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La domenica della nonviolenza. 156
- Subject: La domenica della nonviolenza. 156
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 23 Mar 2008 12:33:41 +0100
- Importance: Normal
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 156 del 23 marzo 2008 In questo numero: 1. Enzo Bianchi: Per cosa combatte il Tibet 2. Angelo Stefanini: I costi umani dell'invasione dell'Iraq cinque anni dopo 3. Marcelo Barros: Buona pasqua, amici 4. Elisabetta Donini: Donne, scienza e modelli di sviluppo 5. Francesco Pistolato intervista Hans-Peter Duerr 1. RIFLESSIONE. ENZO BIANCHI: PER COSA COMBATTE IL TIBET [Dal sito del quotidiano "La stampa" riprendiamo il seguente articolo del 20 marzo 2008. Enzo Bianchi e' animatore della comunita' di Bose. Dal sito www.festivaletteratura.it riprendiamo questa scheda: "Enzo Bianchi e' nato a Castel Foglione nel Monferrato nel 1943 ed e' fondatore e priore della comunita' monastica di Bose. Nel 1966 ha infatti raggiunto il villaggio di Bose a Magnano (Vercelli) e ha dato inizio a una comunita' monastica ecumenica cui tuttora presiede. Enzo Bianchi e' direttore della rivista biblica "Parola, Spirito e Vita", membro della redazione della rivista internazionale "Concilium" ed autore di numerosi testi, tradotti in molte lingue, sulla spiritualita' cristiana e sulla grande tradizione della Chiesa, scritti tenendo sempre conto del vasto e multiforme mondo di oggi. Collabora a "La stampa", "Avvenire" e "Luoghi dell'infinito"". Tra le opere di Enzo Bianchi: Il radicalismo cristiano, Gribaudi, 1980; Lontano da chi, Gribaudi, 1984; Un rabbi che amava i banchetti, Marietti, 1985; Il corvo di Elia, Gribaudi, 1986; Amici del Signore, Gribaudi, 1990; Pregare la parola, Gribaudi, 1990; Il profeta che raccontava Dio agli uomini, Marietti, 1990; Apocalisse di Giovanni, Qiqajon, 1990; Magnificat, benedictus, nunc dimittis, Qiqajon, 1990; Ricominciare, Marietti, 1991; Vivere la morte, Gribaudi, 1992; Preghiere della tavola, Qiqajon, 1994; Adamo, dove sei, Qiqajon, 1994; Il giorno del signore, giorno dell'uomo, Piemme, 1994; Da forestiero, Piemme, 1995; Aids. Vivere e morire in comunione, Qiqajon, 1997; Pregare i salmi, Gribaudi, 1997; Come evangelizzare oggi, Qiqajon, 1997; Libro delle preghiere, Einaudi, 1997; Altrimenti. Credere e narrare il Dio, Piemme, 1998; Poesie di Dio, Einaudi, 1999; Altrimenti. Credere e narrare il Dio dei cristiani, Piemme, 1999; Da forestiero. Nella compagnia degli uomini, Piemme, 1999; Giorno del Signore, giorno dell'uomo. Per un rinnovamento della domenica, Piemme, 1999; I paradossi della croce, Morcelliana, 1999; Le parole della spiritualita'. Per un lessico della vita interiore, Rizzoli, 1999; Ricominciare. Nell'anima, nella Chiesa, nel mondo, Marietti, 1999; Accanto al malato. Riflessioni sul senso della malattia e sull'accompagnamento dei malati, Qiqajon, 2000; L'Apocalisse di Giovanni. Commento esegetico-spirituale, Qiqajon, 2000; Come vivere il Giubileo del 2000, Qiqajon, 2000; La lettura spirituale della Bibbia, Piemme, 2000; Non siamo migliori. La vita religiosa nella Chiesa, tra gli uomini, Qiqajon, 2002; Quale fede?, Morcelliana, 2002; I Cristiani nella societa', Rizzoli, 2003; La differenza cristiana, Einaudi, 2006] "Etichettando come nemici le autorita' cinesi, potremmo pronunciare una ipocrita condanna della loro brutalita', ma non e' cosi' che si ottengono la pace e l'armonia". Risuonano tragicamente attuali queste parole che il Dalai Lama va ripetendo ormai da 50 anni - una delle occasioni piu' vicine a noi nello spazio e nel tempo e' stata la sua conferenza a Milano nel dicembre scorso su "La pace interiore e la nonviolenza" - ma proprio per questo il poco che ci e' dato di conoscere degli eventi di questi giorni in Tibet riveste una drammaticita' estrema. Un popolo pacifico, con una propria lingua e cultura - intesa come modo di porsi di fronte agli eventi della vita quotidiana e alle attese ideali - con una religione intrinsecamente nonviolenta, subisce da decenni aggressioni di ogni tipo, le piu' pericolose delle quali sono quelli interiori e morali: il fatto che periodicamente folle di giovani e meno giovani, di monaci e di civili si ribellino con proteste prive di qualsiasi possibilita' di successo, andando incontro a feroci repressioni, puo' sorprendere noi occidentali cosi' devoti al calcolo, all'opportunismo e alla Realpolitik, ma dovremmo chiederci se in queste sommosse, regolarmente soffocate nel sangue, non ci sia qualcosa di piu' profondo della forza della disperazione, qualcosa di ben piu' nobile di una umana, comprensibilissima esasperazione. C'e', io credo, un'affermazione forte di una vita "altrimenti", di una diversita' che non accetta di scomparire: decenni di indottrinamento ateista non hanno arrestato il crescere della popolazione nei