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Nonviolenza. Femminile plurale. 164
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 164
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 1 Mar 2008 14:20:30 +0100
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 164 del primo marzo 2008 In questo numero: 1. Angela Azzaro intervista Tamar Pitch 2. Un estratto da "Le streghe siamo noi" di Barbara Ehrenreich 3. Alcuni estratti da "Maglia e uncinetto" di Luisa Muraro 1. RIFLESSIONE. ANGELA AZZARO INTERVISTA TAMAR PITCH [Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo apparso sul qutidiano "Liberazione" del 14 febbraio 2008, col titolo "Noi capro espiatorio". Angela Azzaro, intellettuale femminista, giornalista, scrive sul quotidiano "Liberazione". Tamar Pitch, prestigiosa intellettuale, antropologa e sociologa, insegna sociologia del diritto presso la facolta' di giurisprudenza dell'universita' di Camerino. Fa parte del comitato scientifico del Progetto citta' sicure della Regione Emilia Romagna ed e' giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Roma. Collabora a numerose riviste italiane e straniere. Tra le sue opere: La devianza, La Nuova Italia, Firenze 1975; Sociologia alternativa e nuova sinistra negli Stati Uniti d'America, La Nuova Italia, Firenze 1977; Responsabilita' limitate. Attori, conflitti, giustizia penale, Feltrinelli, Milano 1989; (con Franca Faccioli), Senza patente. Una ricerca sull'intervento penale sulle minorenni a Roma, Franco Angeli, Milano 1989; AA. VV., Donne in carcere, Feltrinelli, Milano 1992; Un diritto per due. La costruzione giuridica di genere, sesso e sessualita', Il Saggiatore, Milano 1998; (con Carmine Ventimiglia), Che genere di sicurezza. Donne e uomini in citta', Franco Angeli, Milano 2001; I diritti fondamentali: differenze culturali, disuguaglianze sociali, differenza sessuale, Giappichelli, Torino 2004; La societa' della prevenzione, Carocci, Roma 2006] "La mia ipotesi e' che da noi - nell'Occidente - da una parte prevalga cio' che chiamo la paura del futuro, piuttosto che la speranza di un futuro migliore, dall'altra che questa paura venga esorcizzata scegliendo 'pericoli' piu' apparentemente gestibili, piu' controllabili. Allo stesso tempo questa scelta non puo' che rivelarsi illusoria e generare un circolo vizioso di frustrazione, diffidenza, rinnovata paura". L'intellettuale femminista Tamar Pitch colloca gli attacchi alla liberta' di scelta delle donne in un quadro complesso, in quella societa' della paura e del controllo di cui analizza modalita', dinamiche, comportamenti. Non prima pero' di avere sottolineato lo stesso sdegno che tutte proviamo per cio' che e' successo a Napoli: "E' un fatto gravissimo". E proprio con lei, che ha pubblicato per Carocci il saggio La societa' della prevenzione, proviamo a seguire il filo rosso che porta dal decreto sulla sicurezza approvato d'urgenza dopo l'uccisione di Giovanna Reggiani alla caccia alle streghe di queste ore con blitz dei poliziotti al Policlinico per un presunto reato di "feticidio". Siamo sempre davanti a corpi che si tenta di espellere, normare, controllare, punire. Un accanimento che porta dai rom alle donne, a tutte quelle soggettivita' che si stanno affacciando alla storia con la capacita' di mettere in discussione vecchi valori, vecchie certezze. Vita, patria, dio e famiglia. E allora ritorna la paura del caos e il bisogno di controllarlo. Si tenta di ritornare a quei valori che si vedono traballare. Costi quel che costi. Alcuni e alcune parlano di biopolitica, di una politica che passa sempre e comunque attraverso i corpi. Un salto di paradigma rispetto al passato e rispetto alla capacita' del potere di intervenire nella vita dei soggetti. * - Angela Azzaro: Dai pacchetti sicurezza alle moratorie sull'aborto. Quale e' il legame, quale il disegno? - Tamar Pitch: Non parlerei tanto di un disegno politico, ma di un quadro complessivo che e' caratterizzato dalla paura. La paura in primo luogo di noi occidentali, anche se - in parte - lo stesso discorso si puo' fare per altri paesi e altri fondamentalismi. Che cosa succede? Succede che quando si ha la sensazione di non riuscire piu' a governare la realta', quando la paura e' troppo forte ce la si prende con chi si ha piu' vicino e viene percepito come piu' debole. In questo caso i migranti e le donne. * - Angela Azzaro: Donne e migranti: corpi da espellere, da colpevolizzare, da stigmatizzare. - Tamar Pitch: I corpi migranti mettono paura, secondo me, non perche' disumani, ma perche' troppo umani: corpi invadenti, contagiosi, minacciosi, perche' visti come totalmente determinati da una cultura e da un passato di cui non si possono liberare. Le donne vengono prese di mira perche' loro e' il potere di generare e perche' storicamente a loro e' stata attribuita la vicinanza con la natura. Dietro la paura delle donne incinte, per esempio, penso ci sia ancora la paura della sessualita', intesa come relazionalita' mente-corpo, di menti e di corpi inscindibili, di persone concrete incorporate. * - Angela Azzaro: Gli altri, quelli che spinti dalla paura diventano aggressivi, minacciosi, come si comportano, come