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La domenica della nonviolenza. 160
- Subject: La domenica della nonviolenza. 160
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 20 Apr 2008 15:20:50 +0200
- Importance: Normal
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 160 del 20 aprile 2008 In questo numero: 1. Aime' Cesaire: L'uomo di cultura e le sue responsabilita' 2. Marco Dotti ricorda Aime' Cesaire 3. Domenico Quirico ricorda Aime' Cesaire 1. MAESTRI. AIME' CESAIRE: L'UOMO DI CULTURA E LE SUE RESPONSABILITA' [Dal sito www.sagarana.it riprendiamo l'intervento di Aime' Cesaire al secondo Congresso degli scrittori africani, svoltosi a Roma nel 1959, ed apparso lo stesso anno su "Presence africaine" (traduzione di Armando Gnisci). Aime' Cesaire, poeta e combattente contro il razzismo e il colonialismo, nato a Basse-Pointe, in Martinica, il 26 giugno 1913, deceduto a Fort-de-France, sempre in Martinica, il 17 aprile 2008, studio' in Francia dove con Senghor e Damas fondo' la rivista "L'etudiant noir" e il movimento culturale della negritude. Insegnante in Martinica, avra' tra i suoi allievi Frantz Fanon. Poeta, drammaturgo, uomo politico, parlamentare e pubblico amministratore, e' una delle grandi figure della cultura del Novecento. Dalla Wikipedia, edizione italiana, riprendiamo per stralci la seguente scheda: "Aime' Cesaire (Basse-Pointe, 26 giugno 1913 - Fort-de-France, 17 aprile 2008) e' stato un poeta, scrittore e politico francese nato in Martinica. Dopo aver compiuto studi secondari in Martinica, poi a Parigi (presso il LÌceo Louis-le-Grand), e studi universitari a Parigi (Ecole normale superieure), fa conoscenza con il senegalese Leopold Sedar Senghor e il guaianese Leon Gontran Damas. Insieme scoprono, grazie alla lettura di opere sull'Africa di autori europei, i tesori artistici e la storia dell'Africa nera, e creano la negritude (negritudine), cioe' la nozione che comprende i valori spirituali, artistici, filosofici dei neri dell'Africa; nozione che diventera' l'ideologia delle lotte dei neri per l'indipendenza. Lui stesso voleva liberare la sua isola - la Martinica - dal giogo del colonialismo francese; l'isola divento', nel 1946, un Dipartimento d'oltremare della Francia. Deputato della Martinica all'Assemblea generale francese, sindaco di Fort-de-France (capitale della Martinica), membro (fino al 1956) del Partito comunista francese. Come poeta, e' uno dei rappresentanti piu' celebri del surrealismo francese, come scrittore e' autore di drammi illustranti la sorte e le lotte degli schiavi dei territori colonizzati dalla Francia (come Haiti)... Il suo poema piu' conosciuto e popolare e' il Cahier d'un retour au pays natal (Diario del ritorno al Paese natale, 1939)... e' deceduto il 17 aprile 2008 all'ospedale di Fort-de-France, dove era ricoverato dal 9 aprile". Da www.girodivite.it riprendiamo la seguente scheda: "Aime' Cesaire e' nato a Basse-Pointe, in Martinica, nel 1913. Educato in Francia, ma profondamente radicato nella cultura caraibica, fondo' insieme a Senghor e a L. Damas, il movimento della negritudine che rivelo' una poetica africana e segno' una demarcazione rispetto alla cultura bianca e europea. Cesaire si dedico' anche particolarmente al recupero dell'identita' antillana, non piu' africana e certamente non bianca, attraverso una ricca produzione di poesia drammatica e poi specificamente teatrale. Nel 1939 comparve il Diario di un ritorno al paese natale (Cahier d'un retour au pays natal) tragedia in versi di ispirazione surrealista, la sua opera forse piu' nota. Seguirono varie raccolte poetiche: Le armi miracolose (Les armes miraculeuses, 1946), E i cani tacevano (Et les chiens se taisaient, 1956), Catene (Ferraments, 1959), Cadastre (1961). Nel 1955 pubblico' il Discorso sul colonialismo (Discours sur le colonialisme, 1955) che fu accolto come un manifesto di rivolta. A partire dagli anni '60, per evitare che la sua attivita' raggiungesse solo gli intellettuali africani e non le grandi masse, lascio' la poesia per dedicarsi alla formazione di un teatro politico popolare. Tra le sue opere teatrali piu' rilevanti: La tragedia del re Christophe (La tragedie du roi Christophe, 1963), Una stagione in Congo (Une saison au Congo, 1967) ispirata al dramma di Lumumba, e Una tempesta (Une tempete, 1969)". Opere di Aime' Cesaire: in italiano un'utile antologia e' Poesie e