monasteri, le uniche comunita' umane che aumentano i propri membri non per generazione fisica ma per libera adesione interiore; anni di sistematica immissione di migliaia di persone di etnia, lingua e costumi diversi non hanno intaccato l'identita' profonda di un popolo; lo sfruttamento violento e sistematico del sottosuolo e l'emarginazione della pastorizia non hanno minato il rapporto dei tibetani con la loro terra, cosi' come non lo ha attenuato l'esilio obbligato cui sono stati costretti a milioni; la chiassosa invadenza del capitalismo di Stato e il volgare fascino del "mercato" con i suoi miti non riescono a sfondare al di la' delle strade commerciali delle citta' principali. E' proprio questa vita tenacemente differente che ha sussulti periodici di riaffermazione, sussulti che non tengono conto di strategie o tempistiche "ragionevoli", ma che sono come l'incontenibile ricerca della boccata di ossigeno di chi e' costretto a vivere in apnea: in simili condizioni non si calcola se nei polmoni invece dell'aria rischia di entrare acqua, fango o terra, non si riflette se il risultato puo' essere una repressione ancora piu' dura; si anela unicamente all'ossigeno, a quell'aria pura che e' il proprio patrimonio vitale. Credo che i monaci e i civili tibetani non si ribellano nella vana speranza che il mondo occidentale metta da parte i propri interessi mercantili e obblighi la Cina ad alcunche': ben conoscono, per averli sperimentati a piu' riprese, la nostra attitudine ai silenzi complici, il nostro gridare sterili condanne di principio, il nostro imbarazzato calcolo di opportunita' e commerci, la nostra capacita' di voltare la testa dall'altra parte, il nostro desiderio che lo spettacolo, anche olimpico, continui. No, si ribellano per affermare - costi quel che costi, al di la' di ogni ragionevole speranza - che ci sono principi per cui vale la pena vivere e morire, si rivoltano per ribadire che esiste "qualcosa per cui vivere, abbastanza grande per cui morire", manifestano per un'esigenza intima di giustizia, di affermare e compiere cio' che e' giusto, a prescindere dalla possibilita' effettiva di ottenere la giustizia invocata. In questo senso il monachesimo e' un fenomeno emblematico: i monaci del Tibet, come quelli birmani, come i bonzi del Vietnam, come i monaci cristiani in Algeria o in Iraq, sono uomini impegnati in una disciplina che tende all'umanizzazione di tutti attraverso la rinuncia al potere, al possesso, alla violenza, e percio' sono uomini che lottano ogni giorno per disarmare se stessi, per far tacere la propria aggressivita' e cosi' indicare a tutti cio' che parrebbe utopico, senza luogo di realizzazione, ma che invece e' possibile, anche se mondanamente non vincente. Si', i veri monaci sono quasi sempre umiliati, a volte perseguitati ma, anche se obbligati a tacere, gridano con il loro silenzio la verita', una verita' a servizio dell'uomo. Ed e' in questa prospettiva che mi paiono drammaticamente preoccupanti le notizie sulle violenze compiute non tanto dai monaci - infatti, nonostante la meticolosa cernita delle immagini compiuta dalla televisione di Stato cinese per imputare esclusivamente ai tibetani le violenze, l'unico gesto violento di cui e' co-protagonista un monaco e' l'abbattimento di una porta a calci - quanto da giovani tibetani nei giorni scorsi. Temo sia una crepa pericolosa nella cultura tibetana della nonviolenza, un sintomo di una certa presa che la violenza quotidianamente istillata in maniera piu' o meno esplicita comincia ad avere anche in un popolo a essa fondamentalmente alieno. Non ci e' lecito giudicare dall'alto del nostro distacco fisico, emotivo e personale il comportamento di alcuni, relativamente pochissimi, manifestanti, ma dobbiamo temere il possibile degenerare della "forza" della nonviolenza in azioni violente: sarebbe davvero un tragico salto di qualita' del "genocidio culturale" denunciato dal Dalai Lama. Estremamente significativo in questo senso l'atteggiamento che sta tenendo il Dalai Lama in questi giorni: reiterata domanda di dialogo, riaffermazione della volonta' di autonomia e non di indipendenza, nessun boicottaggio delle Olimpiadi e perfino disponibilita' a dimettersi se la situazione dovesse finire fuori controllo: la verita' della pace non puo' accettare di farsi servire dalla violenza. Si', l'uccisione della diversita' ostinata di una cultura di pace e' quanto anche i tibetani temono ancor piu' della morte fisica. 