si costituiscono in gruppo? - Tamar Pitch: Credo che possiamo riprendere utilmente una definizione proposta dal sociologo Zygmunt Bauman, quella di "comunita' di complici". Davanti alla paura delle catastrofi ambientali, della recessione, della mancanza di futuro, la societa' reagisce rivendicando valori quali patria, famiglia, dio. Ma la famiglia, come ben sappiamo, si costituisce a danno delle donne. * - Angela Azzaro: Il clima contro la legge 194 e piu' in generale la societa' del controllo che sta prendendo piede e' paragonabile a quello che si viveva prima dei grandi cambiamenti degli anni Settanta? Insomma, possiamo parlare di un semplice ritorno indietro? - Tamar Pitch: C'e' una differenza enorme che non puo' essere ricondotta al piano dei diritti. Le donne oggi sono molto piu' libere ed e' proprio questa liberta' che da' fastidio. Prendiamo quello che sta accadendo rispetto alla 194. Quando fu approvata si aveva un'idea della donna come priva di strumenti, poco informata sui metodi contraccettivi, oppressa. Si pensava che approvata la legge, le donne non avrebbero piu' abortito. Oggi e' diverso. Si trovano davanti a una donna molto piu' libera. Anzi, per loro, troppo libera, onnipotente, padrona della vita e della morte. La reazione? E' appunto quella di creare dei capri espiatori, di prendersela cioe' con chi si pensa di poter mettere facilmente sotto. * - Angela Azzaro: Capri espiatori che spesso diventano mostri. Lo dice in un saggio anche Rosi Braidotti. I mostri spesso sono le donne. Braidotti propone di far diventare la mostruosita' un'arma di ribellione. Intanto come avviene questo processo di trasformazione metaforica? - Tamar Pitch: Le donne vengono considerate come la natura che deve essere domata, il caos che deve essere arginato e disciplinato. Di fronte a sconvolgimenti ambientali che prefigurano la catastrofe finale, ci si rifugia nel tentativo di controllare quella "natura" che e' a portata di mano, le donne. Il corpo delle donne, come se, riportandolo all'ordine tradizionale maschile, si ripristinasse un ordine che metterebbe al riparo. 2. LIBRI. UN ESTRATTO DA "LE STREGHE SIAMO NOI" DI BARBARA EHRENREICH [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo il seguente estratto dal libro di Barbara Ehrenreich, Le streghe siamo noi: Il ruolo della medicina nella repressione della donna, La salamandra, Milano 1977 (1975), ed. or. Witches Midwives and Nurses. Complaints and Disorders, Feminist Press, New York, 1973, traduzione di Luciana Percocich e Andreina Robutti. Barbara Ehrenreich e' sociologa, docente universitaria, giornalista e saggista; insegna all'Universita' di Berkeley; scrive sul "New York Times", "Time", "Harper's Magazine", "The Nation", "The Progressive", "Mother Jones", "Z Magazine"; vive in Florida, e' autrice di tredici libri; e' stata tra le prime firmatarie dell'appello "Not in our name", sottoscritto da migliaia di intellettuali statunitensi contro la guerra in Iraq. Tra le opere tradotte recentemente in italiano di Barbara Ehrenreich: Riti di sangue. All'origine della passione della guerra, Feltrinelli, Milano 1998; Una paga da fame. Come (non) si arriva a fine mese nel paese piu' ricco del mondo, Feltrinelli, Milano 2002, 2004; (a cura di, con Arlie Russell Hochschild), Donne globali. Tate, colf e badanti, Feltrinelli, Milano 2004] Indice del libro: Prefazione; Parte prima - Streghe, levatrici e infermiere. Una storia di guaritrici. Introduzione; Stregoneria e medicina nel Medioevo; La caccia alle streghe; I delitti delle streghe; Le streghe come guaritrici; Il sorgere della professione medica in Europa; La soppressione delle guaritrici; Le conseguenze; Le donne e la nascita della professione medica in America; Entra in scena il medico; Il "Popular health movement"; I medici all'offensiva; La vittoria della "professione"; Le levatrici sono messe fuorilegge; La signora con il lume; Il medico ha bisogno dell'infermiera; Bibliografia. Parte seconda - Malattie e disordini. La politica sessuale della medicina. Introduzione; Note sul ruolo sociale della medicina; Le donne e la medicina alla fine dell'Ottocento e all'inizio del Novecento; Il contesto storico; La donna "malata" delle classi agiate; Il culto della debolezza femminile; I vantaggi dei medici; La spiegazione scientifica della fragilita' femminile; La psicologia delle ovaie; Terapie mediche; Il capovolgimento del ruolo di malattia; La donna "portatrice" di malattia della classe operaia; La guerra biologica di classe; Le donne del popolo: un pericolo speciale; Prostituzione e malattie veneree; L'offensiva delle classi medie: la salute pubblica; L'offensiva delle classi medie: il controllo delle nascite; Le donne che "elevano" le altre donne; Alcune osservazioni sulla situazione attuale; Da qui in avanti: riflessioni finali; Note; Bibliografia. * Introduzione (p. 17 e sgg.) Le donne sono sempre state guaritrici. Sono state i primi medici e anatomisti della storia occidentale. Sapevano fungere da infermiere e consigliere. Le donne sono state le prime farmaciste, che coltivavano le erbe medicinali e si scambiavano i segreti del loro uso. Erano esse le levatrici che andavano