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Minime. 380
- Subject: Minime. 380
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 29 Feb 2008 00:56:27 +0100
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 380 del 29 febbraio 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Il primo marzo a Locri contro le mafie 2. Il 2 marzo a Bologna 3. Perche' 4. Nuove avventure di Bibi' e Bibo' 5. Cose che capitano 6. Alcuni estratti da "Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Mayo" di Daniela Padoan (parte seconda e conclusiva) 7. Ida Dominijanni: Bolzaneto 8. La "Carta" del Movimento Nonviolento 9. Per saperne di piu' 1. INIZIATIVE. IL PRIMO MARZO A LOCRI CONTRO LE MAFIE [Dal sito del consorzio di coperative sociali Goel (www.consorziosociale.coop) riprendiamo il programma della manifestazione antimafia del primo marzo a Locri] Nella Locride per vincere in Calabria. Un'alleanza contro la 'ndrangheta e le massonerie deviate, per la democrazia e il bene comune. * 29 febbraio Ore 21: Veglia di preghiera ecumenica per la democrazia e la liberta' in Calabria. La veglia si terra' presso la Chiesa di Santa Maria di Portosalvo a Siderno. Siamo convinti che il percorso di liberazione della nostra terra avra' successo se imbevuto di una grande dose di spiritualita'. Essa ci aiuta a vedere oltre l'orizzonte dell'ineluttabile e del pragmatismo, ci aiuta a sognare. Chi di noi e' radicato in un percorso cristiano sa che senza Dio in Calabria non si vince, ma soprattutto non si convince... Pregheremo insieme cattolici, evangelici ed ortodossi, in profonda comunione e corresponsabilita'. * Primo marzo Ore 12: Apertura della manifestazione e segno. Aprira' la manifestazione, in via Marconi alle porte del Comune di Locri, un grande segno simbolico, che parlera' al nostro popolo, a tutti i partecipanti, alla 'ndrangheta e alle massonerie deviate, alla classe politica regionale e nazionale... Ore 12,30: Avvio del corteo che si snodera' lungo le strade di Locri verso la piazza centrale della cittadina. Ore 13,30: Festa e testimonianze: musica, video e interventi sul palco della manifestazione, tre sessioni musicali da mezz'ora ciascuna a cura dei migliori artisti della Calabria. Quattro sessioni di almeno 20 minuti ciascuna durante le quali si proiettera' un video delle migliori esperienze di lavoro e speranza nate dal movimento promotore del Primo Marzo. In questo stesso spazio interverranno dal palco i rappresentanti delle principali realta' facenti parte della "cabina di regia" nazionale e regionale del Primo Marzo. Ad oggi hanno confermato la loro presenza: mons. Cornelio Femia, amministratore apostolico della diocesi di Locri-Gerace in rappresentanza della Conferenza episcopale calabra; padre Alex Zanotelli, missionario comboniano; Andrea Olivero, presidente nazionale delle Acli; Johnny Dotti, presidente di Cgm Welfare Italia; Francesco Rigitano, responsabile Libera Calabria; don Luigi Ciotti, Libera (in collegamento telefonico); Guido Leoni, vicepresidente Ctm Altromercato; Rosario Monteleone, vicepresidente Consiglio Regionale della Liguria; Maurizio Gardini, presidente Confcooperative Emilia Romagna; Mauro Giordani, direttore Legacoop Emilia Romagna; Alessandro Giussani, presidente Federsolidarieta' Lombardia; Diego Schelfi, presidente Federazione Trentina della Cooperazione; Arnoldo Mosca Mondadori, imprenditore culturale; don Virginio Colmegna, presidente Fondazione Casa della Carita'; don Fabio Corazzina, coordinatore nazionale di Pax Christi; Andrea Ferrante, presidente Aiab; Marco Granelli, presidente Csv.net: don Gianni Fazzini, coordinatore Bilanci di Giustizia; Gianni Pettenella, segretario nazionale Rete Radie' Resch; Walter Ganapini, presidente Greenpeace Italia; Laura Nocilla, presidente di Addiopizzo; Gianluca Budano, presidente giovani delle Acli; Luciana Bova, Rete Lilliput; Donata Frigerio, Associazione Botteghe del Mondo; Pasquale Pugliese, Movimento Nonviolento; Vilma Mazzocco, presidente Federsolidarieta'; don Mimmo Battaglia, presidente Fict; Cristiano Nervegna, presidente Movimento Lavoratori Azione Cattolica; Gaetano Paparella, presidente Icea - Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale; Giacinto Palladino, segretario nazionale Fiba - Federazione Italiana Bancari e Assicurativi; Eros Cruccolini, presidente Consiglio Comunale di Firenze; Vincenzo Linarello, presidente del Consorzio Sociale Goel e portavoce di Comunita' Libere; Paolo Ferraro, presidente di Calabria Welfare; Francesco Massara, presidente Acli Calabria; Maurizio Agostino, direttore Aiab Calabria; Flavio Talarico, presidente Federcasse Calabria; Katia Stancato, presidente Confcooperative Calabria; Giorgio Gemelli, presidente Legacoop Calabria; Luciano Squillaci, presidente Csv Calabria; Maria Teresa Morano, coodinatrice associazioni antiracket calabresi; Aldo Pecora, movimento Ammazzateci