negritudine, Accademia, Milano 1969 (a cura e con un ampio saggio critico di Lylian Kesteloot); cfr. inoltre: Le armi miracolose, Guanda, Parma 1962; La tragedia del re Christophe, Einaudi, Torino 1968; Io, Laminaria, Bulzoni, Roma 1995; Una stagione nel Congo, Argo, Lecce 2003; Diario del ritorno al paese natale, Jaca Book, Milano 2004; Negro sono e negro restero'. Conversazioni con Francoise Verges, Citta' Aperta, Troina (Enna) 2006. Opere su Aime' Cesaire: per un avvio: Graziano Benelli, Aime' Cesaire, La nuova Italia, Firenze 1075] Ho pensato di intervenire a questo Congresso presentando alcune considerazioni su di un argomento essenziale: quello della legittimita' della nostra attivita' di scrittori e di artisti neri e quello, ad esso complementare, delle responsabilita' che ci riguardano come uomini di cultura, nella duplice direzione congiunta: del mondo e dei nostri rispettivi paesi di origine. Dove ci troviamo a questo punto della nostra storia? Siamo arrivati ad un momento solenne: l'ora in cui il colonialismo anche se non e' ancora morto mostra comunque di riconoscersi come mortale. Il colonialismo puo' ancora opprimere e distruggere in maniera ancora piu' crudele che mai, ma una cosa e' sicura: esso e' moralmente colpito, si sente perituro ed ha perduto la sua sicurezza storica. Il miglior segno di questa situazione credo che sia offerto dalla rapida fortuna negli ultimi tempi della parola decolonizzazione. Tanto che i nostri contemporanei anche se confusamente sono arrivati a comprendere che la nostra epoca puo' essere definita in questo modo: il secolo XIX e' stato il secolo della colonizzazione mentre quello XX e' stato il secolo della decolonizzazione. Ma allora, si dira', visto che e' questa la china del secolo, basta "lasciar fare" e la decolonizzazione si compira' da sola. Bisogna convincersi, invece, che la decolonizzazione non e' affatto un processo automatico, e inoltre le decolonizzazioni non sono tutte uguali. La decolonizzazione non e' automatica... Questo significa che la decolonizzazione non e' mai il risultato di un "fiat" della coscienza del colonizzatore, ma e' sempre il portato di una spinta e di una lotta. Anche quella piu' pacifica e' sempre il risultato di una rottura. Insisto: le decolonizzazioni non sono tutte uguali. Prova ne sia la disparita' nello sviluppo dei paesi diventati liberi: alcuni si divincolano con difficolta' dagli strascichi del colonialismo, mentre altri, al contrario, procedono rapidamente e con sicurezza sulla strada soleggiata dell'indipendenza. * Mi sembra che queste considerazioni generali possano fornirci la giusta dimensione per intendere il problema della nostra legittimita' e delle nostre responsabilita' di uomini di cultura. Il nostro dovere, il nostro doppio dovere, ci appare chiaro: e' quello di accelerare la decolonizzazione, ed e', nel presente, di preparare la buona decolonizzazione, una decolonizzazione senza difficolta'. Che significa accelerare la decolonizzazione? Significa che bisogna con tutti i mezzi accelerare la maturazione della coscienza popolare, senza la quale non ci sara' mai una vera decolonizzazione. E' nelle classi popolari, infatti, che sopravvive nella maniera piu' spontanea ed evidente, anche contro la piu' forte oppressione colonialista, il sentimento nazionale. Ma e' giusto anche dire che questo sentimento immediato ha bisogno di essere reso autentico, di essere propagato e raffinato. Bisogna trasformare questo sentimento in una vera e propria coscienza, una specie di sole radiante. E solo l'uomo di cultura puo' farlo. Non si tratta di avvalorare una concezione messianica dell'artista e dello scrittore. Non mi sentirete mai dire, alla maniera romantica, che il poeta o lo scrittore sono i creatori delle nazioni o dei valori nazionali. Si tratta di una cosa piu' semplice: l'uomo di cultura e' chi attraverso la creazione esprime e da' forma. E questa stessa espressione, proprio per il fatto di essere espressione e quindi un portare alla luce, crea o ricrea - dialetticamente - secondo la propria immagine il sentimento di cui raccoglie l'emanazione. Non c'e' mai, io credo, carenza di sentimento nazionale. Semmai c'e' una inadeguatezza dell'uomo di cultura ad esprimerlo. In ogni momento il sentimento nazionale c'e': malinteso, forse, e in forme strane o addirittura derisorie, ma c'e'. Anche nei paesi piu' disgraziati, quelli che sono stati piu' assimilati