di casa in casa, di villaggio in villaggio. Per secoli le donne sono state medici senza laurea, escluse dai libri e dalla scienza ufficiale: apprendevano le loro conoscenze reciprocamente, trasmettendosi le loro esperienze da vicina a vicina, da madre a figlia. La gente del popolo le chiamava "le sagge", le autorita' streghe o ciarlatane. La medicina e' parte della nostra eredita' di donne, della nostra storia, e' nostro patrimonio. Guardiamo invece la realta' di oggi: la medicina e' appannaggio esclusivo di professionisti di sesso maschile. Il 93% dei medici statunitensi sono uomini, come sono uomini quasi tutti i piu' alti dirigenti e amministratori delle istituzioni sanitarie. Le donne rappresentano ancora la stragrande maggioranza - il 70% del personale sanitario - ma sono ridotte al ruolo di lavoratrici dipendenti di un'industria i cui capi sono uomini. Non siamo piu' le praticanti indipendenti, conosciute con il proprio nome e per il nostro lavoro. Siamo, per la maggior parte, semplice manovalanza che svolge lavori anonimi e marginali: impiegate, dietiste, tecniche e inservienti. Se ci viene concesso di partecipare al lavoro medico vero e proprio, lo possiamo fare solo come infermiere. E qualsiasi possa essere il nostro grado, dall'aiuto-infermiera in su, si tratta sempre di un lavoro ancillare - dal latino "ancilla" = serva, subordinata - rispetto a quello dei medici. Dall'aiuto-infermiera, che esegue il suo ruolo passivo da catena di montaggio, fino all'infermiera "diplomata", che trasmette all'inserviente gli ordini del medico, siamo comunque tutte al servizio e alle dipendenze dei professionisti maschi. La nostra subordinazione viene rafforzata dall'ignoranza in cui ci impongono di restare. Alle infermiere si insegna a non fare domande, a non dire mai di no. "E' il medico che sa!". Lui e' lo stregone in contatto con l'universo proibito e misticamente complesso della Scienza, che ci hanno detto essere oltre la nostra portata. Le lavoratrici della sanita' sono alienate dalla base scientifica del loro lavoro, sono confinate nel ruolo "femminile" di assistenti e casalinghe: una maggioranza passiva e silenziosa. Ci hanno detto che la nostra subordinazione e' decisa biologicamente: le donne sono portate per natura ad essere "infermiere" e non "medici". Talvolta cerchiamo persino di consolarci con questa teoria per cui e' l'anatomia che ci ha sconfitte prima che gli uomini: siamo cosi' condizionate dai cicli mestruali e dalla funzione riproduttiva da non essere mai state soggetti liberi e creativi al di fuori delle pareti domestiche. Dobbiamo poi confrontarci con un altro mito, confermato dalla storia tradizionalista della medicina: il professionismo maschile ha vinto grazie alla sua superiorita' tecnica. Secondo questa visione la scienza (maschile) ha sostituito, piu' o meno automaticamente, la superstizione (femminile) liquidata come "favole di donnicciole". Ma la storia smentisce queste teorie. Nel passato le donne sono state medici autosufficienti, spesso i soli medici che i poveri e le donne stesse abbiano mai avuto. Abbiamo scoperto che, nei periodi presi in esame, erano proprio i "professionisti maschi" che si aggrappavano a dottrine non sperimentate e a pratiche rituali, e che erano le guaritrici ad avere una visione ed una pratica della medicina molto piu' umana ed empirica. La nostra posizione attuale nel mondo della medicina non e' "naturale". E' una condizione che ha bisogno di essere spiegata. Come siamo arrivate all'attuale ruolo subordinato da quello primario che avevamo un tempo? Abbiamo scoperto questo: la soppressione delle guaritrici e l'emergere del professionismo maschile non sono stati un processo "naturale", dovuto ai mutamenti e ai progressi della scienza medica, ne' tantomeno il risultato di un fallimento delle donne nel portare avanti il loro lavoro. E' stata invece un'estromissione violenta, messa in atto dagli uomini: le battaglie decisive avvennero molto prima dello sviluppo della moderna tecnologia scientifica. La posta in gioco era alta: il monopolio politico ed economico della medicina, cioe' il controllo sulla sua organizzazione istituzionale, sulla teoria e sulla pratica, sui profitti e sul prestigio da essa derivanti. E la posta in gioco e' ancora piu' rilevante oggi che il controllo della medicina significa potere di decidere chi deve vivere e chi deve morire, chi deve essere fertile e chi sterile, chi "matto" e chi sano. La soppressione delle guaritrici e' stata una lotta politica. Innanzitutto perche' rientra nella storia piu' generale della lotta fra i sessi: la storia delle guaritrici ha avuto la stessa parabola compiuta dalla posizione sociale delle donne. Esse furono attaccate puntando proprio sul loro essere donne e la loro sconfitta fu una sconfitta per tutte le donne. E' stata poi una lotta politica perche' rientra nella lotta di classe. Le guaritrici erano i medici del popolo, la loro scienza era parte della sottocultura popolare. Fino ai giorni nostri la pratica medica quotidiana di queste donne ha prosperato in mezzo ai movimenti di ribellione delle classi piu' povere in lotta per rovesciare il sistema. I professionisti maschi