tutti. Saluti di: sindaco del Comune di Locri; presidente dell'Assemblea dei Sindaci della Locride, e altri rappresentanti regionali e nazionali... Ore 18: "Sigillo" dell'Alleanza per la Locride e la Calabria e conclusione della manifestazione. Ore 20: Concerto per la democrazia e la liberta' in Calabria, presenta Red Ronnie, con i migliori artisti della nostra terra, musica contro la 'ndrangheta e le massonerie deviate. Musicisti che si esibiranno: Iskra Menarini; Sandro Cerino (www.sandrocerino.com, www.icoloridellestagioni.com); Parto delle nuvole pesanti (www.partonuvole.com); Totarella (www.totarella.it); Phaleg (www.phaleg.it); Marasa' (www.marasaband.it); Scarma (www.scarma.com); Mattanza (www.mattanza.org); Taranproject (www.myspace.com/taranproject); Monodia (www.monodia.it); Apostrophe (www.myspace.com/apostrophecatanzaro); Operai della fiat 1100 (www.odf1100.it). * Come arrivare - con il treno: stazione di Locri (in alternativa: stazione di Rosarno, autobus per Marina di Gioiosa Jonica, autobus o treno per Locri); - con l'aereo: aereoporto di Lamezia Terme (in alternativa: aereoporto di Reggio Calabria, autobus o treno fino a Locri); - in automobile: Autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, Uscita Rosarno, SGC Jonio-Tirreno, SS 106 direzione Reggio Calabria. * Riferimenti logistici e organizzativi Accoglienza, vitto e alloggio: Agenzia del consorzio Goel, numero verde: 800913540, e-mail: agenzia at consorziosociale.coop * Comunicazione, ufficio stampa, segreteria Ufficio comunicazione del Consorzio Goel, via Lazio, 42, 89042 Gioiosa Jonica (RC), tel. e fax: 0964419191, cellulare: 3400920981, e-mail: 1marzo at consorziosociale.coop 2. INCONTRI. IL 2 MARZO A BOLOGNA L'assemblea promossa dall'appello di Michele Boato, Maria G. Di Rienzo, Mao Valpiana, "Crisi politica. Cosa possiamo fare come donne e uomini ecologisti e amici della nonviolenza?" per verificare la possibilita' di liste femministe, ecologiste e della nonviolenza alle elezioni di aprile, si svolgera' domenica 2 marzo a Bologna, dalle ore 10 alle 17 circa, nella sala sindacale dei ferrovieri (appena usciti dalla porta principale della Stazione, lato piazzale, a sinistra si vede il parcheggio delle biciclette, dove c'e' un'entrata con una sbarra per andare alla mensa e alla sede dei carabinieri: poco avanti, sulla destra, c'e' la sala con la scritta Cub). Tutti gli interventi avranno un limite di tempo che stabiliremo assieme all'inizio (proposta: non oltre i 10 minuti); da un certo momento in poi (se lo stabiliremo assieme) spazio privilegiato alle proposte, su cui prendere eventuali decisioni. Se ci sono gia' proposte abbastanza precise, attinenti al tema (programmi, metodi di lavoro, eccetera) sarebbe meglio portarle scritte, in una cinquantina di copie, per distribuirle dall'inizio. * Per informazioni, adesioni, contatti: micheleboato at tin.it Per contattare individualmente i promotori: Michele Boato: micheleboato at tin.it, Maria G. Di Rienzo: sheela59 at libero.it, Mao Valpiana: mao at nonviolenti.org Chi volesse inviare contributi scritti anche a questo notiziario, indirizzi a: nbawac at tin.it 3. EDITORIALE. PERCHE' Perche' e' cosi' necessario che persone femministe, ecologiste, amiche della nonviolenza entrino nelle istituzioni democratiche, e massime in parlamento? Perche' le istituzioni democratiche, e massime il parlamento, hanno un potere enorme in merito a scelte decisive per la difesa o la distruzione della biosfera. Perche' le istituzioni democratiche, e massime il parlamento, decidono dell'uso di ingentissime risorse pubbliche: che cosi' come oggi sono sovente in non piccola misura destinate a fini di male, potrebbero essere usate a fini di bene, il bene comune. Perche' le istituzioni democratiche, e massime il parlamento, prendono decisioni (deliberazioni, leggi) dagli effetti vincolanti per tutti, e che queste decisioni siano buone o siano cattive cambia la vita di ogni persona. Perche' non si puo' delegare a governare la cosa pubblica chi si e' reso complice della guerra e delle stragi, del razzismo e di scelte che devastano la biosfera, del regime della corruzione e del patriarcato femminicida, della violazione della Costituzione e del diritto internazionale e dei diritti umani che ineriscono ad ogni essere umano. Per questo vogliamo che nelle istituzioni democratiche, e massime in parlamento, ci siano persone femministe, ecologiste, amiche della nonviolenza. 4. LE ULTIME COSE. NUOVE AVVENTURE DI BIBI' E BIBO' Il padrone del partito che dopo aver scatenato il pogrom contro gli zingari adesso esprime interesse per la castrazione chimica. Mi chiedo se si appresti a candidare il dottor Mengele. * Quelli che dopo aver votato per due anni di fila per la guerra e il riarmo, per le stragi e il razzismo, oggi si appropriano dei colori delle bandiere della pace. Eccellente esercizio di approssimazione alla neolingua del Socing. 