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Nonviolenza. Femminile plurale. 172
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 172
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 28 Mar 2008 13:35:18 +0100
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 172 del 28 marzo 2008 In questo numero: 1. Ida Dominijanni: Oltre il confine 2. Ida Dominijanni intervista Judith Butler 3. Ida Dominijanni intervista Wendy Brown 1. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: OLTRE IL CONFINE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 marzo 2008, col titolo "Passare il confine. Dello stato e dell'io". Ida Dominijanni, giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia sociale all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale femminista. Tra le opere di Ida Dominijanni: (a cura di), Motivi di liberta', Angeli, Milano 2001; (a cura di, con Simona Bonsignori, Stefania Giorgi), Si puo', Manifestolibri, Roma 2005] Che cosa vuol dire il continuo innalzamento di muri, da quello israeliano nella West Bank a quello fra la California e il Messico a quello di via Anelli a Padova, in un'epoca che aveva visto nel crollo del Muro di Berlino l'annuncio di un mondo senza confini? A quale forma della sovranita' e della legge corrispondono questi muri eretti da stati nazionali in conclamata crisi di sovranita' e di legalita' costituzionale? Perche' consideriamo tollerabile la violenza della guerra legittimata dagli stati, e inorridiamo di fronte alla violenza dei kamikaze contro la guerra? Perche' proviamo repulsione morale di fronte alla distruzione di certe vite, e di fronte alla distruzione di certe altre troviamo invece forme di giustificazione? In che rapporto stanno la distruttivita', l'interdipendenza e la sopravvivenza? Partiranno da queste domande le due conferenze che Wendy Brown e Judith Butler terranno il 27 marzo all'Universita' Roma Tre (aula magna della Facolta' di Lettere e Filosofa, dalle 9 alle 18). Per la prima volta in Italia, le due filosofe femministe americane parleranno di "sovranita', confini, vulnerabilita'" in una prospettiva incrociata sulle trasformazioni del politico e della soggettivita' politica. La globalizzazione, la guerra, la decomposizione del Politico moderno non sono solo la cornice storica della nostra esistenza, ne' si limitano solo a condizionarla o a piegarla. Ne va di qualcosa di piu': del modo in cui queste trasformazioni riscrivono le condizioni di pensabilita' della vita e della morte, la percezione del corpo, la definizione di chi siamo "noi" e chi sono "gli altri", del legame che ci unisce e del confine che ci separa; e ancora, i nostri criteri morali, e perfino la qualita' dei nostri sentimenti primari. Riconfigurazione del politico e riconfigurazione dell'umano riverberano una sull'altra. Il tema dei confini si presta particolarmente a questa analisi incrociata del Politico e dell'umano: non solo perche' e' da li' che passa sia la favola bella della globalizzazione (liberta' di circolazione, flussi, potenza del virtuale) sia il suo prosaico risvolto securitario e gerachizzante (politiche di difesa, esclusione e sorveglianza, controllo delle migrazioni). Ma anche perche' sia lo Stato sia l'individuo moderni sono costruiti su una certa idea della spazialita', e le loro trasformazioni oggi risentono delle trasformazioni di questa idea. Infine, perche' sulla questione dei confini si gioca buona parte sia delle performance sia del potere performativo dello Stato, con tutti gli sconfinamenti fra immaginario e reale che questo comporta. Si puo' scoprire cosi', sul versante del Politico, che dietro la performance di potenza messa in scena dal continuo innalzamento di muri non c'e', argomenta Wendy Brown, un ritorno della sovranita' e della legalita' statuale, ma viceversa la crisi della sovranita', la rottura emergenzialista del costituzionalismo, una relativa impotenza della governamentalita'. E sul versante dell'umano, che la costruzione del soggetto impermeabile, inattaccabile, invulnerabile, "confinato", attivamente prodotta e mediaticamente corroborata dal nazionalismo americano post-11 settembre, e' fatta apposta per rimuovere la vulnerabilita' che tutti ci accomuna e i vincoli di interdipendenza reciproca che definiscono la nostra stessa possibilita' di sopravvivenza. Quali spazi si aprono allora, per il pensiero critico e per l'azione politica, se valutiamo quello che i nuovi muri lasciano filtrare sotto i loro proclami difensivi e repressivi? O se prendiamo coscienza di come il discorso ufficiale sulla guerra e il terrorismo lavora, sostiene Butler, per rendere giustificabili gli impulsi distruttivi del popolo americano, e impensabile la sua stessa vulnerabilita'? O di come esso prefigura e regola i nostri criteri morali nel giudicare la violenza? O di come la retorica della sovranita' politica e della sovranita' dell'io concorrono insieme a bloccare l'apertura a una nuova necessaria relazionalita', umana e politica, intersoggettiva e globale? Lettrici e lettori del "Manifesto" conoscono gia', non solo dai suoi libri (Vite precarie, in particolare), ma da alcuni suoi diretti interventi su queste pagine nell'imminenza della guerra in Afghanistan e in Iraq, la passione politica con cui Judith Butler ha indirizzato il suo lavoro filosofico dall'11 settembre in poi, convogliando sull'analisi dello statuto dell'umano, della precarieta' delle vite, della vulnerabilita' dei corpi, della dipendenza dagli altri dell'io, la sua precedente ricerca sul rapporto fra soggettivita', norme e violenza che attraversa come un filo rosso il suo lavoro, da Scambi di genere a Corpi che contano a Critica della violenza etica a La disfatta del genere. Per quanto la sua recezione prevalente la inchiodi al successo planetario di Gender Trouble (tradotto in venti lingue e ripubblicato nel '99 con una introduzione che