invece hanno sempre servito la classe dominante, sia come medici sia politicamente. Dalla loro parte si schierarono le universita', le fondazioni filantropiche e la legge. La loro vittoria, piu' che ai loro sforzi, e' dovuta all'intervento diretto della classe dominante, cui servivano. Questo e' l'inizio di una ricerca che dobbiamo fare per riappropriarci della nostra storia nella medicina. E' un rapporto frammentario, tratto da fonti appena abbozzate, spesso trascurate. E' scritta da donne che non sono assolutamente storiche "di professione". Ci siamo limitate alla storia occidentale dal momento che le istituzioni con cui ci dobbiamo confrontare oggi sono il prodotto della civilta' occidentale. Non siamo ancora in grado di presentare una storia cronologicamente completa. Abbiamo invece fermato la nostra attenzione su due fasi distinte e importanti della presa del potere maschile nella medicina: la soppressione delle streghe nell'Europa medievale e la nascita della professione medica maschile in America nel XIX secolo. Conoscere la nostra storia e' un modo per riprendere la nostra lotta. 3. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "MAGLIA E UNCINETTO" DI LUISA MURARO [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti (scelti da Corrado Leonardo) dal libro di Luisa Muraro. Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia, Manifestolibri, Roma 2004 (ed. or. 1981). Luisa Muraro, una delle piu' influenti pensatrici, ha insegnato all'Universita' di Verona, fa parte della comunita' filosofica femminile di "Diotima"; dal sito delle sue "Lezioni sul femminismo" riportiamo la seguente scheda biobibliografica: "Luisa Muraro, sesta di undici figli, sei sorelle e cinque fratelli, e' nata nel 1940 a Montecchio Maggiore (Vicenza), in una regione allora povera. Si e' laureata in filosofia all'Universita' Cattolica di Milano e la', su invito di Gustavo Bontadini, ha iniziato una carriera accademica presto interrotta dal Sessantotto. Passata ad insegnare nella scuola dell'obbligo, dal 1976 lavora nel dipartimento di filosofia dell'Universita' di Verona. Ha partecipato al progetto conosciuto come Erba Voglio, di Elvio Fachinelli. Poco dopo coinvolta nel movimento femminista dal gruppo "Demau" di Lia Cigarini e Daniela Pellegrini e' rimasta fedele al femminismo delle origini, che poi sara' chiamato femminismo della differenza, al quale si ispira buona parte della sua produzione successiva: La Signora del gioco (Feltrinelli, Milano 1976), Maglia o uncinetto (1981, ristampato nel 1998 dalla Manifestolibri), Guglielma e Maifreda (La Tartaruga, Milano 1985), L'ordine simbolico della madre (Editori Riuniti, Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D'Auria, Napoli 1995), La folla nel cuore (Pratiche, Milano 2000). Con altre, ha dato vita alla Libreria delle Donne di Milano (1975), che pubblica la rivista trimestrale "Via Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed alla comunita' filosofica Diotima (1984), di cui sono finora usciti sei volumi collettanei (da Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, a Il profumo della maestra, Liguori, Napoli 1999). E' diventata madre nel 1966 e nonna nel 1997"] Indice del libro: Prefazione. La parola del contatto, di Ida Dominijanni; 1. Maglia o uncinetto: Metafora e metonimia non sono sorelle gemelle; Loro concorrenza nella produzione simbolica; Pacificazione teorica; Il grado zero; La passione del significante secondo Lacan; Nell'orfanotrofio della ragione; 2. Un corpo di qua, un corpo di la': L'esigenza di avere un'anima; Una molla rotta; La narratrice infedele; La divisione del lavoro nella produzione simbolica; Si puo' sempre imitare?; La traversata mescolatrice; 3. Difesa dello schema povero: La matrice senza corpo e senza tempo; Letteralita' ossessiva; Dal corpo senza legge all'ordine simbolico, ordinatamente; La domanda senza risposta; Sangue e caffe'; 4. Piacere e sapere di essere parte: Corpo che irrompe e corpo che tesse; La parola non rompe l'unita' dell'esperienza; La complicita'; L'amministrazione delle metafore; L'inversione del punto di vista; Il linguaggio e' zoppo. * Metafora e metonimia non sono sorelle gemelle (p. 51) Riprendendo una rinomata teoria esposta da Roman Jakobson negli anni Cinquanta, diro' che parlare e' come lavorare a maglia. Per fare la maglia occorrono almeno due ferri. Quando si parla, dice Jakobson, si opera su due assi fondamentali: su uno si selezionano le unita' linguistiche, sull'altro le si combina tra loro. Un testo sarebbe dunque una combinazione di segni selezionati, il suo senso essendo determinato dall'incrociarsi dei due assi. Uno, quello delle selezioni, e' costituito da tutti i segni che sono associati al segno che compare e che non compaiono nel testo per il fatto che compare proprio quello. Saussure diceva: e' la sfera dei rapporti in assenza, detta anche paradigma. L'altro sarebbe il sintagma, l'asse dei rapporti in presenza, dei segni che compaiono a costituire il testo combinandosi tra loro in vari modi. Fin qui niente di nuovo rispetto a Saussure. La teoria di Jakobson ha avuto risonanza per due ulteriori sviluppi. Primo, Jakobson ha avanzato l'ipotesi