5. LE ULTIME COSE. COSE CHE CAPITANO Cose che capitano. Capito' il mese scorso al povero Annibale Scarpone in una riunione del comitato che si oppone al devastante mega-aeroporto di Viterbo in cui sosteneva la decisivita' per il movimento di non eludere il confronto col livello istituzionale e la questione del governo della cosa pubblica, di sentirsi dire che il movimento doveva lasciar perdere le istituzioni, che tanto e' una perdita di tempo, e via filosofeggiando. E chi sosteneva questa brillante tesi? un pubblico amministratore attualmente segretario regionale di un partito (di un partito teste' riverniciato di tutti i colori che nelle riunioni e in piazza dichiarava la sua irriducibile opposizione a un'opera devastante come il devastante mega-aeroporto a Viterbo, e nei palazzi del potere - nella fattispecie il Consiglio regionale - frattanto votava a favore). Cose che capitano. 6. TESTIMONANZE. ALCUNI ESTRATTI DA "LE PAZZE. UN INCONTRO CON LE MADRI DI PLAZA DE MAYO" DI DANIELA PADOAN (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA) [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti (scelti da Angela Razzini) dal libro di Daniela Padoan, Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Mayo, Bompiani, Milano 2005. Daniela Padoan e' una prestigiosa giornalista e saggista femminista. Dalla bella rivista "Via Dogana" riprendiamo la seguente scheda di presentazione: "Daniela Padoan collabora con la televisione e la stampa, in particolare con 'Il manifesto'. Nel pensiero della differenza ha trovato un tassello mancante, degli elementi in piu' per la lettura di avvenimenti attuali e storici come la vicenda delle Madres de la Plaza de Mayo ("la lotta politica forse piu' radicale di questi decenni"), o la Shoah, che Daniela ha indagato in un suo libro, attraverso tre conversazioni con donne sopravvissute ad Auschwitz (Come una rana d'inverno, Bompiani, Milano 2004)". Opere di Daniela Padoan: Miti e leggende del mondo antico, Sansoni scuola, Firenze 1996; Miti e leggende dei popoli del mondo, Sansoni scuola, Firenze 1998; (a cura di), Un'eredita' senza testamento, Quaderni di "Via Dogana", Milano 2001; (a cura di), Il cuore nella scrittura. Poesie e racconti delle Madres de Plaza de Mayo, Quaderni di "Via Dogana", Milano 2003; Come una rana d'inverno, Bompiani, Milano 2004; Le Pazze. Un incontro con le Madri di Plaza de Mayo, Bompiani, Milano 2005] I campi nascosti (pp. 121-123) Nei trecentoquaranta campi individuati dalla Conadep, il cui numero aumenta di anno in anno, passarono circa trentamila persone, piu' del 90% delle quali furono assassinate. "I centri di detenzione", si legge nella relazione finale di Nunca Mas, "costituirono la base materiale indispensabile per la politica di scomparsa delle persone. Di li' passarono migliaia di uomini e di donne, privati illegalmente della liberta' [...]; li' si trovavano quando le autorita' rispondevano negativamente alle richieste d'informazione nei ricorsi di habeas corpus; li' trascorrevano i loro giorni alla merce' di altri uomini dalla mente sconvolta per la pratica della tortura e dello sterminio. [...] Le caratteristiche fisiche di quei centri, la vita quotidiana al loro interno, rivelano che furono pensati, prima ancora che per dar morte alle vittime, per sottoporle a un minuzioso e programmato annientamento degli attributi propri di ogni essere umano. Entrare in quei centri significo' sempre smettere di essere; a tal fine si cerco' di distruggere l'identita' dei prigionieri, si modificarono i loro punti di riferimento spazio-temporali, furono maltrattati i loro corpi e le loro menti oltre ogni limite immaginabile". Pur nel rispetto della scelta delle Madri di non parlare della tortura, di non indugiare in racconti che continuino a riverberarne l'orrore, e' necessario comprendere cosa accadde ai desaparecidos attraverso le parole dei prigionieri che riuscirono a sopravvivere. Tutte le testimonianze sono diverse e, piu' che servire da esempio, sono frammenti di un unico quadro; bisognerebbe ascoltarle tutte, e anche allora non basterebbe a capire, se non altro perche' continuerebbe a mancare il racconto dei "sommersi", di quegli uomini, di quelle donne che, portati fino al limite dell'atroce, morirono sotto le torture o vennero gettati ancora vivi nei fiumi e nell'oceano. Valgano per tutte le considerazioni scritte con implacabile lucidita' da Jacobo Timerman, direttore del giornale "La Opinion", sequestrato perche' ebreo - le torture che subi' miravano infatti a fargli confessare inesistenti piani sionisti per la conquista della Patagonia - e perche' a capo di un quotidiano che, per quanto moderato e inizialmente favorevole all'avvento dei militari, non si piego' al silenzio e al servaggio imposti dalla giunta. "Durante i lunghi mesi di prigionia ho spesso pensato a come riferire il dolore provocato dalla tortura. E ho