ne ridiscute i presupposti) e alla svolta anti-identitaria meritoriamente introdotta da quel libro nel femminismo e nei movimenti omosessuali angloamericani, ma solo arbitrariamente trasferibile nel contesto italiano, Butler si e' ridefinita nell'ultimo decennio per il suo cruciale contributo al ripensamento dell'ontologia politica contemporanea, che la sua precedente ricerca sul genere aiuta ma non esaurisce. E per quanto una certa (ma dubbia) lettura di Gender Trouble abbia diffuso in passato un'interpretazione "euforica" della sua concezione post-identitaria e queer della soggettivita', Butler si connota sempre piu' evidentemente come una filosofa del negativo, nella cui visione non a caso l'incombenza della vulnerabilita' e della morte, della violenza e del lutto hanno un posto di enorme rilievo. L'incrocio costante fra prospettiva propriamente politica (come nel recente Who songs the Nation State?, scritto con Gayatri Spivak), etica (Critica della violenza etica) e psicoanalitica (La vita psichica del potere) ne fa una pensatrice geniale e complessa, irriducibile a scuole o schiaramenti, anche se proprio per questo soggetta, come lei stessa osserva in una recente intervista (Judith Butler in Conversation, Bronwyn Davies), a giochi di appropriazione e spossessamento - peraltro serenamente accettati, in coerenza con la sua concezione "spossessata" e dislocata del soggetto. A sua volta Wendy Brown, non ancora tradotta in italiano ma anche lei ben nota nella comunita' scientifica internazionale, e' una pensatrice politica altrettanto radicale e altrettanto radicata nel pensiero e nel movimento femminista (risale al 1988 il suo Manhood and Politics: A Feminist Reading in Political Theory). Studiosa appassionata della liberta' e del potere, analista acuta dei paradossi della tolleranza in Regulating Aversion, e in States of Injury delle dinamiche di attaccamento alle ferite subite e di risentimento che condizionano la soggettivita' degli oppressi, si e' dedicata piu' di recente all'analisi degli effetti devastanti del paradigma di razionalita' politica neoliberista sulla democrazia liberale ( Neo-liberalism and the End of liberal Democracy) e alla ricerca sulla crisi della sovranita' nazionale, legandola al riemergere della potenza materiale e simbolica della sfera economica e di quella teologica dalle rovine dell'ordine di Westfalia (nel saggio Sovereignty and the Return of the Repressed). Ma intercetta la sensibilita' politica italiana pure per i suoi preziosi interventi sulle ripercussioni sulle ideologie rivoluzionarie della fine del senso progressivo della storia (Politics out of History), e sulla malinconia e i lutti non elaborati della sinistra occidentale dopo l'89, di cui parla appassionatamente anche nell'intervista qui a fianco. Entrambe docenti all'universita' della California di Berkeley, entrambe iscritte nel campo del pensiero post-strutturalista (che hanno piu' volte difeso da attacchi conservatori di destra e di sinistra) ma con un solido radicamento Butler in Hegel, Brown in Marx, entrambe in costante dialogo con una genealogia che comprende Nietzsche, Foucault, Derrida, la Scuola di Francoforte, Freud, Lacan e le principali esponenti del pensiero femminista francese e anglosassone da Irigaray e Kristeva a Spivak e Jessica Benjamin, le due filosofe si possono a buon diritto considerare due figure ponte fra il pensiero europeo continentale e quello americano. La loro ricerca trova un facile terreno di incontro con quella parte rilevante della ricerca filosofico-politica italiana, femminile e maschile, che lavora per riconvertire la base identitaria della politica moderna nella prospettiva della differenza (ne ha scritto di recente su queste pagine Giacomo Marramao, che e' fra gli organizzatori dell'incontro di Roma Tre). Quanto al campo del pensiero femminista, chiuso da tempo il decennio cosiddetto "del soggetto" con le sue infinite, spesso mal poste e qualche volta sterili polemiche fra paradigma del gender e paradigma della differenza sessuale (istruttivo, su questo punto, il dialogo a distanza fra Judith Butler, in La disfatta del genere, e Rosi Braidotti, in In metamorfosi), i tempi sono maturi per una riconsiderazione dell'elaborazione sedimentata a partire dai suoi esiti politici e dalle prospettive teoriche e pratiche che apre. Su questo piano, che e' quello che conta, svariati sono i terreni di dialogo fra le due filosofe di Berkeley e il campo plurale del pensiero della differenza italiano (dialogo peraltro gia' ampiamente praticato, in varie sedi, tra Judith Butler e Adriana Cavarero, soprattutto sulla questione della vulnerabilita' e della relazionalita' del soggetto). La critica del legalismo giuridico, cara alla ricerca di Wendy Brown quanto alla nostra; la decostruzione del soggetto "autonomo" moderno e la sua riconversione nel soggetto consapevole della sua interdipendenza; la ricerca di pratiche di risignificazione che incidono sull'ordine del discorso e della norma, che avvicinano in piu' punti il discorso di Butler alla "politica del simbolico" della comunita' di Diotima, sono tutte questioni di interesse comune, pur nelle differenze, che restano, sulla teoria della sessualita', e pur se richiedono una necessaria opera di traduzione culturale fra contesti diversi, ancora tutta da fare. Non e' del resto in quest'ottica di traduzione e sconfinamento, e non in quella della difesa di identita' e confini, che anche il lavoro del pensiero deve orientarsi per essere efficace fra gli abitatori e abitatrici interdipendenti del mondo globale? 2. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI INTERVISTA JUDITH BUTLER [Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 marzo 2008, col titolo "L'immaginario nazionale imposto a viva forza. Sovranita', confini, vulnerabilita': le due filosofe femministe americane ospiti giovedi' 27 di una giornata di studio all'universita' Roma Tre. Butler: Quelli che gli Usa uccidono non sono considerati veri 'esseri viventi', sono considerati minacce per la 'vita' come noi la conosciamo". All'intervista ha collaborato Marina Impallomeni. Judith Butler, pensatrice femminista americana, nata nel 1956, insegna attualmente retorica e letteratura comparata all'Universita' di Berkeley, California; e' figura di primo piano del dibattito contemporaneo su sessualita', potere e identita'; le sue ricerche rappresentano uno dei contributi piu' originali all'interno dei cultural studies e della queer theory. Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 marzo 2003 riprendiamo questa presentazione di Judith Butler scritta da Ida Dominijanni: "Judith Butler e' una delle massime figure di spicco nel panorama internazionale della teoria femminista. Docente di filosofia politica all'universita' di Berkeley in California, ha pubblicato nell'87 il suo primo libro (Subjects of Desire) e nel '90 il secondo, Gender Trouble, testo tuttora di culto nei campus americani, cruciale per la messa a fuoco delle categorie del sesso, del genere e dell'identita'. Del '93 e' Bodies that matter (Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1995), del '97 The Psychic Life of Power. Filosofa di talento e di solida formazione classica, Butler appartiene a quello stile di pensiero post-strutturalista che intreccia la filosofia politica con la psicoanalisi, la linguistica, la critica testuale; e a quella generazione del femminismo americano costitutivamente attraversata e tormentata dalle differenze sociali, etniche e sessuali fra donne e dalla frammentazione dell'identita' che ne consegue. Decostruzione dell'identita', analisi del corpo fra materialita' e linguaggio, critica della norma eterosessuale e dei dispositivi di inclusione/esclusione che essa comporta, critica del potere e del biopotere sono gli assi principali del suo lavoro, che sul piano politico sfocia in una strategia di radicalita' democratica basata sulla destabilizzazione e lo shifting delle identita'. Fin da subito attenta ai nefasti effetti dell'11 settembre e della reazione antiterrorista sulla democrazia americana, Butler e' fra gli intellettuali americani maggiormente imegnati nel movimento no-war. 'La rivista del manifesto' ha pubblicato sul n. 35 dello scorso gennaio il suo Modello Guantanamo, un atto d'accusa del passaggio di sovranita' che negli Stati Uniti si va producendo all'ombra dell'emergenza antiterrorista: fine della divisione dei poteri, progressivo svincolamento del potere politico dalla soggezione alla legge, crollo dello stato di diritto con le relative conseguenze sul piano del diritto penale (demolizione delle garanzie processuali) e del diritto internazionale (violazione di trattati e convenzioni). A dimostrazione di come la guerra in nome della liberta' e la soppressione delle liberta' si saldino in un'unica offensiva di abiezione dei 'corpi che non contano', per le strade di Baghdad e nelle gabbie di Guantanamo". Opere di Judith Butler disponibili in italiano: Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1995; La rivendicazione di Antigone, Bollati Boringhieri, Torino 2003; Vite precarie. Contro l'uso della violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma 2004; Scambi di genere. Identita', sesso e desiderio, Sansoni, Firenze 2004; Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006. Da "Alias" del 7 ottobre 2006 riprendiamo anche la seguente scheda: "Di Judith Butler, filosofa californiana fra le piu' amate e discusse del panorama femminista internazionale, sono disponibili in italiano Scambi di genere (Sansoni 2004, opinabile traduzione di Gender Trouble, il libro del 1990 che l'ha resa famosa, consacrandola come teorica queer), Corpi che contano (Feltrinelli 1996), La rivendicazione di Antigone (Bollati Borighieri 2003), Vite precarie (Meltemi 2003), La vita psichica del potere (Meltemi 2005). Critica della violenza etica testimonia la piu' recente curvatura del percorso di Butler, che la porta ben oltre il dirompente inizio di Gender Truble, come lei stessa argomenta in Undoing Gender (Routledge 2004) di prossima uscita (Meltemi): la sua ricezione italiana, troppo legata alla sua immagine di partenza, dovrebbe giovarsene. Per un confronto fra posizioni diverse all'interno di una comune matrice femminista poststrutturalista, cfr. Il resoconto di un recente incontro in Polonia fra Butler e Rosi Braidotti in www.metamute.org". Dal sito della Libreria delle donne di Milano riprendiamo la seguente recentissima scheda: "Judith Butler e' Maxine Elliot Professor nel Dipartimento di Retorica e Letterature comparate all'Universita' della California di Berkeley. Ha insegnato in precedenza a Princeton e tiene frequentemente corsi e conferenze a Parigi e Francoforte. Di formazione post-strutturalista, e' una figura-ponte fra la filosofia europea continentale e la filosofia e le scienze umane nordamericane: fra gli autori piu' ricorrenti nei suoi scritti: Hegel, Nietzsche, Foucault, Derrida, Freud, Lacan, De Beauvoir, Irigaray, J. L. Austin. Nota in tutto il mondo per il contributo decisivo che ha dato al pensiero femminista con la teoria della performativita' del genere (Gender Trouble, 1990), lavora al confine fra filosofia politica, psicoanalisi e etica. Muovendo, fin dai primi libri, dalla teoria della sessualita', dalla critica della nozione di identita' e dal rapporto fra costituzione della soggettivita', desiderio e norme, negli scritti piu' recenti si interroga sullo statuto dell'umano e delinea una "ontologia della fragilita'" in risposta alla crisi del soggetto sovrano e della sovranita' statuale. Per Gender Trouble, tradotto in venti lingue, e' stata annoverata dal magazine britannico "The Face" fra le cinquanta personalita' di maggiore influenza sulla cultura popolare negli anni