dalle culture dei colonizzatori, c'e' e contiene tutte le potenzialita' della rinascita culturale. Ma questo sentimento va portato alla luce, va esaltato, e in un mondo di falsi valori va valorizzato. Questo e' esattamente il ruolo dello scrittore e dell'artista, e su di esso si fonda la sua legittimita'. * Non e' necessario cercare altrove il segreto dell'abbondanza "poetica" nei paesi che nascono. Gli occidentali dicono: "Che strano! Avrebbero bisogno di tecnici e invece producono poeti". Da questo punto di vista si puo' avere fiducia nei popoli. Cio' che vale (essi lo sanno molto bene, lo sanno dall'intimo) e' che ogni tipo di creazione, proprio in quanto creazione, partecipa alla lotta liberatrice. Si puo' spiegarlo come si vuole, ma questo e' il potere e la grazia della parola, anzi, il potere dell'atto che crea. Il regime coloniale e' la negazione dell'atto creativo: negazione della creazione stessa. Nella societa' coloniale non c'e' soltanto una gerarchia tra padrone e servo, c'e' anche, implicita, una gerarchia tra creatore e consumatore. Il creatore di valori culturali, in una colonia che si rispetti, e' il colonizzatore. E il consumatore e' il colonizzato. E tutto va per il verso giusto fino a che la gerarchia non viene toccata. La legge del paese colonizzato e': "Si prega di non disturbare". La creazione culturale, proprio perche' creazione, disturba e rivolta: nella gerarchia coloniale, infatti, sovverte i ruoli facendo diventare il colonizzato creatore da consumatore che era e doveva essere. Insomma, nel cuore del regime coloniale essa restituisce l'iniziativa storica a colui che ne e' stato derubato: derubare e' la "vocazione" del regime coloniale. E' per questo che il colonizzatore guarda sempre con sospetto qualsiasi forma creativa del colonizzato. Puo' anche sopportarla e provare addirittura ad utilizzarla, ma per il colonizzatore la creazione indigena e' fondamentalmente insolita e quindi pericolosa. Se se ne vuole una prova, tra le tante, basti pensare all'accoglienza riservata a primi esiti della letteratura negra in Francia, all'ostilita' con la quale furono trattati un Rene' Maran o un Rabearivelo trent'anni fa... La loro semplice esistenza faceva scandalo... Per la stessa ragione per cui e' considerata pericolosa dal colonizzatore la creazione culturale e' rassicurante, nel vero senso della parola, per il colonizzato. Essa, infatti, fa da contrappeso al complesso di inferiorita' che il colonizzatore ha per "missione" di istillare nei colonizzati. Ecco perche' bisogna creare... * Si', in definitiva, e' agli artisti, agli scrittori e agli uomini di cultura che tocca, nella quotidianita' delle sofferenze e delle ingiustizie, maneggiando ricordi e speranze, di costruire delle grandi riserve di fiducia, dei grandi silos di forza ai quali i popoli nei momenti critici possano far rifornimento di coraggio e assumersi la responsabilita' diretta di forzare l'avvenire. Alcuni hanno detto che lo scrittore e' un ingegnere di anime. Noi, nella congiuntura storica nella quale ci troviamo, siamo dei propagatori di anime, dei moltiplicatori di anime, e al limite degli inventori di anime. * E aggiungo che la missione dell'uomo di cultura nero e' quella di rendere possibile una buona decolonizzazione e non una decolonizzazione qualsiasi. Voglio che mi si intenda bene: e' chiaro che per noi non c'e' e non ci potrebbe essere una cattiva decolonizzazione in se'. Per il semplice motivo che la peggiore decolonizzazione sarebbe di gran lunga e sempre preferibile alla migliore colonizzazione. Tra decolonizzazione e colonizzazione non c'e' una scala graduata, c'e' una differenza di valori. Infine dico e ripeto che e' nel seno della decolonizzazione che ci sono delle gradazioni, che le decolonizzazioni non sono tutte uguali e se la "buona decolonizzazione" non puo' essere definita se non per opposizione a una "decolonizzazione meno buona", dico che quest'ultima e' quella che nell'orizzonte dell'indipendenza non fa altro che cercare di utilizzare le strutture coloniali, adattandole alla nuova realta', mentre la vera decolonizzazione e' quella che comprende che e' suo dovere di eliminare in maniera definitiva tutte le strutture del colonialismo. Per farmi capire meglio diro' qualcosa che forse potra' dispiacere a qualcuno, ma che bisogna dire perche' e' vera e perche' individua meglio le nostre responsabilita': troppo spesso