapiantare. Una tale prospettiva non era priva di equivoci e pericoli.
Ovvero di tentazioni totalitarie, nate nel nome di una civilta' interamente
trasparente.
Puo' mai esistere una societa' perfetta? Qui le strade di Rousseau e
Levi-Strauss divergono. Le culture, le civilta', i mondi religiosi si
possono confrontare ma non sovrapporre, men che meno sommare. Nessuna
societa' agli occhi del grande antropologo e' interamente bene o male.
Possiamo prendere degli aspetti, amarne alcuni e detestarne altri. Non
possiamo realizzarne una sintesi. Possiamo solo renderci conto della loro
intrinseca caducita'. Tristi tropici e' soprattutto un grande libro sulla
desolazione umana.
Colpiva a tal proposito un giudizio del filosofo Emmanuel Levinas che per
definire l'ateismo moderno si richiama al capolavoro levistraussiano:
"L'ateismo moderno", scrive Levinas, "non e' la negazione di Dio, e'
l'indifferentismo assoluto di Tristi tropici. Penso che sia il libro piu'
ateo che sia stato scritto nei nostri tempi, il libro piu' disorientato e
disorientante". Che cos'e' che colpiva in maniera cosi' acuta il filosofo
francese? Credo la mancanza di senso - sia della storia, sia del soggetto
che in teoria dovrebbe esserne il portatore - che circola in Tristi tropici.
Non a caso l'opera fu letta anche come un attacco all'esistenzialismo e in
particolare a Jean-Paul Sartre.
"Il mondo", si legge alla fine di Tristi tropici - "e' cominciato senza
l'uomo e finira' senza di lui". Siamo i privilegiati del pianeta. Solo
perche' l'arroganza, la forza, il gusto estremo della competizione ci hanno
collocato in quel posto che ci illudiamo di poter difendere con lo scudo e
la lancia della volonta' di potenza. Abbiamo detronizzato la natura, e le
sue componenti. Costruito citta' e imperi. Viviamo in societa' sempre piu'
complesse, sorrette da equilibri precari. "Quanto alle creazioni dello
spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all'uomo e si
confonderanno nel disordine quando egli sara' scomparso". Dopotutto Levinas
non aveva torto nel cogliere la profonda e disorientante visione che
Levi-Strauss coltiva della vita umana. Una visione che non ci appaga ne' ci
consola. Ci fa sentire impotenti. Ed e' la medesima frustrazione provata
nell'assistere alla caduta di King Kong dall'Empire State Building. Nella
foresta ipermoderna di Manhattan non c'era piu' spazio per la natura e per
il sacro. Tristi tropici ci racconta la stessa lancinante estromissione. Le
nostre vite artificiali che Rousseau detestava in maniera profonda,
immaginando improbabili alternative, Levi-Strauss le coglie come il destino
piu' intimo e rovinoso di quel soggetto che abbiamo chiamato uomo.