2. RIFLESSIONE. ANGELO STEFANINI: I COSTI UMANI DELL'INVASIONE DELL'IRAQ CINQUE ANNI DOPO [Dal sito di "Pecereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo il seguente intervento del 19 marzo 2008. Angelo Stefanini e' docente del Dipartimento di medicina e sanita' pubblica dell'Universita' di Bologna, Centro studi in salute internazionale; e' anche membro dell'Osservatorio italiano sulla salute globale] Mentre negli Stati Uniti il premio Nobel Joseph Stiglitz stima il costo finanziario della guerra in Iraq in tre trilioni (si', tre trilioni, ossia tre milioni di milioni di milioni) di dollari, e' giunto il momento di fare i conti con gli altri costi, quelli umani, che cinque anni di guerra hanno fatto pagare alla popolazione civile di quel paese. Nel marzo 2003, alla vigilia della invasione appoggiata, contro oceaniche manifestazioni di dissenso in tutto il mondo, anche dal governo italiano di Silvio Berlusconi, oltre 1500 medici italiani sottoscrivevano una lettera aperta che metteva in guardia sulle prevedibili conseguenze umanitarie di una tale decisione. Il governo rispondeva sprezzante a tale "intrusione" del mondo scientifico in "problemi che per la loro valenza non possono che essere affrontati dai supremi Organi elettivi...", negando in sostanza che la guerra abbia un profondo impatto sulla salute dell'umanita' e che quindi le professioni sanitarie possano esprimersi su di essa. La lettera aperta rappresentava un intenso momento di presa di coscienza da parte di una professione a rischio di perdere il senso della propria missione sociale a salvaguardia della salute umana. E' di queste settimane la pubblicazione di una ricerca che fa il punto sugli studi sinora pubblicati che stimano il numero di morti causati dalla guerra in Iraq. I tredici studi identificati riportano dati abbastanza diversi. I lavori considerati di migliore qualita' scientifica, e quindi piu' affidabili, evidenziano un numero di morti giornaliero stimabile in una scala che va dai 48 e ai 759. Una tale variabilita' e' dovuta soprattutto alla diversita' sostanziale delle metodologie impiegate. Da una parte, lo studio che calcola soltanto le morti verificate da almeno due fonti ufficiali (fornendo quindi cifre molto sottostimate). Dall'altra, gli studi di popolazione che includono le morti "stimate" in base a calcoli statistico-epidemiologici e causate non soltanto dalla violenza diretta ma anche dalle condizioni di vulnerabilita' alimentare, igienica, ecc. create dal conflitto. La ricerca in genere piu' citata, pubblicata sulla autorevole (e insospettabile di faziosita') rivista americana "The New England Journal of Medicine", riporta la cifra di circa 151.000 morti "violente" dal marzo 2003 al giugno 2006. Un'indagine uscita sull'altrettanto prestigiosa rivista britannica "The Lancet" calcola, alla fine del mese di giugno 2006, oltre 655.000 morti in eccesso, ossia incluse quelle dovute alle cause indirette della guerra. Per avere un'idea piu' accurata del reale impatto della invasione dell'Iraq e delle conseguenze ad essa attribuibili, compresa la violenza settaria degli ultimi due anni, bisognerebbe considerare anche altre statistiche e soprattutto le narrazioni che profughi e persone coinvolte fanno della loro esperienza personale. Di sicuro sappiamo che: - 2,4 milioni di persone sono sfollate dalle proprie abitazioni e altre 2 milioni rifugiate fuori dall'Iraq. - 4 milioni di iracheni dipendono da aiuti alimentari. - Soltanto uno su tre bambini iracheni ha accesso ad acqua potabile e uno su quattro e' malnutrito. - Dal marzo 2003, 94 operatori umanitari sono stati uccisi, 248 feriti, 24 arrestati e 89 sequestrati. E' indubbio che il mondo intero deve conoscere quanto e' costata in vite umane e in sofferenze indicibili una guerra scellerata le cui motivazioni, come ormai e' risaputo, sono ormai state totalmente sconfessate. Al generale americano Tommy Franks, che ha affermato "we don't do body counts" ("noi non contiamo i morti"), si potrebbe chiedere se si riferisca anche ai morti dell'11 settembre 2001. Contare i morti e' un dovere per una societa' che si definisce civile. Il numero dei morti e' un importante indicatore, per quanto grezzo, utilizzato nella sanita' pubblica per valutare l'impatto sulla salute di un qualsiasi intervento o fenomeno sociale. I governi dell'Unione Europea hanno di recente lanciato il programma "Salute in tutte le politiche", sottolineando come tutte le politiche (economica, ambientale, educativa, oltre che quella sanitaria) hanno un evidenziabile effetto sulla salute dei cittadini e in base a tali effetti vadano giudicate. La decisione politica di fare una guerra, qualsiasi possano esserne le ragioni, deve essere valutata anche in base al suo prevedibile impatto sulla salute umana. L'invasione dell'Iraq venne giustificata in base alla necessita' di fare trionfare la democrazia. Democrazia significa trasparenza e libera diffusione della informazione, compreso il numero di quanti pagano con morte e sofferenze le decisioni altrui. Conoscere il carico di morte, dolore, traumi e malattie provocati da una guerra aiuta a decidere se o quando e' il momento di farla, come prevederne le implicazioni umanitarie e come limitarne gli effetti. Gli operatori sanitari, soprattutto quelli di sanita' pubblica e gli epidemiologi, possono fare molto per prevenire la guerra e limitarne le conseguenze: per esempio, partecipando alla sorveglianza e documentazione degli effetti che le guerre hanno sulla salute; impegnandosi nella educazione e nella coscientizzazione sugli effetti della guerra sulla salute; lavorando direttamente nella prevenzione della guerra. E' indubbio che la guerra sia un problema di salute pubblica. In qualita' di operatori sanitari abbiamo non soltanto il dovere di prenderci cura delle vittime della violenza e dei conflitti armati, ma anche di cercare di prevenirli. E non lasciare questo compito soltanto ai "supremi Organi elettivi". 