sempre concluso che non e' possibile riuscirci. E' un dolore privo di punti di riferimento, di simboli rivelatori, di segnali d'indicazione. L'uomo viene spostato cosi' rapidamente da un mondo all'altro che non ha modo di attingere a una riserva d'energia per far fronte a tanta scatenata violenza. E' questa la prima fase della tortura: cogliere l'uomo di sorpresa, senza consentirgli nessuna istintiva difesa, neppure psicologica. All'uomo le mani vengono chiuse dai ferri, dietro la schiena; gli vengono bendati gli occhi. Nessuno dice una sola parola. L'uomo viene sommerso da una gragnuola di colpi. Viene buttato a terra e qualcuno conta fino a dieci, ma non viene ucciso. L'uomo viene condotto a quella che potrebbe essere una branda di telaccia, o un tavolo; viene denudato, irrorato d'acqua, legato alle estremita' della branda o del tavolo, braccia e gambe allargate. E comincia l'applicazione delle scariche elettriche. Il quantitativo di elettricita' trasmesso dagli elettrodi - o come si chiamano - e' regolato affinche' faccia male soltanto, o bruci, oppure distrugga. E' impossibile gridare, si ulula. Quando comincia il lungo ululato dell'uomo, qualcuno con morbide mani gli controlla il cuore, qualcuno ficca una mano nella sua bocca per estrarne la lingua e impedire che l'uomo soffochi. Qualcuno introduce un pezzo di gomma nella bocca dell'uomo per impedire che si morda la lingua o che si distrugga le labbra. Una pausa breve. E poi tutto comincia daccapo. Questa volta accompagnato da insulti. Una pausa. E poi le domande. Una pausa. E poi parole di speranza. Una pausa. E poi insulti. Una pausa. E poi le domande". La scomparsa, il meccanismo della scomparsa, aveva un suo ben congegnato rituale, sempre pressoche' identico. Cambiavano gli uomini, cambiavano i luoghi, ma non la sequenza sequestro-prigionia-tortura. Generalmente strappati dalle loro case nel cuore della notte, i prigionieri venivano buttati sul pavimento di un'automobile, bendati e condotti in luoghi non molto distanti che, quando non erano caserme attrezzate, prevedevano comunque una sala di tortura costituita da una cucina riattata o da un'ampia cella dove potesse essere fatto arrivare un cavo elettrico. Le prime brutali percosse, l'immediata sessione di tortura, erano di rigore per "ammorbidire" i prigionieri, fiaccarne la resistenza e impedire ogni tentativo e persino ogni fantasia di fuga. Tutto doveva dire che c'era stata una cesura irrecuperabile con il mondo di fuori, e che nel "dentro" vigevano altre regole, regole assolute, in cui le vittime erano in totale balia dei carnefici. Privato del suo nome e dotato di un numero di identificazione, il detenuto passava a essere un ulteriore corpo che l'apparato del campo era preposto a controllare. Le sue condizioni di prigionia, prima e dopo le sessioni di tortura, erano simili per tutti i prigionieri, in tutti i campi. Razioni di cibo appena sufficienti a mantenersi in vita, manette, cappuccio sulla testa, obbligo a restare immobili per ore, divieto di scambiare una sola parola con gli altri prigionieri, pena ulteriori violenze. * Il coraggio per gli altri (pp. 196-199) Ci volle molto coraggio per continuare a far sentire la propria voce, in quegli anni. Beba Certo, fu necessario avere un grande coraggio, ma il coraggio ce lo diedero i nostri figli. Nel paese molti furono paralizzati dalla paura, altri non mossero un dito perche' erano fascisti, e altri ancora furono semplicemente indifferenti. Fino a quando tocco' a loro; quando tocco' a loro, allora smisero di essere indifferenti. Il vostro coraggio, pero', riusci' a dare coraggio anche ad altri. Hebe Demmo coraggio anche agli altri, e' vero: il coraggio di uscire nello spazio pubblico. Ma devo dirti che il nostro non era coraggio... credo di no; piuttosto penso che fosse decisione, chiarezza su quello che volevamo. Il coraggio e' un'altra cosa. Per noi e' essenziale agire, non solo pensare; siamo convinte di quello che facciamo e di quello che vogliamo, ed e' questo a darci la forza. Non e' stato facile, questo e' sicuro. Il mondiale, che per tanta gente era stato una festa, per noi aveva rappresentato il terrore. Ci misero in galera piu' spesso, ci aizzarono contro i cani, e noi, per difenderci, imparammo a usare un giornale arrotolato. Cercavano di disperderci con i gas lacrimogeni, e noi imparammo a portare con noi una bottiglietta d'acqua e del bicarbonato. Ci sono tante cose che bisogna imparare, quando si lotta. E' stata la piazza a insegnarcele. Ogni giovedi' arrestavano qualcuna di noi, e cosi' decidemmo che avrebbero dovuto arrestarci tutte. Salivamo a forza sulle auto della polizia, oppure seguivamo i cellulari dove avevano caricato le nostre compagne e ci presentavamo al commissariato. Entravamo e ognuna di noi diceva, signor commissario, voglio essere arrestata anch'io. Ci mostravamo ingenue, non facevamo azioni di protesta