vediamo riproporsi nelle societa' liberatesi dal colonialismo delle vere e proprie strutture coloniali o colonialiste. O ancora, in paesi imperfettamente decolonizzati si rischia di veder riapparire in qualsiasi momento dei fenomeni tipicamente colonialisti, che non vengono strumentalizzati dal colonizzatore o dall'imperialista, ma da gruppi di interesse che nelle nazioni liberate si propongono come epigoni del colonialismo e si servono degli strumenti inventati dal colonialismo. Si pensi, per fare un esempio, ai conflitti razziali in America centrale e in America latina e ci si accorgera' che si tratta di un'eredita' o di una sopravvivenza del regime coloniale, in paesi che se ne sono sbarazzati centocinquant'anni fa. E se ricordo questo caso non e' per disprezzare lo sforzo liberatore che ha condotto questi paesi a formarsi come nazioni, ma e' per dire a tutti i responsabili che dobbiamo prendere consapevolezza di un fatto: la lotta contro il colonialismo non sara' terminata fino a quando l'imperialismo non sara' vinto militarmente. In breve, non dobbiamo darci da fare per spostare un po' in la' il colonialismo o per interiorizzarne la cultura della servitu'. Bisogna invece distruggerlo, estirparlo nel vero senso della parola, e cioe' togliergli le radici. Ecco perche' la vera decolonizzazione dovra' essere rivoluzionaria o non sara' niente. Questa prospettiva permette di comprendere come sia vano il tentativo di alcuni di accreditare l'idea che tra l'epoca coloniale e il tempo della liberta' bisogna governare il cammino per tappe e transizioni. In effetti, l'Europa presaga della fine inevitabile del colonialismo e volendone ritardare la scadenza, ha inventato la teoria delle tappe. * E' sempre stata una fissazione dell'Occidente. Fin dai tempi dello schiavismo nei territori sotto la sovranita' francese - prima del 1848 - delle anime buone e degli spiriti illuminati, acquisiti alla causa dell'emancipazione degli schiavi, preconizzavano l'idea che bisognasse arrivarci attraverso delle tappe necessarie. Penso, ad esempio, allo storico Tocqueville, che, favorevole al principio dell'emancipazione degli schiavi, lo sfumava e temperava: "Pensate un po': se si progettasse di rendere la liberta' agli schiavi da un giorno all'altro, sarebbe una vera catastrofe! E innanzitutto per gli schiavi stessi!". Si teorizzava, insomma, che ci dovesse essere un periodo di apprendistato della liberta' in modo da mettere in grado lo schiavo negro di poter arrivare un giorno a sopportare la liberta'. Questa teoria viene oggi applicata ai popoli. Non potendo opporre ai popoli coloniali un brutale rifiuto, si promette loro l'indipendenza, ma a termine. Bisogna fare l'apprendistato preventivo all'indipendenza. E' necessario convincersi, invece, che la schiavitu' non puo' essere una scuola di liberta' e che il colonialismo non puo' essere scuola di indipendenza; e questo vale per i colonialisti di oggi come per gli schiavisti di un tempo. Si tratta di due ordini di socialita' assolutamente diversi e mai l'uno potra' nascere dall'altro, se non attraverso la rivolta e la discontinuita'. * E allora, se rifiutiamo l'idea di un periodo di apprendistato, ed abbiamo ragione di farlo, e se crediamo, ed abbiamo ragione di crederlo, che il passaggio dall'epoca coloniale a quella della vera decolonizzazione non puo' avvenire se non attraverso la discontinuita' e la rottura, cio' avvalora e definisce con piu' completezza le nostre responsabilita' di uomini di cultura. Poiche' e' l'uomo di cultura che nella stessa societa' coloniale deve far fare al suo popolo l'apprendistato della liberta'. L'uomo di cultura, lo scrittore, il poeta e l'artista fanno fare al proprio popolo questa attivita' perche' nella situazione coloniale la creazione culturale e' gia' apprendistato. Siamo stati messi in guardia contro la tentazione di credere che si possa mai ristrutturare una cultura indigena in un contesto coloniale. E certamente con ragione. Ma la ristrutturazione di una cultura e' un'opera di lunga durata e non ho dubbi che nella situazione coloniale odierna e piu' esattamente nella fase di transizione in cui viviamo, l'attivita' culturale creatrice, e proprio questo la legittima, prepara fin da ora l'indispensabile ristrutturazione. Al primo Congresso degli scrittori e degli artisti neri - nel 1956 a Parigi - ho affermato che se c'e' una cosa che caratterizza la