Novanta. Con Precarious Life si e' affermata come una delle piu' impegnate voci critiche del pensiero politico americano del dopo 11 settembre. Attualmente sta lavorando sulla critica della violenza di stato nel pensiero ebraico pre-sionista. Quasi tutta la sua opera e' disponibile in italiano e la sua visita a Roma coincide con la traduzione italiana del suo primo libro, Subjects of Desires, e dell'ultimo, Who Sings the Nation State?, scritto con Gayatri Chakravorty Spivak. Opere di Judith Butler: Subjects of Desire: Hegelian Reflections in Twentieth-Century France, Columbia University Press, New York 1987 (di prossima traduzione presso Laterza); Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, London 1990 (trad. it. Scambi di genere. Identita', sesso e desiderio, Sansoni, Milano 2004); Bodies that Matter. On the Discoursive Limits of "Sex", Routledge, London 1993 (trad. it. Corpi che contano. I limiti discorsivi del "sesso", Feltrinelli, Milano 1996); Exitable Speech: A Politics of the Performative, Routledge, London-New York 1997; The Psychic Life of Power: Theories in Subjection, Stanford University Press, Stanford 1997 (trad. it. La vita psichica del potere, Meltemi, Roma 2005); Antigone's Claim. Kinship between Life and Death, Columbia University Press, New York 2000 (trad. it. La rivendicazione di Antigone. La parentela fra la vita e la morte, Bollati Boringhieri, Torino 2003); Precarious Life. The Power of Mourning and Violence, Verso, London 2004 (trad. it. Vite precarie. Contro l'uso della violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma 2004); Undoing Gender, Routledge, London-New York 2004 (trad. it. La disfatta del genere, Meltemi, Roma 2006); Giving an Account of Oneself, Fordham University Press, New York 2005 (trad. it. Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006)"] - Ida Dominijanni: "Sovranita', confini, vulnerabilita'": questo titolo suggerisce un nesso, se non un isomorfismo, fra la vicenda dello Stato e quella del soggetto. Le due nozioni dello Stato sovrano e del soggetto sovrano nascono assieme nel paradigma del Politico moderno. E' possibile oggi tracciare un parallelo fra la crisi della sovranit‡ statuale e la crisi dell'individuo sovrano? - Judith Butler: Penso sia possibile considerare certe forme della psicologia dell'io e della psicoanalisi kleiniana come capaci di registrare le tracce della sovranita' politica presenti nella psiche. Che tipo di ego o di psiche e' quello che ha cara la propria impermeabilita' sopra ogni altra forma di connessione o interdipendenza? La mia sensazione e' che il "confine" dell'io funzioni diversamente in presenza di determinate condizioni dello Stato nazione, specialmente quelle in cui si teme l'"invasione", in cui viene dato un grande valore all'"integrita' interna", in cui si rifiuta la dipendenza e in particolar modo l'interdipendenza globale. * - Ida Dominijanni: Per quanto fosse rintracciabile gia' in precedenza, la questione della vulnerabilita' umana viene in primo piano nel tuo lavoro dopo l'11 settembre, assieme alla questione del lutto come pratica pubblica e dell'interdipendenza come antidoto alla politica della vendetta. Com'e' stato influenzato il tuo pensiero dagli eventi dell'11 settembre? - Judith Butler: Mi era chiaro che in risposta all'11 settembre il governo Usa, insieme a un sistema mass-mediatico di bassa lega, ha cercato di creare un soggetto nazionale pervasivamente maschilista, che si definisse come impermeabile, invulnerabile, perennemente aggressivo, e che rifiutasse i suoi legami internazionali. La questione attiene al modo in cui il soggetto nazionale risponde all'improvvisa presa di coscienza della sua vulnerabilita'. Era la prima volta che gli Stati Uniti venivano attaccati all'interno dei loro confini, dopo l'episodio di Pearl Harbor durante la seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti avrebbero potuto sfruttare questa opportunita' per riconoscere la propria vulnerabilita', e anche per riconoscere che questa vulnerabilita' e' generalizzabile - cosa che avrebbe potenziato gli accordi internazionali e transnazionali miranti a ridurre al minimo il rischio di violenza. Ma la loro strategia e' consistita invece nel rimuoverla. Questa versione del soggetto nazionale (una sorta di immaginario della nazione imposto a viva forza) e' stata creata regolando il modo in cui intendiamo la morte o reagiamo ad essa. La morte delle vittime del World Trade Center non e' stata considerata solo un fatto gravissimo, ma e' stata innalzata ad uno status di straordinarieta', di sacralita'. D'altro canto ci e' stato impedito - e ci viene impedito tuttora - di vedere i morti di guerra. Cio' significa che la regolazione del campo visivo in cui e' possibile incontrare la morte resta cruciale per la guerra e per il nazionalismo su cui essa poggia. Certe vite sono degne di lutto, altre no, e questo serve a giustificare la violenza che infliggiamo e a rimuovere qualunque concezione della nostra precarieta'. Quelli che gli Usa uccidono non sono dei veri "esseri viventi", sono popolazioni che minacciano la "vita" cosi' come noi la conosciamo. Questo e' una pericolosa schisi che incide sulla cultura della guerra. * - Ida Dominijanni: L'idea della vulnerabilita' e dell'interdipendenza come base di una politica non violenta implica un rovesciamento del paradigma politico moderno basato sulla forza e sulla logica amico-nemico. In Critica della violenza etica definisci la vulnerabilita' e l'interdipendenza in una prospettiva etica. Ma etica e politica, come sappiamo, per quanto siano connesse non coincidono. Sul fronte della politica istituzionale, dopo l'11 settembre la logica della forza e della violenza, della difesa della sovranita' nazionale e della vendetta ha di nuovo prevalso. Puo' un'etica della vulnerabilita' e dell'interdipendenza farsi strada in pratiche sociali e