palesi, ma gli creavamo un tale scompiglio che quelli non sapevano piu' che pesci pigliare e alla fine ci rilasciavano. Ma non tutte insieme; una alla volta, e magari nel cuore della notte, o all'alba. C'erano madri talmente coraggiose da piazzarsi fuori dal commissariato e non andarsene fino a quando non avevano rilasciato l'ultima. A quei tempi non avevamo un avvocato, e di certo non avevamo il sostegno dei politici. Eravamo completamente sole. Pero' una cosa sapevamo: che non volevamo farci intimidire. Loro ci arrestavano, e noi il giovedi' successivo eravamo di nuovo in piazza. Ci arrestavano, e tornavamo, e loro dicevano, eccole li', le pazze. Credevano di insultarci, ma per noi non era un insulto. Qualcuno ci chiama cosi' ancora adesso, "le vecchie pazze di Plaza de Mayo". Perche' no? Lo dico sempre, ci vuole un po' di pazzia per affrontare quello che abbiamo affrontato. Noi avevamo la nostra pazzia, e i militari il loro ordine, che cercavano disperatamente di mantenere. A disarmarli, era proprio il nostro modo di scardinare quello che per loro era normale. Ci portavano dentro e procedevano con i loro interrogatori, come gli avevano insegnato. Che idea ha di suo figlio? mi domando' una volta un poliziotto. Molto buona, risposi io. E quello scriveva tutto. Scrisse, molto buona, e poi mi fece firmare. C'e' da ridere, no? Queste cose, facevamo. Avevamo molti anni meno, avevamo quarantacinque, cinquant'anni. Beba In quel periodo ci fermavamo in piazza solo per qualche minuto, il tempo di affermare che non l'avremmo persa. Entravamo in tre o quattro, facevamo un rapido giro e poi ci ritiravamo di corsa, ma per noi era una necessita' assoluta, costasse quel che costasse. Dovevamo trovarci ogni giovedi', per sapere se c'erano delle novita', per parlare tra noi, ma soprattutto per mantener fede all'impegno che avevamo preso con i nostri figli: essere li', in Plaza de Mayo, a dire al mondo e alla societa' argentina, cosi' indaffarata a ignorare quello che succedeva, che non era tutto cosi' normale, come volevano farci credere; che c'era sempre piu' gente torturata, che c'erano sempre piu' desaparecidos. Ci rincorrevano, ci caricavano, ci portavano via sui cellulari, ma quando ci ritrovavamo tutte insieme con le nostre madri arrestate, sapevamo di farli impazzire. Ci sedevamo sul pavimento del commissariato e cominciavamo a pregare ma, anziche' recitare il rosario, dicevamo, oh, Dio mio, fa' che questi assassini ci ridiano i figli. La forma della preghiera li spiazzava, perche' non potevano impedire a una madre di pregare. Era una cosa che li mandava in bestia. Piu' ci colpivano, piu' ci perseguitavano, e piu' noi inventavamo maniere creative per affrontarli. Ma sempre unite. E' stato questo a darci la forza: agire collettivamente, mai in modo individuale. Ci siamo rese conto fin dall'inizio che da sole non avremmo mai raggiunto nessun risultato. Loro cercavano di rompere il collettivo, di dividerci, e noi cercavamo il modo di unirci ancora di piu'. Cota Ricordo che una volta presero Porota, una delle nostre madri che adesso e' la vicepresidente dell'associazione; voleva a tutti i costi tirare giu' da una camionetta una ragazza che era appena stata arrestata della polizia. Si mise di mezzo e fece un tale chiasso che alla fine portarono via anche lei. Allora tutte noi Madri, accompagnate dalla gente che ci stava accanto, ci precipitammo al commissariato e restammo piantate li' finche' non la liberarono. Sapessi quante storie ci sarebbero da raccontare... Hebe Il gruppo di Madri di La Plata, oltre che marciare il giovedi' a Buenos Aires, marciava ogni mercoledi' in piazza San Martin, la piazza principale della nostra citta'. Per l'anniversario della morte di San Martin, che in quegli anni veniva festeggiato con grande solennita', la piazza era piena di militari; a noi Madri, che volevamo dire alla gente di non pensare solo alle corone di fiori per il santo, ma anche ai nostri figli scomparsi, venne impedito di partecipare. Siccome volevamo passare e i militari ci si paravano davanti a gambe larghe sbarrandoci la strada, gli sgusciammo tra le gambe. Non ti puoi immaginare le loro facce! Non sapevano che cosa fare! Spuntavamo una dopo l'altra dall'altro lato del loro schieramento, e quelli non avevano il coraggio di colpirci. Non potevano credere che stessimo facendo una cosa del genere. E poi avevano in mano gli addobbi floreali per San Martin; mica li potevano buttare in terra. Fu una cosa incredibile! * Il convitato di pietra (pp. 270-272) Tanto gli anni della dittatura quanto quelli della democrazia sono segnati dalla scomparsa, che non e' morte e non e' vita. Quando i militari avevano deciso di tenere segreta la lista dei prigionieri torturati e uccisi, si erano basati su un ragionamento apparentemente ineccepibile: se non si trovano i cadaveri, non si puo' provare il delitto; se non si puo' provare il