3. RIFLESSIONE. MARCELO BARROS: BUONA PASQUA, AMICI [Attraverso Antonio Vermigli, della Rete Radie' Resch (per contatti: a.vermigli at rrrquarrata.it) riceviamo e diffondiamo. Marcelo Barros, monaco benedettino, teologo della liberazione, e' priore del Monastero dell'Annunciazione del Signore nella citta' di Goias; impegnato per i diritti umani di tutti gli esseri umani; di lui ha scritto Leonardo Boff: "Marcelo Barros e' un monaco, innamorato della Bibbia e dedito all'ecumenismo tra le Chiese e tra le religioni, del quale sono amico e compagno di ricerca teologica e pastorale da piu' di trent'anni. Sicuramente, assieme a Carlos Mesters e Fei Betto, Marcelo Barros e' uno dei teologi piu' letti e amati dalle comunita' ecclesiali di base. Da bambino voleva essere veterinario di animali selvaggi. Invece e' diventato monaco benedettino e fondatore di un monastero ecumenico, una comunita' di monaci inserita in mezzo ai poveri e dove passano persone delle piu' diverse tradizioni spirituali. Marcelo ha sempre raccontato volentieri fatti vissuti personalmente, brandelli di vita vissuta con intensita' e profondita' di cuore. Scrive nello stesso stile con cui parla. In questo libro ha trovato un ottimo spazio per il suo tipo di comunicazione affettuosa e franca. La sua esperienza di biblista al Cebi (Centro di studi biblici) assieme a Carlos Mesters e poi nella Pastorale della terra e nell'impegno all'interno della comunita' di Candomble', lo hanno aiutato a sviluppare una teologia macro-ecumenica della terra, dell'acqua. Ora, assieme ai suoi compagni e compagne di Asett (Associazione ecumenica dei teologi del Terzo Mondo), diffonde una teologia della liberazione a partire dal nuovo paradigma del pluralismo culturale e religioso". Tra le opere recenti di Marcelo Barros: (con Luiza E. Tomita, Jose' Maria Vigil), I volti del Dio liberatore. Sfide del pluralismo religioso, Emi, Bologna 2004; (con Luiza E. Tomita, Jose' Maria Vigil), I volti del Dio liberatore. Verso una teologia del pluralismo religioso, Emi, Bologna 2005; (con Francesco Comina), Il sapore della liberta', La Meridiana, Molfetta 2005; Un'alleanza per la vita. Pregare i salmi in una spiritualita' macroecumenica, Emi, Bologna 2005; Dom Helder Camara. Profeta per i nostri giorni, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2006; La magia del cammino, Rete Radie' Resch, 2007] "Svegliati, o tu che dormi, alzati dai morti e Cristo Risorto ti illuminera'" (antifona pasquale) Fratelli e sorelle carissimi, Nella prossimita' delle feste pasquali, voglio dare a ognuno/a di voi un segno di comunione speciale e di forte amicizia nel cammino della risurrezione. Le celebrazione pasquali hanno sempre avuto per me la forza straordinaria di un fuoco che mi prende interiormente; un roveto che arde, illumina, ma non distrugge. Devo confessarvi che quando oggi mi ripeto che Cristo e' risorto, questa parola ha per me una risonanza e un senso diversi dai primi tempi in cui celebravo la Pasqua, nel tempo della mia gioventu'; ma anche piu' avanti, quando negli anni '80 ho assunto il coordinamento del monastero di Goia's facendo un adattamento della veglia pasquale affinche' fosse celebrata piu' visibilmente con le religioni del nostro popolo e le culture di tutto il mondo. Oggi, mi sembra che giorno per giorno Dio mi impoverisce di tutte le certezze chiamandomi ad essere un povero pellegrino che ricomincia sempre la ricerca. Come Abramo, devo "partire senza sapere dove andare sperando contro tutta la speranza". Nel 1965, questo versetto della lettera agli Ebrei e' stato il testo che ho scelto come invito per la mia professione monastica. Oggi, dopo piu' di 40 anni, la mia fede e' sempre piu' una adesione interiore e affettiva a Dio, la decisione di seguire Gesu' come maestro e modello di vita. Tutto questo non si fa principalmente per dogmi o per identificazioni istituzionali. Ecco, vi ho aperto un po' il mio cuore, non tanto per parlare di me, quanto piuttosto per invitarvi ad approfondire insieme questo pellegrinaggio ecumenico nel cuore della Pasqua cosmica e universale. La risurrezione di Gesu' significa