politiche capaci di disturbare questa sorta di coazione a ripetere del Politico? Nel femminismo italiano, ad esempio, concepiamo la relazione fra donne come una forma sociale e pratica politica che mette in atto l'interdipendenza, contro il paradigma dominante dell'autonomia e della sovranita'. - Judith Butler: Mi piace molto questa idea della relazione tra donne come forma sociale che mette in atto l'interdipendenza. La mia sensazione e' che certi principi etici appaiano con evidenza ed entrino in gioco solo in virtu' di situazioni politiche. Cosi' per me non c'e' etica al di fuori della pratica sociale e del terreno del potere. Mi sembra che qualunque decisione di mettere in atto la violenza, o di rifiutarla, abbia una dimensione etica, in quanto attiene alla condotta e al modo in cui giustifichiamo la relazione - qualunque relazione - che stabiliamo con la violenza. Ma non saremmo in situazioni di questo tipo se non fosse per l'esistenza dell'aggressione politica e, piu' specificamente, di forme sociali di aggressione. Il movimento di autodifesa femminista e' al contempo una pratica etica e politica. Non sarebbe necessario, se non fosse per la violenza contro le donne. E tuttavia incarna principi etici in forme sociali. * - Ida Dominijanni: Un tema cardinale del tuo lavoro, secondo me, e' la tua interpretazione della dinamica del ricoscimento come processo che non conferma l'identita' di chi vi e' implicato, ma la destabilizza e la trasforma. Ma il riconoscimento dipende anche, tu sostieni, dalle norme e dallo Stato, che tendono viceversa a fissare, normalizzare e gerarchizzare le nostre identita'. Se e fino a che punto affidare, o viceversa sottrarre, il riconoscimento collettivo alla legge, ai diritti e allo Stato, e' una questione assai dibattuta nei movimenti politici, anche qui in Italia, dove si e' ripresentata di recente a proposito delle convivenze e dei matrimoni gay. Tu che ne pensi? - Judith Butler: A mio parere dobbiamo elaborare una nozione di "riconoscimento critico", ossia una pratica che consiste nel cercare riconoscimento nei termini delle norme esistenti (ad esempio, ampliare le norme per l'uguaglianza e la giustizia), ma anche nell'interrogare e mettere in discussione la portata e il carattere di queste norme. Se ci limitiamo a cercare il riconoscimento, resteremo legati alle norme esistenti. Ma se ci sta a cuore chi non riesce a ottenere riconoscimento dalle norme esistenti, o dal loro ampliamento, dobbiamo elaborare nuove forme sociali, ed anche nuove norme. Questo vuol dire interrogare i limiti del riconoscibile e formulare una politica precisamente su questo punto. * - Ida Dominijanni: Un altro tema importante del tuo lavoro, nella mia prospettiva, riguarda il cambiamento dell'ordine simbolico, questione capitale anche nel pensiero della differenza sessuale italiano. Personalmente leggo la tua teoria della performativita', in Scambi di genere e in Excitable Speech, come una ricerca di pratiche di risignificazione che possono appunto modificare l'ordine simbolico. Altrove pero' (La rivendicazione di Antigone, La disfatta del genere) sembri delineare un cambiamento dell'ordine simbolico (segnatamente della struttura dell'Edipo) che procede direttamente dal cambiamento sociale (segnatamente dalle nuove tipologie familiari post-nucleari). Che rapporto c'e' secondo te fra ordine sociale e ordine simbolico e fra la trasformazione dell'uno e dell'altro, e quali pratiche pensi che possano innescare un circolo fra loro? - Judith Butler: A mio modo di vedere, e' un errore interpretare l'apparente intrattabilita' di certi nuovi rapporti di parentela come il segno di un ordine simbolico che perdura immutato. Cio' che chiamiamo "simbolico" e' quella struttura del rapporto di parentela che appare difficile, se non impossibile, da cambiare. Chi difende il simbolico come un ordine dato e immodificabile e' molto spesso costretto a patologizzare i rapporti di parentela che non si conformano alla sua legge. Di conseguenza, devono decidere costantemente che cos'e' "veramente femminile" o "veramente intelligibile", producendo cosi' un terreno di esclusione per una politica innovativa della sessualita' e della parentela. Questa logica dimostra che c'e' sempre un "fuori" dal simbolico: un terreno che e' anche "vivibile", pur essendo costantemente allestito come "invivibile". Penso che sia possibile, ad esempio, pensare l'Edipo fuori dalla famiglia eterosessuale, ripensare la parentela stessa fuori dalle strutture familiari, e liberare la sessualita' dal suo strangolamento nell'identita'. * - Ida Dominijanni: La psicoanalisi gioca un ruolo cruciale nel tuo pensiero politico. Per parte mia, anch'io penso che oggi sia impossible ripensare l'ontologia politica senza uno sguardo psicoanalitico. Tuttavia il rapporto fra il livello psichico, sociale e politico della nostra vita e' complesso. Fino a che punto pensi che la psicoanalisi ci sia d'aiuto nel riformulare la teoria e soprattutto la pratica politica? - Judith Butler: Penso che sia particolarmente importante, nella politica contemporanea, rintracciare le strategie di rimozione, considerare come il passato continui nel presente, anche come presente. Non so se possiamo riuscire a capire quello che succede in Medioriente senza un senso specificamente politico del trauma. E non so se possiamo riuscire a capire il razzismo, la misoginia, l'omofobia, la xenofobia senza considerare l'ansia e la paura che accompagnano le relazioni di prossimita' con gli altri. Noi negoziamo costantemente i confini che ci separano dagli altri o che ci connettono con loro, e cio' dimostra come certi problemi psicoanalitici, concepiti socialmente, informino la politica contemporanea sull'immigrazione (che riguarda sempre il confine: chi puo' attraversarlo, e a quale prezzo per il se'?) e sulla guerra (chi puo' irrompere attraverso un confine, e a quale