situazione coloniale e' l'anarchia culturale. La colonizzazione ha provocato l'eterogeneita' e l'anarchia culturale devastando l'unita' primitiva di ogni cultura. L'ordine coloniale si traduce in un disordine culturale. Oggi, qui a Roma, sostengo che nella attuale situazione coloniale - hic et nunc - lo scrittore e l'artista sono quelli che preparano la buona decolonizzazione contribuendo gia' da ora a mettere ordine nel caos culturale. Prendiamo il romanzo o la poesia negri. E' inutile stare a ricostruire prestiti e influenze. I materiali possono essere disparati ed eterogenei, ma tutto e' rifuso e trasceso, dominato e ri-strutturato: cos'e' l'arte, infatti, se non dare forma e struttura? Questo mi sembra che sia il primo contributo dello scrittore e dell'artista alla liberazione del proprio popolo. * In secondo luogo, poi, bisogna continuare a strappare l'aureola alla colonizzazione. Essa, lo ripeto, e' disordine, e non ordine, unita', conquista e annessione al mondo di territori troppo a lungo rimasti isolati. Proprio il contrario e' vero. L'imperialismo separa e divide, l'imperialismo balcanizza, volendo usare un termine che Senghor ha reso famoso. Ed esso separa e divide in tanti piu' modi di quanti non si creda: non solo nello spazio ma anche, cosa altrettanto grave, nel tempo. Nello spazio: basti ricordare la spartizione dell'Africa fatta al Congresso di Berlino o la tratta degli schiavi africani che fu sradicamento e diaspora. Ma la balcanizzazione si attua anche nel tempo, perche' l'imperialismo spacca la storia. Il prima e il dopo sono stabiliti rispetto alla discontinuita' portata dalla colonizzazione. Tutto cio' che sta prima della conquista coloniale e' preistoria, la storia comincia con l'arrivo dell'Europa. Il "continuum" storico viene interrotto, con tutte le deplorevoli conseguenze culturali: la scienza africana, la filosofia africana e la storia africana diventano folklore, vale a dire letteratura, filosofia e scienza degradate, e l'arte diventa arte primitiva. E tutto questo processo culmina nell'opposizione, tutta europea, fra tradizione ed evoluzione. Bisogna rendersi conto, invece, quando Sekou Toure', leader di un paese libero, afferma con fierezza: "Sono il discendente di Samory", non non ci troviamo di fronte ad una specie di puerile rivendicazione genealogica. Questa rivendicazione sta a significare: "Assumo su di me Samory". Si tratta di un gesto molto importante, perche' ristabilisce la catena storica e rimette le cose al loro giusto posto. Sekou dice: la colonizzazione non e' la storia, e' un accidente, bisogna ricostituire il "continuum" storico. Egli riafferma e reinventa la continuita' della storia interrotta dall'intrusione coloniale. Noi uomini di cultura neri dobbiamo cercare su questo terreno il dovere da compiere: esso consiste nel ristabilire la doppia continuita' spaccata dal colonialismo: la continuita' con il mondo e quella con noi stessi. * Noi, infatti, siamo forze di verita', siamo quelli che reintroducono nel mondo i nostri popoli e i reinventori della solidarieta' tra di noi, della quale il colonialismo ha cercato di offuscare e distruggere il principio. Noi siamo e vogliamo essere, al di la' della menzogna del colonialismo, uomini della verita' e soldati dell'unita' e della fraternita'. Lo scrittore e l'artista neri, a loro modo, ristabiliscono anche la solidarieta' attraverso il tempo. Tradizione o Evoluzione? Questo tipo di opposizione diventa insensata nella e attraverso la creazione artistica perche' l'arte e' proprio quel tipo di verita' che fonde e raduna in un solo impeto gli elementi separati e disparati. Pretendo e sostengo che non si debba cercare in altri posti il segreto dell'importanza della letteratura e dell'arte nelle circostanze in cui vivono attualmente i nostri popoli. Nelle attuali condizioni, la piu' grande ambizione della nostra letteratura deve essere quella di tendere a diventare letteratura sacra, e la nostra arte, arte sacra. Innalzando all'universalita' la situazione particolare dei nostri popoli, ricollegandoli alla storia e al corso del divenire; negando la stagnazione, la creazione artistica deve mobilitare con la propria forza le forze vergini delle emozioni. Cosi' al suo appello si possono destare risorse psichiche insospettate che vanno a restaurare il corpo sociale scempiato dallo choc coloniale e gli danno coscienza della sua capacita' di resistenza