che i due assi corrispondano ai processi primari di ogni produzione simbolica. Secondo, egli ha ravvisato in due figure retoriche, la metafora e la metonimia, i procedimenti che caratterizzano, dal punto di vista semantico, l'asse delle selezioni e quello delle combinazioni. Ha parlato percio' di direttrice metaforica per l'asse delle selezioni e di direttrice metonimica per quello delle combinazioni. La teoria di Jakobson, oltre a suscitare un ritorno di interesse per la retorica, e' stata ripresa anche fuori dalla linguistica. Lacan l'ha riconosciuta coincidente con la sua lettura di Freud, dell'inconscio che e' linguaggio, assicurando cosi' a metafora e metonimia una specie di popolarita'. Ormai formano coppia fissa, non s'incontra mai l'una senza l'altra e io credo che molti non le distinguano piu' tanto bene - complice un meccanismo tipicamente metonimico che sbeffeggia le operazioni teoriche, come risultera' chiaro dal seguito. Una simile confusione e' proprio all'opposto di quello che aveva in mente Jakobson il quale intendeva differenziare massimamente due figure retoriche tradizionalmente poste vicine. Vi ha contribuito, credo, il fatto che la sua teoria e' stata amputata di una parte importante, quella in cui si dice che polo metaforico e polo metonimico si trovano in un rapporto che non e' di pacifica complementarita' ma di rivalita' concorrente. La quale rivalita' agisce nella produzione simbolica potendo manifestarsi nei prodotti con la prevalenza dell'uno o dell'altro polo. In altre parole, il modo della produzione simbolica si determina storicamente per una tensione tra due principi difformi che l'analisi teorica dichiara, quanto a se', indecidibile. La tensione ha diverse possibili soluzioni che lo studioso rileva storicamente. La sua scienza entra nel gioco tra i due opposti principi simbolici, ma non ha il potere di deciderlo. Di questo spessore storico non c'e' quasi traccia negli sviluppi avuti dalla teoria di Jakobson. E questo ha voluto dire che di fatto si e' ristabilito il tradizionale primato della metafora. Infatti lo spazio simbolico si drammatizza storicamente, nel discorso di Jakobson, per la scoperta di una produzione di senso che puo' svilupparsi prevalentemente (e perfino esclusivamente) su quella che lui chiama la direttrice metonimica, risorsa occulta e occultata della produzione significante. Per spiegare meglio questo punto occorre riprendere l'esposizione quel tanto che serve a chiarire che cosa sono metafora e metonimia, molto semplicemente. Dunque, Jakobson chiama direttrice metaforica l'asse delle selezioni, metonimica quella delle combinazioni. La denominazione si giustifica avendo presente che cosa sono e in che cosa differiscono quelle due figure retoriche. Hanno in comune di essere espressioni che significano qualcosa di diverso dal loro senso; proprio prendendo il posto di un'espressione che sarebbe quella normale, abituale. Parlare di "rivoluzione" per dire un cambiamento radicale della societa' era una metafora quando l'espressione veniva usata propriamente per indicare un certo movimento dei corpi, in particolare di quelli celesti. Dire di una donna che "ragiona con l'utero" per dire che ragiona seguendo piu' le proprie emozioni che la logica, e' una metonimia in quanto all'utero si puo' attribuire ed e' stato attribuito il potere di turbare il pensiero razionale. In base ai due esempi e' facile scorgere la differenza tra metafora e metonimia. Tra il moto dei corpi celesti e una radicale sovversione sociale, quelli che inventarono la metafora rivoluzionaria non supponevano che ci fosse un qualche collegamento materiale bensi' una somiglianza internamente percepibile. La metafora rinforza la percezione di una somiglianza, anzi a volte la determina. Per questo e' stata considerata la figura poetica per eccellenza, perche' fa indefinitamente variare l'immagine della realta' inventando collegamenti che una mente prosaica non avrebbe mai immaginato. Senza escludere la poesia, c'e' da dire che il procedimento metaforico ha ben altre funzioni. Esso, in quanto ci fa superare il livello descrittivo dell'esistente e la particolarita' dell'esperienza, sostiene ogni impresa di spiegazione, interpretazione e progettazione. Le teorie, comprese quelle politiche, si appoggiano su di esso per darci una rappresentazione unitaria e generale dei fatti che, nell'esperienza concreta, possono presentarsi scuciti, frammentari, o che intrattengono tra loro rapporti di cui la teoria riesce a dimostrare che sono irrilevanti. * Nell'orfanatrofio della ragione (p. 77) Finisce paradossalmente che proprio il discorso di Lacan costringa a pensare che tra l'ordine simbolico e l'ordine sociale esista una complicita' non chiarita: servitu' materiali che diventano esigenze logiche e, viceversa, condizioni della produzione simbolica che si traducono in imposizioni sociali. Una troppo felice coincidenza, non c'e' dubbio, di cui e' un po' difficile capire se sia integralmente effetto di uno straordinario exploit teorico o se non c'entri anche qualche manipolazione. I seguaci di Lacan vedono l'exploit, i critici cercano il trucco. Secondo me non si tratta esattamente