recuperare la fiducia che il seme della vita nuova, il seme della risurrezione, e' stato piantato in ciascuno di noi. Vivere questa Pasqua dunque e' riaffermare che l'azione liberatrice di Dio nella storia del suo popolo continua. Che la risurrezione di Gesu' Cristo vince la morte e la luce del suo amore invade pacificamente la terra. Cerchiamo allora di vivere questo dono e impegno pasquale nelle nostre relazioni e partecipando a un cammino per cambiare e rendere piu' umano questo mondo. Gesu' risorto e' la primizia della vita nuova che e' in corso e in tutto l'universo. Buona pasqua, amici. Un abbraccio grande quanto il mondo dal vostro fratello Marcelo Barros 4. RIFLESSIONE. ELISABETTA DONINI: DONNE, SCIENZA E MODELLI DI SVILUPPO [Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente intervento dal titolo "Scienza e modelli di sviluppo", estratto dagli atti del Convegno "Donne e scienza. Oseremo disturbare l'universo?", Lecce 2006. Elisabetta Donini, scienziata, punto di riferimento delle Donne in nero di Torino, e' docente di fisica all'Universita' di Torino ed e' da sempre attiva nel movimento femminista e in quello pacifista; si occupa anche in particolare di critica di genere dello sviluppo e di politica delle diversita'. Nata in provincia di Cuneo nel 1942, vive per lo piu' a Torino, con un lungo periodo di lavoro e di esperienza umana e politica nel Meridione; fa parte del Cirsde - Centro Interdipartimentale di Ricerche e Studi delle Donne, e del Centro di Studi per la Pace dell'Universita' di Torino, e del Comitato delle scienziate e degli scienziati contro la guerra; per alcuni anni ha fatto ricerca in teoria delle particelle elementari e poi ha spostato i suoi interessi verso la critica storica delle scienze, la prospettiva ecologica e le culture del femminismo; da anni i suoi interessi di ricerca si sono concentrati anche sul rapporto tra scienza e societa'; man mano che cresceva in lei l'impegno nel movimento delle donne e nell'elaborazione femminista si approfondiva anche il desiderio di interrogare scienza, tecnologia, modelli di sviluppo in relazione al segno di genere che vi hanno impresso secoli di dominanza maschile; il lavoro teorico e l'attivita' di impegno civile sono infatti sempre stati in lei strettamente legati, sia rispetto a questioni come il nucleare negli anni Ottanta sia rispetto alle guerre degli anni Ottanta e Novanta e attuali, con un continuo sforzo di contribuire al consolidamento delle relazioni tra donne di parti in conflitto (dalle esperienze con donne israeliane e palestinesi a quelle con donne dei Balcani); ha pubblicato molti saggi e articoli, e contribuito a numerosi volumi. Tra le opere di Elisabetta Donini: Il caso dei quanti, Clup, 1982; La nube e il limite. Donne, scienza, percorsi nel tempo, Rosenberg & Sellier, Torino 1990; Conversazioni con Evelyn Fox Keller. Una scienziata anomala, Eleuthera, Milano 1991. Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti istituti di ricerca e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche come militante nella difesa dell'ambiente e delle culture native, e' oggi tra i principali punti di riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli, di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia di operazioni e programmi scientifico-industriali dagli esiti pericolosissimi. Tra le opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2002. Le guerre dell'acqua, Feltrinelli, Milano 2003; Le nuove guerre della globalizzazione, Utet, Torino 2005; Il bene comune della Terra, Feltrinelli, Milano 2006] La critica femminista della scienza degli anni '70 e '80 e' ancora attuale? Ed e' ancora in grado di misurarsi efficacemente con i fenomeni di maggiore portata della realta' mondiale contemporanea, segnata da squilibri sempre piu' profondi e da una rilegittimazione sempre piu' diffusa e devastante degli orizzonti della violenza armata e della guerra? I lavori di Evelyn Fox Keller, Carolyn Merchant, Sandra Harding, Londa Schiebinger sono maturati entro il contesto della cultura occidentale, mettendone pero' radicalmente in discussione uno dei pilastri fondanti: il carattere neutro, oggettivo ed universale della conoscenza scientifica cosi' come e' andata costituendosi in epoca moderna, con il suo risvolto di volonta' di dominio tecnico e poi tecnologico sulla natura. In sede storica ed epistemologica, scavare nel nesso tra la parzialita' di genere nel segno del maschile e la pretesa univocita' di quella forma di conoscenza/intervento e' stata l'espressione di una soggettivita' politica piu' ampia, che non soltanto non si riconosceva nei rapporti invalsi tra donne e uomini, ma che a partire dalle istanze di liberazione in quanto donne aspirava a contribuire al cambiamento degli assetti generali del mondo. Nel corso degli ultimi quindici anni l'incisivita' di tale