e della sua vocazione all'iniziativa. * Compagni, congressisti, tutto quanto ho affermato mi sembra che legittimi sufficientemente la nostra attivita' di scrittori e di artisti e che, allo stesso tempo, definisca le nostre responsabilita'. La nostra legittimita' consiste nella partecipare con tutte le fibre alla lotta per la liberazione dei nostri popoli. La nostra responsabilita' sta nel riconoscere che dipende in gran parte da noi l'uso che i nostri popoli sapranno fare della riconquistata liberta'. E' questo che fonda, piu' profondamente di qualsiasi altro dovere, il nostro dovere di uomini. C'e' una domanda alla quale nessun uomo di cultura, a qualunque paese o razza egli appartenga, puo' sfuggire: "Che tipo di mondo stiamo preparando?". Diciamolo con chiarezza: combattendo insieme ai nostri popoli per la liberazione e per la dignita', per la verita' e per il loro riconoscimento, in fondo combattiamo per il mondo intero, per liberarlo dalle tirannidi, dagli odi e dai fanatismi. Combattiamo le lotte del nostro tempo, per particolari che siano, perche' il mondo possa essere ringiovanito e riequilibrato. Altrimenti nulla avrebbe senso, ne' la lotta di oggi, ne' la vittoria di domani. Solo in quel caso avremo vinto veramente e la nostra vittoria finale segnera' l'avvento di una nuova era. Avremo contribuito a dare un senso, il suo senso, al termine piu' galvanizzante e piu' glorioso: avremo contribuito a fondare l'umanesimo universale. 2. LUTTI. MARCO DOTTI RICORDA AIME' CESAIRE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 18 aprile 2008, col titolo "Aime' Cesaire. 'Fammi ribelle come un pugno quando il braccio si stende'" e il sommario "Poeta, autore di teatro, teorico politico, e' morto ieri nella Martinica in cui era nato novantaquattro anni fa il grande cantore della negritudine, che tra i primi aveva chiamato al tribunale della coscienza la civilta' europea reponsabile della colonizzazione. Breton aveva detto della sua parola che e' 'bella come ossigeno allo stato nascente'". Marco Dotti e' saggista e redattore di Stampa Alternativa] Per quanto potesse risultare spiazzante, e persino sconvolgente in ragione di quello che Michel Leiris individuo' come il suo "lirismo a briglia sciolta", l'opera di Aime' Cesaire, se debitamente sfrondata da certe escrescenze barocche, conservera' per sempre la peculiarita' di non essersi mai davvero allontanata dal contesto antillano. Partendo da quella "sacca innominabile della fame, della miseria e dell'oppressione" che era e purtroppo rimane la Martinica francese, e dalla casa paterna "piccola e crudele, che nelle sue viscere di legno marcio ospita decine di topi" dove era nato il 26 giugno di novantaquattro anni fa, Cesaire ha mostrato - fino alla sua scomparsa avvenuta ieri a Fort de France - di sapersi muovere seguendo la duplice tensione e il doppio richiamo di un immaginario al tempo stesso particolare e universale. Un immaginario incarnato dal microcosmo antillano e dalla comunita' nera, non piu' distinta su una base "nazionale" bensi' secondo quel criterio fluido per il quale Cesaire avrebbe coniato una fortunata definizione ormai passata al sillabario politico dello scorso millennio: negritudine. * Il suo immaginario "concreto" Cesaire e' stato autore di un'opera, di un programma, di un registro poetico e politico dotati di straordinaria linearita' e coerenza, come ribadisce anche il titolo di quello che rimane il suo ultimo libro, Negro sono e negro restero' (Citta' aperta edizioni, 2006), frutto di una lunga serie di conversazioni con Francoise Verges in cui, a partire dalla scelta tutt'altro che neutra del termine "negre", lo scrittore ritornava sul suo essere orgogliosamente e incondizionatamente "negro, negro dal profondo del cielo immemoriale". Tanto negli scritti politici, quando nella sua opera propriamente poetica, al contrario di molti suoi compagni smarriti lungo la strada a senso unico di una politica troppo istituzionale, Cesaire e' riuscito a coniugare la lucidissima capacita' di critica e analisi sociale sintetizzata nel Discorso sul colonialismo del '55 con una non meno disarmante abilita' di scrittura, entrambe ancorate con successo a quello che Michel Leiris ha definito un "immaginario essenzialmente e radicalmente concreto". Dalle poesie di Io, Laminaria all'oratorio teatrale della Tragedia di re Cristoforo, dalla pirce Una stagione in Congo fino