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Minime. 379
- Subject: Minime. 379
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 28 Feb 2008 00:34:46 +0100
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 379 del 28 febbraio 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Il 2 marzo a Bologna 2. Alcuni estratti da "Discesa all'Ade" di Guenther Anders 3. Alcuni estratti da "Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Mayo" di Daniela Padoan (parte prima) 4. La "Carta" del Movimento Nonviolento 5. Per saperne di piu' 1. INCONTRI. IL 2 MARZO A BOLOGNA L'assemblea promossa dall'appello di Michele Boato, Maria G. Di Rienzo, Mao Valpiana, "Crisi politica. Cosa possiamo fare come donne e uomini ecologisti e amici della nonviolenza?" per verificare la possibilita' di liste femministe, ecologiste e della nonviolenza alle elezioni di aprile, si svolgera' domenica 2 marzo a Bologna, dalle ore 10 alle 17 circa, nella sala sindacale dei ferrovieri (appena usciti dalla porta principale della Stazione, lato piazzale, a sinistra si vede il parcheggio delle biciclette, dove c'e' un'entrata con una sbarra per andare alla mensa e alla sede dei carabinieri: poco avanti, sulla destra, c'e' la sala con la scritta Cub). Tutti gli interventi avranno un limite di tempo che stabiliremo assieme all'inizio (proposta: non oltre i 10 minuti); da un certo momento in poi (se lo stabiliremo assieme) spazio privilegiato alle proposte, su cui prendere eventuali decisioni. Se ci sono gia' proposte abbastanza precise, attinenti al tema (programmi, metodi di lavoro, eccetera) sarebbe meglio portarle scritte, in una cinquantina di copie, per distribuirle dall'inizio. * Per informazioni, adesioni, contatti: micheleboato at tin.it Per contattare individualmente i promotori: Michele Boato: micheleboato at tin.it, Maria G. Di Rienzo: sheela59 at libero.it, Mao Valpiana: mao at nonviolenti.org Chi volesse inviare contributi scritti anche a questo notiziario, indirizzi a: nbawac at tin.it 2. MAESTRI. ALCUNI ESTRATTI DA "DISCESA ALL'ADE" DI GUENTHER ANDERS [Dal quotidiano "Il manifesto" del 20 febbraio 2008 riprendiamo i seguenti estratti pubblicati col titolo "Vengo da dove dovevo morire", col sommario "Una anticipazione di alcuni frammenti tratti da Discesa all'Ade, il diario del viaggio che Guenther Anders fece da Auschwitz a Breslavia, sua citta' natale. Uscira' domani da Bollati Boringhieri", e con la seguente nota di Lisa Masier dal titolo "Addio ai fantasmi della memoria": "Nel luglio 1966 Guenther Anders, accompagnato dalla terza moglie, la pianista Charlotte Zelka, si mise in viaggio attraverso la Polonia per raggiungere, dopo un'assenza durata circa mezzo secolo, Breslavia, la citta' dove era nato sessantaquattro anni prima. In apparenza, dunque, un ritorno a casa, al passato - "alla protostoria della mia vita, a epoche paleontologiche da tempo trascorse, a tempi che si situano in prossimita' dell'inizio del mondo, giacche' cosa c'era mai prima che la mia vita iniziasse?". Ma, in realta', un viaggio che attestava dolorosamente, definitivamente, l'impossibilita' di quel ritorno - "una presa di congedo sofferta dai fantasmi che abitano i labirinti della memoria, nella consapevolezza dell'impossibilita' di ricomporre l'incolmabile cesura tra l'origine e lo sradicamento", come nota Sergio Fabian nella postfazione al piccolo libro che raccoglie le annotazioni di Anders, Discesa all'Ade (Bollati Boringhieri, pp. 162, euro 16). Non a caso il primo appunto di questo "diario filosofico-sentimentale" verso l'oscurita' dell'oltretomba viene scritto a Auschwitz, nel luogo cioe' dove "i morti continuano a esistere" ma possono essere visti solo attraverso "il loro non-esserci... sotto forma di oggetti che ci sono ancora... sotto forma di valigie, delle loro montagne di valigie, sotto forma di occhiali, delle loro montagne di occhiali, sotto forma di capelli, delle loro montagne di capelli, delle loro scarpe, delle loro montagne di scarpe". Questa massa di oggetti "che, diversamente da quanto accade a noi, se ancora utilizzabili, sono risparmiati", simbolo della tragica "asincronizzazione tra l'uomo e il mondo dei suoi prodotti", offre in un certo senso la cifra che percorre tutto il diario di Anders attraverso i grigi paesaggi della Slesia a mano a mano che si avvicina al luogo irraggiungibile dove tanto tempo prima, "all'inizio del mondo", il piccolo Guenther suonava il violino e camminava sui trampoli e schettinava sul lago gelato. E' questo il luogo dove - scrive ancora Fabian - "un Guenther bambino, vestito da marinaretto, ancora persuaso della sua immortalita' ab origine, del suo