ne' dell'una ne' dell'altra cosa. Quando Lacan teorizza che tutto si trova preso nelle macchinazioni del linguaggio, le istituzioni sociali come i comportamenti individuali o i rapporti sessuali fino alle piu' labili emozioni, nel loro svolgimento considerato normale come in quello deviante, non c'e' quasi bisogno che abbia ragione in cio' che dice poiche' con il suo discorso non fa che rendere vero cio' che comunque si sta verificando. Da Freud a Lacan, senza escludere gli sviluppi intermedi, la psicanalisi si e' tenuta vicina, forse come nessun altro movimento o scuola di pensiero, al processo di disgregazione del corpo sociale in una somma di individui e della sua reintegrazione a forza di parole e immagini. Alcuni pensano che la frammentazione della societa' in atomi individuali dipenda dal modo di produzione capitalistico che comporta una socializzazione basata sullo scambio delle merci e non sul lavoro. Questa tesi si trova sviluppata da Sohn-Rethel in Lavoro manuale e lavoro intellettuale, dove si legge, tra l'altro: "Come il capitalista borghese si serve della potenza sociale del suo capitale, cosi' la mente empirica si serve della potenza del suo intelletto come di una proprieta' personale, ad maiorem gloriam suam. A proposito dell'intelletto separato, Kant afferma chiaramente: 'Nella ragione teoretica non vi e' alcun motivo per dedurre l'esistenza di un altro essere', dove l'altro essere puo' significare Dio, il padre e la madre o tutti i nostri simili. La sintesi sociale unica, il cui mandatario e' la 'ragione teoretica', non lascia spazio alcuno ad una seconda sintesi, esattamente come l'universum non lascia spazio a un pluriversum, come la unicita' dell'esistenza esclude una dualita' o una pluralita'. Ma dal punto di vista dello spirito individuale, la societa' si e' cosi' trasformata in un agglomerato di uomini singoli che non hanno alcuna necessita' reciproca". Dunque fin dal Settecento un filosofo, Kant, aveva chiaro che l'esistenza di un altro essere, padre e madre compresi, e' solo oggetto di fede (di qui, forse, la religione della famiglia?). Nella filosofia moderna, e' noto, il problema dell'intersoggettivita' continuera' a ripresentarsi tormentosamente, insieme a quello - che Kant credeva risolto - della causalita' naturale. In definitiva nel pensiero moderno non c'e' modo di affermare, se non da chi ha una qualche fede, che tra due cose, due corpi, due fatti, esista una relazione materiale. Questo vicolo cieco della razionalita' moderna trova la piu' concisa sanzione in una delle proposizioni iniziali del Tractatus di Wittgenstein, la 1.21: "Una cosa puo' accadere o non accadere e tutto l'altro restare eguale". E allora, se non possiamo dire di essere generati da una donna e da un uomo, se le cose che compriamo e usiamo non ci provano l'esistenza di chi le avrebbe prodotte, se il contatto dei corpi non ha una efficacia riconoscibile, da che cosa possiamo dire di essere fatti quello che siamo? Semplice, lo dice Lacan: dall'ordine simbolico. Il senso comune si rivolta a tale conclusione, ma poi proprio la gente ben provvista di senso comune ne offre ingenuamente le illustrazioni piu' patenti. In effetti la generazione fisica, i rapporti tra i corpi, la causalita' naturale, come se li immagina il senso comune, sono per lo piu' fantasie difensive che vengono ricavate dall'immaginario collettivo. Parole che cercano di colmare il vuoto intervallo tra corpi, cose, fatti, e nelle quali c'e' niente o poco di una materialita' implicata e autonomamente produttiva di sapere. In una societa' la cui materializzazione va distruggendo i contenuti dello scambio sociale, la polemica tra i due principi della produzione simbolica sembra destinata a risolversi con la prevalenza del principio metaforico e la conseguente chiusura del linguaggio in una totalita' fondamentalmente senza storia, cosi' come si presenta in Lacan. E' ben vero che Freud ha inventato un linguaggio e un luogo, la scena analitica, dove e' possibile sapere che chi parla, oltre ad avere un corpo, e' un corpo, generato da una donna e da un uomo, con una vicenda biografica rilevabile e una particolarita' sessuale intrascendibile. La psicanalisi dunque ha messo alcuni individui e alcuni fatti in un rapporto che non sia l'aggregato di uno piu' uno piu' uno, ha dato un corpo e un sesso al discorso del soggetto razionale. Ed e' stata, inutile dirlo, una scossa. Non bastante pero' a cambiare il modo della socializzazione ne' quello della produzione simbolica. Piu' che ad una intrinseca manchevolezza della psicanalisi, bisogna forse pensare ad un complesso di circostanze, per esempio il tardivo riconoscimento del materialismo psicanalitico. Ad ogni buon conto, invece della prevista sovversione dalla psicanalisi e' venuto un ulteriore contributo all'immaginario collettivo circolante nel corpo sociale per la sua reintegrazione simbolica. Lacan ha voluto togliere la psicanalisi dalla funzione subordinata che la faceva fornitrice di illusioni o immaginazioni, per farne la teoria stessa della inevitabile smaterializzazione dei rapporti tra esseri umani e degli esseri umani con la natura. E' chiaro che si tratta di un