ai versi di Ferrements e I cani tacciono, il lavoro di Cesaire si e' mostrato fedele soprattutto a una rigorosa estetica della parola e della potenza suscitata dall'immaginazione poetica, rilette in chiave africana. In una lettera sulla poesia, indirizzata a una delle sue prime interpreti, Lylian Kesteloot, scriveva: "Nel Mestiere di vivere di Pavese, trovo una notazione: il verde dell'albero e' la sua forza (in latino viridis; vis, la forza). Accostamento suggestivo, da interpretare all'africana". E ancora: "non so neppure se senza parola ci possa essere un 'io'... il mio 'io' e' vago, sfocato, incerto, e' simile a una specie di torpore. Solo la parola mi permette di capirmi, di cogliermi". Una convinzione, questa, sulla quale sarebbe tornato anche nel corso di una delle ultime interviste concesse nel 1988, prima del suo ritiro dalla scena della politica attiva - che lo ha visto per lunghi anni deputato all'Assemblea nazionale e fondatore e dirigente del partito progressista della Martinica - ribadendo come "tutti i miei segreti si trovano nelle mie poesie. Bisogna solo decriptarli, decodificarli e trovarne la chiave. Sono certo che vi sia una fondamentale coerenza nel grande disordine apparente dei miei scritti. Ho inventato il mio vocabolario e ho forgiato la mia mitologia". Essendosi trovato a fiancheggiare, per un certo periodo sul finire degli anni '30, l'ultima ondata del movimento surrealista, Aime' Cesaire aveva tratto dal gruppo di Breton soprattutto la passione per Lautreamont e Rimbaud, chiavi delle sua futura produzione poetica e saggistica. Proprio al creatore di Maldoror e di tutta una "mitologia moderna", Cesaire avrebbe infatti dedicato uno dei suoi primi e piu' acuti saggi, provocatoriamente intitolato "La poesia di Lautreamont bella come un decreto di espropriazione", mentre a Rimbaud si sarebbe dichiaratamente ispirato per quello che rimane, probabilmente, il suo capolavoro poetico, il Cahier d'un retour au pays natal. Opera prima di Cesaire, pubblicata su rivista nel 1939 e apparsa in volume solo nel 1947 dall'editore Bordas, il Cahier e' stata il manifesto di piu' di una generazione di intellettuali, che direttamente o indirettamente si sono riconosciuti nell'idea e nello spazio inaugurato dal concetto di negritude. Corrosiva, amara, dirompente, questa opera e' segnata da una evidente urgenza biografica, quella del ritorno dello scrittore nel suo "paese natale". E' un viaggio alla rovescia, in cui e' forte l'eco della "tratta immemoriale" degli schiavi, e in cui la parola si converte in una sorta di incanto magico, di fascinazione rivoltosa: "fammi ribelle a ogni vanita', ma docile al tuo genio, come un pugno, quando si stende il braccio... Fammi depositario del suo sangue, del suo risentimento, fa di me un uomo di termine e di iniziazione". * Dall'universo di Lautreamont Andre' Breton, nella sua premessa all'edizione del 1947, ipotizzava che questi versi fossero stati rubati all'universo di Lautreamont. E li definiva un "documento unico, insostituibile", che come ogni vera poesia "comincia con l'eccesso, la dismisura, le ricerche colpite da interdetto, nel grande, cieco tam-tam, fino a una incomprensibile pioggia di stelle... La parola di Aime' Cesaire e' bella come ossigeno allo stato nascente". Un poema di Cesaire, disse alla sua maniera Jean-Paul Sartre, e' qualcosa che "esplode ruotando su di se' come un razzo", per questa ragione la "densita' delle sue parole, gettate in aria come pietre da un vulcano, e' precisamente quella negritudine che si definisce contro l'Europa e la colonizzazione". In anni piu' recenti, uno fra i piu' attenti studiosi dell'opera di Cesaire, Georges Ngal, ha fatto notare come le suggestioni mutuate da Lautreamont si estendano dalla poesia alla saggistica dello scrittore antillano, dando luogo a inedite convergenze dottrinali tra il secondo Canto di Maldoror e l'apparente linearita' del Discorso sul colonialismo. Opera solo a prima vista ben strutturata e suddivisa, al contrario di quanto avveniva per il Cahier d'un retour au pays natal - dove prosa e poesia si confondevano, senza soluzioni tipografiche di continuita' - il Discorso sul colonialismo rivela che lo sviluppo e l'articolazione del pensiero di Cesaire erano ormai irrinunciabilmente segnati dalla sua "esplosione lirica". Quella di cui parlava Leiris, quella che si voleva propria di una parola dichiaratamente "profetica", o forse solo informata dall'"emozione primaria" dell'essere uomini. * Postilla biobibliografica. Lungo una lunga vita. Tra l'impegno politico e quello letterario Aime' Fernand David Cesaire era nato a Basse-Point, Martinica nel 1913. Si era trasferito a Parigi per studiare all'Ecole normale e aveva conosciuto il senegalese Leopold Senghor e il guaianese Leon Gontran Damas: tutti e tre faranno il loro ingresso nella "Pleiade" tra quest'anno e il 2013. Insieme fondarono la rivista "L'etudiant noir", presto diventata un punto di riferimento per gli studenti neri della capitale francese e formularono il concetto di "negritudine", poi inglobato nelle idee che nutrirono le lotte dei neri per l'indipendenza. Nel 1939 Cesaire torno' in Martinica e fondo' la rivista "Tropiques" lavorando per la liberazione dal colonialismo francese della sua isola natale, effettivamente diventata nel '46 un Dipartimento d'oltremare della Francia. Deputato della Martinica all'assemblea generale francese, fu sindaco della capitale Fort-de-France dal 1945 al 2001. Poeta e autore di drammi che raccontano la sorte e le lotte degli schiavi dei territori colonizzati dalla Francia, Cesaire ha scritto Diario del ritorno al paese natale (Jaca Book), una tragedia in versi di ispirazione surrealista, e fra le sue raccolte poetiche, Le armi miracolose (Guanda) e Io, laminaria (Bulzoni). Nel 1955 pubblico' il Discorso sul colonialismo, il suo manifesto di rivolta, tradotto dalla cooperativa romana Lilith e introvabile, di cui ritraduciamo qui qualche passo. A partire dagli anni '60, si dedico' alla formazione di un teatro politico popolare. Tra le sue opere teatrali piu' rilevanti: La tragedia di re Cristoforo (Einaudi) e Una stagione in Congo (Argo). 3. LUTTI. DOMENICO QUIRICO RICORDA AIME' CESAIRE [Dal sito www.lastampa.it riprendiamo il seguente articolo del 18 aprile 2008 dal titolo "Addio Aime' Cesaire. Invento' la 'negritude'". Domenico Quirico e' corripondente da Parigi del quotidiano "La stampa"] Senza soffrire, nello spazio di una notte, Aime' Cesaire si e' staccato dalla vita. Da tempo aveva avuto duri ammonimenti del male. Eppure, a 94 anni, non e' mai stato un uomo vecchio; era semmai un uomo antico, modellato in qualcosa di incorrotto e senza tempo. Era dello stesso cuoio duro dei suoi antenati trascinati dall'Africa al Caribe: gli schiavi che riempivano le navi dei corsari della carne umana. Ma erano gli schiavi che avevano avuto il coraggio di spezzare le catene, i giacobini neri, cosi' scomodi per gli altri che sulle rive della Senna scaldavano i cuori con parole, fratellanza liberta' eguaglianza, e poi sbiadivano quando sbarcavano a Haiti o nella Martinica. Aveva lo stesso sangue e lo stesso cuore dei Toussaint, dei Dessalines. Le sue mani di poeta, di intellettuale che sembravano dolci e miti, erano mani di incendiario. Se ne era accorto anche Sarkozy, tre anni fa lasciato alla porta, per quella legge sul "ruolo positivo della colonizzazione" che al vecchio apostolo di Port-au-Prince era sembrata un insulto. E per inchinarsi il presidente ha dovuto fare due anni di anticamera. Quando aveva inventato quella magica, esplosiva parola "negritudine", su una rivista, correva il 1935: nell'impero francese gli indigeni sudavano pazienti e negletti per la grandeur della Republique, e fioriva il terribile esotismo delle Esposizioni coloniali. Il martinicano Cesaire e il senegalese Senghor erano quelli che gli antropologi parigini e i governatori cortesemente definivano evolues, ovvero neri che avevano studiato, che assomigliavano ai bianchi. Sarebbe stato semplice adagiarvisi, diventare un alibi ben pagato per i rimorsi dell'uomo bianco, ottenere un passaporto per i salotti della Rive gauche. Invece lui impresse quelle parole di fuoco sulla sua opera di poeta e di uomo di teatro: "La negritude e' la negazione della negazione dell'uomo nero, e' il rifiuto della assimilazione, il rifiuto di una certa immagine del nero pacifico, incapace di costruire una civilta'". Tra gli allievi del suo liceo "Schoelcher", c'era un giovane di nome Fanon, che l'aveva letto avidamente. Trent'anni dopo avrebbe pubblicato un libro terribile che liquido' il colonialismo: I dannati della terra. ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 160 del 20 aprile 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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