esserci-sempre-stato, nell'attimo in cui sua madre gli indico' con il parasole verde la finestra lassu' in alto, dove era nato, esperi' l'onta dell'origine, la cognizione... di essere estraneo in un mondo che gli viene concesso solo a posteriori". Il fondo dell'Ade, insomma, coincide - in una sorta di simultaneita' angosciosa - con la prima esperienza della fragilita' del mondo. In Patologia della liberta' lo stesso Anders aveva scritto - erano i primi anni Trenta - che l'uomo, nel momento in cui "proprio mentre si esperisce come non-posto-da-se', avverte per la prima volta di provenire da qualcosa che non e' lui, per la prima volta presagisce il passato, non comunque cio' che siamo soliti denominare il 'passato': non il proprio passato familiare, storico, ma il passato estraneo, irrevocabile, trascendente, quello dell'origine"". Guenther Anders (pseudonimo di Guenther Stern, "anders" significa "altro" e fu lo pseudonimo assunto quando le riviste su cui scriveva gli chiesero di non comparire col suo vero cognome) e' nato a Breslavia nel 1902, figlio dell'illustre psicologo Wilhelm Stern, fu allievo di Husserl e si laureo' in filosofia nel 1925. Costretto all'esilio dall'avvento del nazismo, trasferitosi negli Stati Uniti d'America, visse di disparati mestieri. Tornato in Europa nel 1950, si stabili' a Vienna. E' scomparso nel 1992. Strenuamente impegnato contro la violenza del potere e particolarmente contro il riarmo atomico, e' uno dei maggiori filosofi contemporanei; e' stato il pensatore che con piu' rigore e concentrazione e tenacia ha pensato la condizione dell'umanita' nell'epoca delle armi che mettono in pericolo la sopravvivenza stessa della civilta' umana; insieme a Hannah Arendt (di cui fu coniuge), ad Hans Jonas (e ad altre e altri, certo) e' tra gli ineludibili punti di riferimento del nostro riflettere e del nostro agire. Opere di Guenther Anders: Essere o non essere, Einaudi, Torino 1961; La coscienza al bando. Il carteggio del pilota di Hiroshima Claude Eatherly e di Guenther Anders, Einaudi, Torino 1962, poi Linea d'ombra, Milano 1992 (col titolo: Il pilota di Hiroshima ovvero: la coscienza al bando); L'uomo e' antiquato, vol. I (sottotitolo: Considerazioni sull'anima nell'era della seconda rivoluzione industriale), Il Saggiatore, Milano 1963, poi Bollati Boringhieri, Torino 2003; L'uomo e' antiquato, vol. II (sottotitolo: Sulla distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale), Bollati Boringhieri, Torino 1992, 2003; Discorso sulle tre guerre mondiali, Linea d'ombra, Milano 1990; Opinioni di un eretico, Theoria, Roma-Napoli 1991; Noi figli di Eichmann, Giuntina, Firenze 1995; Stato di necessita' e legittima difesa, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (Fi) 1997. Si vedano inoltre: Kafka. Pro e contro, Corbo, Ferrara 1989; Uomo senza mondo, Spazio Libri, Ferrara 1991; Patologia della liberta', Palomar, Bari 1993; Amare, ieri, Bollati Boringhieri, Torino 2004; L'odio e' antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 2006; Discesa all'Ade, Bollati Boringhieri, Torino 2008. In rivista testi di Anders sono stati pubblicati negli ultimi anni su "Comunita'", "Linea d'ombra", "Micromega". Opere su Guenther Anders: cfr. ora la bella monografia di Pier Paolo Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Guenther Anders, Bollati Boringhieri, Torino 2003; singoli saggi su Anders hanno scritto, tra altri, Norberto Bobbio, Goffredo Fofi, Umberto Galimberti; tra gli intellettuali italiani che sono stati in corrispondenza con lui ricordiamo Cesare Cases e Renato Solmi] Auschwitz, 1966 Partenza in automobile da Auschwitz, 5 luglio Ora so che cos'e' la paura, e che cosa il sollievo. Paura, quando di notte, disteso con altri dodici su tre tavolacci, senti arrivare un treno e nel buio tendi l'orecchio per capire cio' che accade - perche' chissa' quanti saranno i nuovi arrivati che spartiranno con te il tavolaccio, o quanti, nel giro di mezz'ora, saranno cacciati per fare posto ai nuovi arrivati. E chissa' se anche tu farai parte dei cacciati. Ed e' sollievo, quando senti che ad Auschwitz il treno ha solo rallentato senza fermarsi, che gia' prosegue per le poche centinaia di metri verso la rampa di Birkenau - il che, come sai, significa che coloro che avrebbero potuto contenderti lo spazio sui tavolacci e tutti coloro che ora stanno transitando dietro le baracche del tuo blocco, fra venti minuti saranno gia' fumo che sale per il camino. "E non abbiamo visto un solo morto", mi ha detto sussurrando. "Appunto", le ho sussurrato di rimando. "Proprio perche' sono cosi' morti". "Che cosa intendi dire?". "Che in un certo senso i morti continuano a esistere. Noi