prospettiva si e' a mio parere radicalmente appannata, sia perche' tra le stesse donne che sono entrate sempre piu' numerose nella ricerca scientifica gli interrogativi originari sollevati dalla critica femminista non paiono destare grande interesse sia perche' intanto sono invece diventati piu' incalzanti altri modi di misurarsi con il rapporto tra scienza, potere e modelli di sviluppo, non riducibili a quelli di cui si era nutrito il femminismo nei paesi dell'Occidente. Le vicende della cosiddetta mondializzazione dell'economia hanno infatti fatto esplodere la contraddizione tra la pressione ad assoggettare l'intero pianeta al sistema di mercato e agli stili di vita dei paesi che si autodefiniscono come "sviluppati" e l'insostenibilita' di questo stesso sistema e questi stili su scala globale. Percio' voci dal Sud del mondo come quella di Vandana Shiva pongono questioni in cui la critica della volonta' di dominio intrinseca alla scienza moderna si richiama si' alla parzialita' di genere di quest'ultima, ma in un quadro in cui e' altrettanto cruciale ragionare del carattere colonialistico e imperialistico del progetto socio-economico cui la scienza moderna e' costitutivamente connessa. Se Evelyn Fox Keller o Carolyn Merchant sono state una guida preziosa per molte donne della mia generazione per rileggere la nascita del metodo sperimentale alla luce del linguaggio da caccia alle streghe con cui Francesco Bacone esaltava la penetrazione violenta nel corpo della natura per strapparne i segreti, non credo irrilevante che oggi compaiano studi (1) in cui quel medesimo Bacone spicca piuttosto come coprotagonista del processo fondativo del capitalismo e del colonialismo inglese tra '500 e '600, da un lato arricchendosi con la partecipazione in patria all'espropriazione/appropriazione di beni fino ad allora comuni (la vicenda delle enclosures) e oltreoceano allo sfruttamento delle terre di conquista, e dall'altro lato proclamando una Holy War contro ogni ribelle al nuovo dominio. Ne' credo che, allora come oggi, possano essere condonati come "incidenti di percorso" o spiacevoli quanto incolpevoli "effetti collaterali" i milioni di persone uccise, le distruzioni dell'ambiente, le cancellazioni di culture e modi di vita attraverso cui sono prosperati gli imperi. Percio' mi sembra necessario mantenere aperti gli interrogativi etici circa giustizia, violenza e rapporti di potere quando si ragiona del legame tra scienza, modelli di sviluppo, contesti storici, adesso e negli ultimi secoli. Un caso particolarmente denso di implicazioni in relazione tanto ai processi attraverso cui le idee scientifiche vengono socioculturalmente costruite quanto ai mezzi materiali di cui si alimenta tuttora il sistema economico, produttivo e di consumo dei paesi ricchi, e' quello delle vicende che lungo il corso dell'Ottocento hanno fatto coagulare in fisica il concetto di energia e hanno dato origine alle formulazioni teoriche e alle realizzazioni pratiche da cui ha preso forma il campo di ricerca della termodinamica. Una ricostruzione storica di cui cerchero' di riportare almeno qualche elemento (2) induce a ragionare su come l'energia non fosse una "gemma preziosa nascosta in natura" e che venne "scoperta" (secondo la rappresentazione che pur in modi differenti ne diedero alcuni decenni or sono Thomas S. Kuhn e Yehuda Elkana), bensi' una nozione che venne "inventata", costruita ed elaborata in un contesto che specie in Inghilterra risulto' particolarmente fitto di scambi - anche in senso commerciale - tra ambienti scientifici, industriali, culturali, religiosi, in una fase certo molto potente, ma almeno altrettanto feroce dell'affermazione imperiale (3). I guasti cui sta portando l'impianto "energivoro" invalso nei paesi che si propongono come il giusto e unico modello che tutto il mondo dovrebbe inseguire - in una rincorsa resa peraltro disperata dalla finitezza delle risorse e dalla disparita' delle armi per controllarle - sono sempre piu' drammaticamente evidenti. Meno evidente, anche perche' molto meno osservato, e' quanto a fondo continui ad agire il rapporto di interdipendenza tra sviluppo scientifico-tecnologico e persistenza della capacita' di dominio del Nord sul Sud del mondo, in particolare per quanto si traduce in messa a punto di nuovi sistemi per condurre guerre, ma anche sul piano della "normale" violenza con cui vengono scalzate alla base le possibilita' di sopravvivenza di uomini e soprattutto donne (4) cui vengono sottratte le risorse naturali in nome di cio' che Vandana Shiva denuncia da anni come una politica di biopirateria. Torno a Vandana Shiva per concludere con un accenno a quella che a me pare ancora una prospettiva sensata: saldare la critica con la costruzione di alternative, intrecciando il punto di vista femminista di uscita dal patriarcato con quello dei