delitto, non si puo' trovare l'assassino. La scomparsa era garanzia di impunita'. Rendendo immateriale la morte, lasciando aperta la speranza dei familiari che la persona sequestrata potesse essere ancora viva - in una tortura indefinita, che trascina nel tempo il dolore e l'incertezza - la sparizione eludeva il confronto con la societa'. Quella nuova specie di crimine, tuttavia, non si rivelo' ingegnosa come i suoi artefici avevano previsto, perche' i desaparecidos - non vivi, non morti - continuavano a bussare alla porta. La presenza degli scomparsi - straordinario ossimoro - si era fatta difficile da sostenere gia' nel 1979, quando i militari avevano deciso di liberarsene con la legge detta de presuncion de fallecimiento, basata sul concetto di "morte presunta per assenza" a novanta giorni dalla dichiarazione di scomparsa. "Questa legge" dichiaro' il Tribunale permanente dei popoli nella sua sentenza, "tende a fare delle famiglie i complici involontari di una legalizzazione della scomparsa dei prigionieri. Se essi sono ancora in vita, si puo' immaginare che non resterebbe allora che la loro liquidazione". E aggiunge che quando la pratica delle sparizioni diventa pratica amministrativa, completata da leggi che, come quella del 1979, assimilano gli scomparsi ai defunti, "essa attribuisce all'autorita' pubblica un diritto di vita o di morte, e una discrezionalita' sulla persona del disperso. E' allora possibile seguire l'istituto dei Diritti dell'uomo del Barreau di Parigi che [...] dispone che la sparizione forzata o involontaria costituisca un crimine del diritto delle genti (art. 2), vale a dire un crimine di diritto internazionale, secondo la terminologia del primo articolo della Convenzione del 9 dicembre 1948 sul genocidio". La mossa attuata dal potere militare per liberarsi dei desaparecidos, per farli morire simbolicamente, nell'immaginario collettivo - il terreno sul quale ormai giocavano la loro partita - non ebbe tuttavia l'effetto sperato, e i successivi governi costituzionali si trovarono a propria volta incalzati da un ingombrante esercito di fantasmi che aleggiava su qualsiasi pretesa di normalizzazione. I morti-non morti, come il convitato di pietra, tornavano a presentarsi, e il primo governo eletto decise che fosse venuto, "per il bene della convivenza civile", il momento in cui la societa' se ne dovesse liberare definitivamente. Affinche' i desaparecidos potessero morire davvero, le madri che li avevano messi al mondo e che erano divenute il simbolo del misfatto impunito, dovevano riconoscerne il corpo, seppellirli, elaborare il lutto. Il governo Alfonsin offri' una pensione ai parenti che avessero riconosciuto la scomparsa dei figli, dei genitori o dei fratelli; poi, negli anni Novanta, il governo Menem sarebbe arrivato a proporre un indennizzo di 250.000 dollari, una cifra che poteva contribuire a raddrizzare le sorti economiche di un'intera famiglia. Comincio' cosi' un macabro braccio di ferro, al quale le Madri di Plaza de Mayo risposero, ancora una volta, con un rovesciamento: rendendo il passato un eterno presente, in cui l'amore per gli assenti e il risentimento per i colpevoli potesse perpetuarsi nella fissita' di una ripetizione scelta e sentita come intimamente morale. Qualcosa di affine all'eterno ri-sentire di cui parla Jean Amery in Intellettuale ad Auschwitz che, proprio esigendo che l'irreversibile venga rovesciato, si fa posizione etica. "La societa' si preoccupa della propria sicurezza, non di una vita lesa: guarda in avanti, nel migliore dei casi per evitare che qualcosa di simile si ripeta. I miei risentimenti esistono affinche' il delitto divenga realta' morale per il criminale, affinche' egli sia posto davanti alla verita' del suo misfatto". A differenza dell'individuo che si dissolve nel consenso, sostiene Amery, l'uomo che interpreta se stesso come moralmente unico, mette nel risentimento la necessita' di non accettare che l'accaduto sia stato cio' che e' stato, di non accettare che il tempo, come dice il buon senso comune, guarisca le ferite. "Nei due decenni dedicati alla riflessione su cio' che mi accadde, credo di aver compreso che la remissione e l'oblio provocati da una pressione sociale sono immorali [...]