pero' abbiamo visto soltanto il loro non-esserci. Ma sotto forma di oggetti che ci sono ancora. Sotto forma di valigie, delle loro montagne di valigie, sotto forma di occhiali, delle loro montagne di occhiali, sotto forma di capelli, delle loro montagne di capelli, delle loro scarpe, delle loro montagne di scarpe. Abbiamo visto che, diversamente da quanto accade a noi, i nostri oggetti, se ancora utilizzabili, sono risparmiati. E averne preso atto e' di gran lunga peggio dell'aver visto dei cadaveri". Trovarsi dopo anni dove a migliaia e migliaia furono torturati e a milioni furono assassinati, mentre noi allora - gia', che cosa avevamo fatto o vissuto? Qualunque cosa possiamo aver fatto allora, anche la piu' utile; e qualunque cosa possiamo aver vissuto allora, anche la piu' bella - tutto, a posteriori, appare vano e fittizio, giacche' cio' che facemmo allora e cio' che vivemmo allora fu fatto e vissuto senza riflettere se avesse un senso accanto a cio' che intanto stava accadendo. Anche a posteriori Hitler continua a devastare le nostre esistenze. Anche quei segmenti della nostra vita che per anni avevamo considerato una faccenda privata. A meta' strada verso Katowice, sulla curva, una chiesa. Scendiamo dalla macchina per sgranchirci. Dall'inferriata gettiamo un'occhiata all'interno del camposanto. Stupiti della sua esistenza. Di un tale lusso. Che i trapassati possano dimorare sino al giorno del Giudizio in loculi singoli con il loro nome e l'omaggio floreale sulla lapide. Diversamente dai morti che abbiamo lasciato ad Auschwitz, ai quali non furono concesse neppure delle fosse comuni, qui, nelle loro dimore singole, essi non sono davvero ancora morti. Comunque non sono percepiti dai loro cari come defunti. Colui al quale si fa un dono non viene percepito come non-essente. "Io ti faccio un dono, dunque tu esisti ancora". Ma noi siamo forse piu' razionali di questi posteri? Piu' capaci di accettare la morte? Piu' preparati a questo? A noi basta pronunciare la parola "i morti" (per non citare, ovviamente, i "grandiosi eserciti di morti" della lirica di Meyer) - e con l'artificio linguistico abbiamo gia' fatto di questi morti dei soggetti, soggetti di cui asseriamo ancora qualcosa (cioe' che sono dei morti), come se il loro essere morti fosse una condizione - come essere ammalati o affamati -, una condizione reale di soggetti considerati come "esistenti", cosa che essi non sono appunto piu'. Anche in questa mia affermazione, che essi non sono piu', e' ancora presente l'artificio. * Tra Opole e Brzeg, 6 luglio Provengo dal luogo in cui era stato decretato che dovessi morire, essere eliminato e ridotto a rifiuto - avrebbe dovuto accadere venticinque anni fa. Perche' io sia scampato, perche' anche le mie scarpe non siano diventate parte della montagna di scarpe di Auschwitz, e la mia valigia parte della montagna di valigie di Auschwitz, e i miei capelli parte della montagna di capelli di Auschwitz, e i miei occhiali parte della montagna di occhiali di Auschwitz, e perche' appena ieri io mi sia aggirato nel luogo in cui altri si aggirarono venticinque anni prima, e perche' io abbia potuto allontanarmi del tutto liberamente senza controlli, quasi fossi Hoess in persona, rimangono interrogativi senza risposta. Provengo dunque da quel luogo, e ora mi dirigo la' dove fu stabilito che vedessi "la luce" di questo mondo. In realta', non era cio' che fu "stabilito" per me, giacche' cio' che accadde in quel luogo fu casuale, i miei genitori non erano originari di li', ma di Berlino. Che importa, fu li' che ebbi la consapevolezza di esistere e dell'esistenza di un mondo e di come il mondo si presenta e di che cosa significa essere a casa e come sono i cavalli e le carrozze e i ponti - di tutto questo ho fatto li' la mia prima esperienza, e ancora oggi per me i veri cavalli, le vere carrozze e i veri ponti sono i cavalli, le carrozze e i ponti di Breslavia, poco importa che esistano ancora dei cavalli, delle carrozze o dei ponti, e' li' che feci l'esperienza aurorale di tutto questo. Dove si posa il seme, li' e' la sua casa, sto dunque andando a casa. E' solo che non vedo piu' casa mia da mezzo secolo, da un lasso temporale quattro volte piu' ampio di quello in cui vi ho vissuto. E' solo che non c'e' piu' nessuno che abbia sentito parlare di me, forse addirittura nessuno che parli ancora la lingua che vi ho imparato e che, nonostante tutte le mie migrazioni e nonostante tutti i miei giri intorno al mondo, uso come mia lingua madre (li' infatti ho imparato a parlare). E' solo che forse non c'e' piu' quella piazza: si tratta ben di lei, di questa citta', che fu rasa al suolo dalla follia del Fuehrer