movimenti che a partire dal Sud del mondo cercano di liberarsi dalle logiche del dominio imperiale. Un elemento irrinunciabile, a mio parere, in questa ottica e' scegliere non di competere con chi finora e' stato piu' forte, ma di deporre (e far deporre) le armi, in senso materiale e metaforico: per quanto riguarda in particolare il modo di fare scienza, perche' allora rincorrere il maschile nella sfida a "disturbare l'universo"? formulazione, quest'ultima, che mi suona molto inquietante, ma che credo vada presa in considerazione assai sul serio in tempi in cui donne e uomini di scienza paiono nella loro maggioranza riconoscersi in un orientamento che stima ragionevole prendere a cannonate le comete per "conoscerle meglio". * Note 1. Peter Linebaugh, Marcus Rediker, I ribelli dell'Atlantico. La storia perduta di un'utopia libertaria, Feltrinelli, Milano 2004 (edizione originale in inglese, Beacon Press 2000). 2. Cfr. Crosbie Smith, The Science of Energy. A Cultural History of Energy Physics in Victorian Britain, The Athlone Press 1998; Crosbie Smith, M. Norton Wise, Energy and Empire. A biographical study of Lord Kelvin, Cambridge University Press 1989. 3. Mike Davis, Olocausti tardovittoriani. El Nino, le carestie e la nascita del Terzo Mondo, Feltrinelli, Milano 2002 (edizione originale in inglese, Verso 2001) documenta come intervenissero anche considerazioni "scientifiche" a legittimare le politiche con cui il governo imperiale operava nelle crisi di siccita' in India, aggravando le condizioni delle popolazioni con "esperimenti" sulle possibilita' di sopravvivenza con razioni caloriche sempre piu' esigue o "test di distanza" sulla capacita' di affrontare spostamenti di almeno 15 km per essere considerati abili al lavoro. In questo come in troppi altri casi l'ideologia scientista presupponeva una indubbia componente razzista, giacche' gli "esperimenti" venivano condotti su donne e uomini considerati inferiori. Non diversamente nell'agosto 1945 sganciare le bombe sulla popolazione giapponese di Hiroshima e Nagasaki - citta' non molto toccate fino a quel momento dai bombardamenti "convenzionali" - venne accreditata come una scelta scientificamente corretta: gli effetti si sarebbero potuti rilevare con maggiore nettezza. 4. Una raccolta abbastanza impressionante di casi contemporanei, non meno brutali di quelli richiamati sopra per l'eta' vittoriana, si puo' trovare in Marina Forti, La Signora di Narmada. Le lotte degli sfoltati ambientali nel Sud del mondo. Feltrinelli, Milano 2004. 5. RIFLESSIONE. FRANCESCO PISTOLATO INTERVISTA HANS-PETER DUERR [Ringraziamo Francesco Pistolato (per contatti: fpistolato at yahoo.it) per averci messo a disposizione la seguente intervista. Francesco Pistolato, studioso, docente, impegnato nel Centro interdipartimentale di ricerca sulla pace "Irene" dell'Universita' di Udine, e' coordinatore scientifico della Biblioteca di studi austriaci presso l'Universita' di Udine; si occupa di diffusione della lingua tedesca, della cultura austriaca e della cultura della pace; e' tra i promotori di un programma di cultura di pace all'interno delle universita' e delle scuole della macroregione Alpe Adria, comprendente il Friuli-Venezia Giulia, la Carinzia e la Slovenia; e' altresi' impegnato nell'Associazione Biblioteca Austriaca di Udine, che ha tra l'altro realizzato una mostra fotografica itinerante sulla Resistenza, gia' esposta in vari luoghi, tra cui la Risiera di S. Sabba di Trieste, e che e a fine 2005 e' stata esposta nella Gedenkstaette des Deutschen Widerstands di Berlino, ed e' visitabile in rete nel sito: www.abaudine.org/virtunascosta/virtu.htm Tra le opere di Francesco Pistolato: (a cura di), Per un'idea di pace, Cleup, Padova 2006; (a cura di), Die verborgene Tugend - La virtu' nascosta. Eroi sconosciuti e dittatura in Austria 1938-1945, Europrint Editore, Quinto di Treviso 2007] Hans-Peter Duerr, fisico delle particelle, e' nato nel 1929 a Stoccarda. Collaboratore per venti anni di Werner Heisenberg, gia' direttore del Max-Planck-Institut, autore di saggi e articoli sul rapporto tra scienza, politica, economia e spiritualita', Premio Nobel per la Pace con il gruppo Pugwash nel 1995 e premio Nobel alternativo 1987, e' membro del Comitato scientifico del Centro interdipartimentale di ricerca sulla pace "Irene" dell'Universita' di Udine. Il 4 marzo 2008 alle 20,30 ha tenuto al Centro Balducci di Zugliano una conferenza dal titolo "Necessita' e urgenza di un nuovo modo di pensare", in occasione della pubblicazione in allegato al "Messaggero Veneto" lo stesso 4 marzo del suo Manifesto di Potsdam 2005, versione aggiornata alle problematiche attuali del Manifesto Einstein-Russell del 1955. * - Francesco Pistolato: Lei e' un fisico, ma asserisce che la materia, che e' oggetto del suo lavoro, non esiste. Puo' spiegarci questo