esito per certi aspetti distante se non opposto a quello che aveva in mente Freud. C'e' pero' da dire che Lacan ci e' arrivato in pochi passaggi. Come dice lui stesso, non ha fatto che tradurre la scoperta freudiana dell'inconscio nei concetti della linguistica strutturale, un'operazione di suo difficilmente criticabile in quanto essa si risolve nella eliminazione, dal discorso di Freud, del presupposto naturalistico di una materialita' operante secondo leggi che sarebbero indipendenti dall'ordine simbolico. Il trucco, se di trucco si vuole parlare, sta nel fatto che, insieme al naturalismo dogmatico, si e' persa di vista anche una produzione materiale che nella nostra societa' ha luogo senza sapere. Il presupposto naturalistico non poteva essere superato con esito diverso? Probabilmente si', ma questo di nuovo dipendeva e dipende da circostanze di cui il pensiero teorico non e' padrone. L'insignificanza dei rapporti materiali, la docile rispondenza dei corpi alla parola interpretante, la mobilitazione fantomatica, queste non sono invenzioni di Lacan. Sono, praticamente, luoghi comuni della vita sociale. * La narratrice infedele (p. 91) A questo punto qualcuno verra' a dirmi che io vado fantasticando, come se potessero essere vergini, di cose corpi e fatti che invece sono da sempre gia' segnati dalla cultura e quindi non opponibili ai suoi schemi. Cosa vuol dire che i corpi potrebbero, dovrebbero tagliare di traverso l'espansione del metaforico? Dove sono i corpi, i piaceri, dov'e' la natura estranea all'ordine simbolico? Riconosco subito che il mio discorso ha parecchie caratteristiche del linguaggio ipermetaforico, anzi di un ipermetaforico acritico, sto trascurando infatti le sue recenti versioni piu' sofisticate. Posso farlo perche', attraverso un linguaggio alquanto convenzionale, sto cercando di indicare. Indico delle cose, e quelli che se le ritrovano nel proprio orizzonte mi capiscono. Vuol dire allora che escludo gli altri e offendo il linguaggio nella sua piu' umana funzione? No, gli altri capiranno, solo un po' meno. Del resto capita sempre cosi', sempre la gente si dice, oltre a quello che dice, quello che ha in comune, sesso, soldi, cibo, cultura, interessi (fanno eccezione, come diro' poi, gli imitatori). Il "significabile" non e' un limbo indeterminato, in esso si trova gia' la realta' circostanziata della nostra esistenza. Ho riproposto la teoria di Jakobson perche' mi sembra che ci faccia fare un passo avanti rispetto al discorso che dice: non esiste una esperienza immediata originaria e quindi non ha senso appellarsi ai corpi, alle cose, alla vita, come istanze originali che si troverebbero oltre la realta' storicamente determinata. Giustissimo finche' si tratta di confutare lo schema di una razionalita' scientifica che si aggiudicava i titoli della verita' superstorica postulando il carattere originario dell'esperienza. Un po' meno giusto quando la critica vuole colpire coloro che ad una realta' non traducibile in parole si richiamano perche' il loro stesso parlare e' per loro una traduzione mutilante. Puo' esserci una forzatura nell'ordine simbolico tale per cui di qualcosa in esso si rende conto imperfettamente e puo' esserci una forzatura nell'ordine sociale tale per cui alcuni si trovano mutilati per cio' di cui l'ordine simbolico non rende conto. La teoria di Jakobson dice che la produzione simbolica (la quale ovviamente significa tutto il significabile) si determina storicamente. Il simbolico dunque impronta di se' la realta' sociale essendone parte in causa. La sua non significabile parzialita' - aggiungo io - resta inespressa ma cio' non toglie che ci sia ed abbia degli effetti. Si imprime su cio' che partecipa al processo simbolico senza potervisi significare. L'alterita', l'estraneita' rispetto all'ordine simbolico e' data da tutto quello che la sua forzatura lascia senza parole appropriate e che nel tentativo di esprimersi urta contro i suoi dispositivi o cade nel vuoto. Che ci sia dell'altro a me pare che si mostri - negativamente - negli appartamenti ritagliati in maniera scomoda, nelle farneticazioni del senso comune, nei trucchi della femminilita' e ogni volta che il simbolico esercita in dettaglio la sua potenza macchinatrice. Perche' li', nei suoi banali trionfi quotidiani, si vede come la produzione simbolica proceda in coincidenza con precise imposizioni di ordine sociale da cui pero' e' difficile sganciarla senza provocare un dissesto di proporzioni non calcolabili. Li' si vede che sono molte le cose, del grande gioco linguistico, che non possono essere messe in gioco. * La matrice senza corpo e senza tempo (p. 115) Vorrei qui rispondere ad una critica che mi e' stata fatta e che per certi aspetti e' contraria a quella che ho gia' considerato sui corpi che non sono mai vergini di parola. Per trovare se e come si dia un parlare segnato dai suoi moventi materiali e, come tale, fonte di intelligenza sul mondo, io uso uno schema - questa la critica - che e' troppo povero: non comprende l'eterogeneita' intrinseca e forse costitutiva del linguaggio, non sa ne' puo' sapere nulla del processo della materia che si fa significante. Secondo Kristeva