e dei suoi accoliti? Dicono che ci sia. E tra breve potro' verificarlo. Tuttavia il fatto che ci sia, e che ci sia la sagoma che nel 1910 memorizzai scrutando dal lucernaio di casa al numero 54 della Brandenburgerstrasse - che possa rivedere ancora una volta dopo cinquant'anni il passato dal quale provengo, non e' meno inverosimile del fatto che da poco, venticinque anni dopo il loro spegnimento, io abbia sfiorato per la prima volta i forni di Auschwitz ai quali anch'io ero stato destinato. * 11 settembre Come procede in modo terribilmente lento la storia delle nostre emozioni rispetto alla rapidita' con cui mutano i nostri prodotti e le nostre idee! In senso puramente teorico, svincolati dunque dal presente storico, noi non siamo esseri pensanti, ma esseri senzienti. L'unico strumento emotivo di cui oggi siamo dotati, giacche' possiamo eliminare con un movimento della mano migliaia di esseri umani e possiamo farlo perfino con precisione, e' quel flebile rimorso post festum, che con ogni probabilita' i nostri antenati sperimentarono uccidendo un uomo e che verosimilmente fu sufficiente ad attivare un meccanismo inibitorio che impedisse l'omicidio successivo. Ma oggi a che cosa serve questo misero legato, a che cosa, quando si tratta di delitti di tali dimensioni? Dell'assassinio di settemila esseri umani? E' motivo di stupore che perlopiu' non affiori il rimorso per la smisuratezza di queste azioni? Non fu gia' Napoleone a constatare, con una buona dose di gioia maligna, che, diversamente dai delitti di poco conto, era privilegio dei grandi crimini dispensare i responsabili da notti insonni? La regola che vale qui non e': "Maggiore e' la mancanza di scrupoli di un individuo, tanto piu' grande sara' il suo crimine", bensi': "Piu' grande e' il crimine, tanto minore sara' lo scrupolo, e dunque tanto piu' impraticabile si rivelera' il pentimento". In altre parole: oggi dobbiamo imparare non solo ad ampliare la nostra fantasia, non solo a immaginare in modo adeguato l'orizzonte mondano che ci determina e che da noi e' determinato, ma anche ad ampliare in modo sistematico la nostra sensibilita'. * Notte in albergo Perso il mio coltellino. Il senso di amputazione nelle tasche dei pantaloni, dopo che ho avuto con me l'oggetto per quasi trent'anni, e' assai irritante. Alla morte di papa', a Durham nel 1938, lo trovai sulla sua scrivania. Se lo afferrai di nascosto e con la sensazione di rubarlo, non fu solo perche' desideravo portare con me almeno una parte di lui - avrei potuto prendere anche il suo orologio da taschino -, e non solo perche' lo aveva definito il suo "temperino" e sempre, quando aveva in bocca questa espressione toccante, come monito alla sua "penna" da appuntire, si trasformava improvvisamente ai miei occhi in un galante contemporaneo di Lessing o di Kant; ma soprattutto perche' l'oggetto, come provava la scritta incisa sulla lama, era un mio conterraneo: ossia come me aveva visto la luce a Breslavia. E' stato l'unico oggetto di Breslavia che ho posseduto. Dopo la morte di papa' mi ha accompagnato da Durham a New York. Da li', per anni, in California. E da li' a ritroso in Europa. Da li' attraverso il Polo Nord, in Giappone. Da li' attraverso l'India, a Vienna. Da li' in Messico. E ce l'avevo sicuramente anche ieri, almeno credo. Ho controllato le tasche dei pantaloni. Nessun buco. Rovistato nelle nostre valigie e borse. Se fossi superstizioso, penserei che il coltellino abbia deciso di fermarsi qui. E se fossi uno psicoanalista, sospetterei di sicuro di averlo gettato via inconsciamente, ma comunque di proposito: per ottenere cioe' con questo sacrificio la certezza - tutt'altro che assodata - che me ne andro' dall'Ade sano e salvo. 3. TESTIMONANZE. ALCUNI ESTRATTI DA "LE PAZZE. UN INCONTRO CON LE MADRI DI PLAZA DE MAYO" DI DANIELA PADOAN (PARTE PRIMA) [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti (scelti da Angela Razzini) dal libro di Daniela Padoan, Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Mayo, Bompiani, Milano 2005. Daniela Padoan e' una prestigiosa giornalista e saggista femminista. Dalla bella rivista "Via Dogana" riprendiamo la seguente scheda di presentazione: "Daniela Padoan collabora con la televisione e la stampa, in particolare con 'Il manifesto'. Nel pensiero della differenza ha trovato un tassello mancante, degli elementi in piu' per la lettura di avvenimenti attuali e storici come la vicenda delle Madres de la Plaza de Mayo ("la lotta politica forse piu' radicale di questi decenni"), o la Shoah, che Daniela ha indagato in un suo libro, attraverso tre conversazioni con donne sopravvissute ad Auschwitz (Come una rana d'inverno, Bompiani, Milano 