costo?). Non credo che estrapolare un modello individuale della psiche per pensare le relazioni politiche funzioni: la cosa che mi pare piu' promettente e' considerare con quanta frequenza le relazioni politiche siano formulate in termini di ansia, paura, difesa, vendetta, aggressione, ma anche, e viceversa, di riparazione e relazionalita'. * Postilla biobibliografica su Judith Butler Judith Butler insegna nel Dipartimento di retorica e letterature comparate all'Universita' della California di Berkeley. Nota in tutto il mondo per il contributo decisivo che ha dato al pensiero femminista con la teoria della performativita' del genere, lavora al confine fra filosofia politica, psicoanalisi e etica. La sua visita a Roma coincide con l'imminente uscita in italiano del suo ultimo libro, Who Sings the Nation State? (in dialogo con Gayatri Spivak) per Filema, e del primo, Subjects of Desires, per Laterza. Gia' tradotti Gender Trouble, 1990 (Scambi di genere, Sansoni 2004); Bodies that Matter, 1993 (Corpi che contano, Feltrinelli 1996), The Psychic Life of Power, 1997 (La vita psichica del potere, Meltemi 2005); Antigone's Claim, 2000 (La rivendicazione di Antigone, Bollati Boringhieri 2003); Precarious Life, 2004 (Vite precarie, Meltemi 2004); Undoing Gender, 2004 (La disfatta del genere, Meltemi 2006);Giving an Account of Oneself, 2005 (Critica della violenza etica, Feltrinelli 2006). 3. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI INTERVISTA WENDY BROWN [Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 marzo 2008, col titolo "Chi tiene la democrazia sotto sequestro?" e il sommario "La politica della guerra dopo l'11 settembre, la crisi di legalita' e lo 'scontro di religione' dentro la societa' americana. Brown: Il fenomeno Obama rivela l'urgenza per la sinistra di ritrovare un senso 'religioso' della speranza e del futuro". All'intervista ha collaborato Marina Impallomeni. Wendy Brown, filosofa, docente e saggista, e' professoressa di Scienza politica all'Universita' di Berkeley. Ha insegnato in precedenza a Santa Cruz e al Williams College in California, e' membro dell'Istituto di studi avanzati di Princeton e ha discusso i suoi lavori in varie universita' europee. Studiosa di confine fra teoria politica, teoria critica, studi femministi e postcoloniali, e' nota soprattutto per avere intrecciato le prospettive di Marx, Nietzsche, Weber, Freud, Foucault, dei teorici della Scuola di Francoforte e dei filosofi continentali contemporanei nell'analisi critica del potere, della liberta', della tolleranza, dell'identita', della cittadinanza, della soggettivita' politica nelle democrazie liberali contemporanee. Attualmente lavora sulle trasformazioni della sovranita' nel quadro del capitalismo globale e del conflitto interculturale. Tra le opere di Wendy Brown: Manhood and Politics: A Feminist Reading in Political Theory, Rowman and Littlefield, 1988; States of Injury: Power and Freedom in Late Modernity, Princeton 1995; Politics Out of History, Princeton 2001; Left Legalism/Left Critique (con Janet Halley), Duke 2002; Edgework: Critical Essays in Knowledge and Politics, Princeton 2005; Regulating Aversion: Tolerance in the Age of Identity and Empire, Princeton 2006] - Ida Dominijanni: Potere e liberta' sono due questioni centrali nel tuo lavoro. Un caso raro nel panorama filosofico-politico di sinistra, dominato negli ultimi decenni dalle questioni dell'equita', dei diritti, delle procedure - mentre la liberta', in versione liberista, diventava una bandiera della destra. Tu hai analizzato questo quadro in States of Injury (1997), spostando l'attenzione sul desiderio di liberta' e sul suo background storico e psichico. Il paradigma neoliberista dell'ultimo decennio, che successivamente hai messo a fuoco in Neo-liberalism and democracy, ha cambiato i termini del problema, e come? - Wendy Brown: Quando ho cominciato a lavorare sulla scomparsa della liberta' dall'agenda e dal pensiero critico della sinistra, avevo in mente due aspetti della cultura politica europea e americana degli anni '80 e '90: quella che e' stata poi chiamata "politica dell'identita'", cioe' le rivendicazioni di inclusione e di uguaglianza dei gruppi definiti dalla ferita dell'esclusione; e il disperato tentativo della sinistra di aggrapparsi a un welfare in rapida disintegrazione, tentativo che la spingeva ad abbracciare alquanto acriticamente lo statalismo assistenziale gettando a mare la sua precedente critica delle dimensioni regolative e oppressive del capitalismo e dello Stato. Ero preoccupata che, per queste due vie, la sinistra stesse sempre piu' rinunciando al valore della liberta' intesa come l'opposto del dominio, della regolazione e anche della protezione, e dunque all'idea che gli esseri umani possano conquistare un potere collettivo sulle condizioni della loro vita. Ma in seguito, la saturazione del campo del politico da parte del neoliberismo, ovvero il suo assurgere a paradigma di razionalita' non solo economica ma politica, ha aggravato i termini del problema. La razionalita' neoliberista riduce la liberta' a scelta di mercato e definisce il soggetto "libero" come un imprenditore di se stesso in tutti i campi dell'esistenza, dalla professione alla sessualita'. Questo toglie valore perfino alla limitata promessa di liberta' politica come partecipazione e sovranita' popolare propria delle democrazie liberali. E pone nuovamente alla sinistra il problema del che fare quando i soggetti e la cittadinanza si costruiscono senza alcun visibile desiderio di liberta' dal dominio del capitale o dello stato. * - Ida Dominijanni: Sempre in States of Injury hai analizzato la politica dell'identita' e i suoi paradossi evidenziando il peso dei "wounded attachments" (l'attaccamento alle ferite subite) e del risentimento nella formazione della soggettivita' degli oppressi. Negli ultimi anni, la politica