lo strutturalismo avrebbe evacuato dal semiotico la pulsione. Tornero' poi su Kristeva e questa affermazione, il cui significato peraltro si lascia subito intuire. Allo schema degli assi incrociati manca sicuramente qualcosa, tant'e' che il suo impiego nella ricerca linguistica ha richiesto vari aggiustamenti. Secondo i linguisti della scuola di Chomsky, si e' visto, mancante e' la dimensione delle operazioni teoriche in quanto distinte dalla analisi del testo. Per chi muove l'obiezione che dicevo, cio' che manca allo strutturalismo e' invece la dimensione della generazione materiale del segno e del testo, e quindi della costituzione del soggetto parlante in quanto anche soggetto storico. I limiti dello strutturalismo e in particolare dello schema da me adottato mi sono noti. Ma essi in definitiva mi appaiono piu' interessanti dei superamenti tentati anche con successo. Rispondero' cosi', motivando una preferenza. Con una premessa. Una teoria di cui si e' scoperto questo o quel limite non esige pertanto di essere sostituita ne' il suo eventuale superamento passa per forza attraverso un potenziamento del suo apparato teorico. Il superamento teorico e' un movimento relativo. Tra i fattori che relativizzano le conquiste teoriche io metto anche le procedure di conoscenza di cui uno dispone praticamente. C'e' chi lavora nei laboratori di linguistica, chi fa scuola agli analfabeti, chi cerca le parole per formulare un desiderio ecc. Tutti, si puo' dire, ci poniamo dei problemi linguistici e, benche' sia probabile che questi problemi siano tra loro collegati, non e' per niente sicuro che i concetti piu' rispondenti in una data situazione lo siano anche in un'altra. Io dunque ho una preferenza per lo schema strutturalistico benche' sia visibilmente mutilato. Anzi, proprio perche' lo e'. Anche nella vita comune ho una certa inclinazione per le mutilazioni, le cicatrici, le deformita'. Un corpo impedito o sminuito mi pare che prometta piu' di un corpo perfetto. Pero' deve trattarsi di un difetto sensibile, i corpi felicemente passati attraverso la cosiddetta castrazione simbolica non hanno quel fascino li'. Il passaggio dalla linguistica strutturale a quella generativa di Chomsky e' paragonabile a una castrazione simbolica: ridimensionare una pretesa eccessiva e acquistare in tal modo potenza e produttivita', con un'operazione che ripete, a distanza di quasi quattro secoli, il gesto inaugurale della scienza moderna. * Il linguaggio e' zoppo (p. 189) L'enigma e' del nostro essere corpo ed essere parola, insieme. Noi attenuiamo l'enigma quando diciamo di "avere" un corpo. In passato si e' cercato di pensare che sia veramente cosi', cioe' che: siamo parola (pensiero, mente, anima) e che abbiamo un corpo (con tutto quello che un corpo comporta). A pensarci bene, non sarebbe sbagliato, infatti il corpo ci risulta eterogeneo al pensiero e se uno si mette a pensare se stesso, inevitabilmente si riconosce in cio' che e' trasparente al pensiero, che e' il suo stesso essere pensiero. Ma e' giusto solo in quanto uno ci pensa e si pensa. Non e' piu' giusto allorche' ci si accorge che uno, quando pensa e si pensa, e' anche inestricabilmente pensato da altri e da altro. Cosi' e' stato scoperto, nella nostra cultura, il nostro essere corpo. La scoperta di un paradosso non puo' che assumere la forma di un paradosso. Per di piu' la scoperta e' stata fatta dall'interno di quello che chiamavo regime di ipermetaforicita' - altrimenti non ci sarebbe stata... Di conseguenza la sua formulazione ha preso i termini propri di tale regime. Il nostro "essere parlati" dal corpo vi e' stato concepito come l'esatto inverso del nostro essere parlanti del corpo: noi parliamo il mondo e intanto il mondo ci parla, noi ci rappresentiamo noi stessi e intanto quello che noi siamo, senza sapere di esserlo, si rappresenta nel nostro parlare. Soggetti attivi in quanto pensanti, passivi in quanto "pensati", passivi mentre ci pensiamo attivi, e viceversa. Questa specularita', di un essere corpo che opererebbe sul nostro essere parola quello che il linguaggio opera sul mondo - che e' di farne materia significante per il proprio significarsi - presuppone che il linguaggio sia il principio della separazione tra essere corpo e essere parola. Ma non e' cosi', perche' il linguaggio, oltre a riprodurre in se' l'enigma nella divisione significante/significato, lo riprende ed elabora nella doppia generazione del significato. Il linguaggio conosce nella sua stessa natura il nostro essere insieme corpo e parola, e mentre asseconda ogni tentativo di risolvere l'enigma, lo accoglie, gli da' alloggio e ce lo rende, oltre che riconoscibile, praticabile. Secondo me, abbiamo ancora da scoprire quanta intelligenza possa venire dal nostro essere corpo e quale stretto legame ci sia tra piacere e sapere. Ma l'idea di questa possibilita' ce l'abbiamo, ce la suggerisce il linguaggio con la sua difformita' costitutiva, la sua sghemba andatura, il suo insormontabile squilibrio. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 164 del primo marzo 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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