2004)". Opere di Daniela Padoan: Miti e leggende del mondo antico, Sansoni scuola, Firenze 1996; Miti e leggende dei popoli del mondo, Sansoni scuola, Firenze 1998; (a cura di), Un'eredita' senza testamento, Quaderni di "Via Dogana", Milano 2001; (a cura di), Il cuore nella scrittura. Poesie e racconti delle Madres de Plaza de Mayo, Quaderni di "Via Dogana", Milano 2003; Come una rana d'inverno, Bompiani, Milano 2004; Le Pazze. Un incontro con le Madri di Plaza de Mayo, Bompiani, Milano 2005] Premessa (pp. 7-10) "Ci chiamavano le pazze, e qualcuno pensava che fosse un'offesa. Certo, ci mettevano dentro tutti i giovedi', e noi ritornavamo. Ci dicevano, eccole li', le pazze. Le arrestiamo e loro ritornano. Ma noi sapevamo di essere pazze d'amore, pazze dal desiderio di ritrovare i nostri figli... E poi, perche' no? un po' di pazzia e' importante per lottare. Abbiamo rovesciato il significato dell'insulto di quegli assassini. Non ci offendeva piu' che ci chiamassero pazze. Per fare quello che abbiamo fatto, quello che continuiamo a fare, dobbiamo essere un po' pazze. La follia e' importante. A volte sono proprio i pazzi, insieme ai bambini, quelli che dicono la verita'". Sono le parole di Hebe de Bonafini, presidente delle Madri argentine di Plaza de Mayo - un gruppo di donne, semplici casalinghe abituate ad assistere all'attivita' dei figli senza porsi troppe domande, cresciute nel rispetto delle autorita' costituite - che, dopo il golpe militare del 24 marzo 1976, ebbero il coraggio di sfidare la dittatura e conquistare la piazza, decise a ritrovare i figli scomparsi. Solo in seguito seppero che i militari avevano sequestrato e ucciso trentamila oppositori politici, ragazzi e ragazze torturati nei campi di concentramento clandestini disseminati in centinaia di luoghi insospettabili nell'intero paese, gettati in mare con i "voli della morte". All'inizio si erano rivolte ai giudici, ai commissari, ai parroci, agli avvocati, agli esponenti politici, per scoprire di essere circondate da un muro di complicita', paura e indifferenza. Furono le porte che si videro chiuse in faccia, o aperte con subdola condiscendenza per carpire ulteriori informazioni, a dar loro la misura del potere che le soverchiava e a spingerle in quella Plaza de Mayo che avrebbe dato loro il nome, a dar vita, di fronte al palazzo presidenziale, alla storica marcia che continuano da ventotto anni, ogni giovedi'. Mentre, secondo il pervasivo indottrinamento golpista per cui la nazione si trovava davanti al compito di liberarsi dei "sovversivi", le vittime venivano trasformate in colpevoli agli occhi della stessa societa', le Madri di Plaza de Mayo erano segnate a dito come madri di terroristi. Proprio l'impossibilita' del racconto, della manifestazione del dolore e della rabbia, il voltar loro le spalle dei vicini e spesso degli stessi parenti, le uni' in un collettivo che, man mano che il mondo si squadernava facendosi incomprensibile e ostile, divento' la loro ragione di vita. Forti solo del fazzoletto bianco che si annodavano sotto il mento, delle fotografie dei figli appese sul petto, seppero inventare varchi con il proprio stesso corpo per far sapere al mondo quello che accadeva sotto una dittatura che voleva invece mostrarsi, ben diversamente da quella degli stadi cileni di Pinochet, capace di una transizione alla democrazia. Le Madri - che non si lasciarono intimidire neppure quando il regime sequestro' e uccise le tre donne che avevano dato vita al gruppo - continuarono a chiedere giustizia anche dopo la caduta del regime, mentre i governi costituzionali, pur di chiudere sbrigativamente i conti con la "guerra sporca" e i suoi responsabili, promulgavano leggi assolutorie e indulti, e offrivano risarcimenti economici sempre piu' cospicui alle famiglie per indurle a dichiarare morti i desaparecidos. Rifiutando una pacificazione che eludeva le responsabilita' dei genocidi e affermando che la vita non si paga con il denaro ma con la giustizia, rinunciarono al lutto. Madri non piu' dei singoli figli, ma simbolicamente di tutti i trentamila scomparsi, fecero della maternita' una forza capace di tenerli in vita per sempre, mettendo in scacco gli assassini e i torturatori ancora comodamente annidati nelle nicchie del potere. Dopo aver vissuto un'esperienza abissale che le ha tenute per quasi trent'anni in presenza della morte senza accettarla, le Madri di Plaza de Mayo hanno fatto del dar vita un potere irrevocabile. Ma chi erano, le Madri, prima che la storia si abbattesse su di loro, trasformandole radicalmente? Benche' la prima parte delle loro esistenze - l'infanzia, il matrimonio, la nascita dei figli - si fosse svolta tra gli anni Venti e gli anni Sessanta in un paese dove ogni tentativo di democrazia aveva avuto vita difficile, represso da continui colpi di stato, per loro il succedersi di governi militari, il peronismo, le dittature dell'intero continente latinoamericano erano stati poco piu' che echi remoti. "Quando i miei figli andavano a scuola" racconta Hebe "misero in scena l'Antigone. Assistevo a tutte le repliche, perche' mi piaceva tanto vederli recitare; sapevo a memoria quel testo, ma mai mi resi conto di cio' che voleva dire. Adesso si'. Adesso so chi e' Antigone". Il corpo che il tiranno non voleva seppellito nella cerchia delle mura sarebbe diventato quello di tutti i trentamila desaparecidos. Ora che il mondo ha imparato a conoscerle e che il nuovo presidente argentino Kirchner, nel suo primo discorso davanti alle Nazioni Unite, si e' dichiarato "figlio delle Madri di Plaza de Mayo", continuano a trovarsi nella loro Casa nel centro di Buenos Aires, dove tutti i giorni tengono riunioni, cucinano, parlano dei nipoti e degli acciacchi, ricevono personaggi pubblici - dal presidente venezuelano Chavez a Bono degli U2, che ha dedicato loro la canzone Mothers of Disappeared; da Danielle Mitterand a Jose' Saramago, che le ha candidate per il premio Nobel per la pace - ma soprattutto accolgono giovani che vengono da tutte le parti del mondo ad ascoltare dalla loro viva voce il racconto di una traiettoria inaudita. Da li' guardano come nuovi figli i ragazzi e le ragazze che frequentano i corsi tenuti gratuitamente da docenti argentini e latinoamericani nell'Universita' popolare delle Madri di Plaza de Mayo, aperta cinque anni fa e voluta come un lascito di vita e di liberta'. "Se noi donne ormai vecchie, tutte tra i settanta e i novant'anni" dice Beba Petrini "possiamo venire qui ogni giorno, magari qualcuna un po' malferma, col bastone - e se dobbiamo andare a una marcia, ci andiamo, se dobbiamo uscire di notte a fare un discorso, lo facciamo - allora tutto si puo' fare. Quella che adesso si occupa della rassegna stampa e' una madre di novantadue anni. Stiamo mettendo molte cose su internet perche', e' chiaro, dobbiamo stare al passo con i tempi, pero' tutto questo e' inamovibile, resta, e dimostra che quando uno fa quello che vuole e quello in cui crede, e quando sogna, nonostante possa avere molti anni e avere sofferto molto, be', allora... sii felice, puoi, cammina e fai. Questo siamo noi Madri". Le cinque madri che parlano in questo libro, Hebe de Bonafini, Beba Petrini, Cota Feigelmueller, Juanita Pargament e Marcela Antonia De Ledo, hanno origini e storie diverse: la famiglia di Hebe veniva dalla Spagna, in fuga dal franchismo; quella di Cota dall'Italia; quella di Beba dai Paesi Baschi; la famiglia di Juanita era ebrea estone e suo marito era un ebreo scappato dalla Germania di Hitler. Marcela invece discende da una famiglia dei pochi indios nativi sopravvissuti alla colonizzazione europea. Ho raccolto le loro testimonianze nel corso di incontri che si sono succeduti durante cinque anni - nei loro ripetuti viaggi in Italia e in un mio recente viaggio in Argentina - e le ho organizzate secondo una successione cronologica, scandendole con brevi indicazioni sul contesto in cui si sono svolti i fatti, basate sui riscontri che ho potuto trovare nel complesso e in parte contraddittorio materiale non ancora sistematizzato dagli storici. Le pazze e' il risultato di un incontro, che in quanto tale non pretende di essere esaustivo; e' piuttosto il racconto di quello che ho visto e che ho imparato ad amare, che mi pare contenga un'indicazione significativa di un diverso modo di concepire e praticare la politica, fondata su un agire comune che pone al centro dell'azione la responsabilita' etica dell'altro. Non un racconto sulle vittime, ma un racconto sulla resistenza; la resistenza della vita sulla morte, del dar vita materno sul dar morte dei regimi. * Il sequestro (pp. 61-63) Trentamila desaparecidos "In nome della sicurezza nazionale, migliaia e migliaia di esseri umani, di solito giovani e persino adolescenti, andarono a integrare una categoria tetra e fantasmatica: quella dei desaparecidos" si legge nel Prologo di Nunca Mas, la relazione della Commissione nazionale sulla scomparsa di persone, istituita il primo dicembre 1983 con decreto del presidente Raul Alfonsin. "Parola - triste privilegio argentino! - che oggi si scrive in castigliano su tutta la stampa del mondo. Portati via con la forza, cessarono di avere presenza civile. Chi, esattamente, li aveva sequestrati? Perche'? Dove si trovavano? Non c'era una risposta precisa a queste domande: le autorita' non ne avevano