dell'identita' ha assunto per un verso i caratteri estremi del fondamentalismo; per l'altro verso, rimane la base della domanda di riconoscimento e della rivendicazione di diritti per i gruppi svantaggiati. Il superamento della politica dell'identita' e' un tema centrale per una parte rilevante del pensiero politico italiano, in particolare per il femminismo della differenza, che lo lega alla critica della grammatica dei diritti. Nella sfera pubblica americana vedi soggettivita' e pratiche che vanno oltre la politica dell'identita'? E nella scena mainstream, la competizione fra Hillary e Obama, la donna e il nero, va letta come il trionfo o come il punto limite della politica dell'identita'? - Wendy Brown: Una cosa interessante della competizione Obama-Clinton e' che fino a poco tempo fa nessuno dei due faceva ricorso alla politica dell'identita': puntavano entrambi sull'intenzione di intercettare elettorati diversi, unificare le divisioni della comunita' nazionale, risanare la reputazione del paese all'estero. Non che rimuovessero l'importanza, per loro e per la nostra storia, del genere e della razza, stile Margaret Thatcher; ma non correvano esplicitamente come donna bianca e uomo nero. Sono stati entrambi letteralmente costretti in queste categorie dai discorsi che li interpellavano attraverso il genere e la razza, da elettorati (sessisti e femministi, razzisti e antirazzisti) che battevano su questo tasto, da eventi (le lacrime di Hillary, il ministro troppo loquace di Obama) fatti su misura per definirli in questi termini. Questo dice qualcosa sulla presa della politica dell'identita' negli Usa, ma anche sulla presa del sessismo e del razzismo: i due candidati, semplicemente, non possono evitare di essere ridotti alla fisiologia e al fenotipo. Quanto alla tua domanda piu' generale, secondo me la coalizione queer dietro Act Up, che negli anni '90 ha lavorato sodo per portare la questione dell'Aids/Hiv nell'agenda politica ed economica, ha inaugurato una politica della giustizia post-identitaria. E oggi ne' i no-war, ne' i no-global ne' gli ambientalisti sono identitari. E' sperabile tuttavia che ciascuno di essi porti con se' consapevolezza delle questioni di genere, razza e sessualita' - speranza solo a volte esaudita. * - Ida Dominijanni: Malinconia e conservatorismo della sinistra, due capitoli del tuo lavoro di grande interesse per la sensibilita' italiana. Schematizzando, dall'89 in poi in Italia la sinistra si e' divisa fra un'area moderata, che ha abbracciato una "nuova" visione del mondo post-socialista e post-ideologica senza elaborare il lutto della sua identita' perduta, e un'area radicale, che e' rimasta attaccata alla sua identita' senza elaborare il lutto per la fine dell'epoca in cui era cresciuta. In un'intervista su "Contretemps" (2006) hai detto che la sinistra deve imparare ad amare di nuovo, ad aprirsi a una nuova lettura del presente, ad accettare che il "noi" da cui e' stata fatta possa diventare diverso da prima. Sono del tutto d'accordo. Nella sinistra americana ed europea di oggi, vedi dei nuovi oggetti d'amore, o una nuova apertura alle possibilita' del presente? - Wendy Brown: Una risposta positiva e una preoccupata. In Europa, negli Usa e altrove, la rabbia contro l'imperialismo americano in Medioriente e la presa d'atto che un capitalismo senza briglie ci sta portando rapidamente verso un collasso planetario stanno dando alimento, a sinistra, alla ricerca - sia pure iniziale, nei fini e nei mezzi - di una diversa economia politica e di un diverso ordine mondiale. Penso che questa ricerca sia animata da quello che Hannah Arendt definiva "amore del mondo", e che questo amore stia riaffiorando a sinistra in forme nuove, dopo decenni. Detto questo, negli Stati Uniti di oggi il desiderio della sinistra di avere di nuovo qualcosa da amare, qualcosa in cui credere, sta emergendo in un modo sgradevole, che smentisce l'idea che la mobilitazione religiosa sia appannaggio della destra. Mi riferisco al folle entusiasmo per Obama di tanti compagni. Niente quanto il fenomeno Obama ha reso palpabile la disponibilita' della sinistra al fervore religioso. Rispondere alla disperazione, alla rassegnazione, all'inerzia con la speranza, la possibilita', il cambiamento e' la firma della sua campagna; ma il messaggio va oltre. Obama spinge a contrastare il cinismo con il credo, una forma di credo religioso tanto quanto quello contrabbandato dai cristiani evangelici. Il dono di Obama ai progressisti non e' la fiducia in un progetto o in un percorso: e' il credo in se stesso, il credo nel credo, un credo che solleva, ispira, ci risveglia e ci eccita dopo tanti anni senza credo, senza eccitazione, senza fiducia nel futuro. Obama e' certamente un politico di grande talento, ma cio' che colpisce e' quello che rivela di noi: quanto noi di sinistra desideriamo questo credo, questa rinnovata speranza, questa eccitazione di desiderio politico... anche se e' senza contenuto ne' scopo, anzi proprio in quanto lo e'. Sotto questo aspetto, la somiglianza di Obama con John Kennedy non sta tanto nel fatto che anche lui e' un leader giovane, bello, carismatico, con un'oratoria piu' di sinistra delle sue scelte effettive: sta nel fatto che in questo momento le doti e l'imprevista ascesa di Obama suscitano un sentimento di redenzione e di speranza nel futuro, proprio come avvenne per l'ascesa di Kennedy dopo gli anni bui di Hoover e McCarthy. Lo slogan di Obama "yes we can" e' un si' contro i nostri dinieghi, il nostro inesorabile cinismo, la nostra rinuncia a credere in un futuro promettente, per l'America e per il mondo. L'avversario, il no, non e' un nemico esterno, ma il no interno, la negazione del credo e della volonta'. Ecco perche' per Obama e' stato facile respingere l'accusa di Hillary di generare "false speranze". La speranza che lui diffonde non e' vera o falsa: e' speranza in se stessa. L'attacco di Clinton e' stato un boomerang, era come dire a persone rinate di tornare nell'oscurita' in cui si erano perse, all'ennui, alla deriva, al nichilismo. Altro che Assault on Reason, il libro del 2007 sui Bush in cui Al Gore sosteneva che i democratici avrebbero ripreso la Casa bianca perche' sono piu' razionali, si attengono ai fatti, alla scienza e a norme motivate. Oggi la religione viene affrontata con la religione, e davvero l'America potrebbe andare verso un bizzarro tipo di guerra santa: la fede contro la fede, le nostre speranze contro le loro, il nostro messia contro il loro. Ecco dunque il pericolo insito nell'invitare la sinistra a trovare un nuovo oggetto d'amore - l'amore puo' essere, e spesso e', illusorio e reazionario, specialmente in politica. Cio' detto, e stante che tutta questa religiosita' difficilmente fara' il miracolo di portare alla Casa bianca un uomo nero, di vaga ascendenza musulmana e di secondo nome Hussein, io ho votato per Obama nelle primarie in California e lo voterei come presidente. * - Ida Dominijanni: Ti presenti come una pensatrice della democrazia radicale, sottolineando che il compito teorico e politico di oggi e' "dissequestrare la democrazia dal liberismo e dal capitalismo". Di nuovo sono d'accordo, ma provo ad andare oltre. Negli ultimi anni, le democrazie occidentali hanno mostrato la loro faccia peggiore: guerre in nome della democrazia medesima, politiche di sorveglianza in nome della sicurezza, subalternita' al mercato, corruzione delle classi dirigenti, populismo, crisi della rappresentanza, apatia e manipolabilita' delle masse, rovesciamento, come dicono alcuni, del desiderio di liberta' in una sorta di servitu' volontaria. E' solo un "sequestro" neoliberista della democrazia, o si tratta di una deriva ineluttabile? Nel mondo unificato post-'89, dove la democrazia ha trionfato come l'unico regime desiderabile e non e' possibile alcuna nostalgia per l'alternativa del socialismo reale che fu, la democrazia e' l'orizzonte esclusivo del nostro immaginario politico, o possiamo aprire il nostro desiderio di liberta' ad altre possibilita'? - Wendy Brown: E' una questione assai importante e complessa. Importante, perche' se una cosa diventa un limite per la nostra immaginazione, si spenge anche dentro di essa. Complessa, perche' oggi la parola "democrazia" spesso significa solo elezioni e mercato, ma al tempo stesso porta nella sua stessa etimologia - demos/kratos, popolo/governo - l'opposizione a tutti i poteri che governano l'esistenza umana e planetaria. E' un termine vuoto e degradato, e allo stesso tempo sovversivo e radicale. E' il discorso legittimante del dominio e dell'imperialismo Usa, nonche' della pretesa di supremazia della civilta' occidentale; e' continuamente equiparata al libero mercato; eppure resta un, se non il, termine che ci consente di fare una critica radicale dell'ordine costituito. Mai nella storia le democrazie liberali sono state meno democratiche; il capitalismo e' l'antitesi della democrazia; un governo fatto di esperti e' antidemocratico; la razionalita' politica neoliberista, con la sua enfasi sulla gerarchia e gli interessi personali e la sua antipatia per valori politici che non siano quelli del mercato, e' inesorabilmente antidemocratica. Ti diro' di piu'. Mi lascia perplessa il modo in cui la democrazia e' stata abbracciata non solo dal mainstream ma anche dalla sinistra post-marxista europea e nord-americana. Da Balibar a Derrida, da Habermas a Ranciere, la democrazia e' diventata, come dici tu, esaustiva del politicamente possibile. Penso che qui non agisca solo una mancanza di immaginazione, ma anche qualcosa di un tantino reazionario: come se la democrazia rappresentasse l'Europa e la civilta', anche per coloro che dovrebbero essere piu' avvertiti, contro il suo presunto nemico individuato in un immaginario Islam teocratico. Anche la "democrazia a venire" di Derrida, o la democrazia intesa come l'emergere di "quelli che non contano" secondo Ranciere, continua a rimandare a una ragione pubblica laica, al parlamentarismo, al pluralismo, all'individuo moralmente autonomo associato all'Occidente, il cui esterno costitutivo e' la teocrazia, l'ortodossia, l'organicismo sociale. Questa opposizione e' falsa, xenofobica, autoingannatoria e pericolosa, ed e' assai negativo che cosi' tanti nella sinistra europea l'abbiano fatta propria. Dunque sono diffidente, sia per il degrado della democrazia, sia per la sua idealizzazione a scopi reazionari. Tuttavia non sono pronta a buttare via ne' i valori che la democrazia liberale ha rappresentato (spesso ipocritamente), ne' il sogno piu' folle che questo termine serba dentro di se'. Non possiamo abbandonare una cosa solo perche' il suo significato e il suo concreto dispiegarsi non sono nelle nostre mani: questa potrebbe essere la prima lezione della democrazia radicale. * Postilla biobibliografica su Wendy Brown Wendy Brown insegna Scienza politica all'Universita' della California di Berkeley. Studiosa di confine fra teoria politica, teoria critica, studi femministi e postcoloniali, e' nota soprattutto per le sue analisi del potere, della liberta', della tolleranza, dell'identita', della cittadinanza, della soggettivita' politica nelle democrazie liberali contemporanee. Attualmente lavora sulle trasformazioni della sovranita' nel quadro del capitalismo globale e del conflitto interculturale. Frai suoi testi, Manhood and Politics, Rowman and Littlefield, 1988; States of Injury, Princeton 1995; Politics Out of History, Princeton 2001; Left Legalism / Left Critique (con Janet Halley), Duke 2002; Edgework, Princeton 2005; Regulating Aversion, Princeton 2006. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 172 del 28 marzo 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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