paradosso? - Hans-Peter Duerr: Quando si dice che un qualcosa esiste, pensiamo normalmente a qualcosa che si puo' toccare o che ha una massa. Ma se ci chiediamo ad esempio se esista la musica e prendiamo un Cd che la contiene e lo analizziamo, non riusciamo a trovarla. Quindi cio' che noi diciamo esiste, non esiste in quel senso, ma c'e' qualcosa dietro le quinte di completamente differente. Tutto questo vale per qualunque cosa che noi consideriamo materiale. * - Francesco Pistolato: Quindi lei ci invita a dubitare di quello che rientra nella nostra esperienza quotidiana e che consideriamo normale, in realta' non e' cosi' come ci appare, e' una convenzione, forse frutto di un'abitudine percettiva. - Hans-Peter Duerr: E' sostanzialmente un'approssimazione grossolana: se parlo dell'uomo italiano e dico che ha un certo reddito, quest'uomo e' solo la rappresentazione di una media statistica, e cosi' la materia e' un valore statistico medio di un qualcosa che in se' non e' materia, che sta in mezzo, che si puo' definire una struttura di rapporti, come un campo elettromagnetico, che non e' composto di materia, ne' di massa, ma di energia. E che cosa significa mai "qualcosa in mezzo"?. Per noi c'e' "qualcosa in mezzo" quando abbiamo due cose, A e B, tra cui ce n'e' una terza, ma in questo caso c'e' solo la cosa nel mezzo, e la nostra lingua non e' in grado di esprimere questo fenomeno, o lo e' fino ad un certo punto: se diciamo: percezione, speranza, vita, la lingua non ci assiste, perche' tutte queste cose non esistono, ma se usiamo i verbi: percepire, sperare, vivere, allora ci rendiamo conto che c'e' qualcosa, certo di non tangibile: un verbo non e' tangibile, ma noi comprendiamo quello che un altro dice. Da cio' che c'e' in mezzo, da dietro le quinte, proviene la vitalita', che cambia nel momento stesso in cui provo a descriverla, priva di legami causali, ma che al contempo e' un legame tra tutte le cose. Niente nel mondo e' diviso. Noi al massimo pensiamo che questa non-divisione si limiti agli scambi fisici, ma dietro le quinte non si ci sono scambi fisici, c'e' il legame primigenio e quello che io chiamo il mio io non risiede nel mio corpo, ma e' allargato al tutto, come un campo gravitazionale. In un linguaggio religioso, pur nei limiti delle parole, direi che non c'e' la materia, c'e' solo lo spirito, che io chiamo semplicemente amore, l'amore embrionale, che da' luogo a tutte le forme che vediamo, cosi' come il software di un computer, una pura sequenza di segni, genera immagini che vediamo. * - Francesco Pistolato: Il suo discorso sembra proporre una conciliazione tra religione e scienza. - Hans-Peter Duerr: Scienza e religione non sono diverse in linea di principio, ma ambedue commettono l'errore di prendersi troppo sul serio, cioe' intendono in maniera fondamentalista quello che hanno scoperto. Il fondamentalismo della scienza consiste nell'aver dichiarato che la realta' oggettiva e' la realta' in tutti i sensi, e le religioni commettono l'errore di dire che quello che e' scritto e' la verita'. E' questo fondamentalismo che e' sbagliato. Quello che e' scritto e quello che risulta dalla fisica classica e' solo una sorta di simbolo, un qualcosa che indica come le cose stanno, ma non esattamente. Quello che si puo' dire ad ambedue: tenete presente che cio' di cui parlate e' un simbolo, che rinvia a qualcosa che di per se' non e' afferrabile: la circonferenza che io disegno con una penna non e' ne' blu, ne' verde: che tu sia musulmano o cristiano, la circonferenza non ha colore, il colore ce lo avete messo voi, uno il blu, l'altro il verde. Allora la raccomandazione sia alla scienza che alla religione: siate modeste, ne' l'una ne' l'altra potete parlare di cio' che e', parlate solo di una costruzione mentale che e' legata al linguaggio, il quale puo' esprimere solo l'afferrabile. * - Francesco Pistolato: In conclusione una domanda su un tema da noi scottante, le centrali nucleari, che in Italia si vogliono tornare a costruire, nonostante un referendum popolare con esito contrario. Puo' dirci il suo pensiero di fisico in merito? - Hans-Peter Duerr: Sono contro ogni tecnologia che nel caso dell'evento peggiore immaginabile arrechi un danno insostenibile. Solo persone prive di fantasia possono affermare che il nucleare sia sicuro. Si dice: la vita e' un rischio, ma che cos'e' un rischio: se mi prendo un rischio le cui conseguenze non ricadono su di me, agisco irresponsabilmente: ci si puo' puntare la pistola alla tempia e giocare alla roulette russa, ma puntarla alla tempia del proprio figlio e' irresponsabile. Noi non possiamo far si' che un giorno qualcosa non vada storto. Basta con il nucleare! ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 156 del 23 marzo 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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