sentito parlare; non si trovavano nelle carceri; la giustizia li ignorava e gli habeas corpus avevano per tutta risposta il silenzio. Attorno a loro cresceva un tetro silenzio. Mai un sequestratore arrestato, mai un luogo clandestino di detenzione individuato, mai la notizia di una condanna inferta ai colpevoli dei delitti. Cosi' trascorsero giorni, settimane, mesi, anni di incertezza e di dolore per i padri, le madri e i figli, tutti appesi al filo di una voce, dibattuti tra speranze disperate, tra innumerevoli e inutili pratiche, suppliche rivolte a personaggi influenti, a ufficiali di un qualche settore delle Forze armate di cui avevano avuto il nome da un conoscente, a vescovi e cappellani militari, a commissari. La risposta era sempre negativa". La gente spariva nel nulla, caricata a forza sulle famigerate Ford falcon senza targa, portata in lager clandestini e torturata orribilmente. Nessuno, intorno, vedeva o sentiva nulla. Certo dell'impunita', forte dell'appoggio di Washington, Videla scherzo' piu' volte in pubblico: "I desaparecidos? Sono tutti a Cuba o in Europa, al sicuro, a sobillare l'opinione pubblica contro il 'Processo di riorganizzazione nazionale'". Secondo la Conadep, il 62% dei desaparecidos fu sequestrato a casa propria davanti a testimoni, il 24,6% per la strada, il 7% sul luogo di lavoro, il 6% a scuola; i militari e poliziotti sequestrati furono lo 0,4%. Piu' del 30% era costituito da operai e il 20% da studenti. Si sa di centinaia di bambini scomparsi, rubati al momento del parto oppure sequestrati in fasce. Alcune testimonianze rese davanti alla Conadep riferiscono di torture e assassinii di bambini piu' grandi. "Il paese", afferma la relazione Nunca Mas, "e' stato disseminato di corpi di persone non identificate, sepolte individualmente o collettivamente, in forma illegale e clandestina. Si trovano nei cimiteri, in aperta campagna, nei fiumi, nelle dighe e, secondo quanto abbiamo visto, anche nel mare. Questa constatazione raggiunge attualmente una dimensione inimmaginabile rispetto a un anno fa, quando alcune prove isolate alimentarono l'illusione che un simile quadro non potesse costituire l'indizio di una pratica generalizzata. Senza dubbio, ora l'evidenza ci e' chiara, arrivando negli ultimi mesi alla diffusione quasi quotidiana di testimonianze, incartamenti legali e articoli giornalistici che hanno dato conto dei ritrovamenti". Intorno ai desaparecidos si era costruito un muro di silenzio. Alcuni venivano persino abbandonati dalle famiglie che, sotto la pressione di continue minacce e richieste di denaro, vivevano nel terrore di rappresaglie. Il clima di terrore instaurato dalla dittatura fece si' che gli argentini, pur vivendo un'esistenza apparentemente normale - continuavano infatti ad esservi file davanti ai cinema e ai teatri, e i ristoranti erano frequentati come di consueto - cominciassero a sentire che la prossima vittima poteva essere una persona qualsiasi, che ogni poliziotto, ogni giudice, poteva essere un nemico, e che dunque era meglio non compromettersi in alcun modo. Gli attivisti sindacali iniziarono a sparire dalle fabbriche. A volte, furono gli stessi datori di lavoro a fornire ai militari le liste dei lavoratori "sospetti". Nel corso del processo che si tenne in Italia nel 2000 per la scomparsa di otto italoargentini, Victor de Gennaro, segretario della Cgt, ebbe modo di spiegare come molti tecnocrati, pur non sporcandosi direttamente le mani, furono responsabili della violenza che insanguino' il paese. Nel 1976, alla Ford, "furono presi trentatre' delegati sindacali, che vennero interrogati all'interno della fabbrica e alle cui famiglie, dopo i cinque giorni regolamentari, fu recapitata la lettera di licenziamento per assenza ingiustificata. Di quei trentatre' desaparecidos, solo tre ricomparvero vivi". Fu poi la volta dell'epurazione all'interno del sistema scolastico. "Fino a ora" dichiaro' il generale Acdel Vilas, "abbiamo solo sfiorato la punta dell'iceberg nella nostra guerra contro la sovversione... Adesso e' necessario distruggere le fonti che alimentano, formano e indottrinano il delinquente sovversivo, e queste fonti si trovano nelle universita' e nelle scuole secondarie". Il governo militare argentino modifico' i programmi di studio universitari ed elimino' le facolta' di sociologia e filosofia. Lo studio della psicologia e dalla psicoanalisi - e in particolare di Lacan - venne considerato di per se' una pratica sovversiva. Venne vietato l'uso di tecniche freudiane negli ospedali psichiatrici e imposto un rigido codice morale di censura sulle opere cinematografiche, teatrali e letterarie. La musica rock fu