4. ET COETERA

Claude Levi-Strauss, nato a Bruxelles nel 1908 da genitori francesi (la
famiglia rientra a Parigi nel 1909), forse il maggior antropologo nel
Novecento. Laureato in filosofia, nel 1934 accetta la proposta di una
cattedra di sociologia all'Universita' di Sao Paulo in Brasile, dove giunge
nel 1935 e svolge la sua prima missione etnografica tra i Caduveo e i
Bororo; nel 1938 seconda spedizione etnografica tra i Nambikwara e i
Tupi-Kawahib. Nel 1941 e' alla New School for Social Research di New York;
nel '42 conosce il linguista Roman Jakobson. Tornato in Francia dopo la
guerra, nel 1948 e' ricercatore al Cnrs. Nel 1950 e' in india e in Pakistan
per l'Unesco; ottiene una cattedra all'Ecole Pratique des Hautes Etudes. Nel
1960 al College de France. Nel 1973 e' eletto all'Academie Francaise. La sua
opera e' tra le fondamentali del XX secolo. Tra le opere di Claude
Levi-Strauss: La vita familiare e sociale degli indiani Nambikwara (1948),
Einaudi; Le strutture elementari della parentela (1949), Feltrinelli; Razza
e storia (1952), Einaudi; Tristi tropici (1955), il Saggiatore, poi
Mondadori; Antropologia strutturale (1958), Il Saggiatore, poi Mondadori; Il
totemismo oggi (1962), Feltrinelli; Il pensiero selvaggio (1962), Il
Saggiatore; i quattro volumi delle Mythologiques: Il crudo e il cotto
(1964), Il Saggiatore, poi Mondadori; Dal miele alle ceneri (1966), Il
Saggiatore, poi Mondadori; L'origine delle buone maniere a tavola (1968), Il
Saggiatore; L'uomo nudo (1970), Il Saggiatore; Antropologia strutturale due
(1973), Il Saggiatore; La via delle maschere (1975), Einaudi; Mito e
significato (1979), Il Saggiatore; Lo sguardo da lontano (1983), Einaudi;
Parole date (1984), Einaudi; La vasaia gelosa (1985), Einaudi; De pres et de
loin (1988, nuova ed. 1990); Des symboles et leurs doubles (1989); Storia di
Lince (1991), Einaudi; Guardare, ascoltare, leggere (1993), Il Saggiatore;
Saudades do Brasil (1994), Il Saggiatore. Di notevole importanza anche le
conversazioni con Georges Charbonnier: Primitivi e civilizzati, Rusconi.
Opere su Claude Levi-Strauss: un'agile presentazione con un'antologia
essenziale di testi e' quella di Sergio Moravia, Levi-Strauss e l’
antropologia strutturale, Sansoni, Firenze 1973, 1978; una buona monografia
introduttiva e' quella di Francesco Remotti, Levi-Strauss. Struttura e
storia, Einaudi, Torino 1971; un'altra e' quella di Sergio Moravia, La
ragione nascosta. Scienza e filosofia nel pensiero di Claude Levi-Strauss,
Sansoni, Firenze 1969, 1972; piu' recente e' il volume di Enrico Comba,
Introduzione a Levi-Strauss, Laterza, Roma-Bari 2000.
*
Su Marino Niola dalla Wikipedia, edizione italiana, riprendiamo la seguente
scheda: "Marino Niola (Napoli, 1953) e' un antropologo della
contemporaneita'. Ha incentrato le proprie ricerche su temi quali: il
rapporto tra tradizione e mutamento culturale nelle societa' contemporanee;
la persistenza del mito nelle forme contaminate del mondo d'oggi; le
passioni, paure ed ansie nell'immaginario contemporaneo; i processi della
mondializzazione ed i localismi che ispirano i simboli e le mitologie del
villaggio glocale; il culto narcisistico del corpo come spia
dell'inquietudine del nostro tempo. Niola e' stato professore
all'Universita' degli studi di Napoli "L'Orientale" (all'epoca Istituto
Universitario Orientale) e successivamente in quelle di Padova e di Trieste,
dove nel 1999 e' stato tra i fondatori del primo Corso di Laurea italiano in
Scienze e Tecniche dell'Interculturalita'. Nel 2007 e' stato ideatore e
coordinatore scientifico del Master in "Tradizioni e culture
dell'alimentazione mediterranea" presso l'Universita' degli studi Suor
Orsola Benincasa, nella quale insegna attualmente Antropologia dei simboli,
Antropologia culturale, Antropologia dell'alimentazione e Studio delle
culture. Fa parte del direttivo dell'Aisea (Associazione Italiana per le
Scienze Etno-Antropologiche). All'attivita' di insegnamento e di ricerca
Marino Niola ha sempre affiancato quella di divulgazione. Oltre a
collaborare con la radio e con la televisione italiane (tv e radio Rai),
francesi e svizzere, e' editorialista di quotidiani come La Repubblica, Il
Mattino, ed altre testate. Tra le opere di Marino Niola: 1995: Sui palchi
delle stelle. La citta' il sacro la scena, Roma, Meltemi; 1997: Il corpo
mirabile. Miracolo sangue estasi, Roma, Meltemi; 2000: Totem und Ragu.
Neapolitanische Spaziergaenge, Muenchen, Luchterhand; 2003: Totem e Ragu.
Divagazioni napoletane, Napoli, Pironti; 2003: Il purgatorio a Napoli, Roma,
Meltemi; 2005: Il presepe, Napoli, L'Ancora del Mediterraneo; 2006: Don
Giovanni o della seduzione, Napoli. L'Ancora del Mediterraneo; 2007: I santi
patroni, Bologna, Il Mulino".
*
Antonio Gnoli e' giornalista della pagina culturale del quotidiano "La
Repubblica" e saggista; ha anche curato l'edizione italiana di testi di
Alexandre Kojeve per Adelphi e di Carl Jacob Burckhardt per Bompiani. Opere
di Antonio Gnoli: (con Franco Volpi), I prossimi titani. Conversazioni con
Ernst Juenger, Adelphi, Milano 1997; (con Bruce Chatwin), La nostalgia dello
spazio, Bompiani, Milano 2000; (con Franco Volpi), Il dio degli acidi.
Conversazioni con Albert Hofmann, Bompiani, Milano 2003; (con Franco Volpi),
L'ultimo sciamano, Bompiani, Milano 2006.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 183 del 27 maggio 2008

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