. Il senso naturale del tempo ha effettivamente le sue radici nel processo fisiologico del rimarginarsi delle ferite ed e' entrato a far parte della rappresentazione sociale della realta'. Proprio per questo motivo, esso ha un carattere non solo extramorale, ma anti-morale. E' diritto e privilegio dell'essere umano non dichiararsi d'accordo con ogni avvenimento naturale, e quindi nemmeno col rimarginarsi biologico provocato dal tempo. Quel che e' stato e' stato: questa espressione e' tanto vera quanto contraria alla morale e allo spirito. La resistenza morale ha in se' la protesta, la rivolta contro la realta', che e' ragionevole solo fintanto che e' morale. L'uomo morale esige la sospensione del tempo; nel nostro caso, inchiodando il misfattore al suo misfatto". * "Nessuno dara' un prezzo alla vita dei nostri figli" (pp. 272-274) Beba Alfonsin comincio' a mandarci dei telegrammi in cui diceva che gli dispiaceva tanto, ma i nostri figli erano morti e si trovavano seppelliti nel tale o nel tal altro cimitero. Ad alcune di noi cominciarono ad arrivare delle casse con dei resti umani, accompagnate da una lettera in cui era scritto che si trattava dei nostri figli. Fu un dolore inimmaginabile. Ci riunimmo e ci sedemmo a piangere, ma alla fine prendemmo la decisione di rifiutare quella che loro chiamavano "riesumazione di cadavere". Ci avevano portato via i figli vivi, e volevano restituirci dei cadaveri. Non glielo avremmo permesso; non senza che qualcuno pagasse per quello che avevano fatto. Se avessimo accettato l'esumazione di quei morti, che loro dicevano "uccisi in combattimento", nessuno sarebbe piu' stato responsabile del loro sequestro, delle torture, dell'assassinio. Non ci sarebbero stati piu' desaparecidos, ma salme; il reato di scomparsa sarebbe caduto in prescrizione, non ci sarebbe piu' stato bisogno di cercare i colpevoli. Ancora oggi, restiamo l'unica organizzazione che continua a rifiutare una simile vergogna: la consegna di un morto, senza che ti venga detto come e' morto, per mano di chi. Non e' facile per una madre prendere una decisione come questa. Vi furono molte giornate di riunioni e di discussione per decidere che bisognava rifiutare le esumazioni. Era quello il punto finale, piu' ancora della legge che avrebbero istituito poco dopo: volevano che tutte noi accettassimo la morte, senza spiegazioni. Hebe Il primo presidente costituzionale non fece altro che riprendere la Ley de presuncion de fallecimiento e offrire una piccola pensione, un indennizzo economico ai parenti dei desaparecidos che ne avessero certificato la morte. Quando noi Madri rifiutammo l'esumazione di cadavere e la riparazione economica, si apri' un grande dibattito nella societa', perche' tutti si interrogavano se dovessimo accettare o meno. Siccome noi rifiutavamo, cominciarono a rivolgersi alle singole madri dicendo, suo figlio sta li', in quel cimitero, in quella fossa comune. Un giorno mi trovavo con un gruppo di madri di Mar del Plata, e proprio quel mattino una di loro ricevette una cassa con dei resti umani, le dissero che era quello che rimaneva di sua figlia. A un'altra madre di La Plata mandarono due mani in una scatola, dicendo che erano state identificate con il Dna. Era una cosa impossibile da pensare, tanto era macabra e perversa. Facemmo una dichiarazione pubblica in cui dicemmo a chiare lettere che la prossima cassa che fosse arrivata a una di noi, l'avremmo portata direttamente ad Alfonsin, alla Casa rosada. E si fermo' tutto; di colpo non arrivarono piu' casse. Certo, alcune madri, quando ricevevano una lettera che diceva che la figlia o il figlio si trovavano nel tal cimitero, o nella tale fossa comune, e che potevano essere riesumati perche' si desse loro sepoltura, passavano le notti intere a pensare su cosa fosse giusto fare. Noi, come Madri, non volevamo le tombe, ma ci era chiaro che se qualche madre singola, a titolo personale, avesse voluto far tumulare la figlia o il figlio, sarebbe stata del tutto libera di farlo. Deve essere difficile rinunciare a un luogo dove andare a trovare una persona cara. Si discusse molto con gli psicologi sul tema del lutto, visto che loro sono piuttosto ferrati su questo argomento; credono che debba esserci l'elaborazione, e tutto il resto; per loro deve essere cosi', e non in un'altra maniera, ma noi gli abbiamo mostrato che l'altra maniera esiste, perche' non abbiamo elaborato nessun lutto, e non siamo malate, ne' depresse, ne' vinte; tutto il contrario. Hanno dovuto riconsiderare le loro teorie per poter parlare con noi. Perche' noi abbiamo convertito il dolore in lotta. Non vogliamo cimiteri, non vogliamo quello che il sistema capitalista, occidentale e cristiano, ci da': la tomba, i fiori, i ceri, il marmo. Abbiamo visto che molto denaro viene sprecato in questo modo, e potrebbe essere usato meglio, per dare da mangiare ai bambini che vivono in strada. L'universita' di La Plata ha messo all'ingresso un pezzo di marmo con i nomi dei desaparecidos, con un lumino, ed e' piu' abbandonato del cimitero. I ragazzi che vanno li' a studiare non sanno niente dei nostri figli, nessuno gliene parla, mentre noi madri vogliamo che sappiano chi sono stati, perche' sono diventati desaparecidos. I giovani passano di li' e non sanno cosa e' successo. Cos'e' questa lapide? Cos'e' quel nome? Non sanno niente. Per noi, gli unici morti sono i militari assassini, morti in vita perche' il popolo li ripudia; i nostri figli invece sono vivi in ogni occupazione di terra, in ogni blocco stradale, in ogni mobilitazione, in ogni richiesta di giustizia, in ogni giovedi' in piazza. 7. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: BOLZANETO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 febbraio 2008, col titolo "Chi si vergogna di Bolzaneto?". Abbiamo omesso la riproduzione delle espressioni truci e turpi pronunciate dai torturatori. Ida Dominijanni, giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia sociale all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale femminista. Tra le opere di Ida Dominijanni: (a cura di), Motivi di liberta', Angeli, Milano 2001; (a cura di, con Simona Bonsignori, Stefania Giorgi), Si puo', Manifestolibri, Roma 2005] In piedi per ore, nudi e con le mani alzate, o a fare il cigno o a piroettare come ballerine o ad abbaiare come cani per essere meglio derisi e insultati dalla polizia, dai carabinieri, dai medici. Intimidazioni politiche e intimidazioni sessuali, schiaffi, colpi alla nuca. Un salame usato come manganello, o agitato per meglio rendere le minacce di sodomizzazione. Gentili epiteti come (...) alle ragazze, (...) a un disabile, costretto per sovrappiu' a farsela addosso dal sadico rifiuto di accompagnarlo in bagno. Una mano divaricata e spezzata. Nuche prese a schiaffi e a colpi secchi. Piercing strappati, anche dalle parti intime. Promesse di morte, al grido di (...). Nella caserma di Bolzaneto, in quel di Genova 2001, dopo l'assassinio di Carlo Giuliani e l'assalto alla scuola Diaz, questi furono i fatti, secondo la ricostruzione dei pm al processo che si sta svolgendo in questi giorni. Lo sapevamo dalle testimonianze, adesso lo sappiamo, come si dice in gergo, dalla raccolta degli elementi probatori sottoposti a riscontri. Fu dunque tortura a tutti gli effetti, con tutto il carico di sadismo, sessismo, pornografia di cui la tortura e' fatta. Conviene non volgere lo sguardo e leggere attentamente questa macabra descrizione: non solo a Abu Ghraib, non solo a Guantanamo, non solo nelle carceri dove "spariscono" le vittime delle "rendition" americane, la tortura e' tornata ad essere uno strumento ordinario dello stato d'eccezione permanente in cui viviamo. "Standard Operation Procedure", normale procedura, come dice il titolo del documentario su Abu Ghraib di Errol Morris meritoriamente premiato alla Berlinale, come meritoriamente Hollywood ha premiato ieri "Taxi to the Dark Side", il documentario di Alex Gibey su sevizie e morte di un tassista afgano nella base americana di Bagram, caso d'avvio dell'uso della tortura da parte dell'amministrazione Bush dopo l'11 settembre. E certo, rivisto adesso - e non da adesso - il film di Genova appare una sinistra anticipazione su scala locale di quello che pochi mesi dopo, con l'11 settembre e la guerra al terrorismo, si sarebbe scatenato su scala globale. Una prova generale, come del resto a molti fu chiaro fin da subito. Conviene non volgere lo sguardo e non rimuovere il fatto che a Bolzaneto quei gesti sono stati eseguiti, quelle parole sono state dette, quei piercing sono stati strappati, quei corpi sono stati denudati e derisi e colpiti, da quelle forze dell'ordine che dovrebbero presidiare lo stato di diritto. E' accaduto, e niente ci garantisce che non possa riaccadere. E fin qui, il discorso pubblico si e' ben guardato dal seminare qualche parola immunitaria. Genova e' sepolta nella memoria, riemerge solo nelle requisitorie dei pm e nelle sentenze dei giudici. Storia giudiziaria, questione di ordine pubblico: non entrera' nei comizi elettorali, come non e' mai entrata nell'agenda politica; non e' tema "eticamente sensibile", non c'entra con la Vita ne' con la Morte, non e' fatta di maiuscole, non sta a cuore al Vaticano, non agita i teo-con, non si intona col pensiero positivo del Pd. Alla prima del suo film a Berlino, Errol Morris ha detto che l'ha girato per dire quanto si vergogna del suo paese. Qualcuno in sala ha commentato che e' troppo poco, che la vergogna e' messa in conto nel gioco delle opinioni della democrazia americana e non impedira' alle "standard operating procedure" di ripetersi. Puo' essere, ma chi si vergogna in Italia di Bolzaneto? Abu Ghraib, sostiene Errol Morris, forse non fu opera di qualche "mela marcia", come l'amministrazione Bush ha sostenuto assolvendosi; forse fu il picco di una prassi di abusi sistematica, e certo fu il sintomo del degrado della tavola dei valori della democrazia americana. Di che cosa fu sintomo Bolzaneto quanto alla democrazia italiana, di che cosa picco, chi autorizzo' le "mele marce" di quella caserma, chi ci garantisce che altre mele non marciscano? Un processo istruisce queste domande, ma sta alla politica, e a noi tutti, rispondere. 8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 9. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 380 del 29 febbraio 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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