proibita, cosi' come la pittura astratta, considerata "degenerata". Sulle universita' e sui licei si abbatte' un'ondata di delazioni e sequestri. Solo al Colegio Nacional di Buenos Aires - colpevole di aver diplomato Ernesto Che Guevara - durante la dittatura militare vennero sequestrati, torturati e uccisi novantanove studenti. I due terzi dei desaparecidos aveva tra i venti e i trent'anni. * I campi (pp. 119-120) Quando avete saputo dell'esistenza dei campi? Hebe Gia' nel '77, i campi hanno cominciato a essere una cosa che tutti sapevano ma nessuno vedeva. Dove sono? Nelle guarnigioni dell'esercito? Nei commissariati? Sembrava una menzogna. Poco per volta, noi Madri ci siamo convertite in investigatori privati e ci siamo rese conto che i campi di concentramento erano nascosti ovunque: nei commissariati, nelle case private, nei garage, negli alberghi, nelle palestre dell'esercito, nelle fabbriche delle multinazionali che prestavano i loro capannoni e i loro camion per sequestrare, torturare e massacrare i nostri figli. Pero' quanti fossero gli scomparsi, la precisa collocazione dei campi, i nomi dei responsabili, tutto questo lo capimmo solo dopo anni e anni di lavoro e di ricerche. Trentamila scomparsi sembra... e' quasi una citta'. Quindicimila esecuzioni sommarie. Ottomilanovecento prigionieri politici rinchiusi nelle carceri sinistre della dittatura. Un milione e mezzo di uomini e di donne in esilio. Un paese rovinato, schiacciato, sottomesso, terrorizzato. Scoprimmo poco per volta che i campi di concentramento avevano diverse dimensioni: quelli nei commissariati erano piccoli, contenevano fino a settanta, ottanta persone; poi c'erano i campi di concentramento dell'Esercito e della Marina. La Scuola di meccanica della Marina fu il campo di concentramento piu' grande, dove passarono cinquemila prigionieri, torturati per giorni e giorni, tenuti in condizioni tremende. Quando arrivavano donne incinte, i sequestratori aspettavano che partorissero per prendersi i loro figli. Hanno fatto cose impossibili da pensare. Fino a quel momento, i campi di concentramento erano una cosa sconosciuta, per noi, in Argentina. Li conoscevamo, certo, come tutti, per quello che il nazismo aveva fatto agli ebrei, agli oppositori politici, agli zingari, agli omosessuali, ma non pensavamo che un giorno i nostri figli ci sarebbero finiti dentro, uccisi, torturati. Il mondo deve sapere che i militari argentini furono profondamente nazisti, e che vennero aiutati dagli Stati Uniti a mettere a punto tecniche di tortura sempre piu' raffinate. Gli Stati Uniti hanno addestrato i militari argentini a torturare e a eliminare gli oppositori. Quando noi Madri abbiamo cominciato a sapere quello che succedeva li' dentro, non volevamo crederci. Portavano dei giovani incappucciati alle feste della Polizia, della Marina, dell'Esercito, cosi', per divertimento, e li' li torturavano, li violentavano. Si divertivano in questo modo, tanto erano criminali, tanto erano perversi. Anche se le conosciamo, noi non raccontiamo mai le torture che hanno subito i nostri figli, perche' sentiamo che cosi' li torneremmo a violare; e' una cosa troppo intima, non si puo' raccontare. Ci volle tempo perche' cominciassimo a farci un'idea delle reali dimensioni dell'orrore in cui vivevamo, perche' all'inizio c'era ben poca gente disposta a parlare. Quei pochi prigionieri che uscivano vivi dai campi non volevano dire nulla, tanto erano terrorizzati. E poi tieni conto che i militari utilizzavano anche dei detenuti messi in liberta', per infiltrarsi tra di noi, percio' non potevamo accettare tutto quello che dicevano, senza averne delle prove. C'era una donna che ci aiutava, che ci accompagnava a tutte le marce; le avevano sequestrato il marito e, per lasciarlo libero, le avevano chiesto di infiltrarsi nelle Madri. Dopo un po', poverina, non ha piu' retto e ce lo ha raccontato; ci ha detto che le chiedevano di riferire chi tra di noi fosse la piu' forte, chi quella che prendeva le decisioni, chi parlava di piu' della propria famiglia, chi ne parlava di meno... Incredibile. Abbiamo passato di tutto. Questa donna ci ha assicurato che i militari riconoscevano perfettamente le nostre facce, che sapevano dove abitavamo, le nostre abitudini... altro che parrucche, altro che nomi delle pasticcerie camuffati! Non e' stata l'unica volta che siamo state infiltrate, a parte Astiz; ce ne furono altre ancora. (parte prima - segue) 4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 5. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 379 del 28 febbraio 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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