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La domenica della nonviolenza. 148
- Subject: La domenica della nonviolenza. 148
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 27 Jan 2008 10:24:09 +0100
- Importance: Normal
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 148 del 27 gennaio 2008 In questo numero: 1. Fabio Levi e Anna Bravo: I giovani e la Shoah 2. La legge istitutiva del Giorno della Memoria 1. RIFLESSIONE. FABIO LEVI E ANNA BRAVO: I GIOVANI E LA SHOAH [Dalla bella rivista "Una citta'", n. 82, gennaio 2000 (disponibile anche nel sito: www.unacitta.it) riproponiamo ancora una volta i seguenti interventi di Anna Bravo e Fabio Levi, li' presentati col titolo comune "Lo sgabuzzino buio" e il sommario "Cosa sanno della shoa' i ventenni di oggi? Una ricerca svolta all'Universita' di Torino con un gruppo di liceali offre una traccia preziosa di lavoro. Perche' bisogna evitare di colpevolizzare in partenza i ragazzi. L'importanza delle nozioni e la lotta al pregiudizio, che non e' mai vinta per sempre". Fabio Levi, storico, insegna storia contemporanea all'Universita' di Torino; ha lavorato a lungo sulla storia degli ebrei dall'emancipazione fino allo sterminio e piu' in generale sulle vicende della societa' italiana nel Novecento. Il suo interesse per i risvolti sociopsicologici delle differenze fra gli individui lo ha anche portato a occuparsi della storia della condizione dei ciechi e lo ha reso particolarmente sensibile ai temi della convivenza e delle relazioni fra gruppi e culture diverse. Tra le opere di Fabio Levi: (con Paride Rugafiori e Salvatore Vento), Il triangolo industriale tra ricostruzione e lotta di classe (1945-'48), Feltrinel1i, Milano 1974; (con Bruno Bongiovanni), L'Universita' di Torino sotto il fascismo, Giappichelli, Torino 1976; L'idea del buon padre. Il lento declino di un'industria familiare, Rosemberg & Sellier, Torino 1984; Un mondo a parte. Cecita' e conoscenza in un istituto di educazione, Il Mulino, Bologna 1990; L'ebreo in oggetto. L'applicazione della normativa antiebraica a Torino (1938-1943), Zamorani, Torino 1991; L'identita' imposta. Un padre ebreo di fronte alle leggi razziali di Mussolini, Zamorani, Torino 1996; "Gli ebrei nella vita economica italiana dell'Ottocento", in C. Vivanti (a cura di), Gli ebrei in Italia, Annali XI, tomo II, Storia d'Italia, Einaudi, Torino 1997; Le case e le cose. La persecuzione degli ebrei torinesi nelle carte dell'Egeli (1938-1945), Archivio storico della Compagnia di San Paolo, Torino 1998; 'Torino: da capitale restaurata a capitale spodestata (1814-1864). L'economia', in U. Levra (a cura di), La citta' nel Risorgimento, VoI VI della Storia di Torino, Einaudi, Torino 2000; "Da un vecchio a un nuovo modello di sviluppo economico", in U. Levra (a cura di), Da capitale politica a capitale industriale (1864-1914), Vol. VII della Storia di Torino, Einaudi, Torino; (a cura di, con Bruno Maida), La citta' e lo sviluppo. Crescita e disordine a Torino (1945-1970), Franco Angeli, Milano 2002; (a cura di, con Sonia Brunetti), C'era una volta la guerra, Zamorani, Torino 2002; (con Maria Bacchi), Auschwitz, il presente e il possibile, Giuntina, Firenze 2004; In viaggio con Alex, Feltrinelli, Milano 2007. Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003] Il 2 dicembre 1999, si e' tenuta a Torino una giornata di studio su un'indagine condotta tra duecento allievi del primo anno del Corso di laurea in Scienza delle comunicazioni di Torino. Il questionario, pubblicato nel volume a cura di Fabio Levi, I ventenni e lo sterminio degli ebrei, Silvio Zamorani editore, si proponeva di toccare questioni diverse. Parte delle domande sono state pensate nell'intento di raccogliere innanzitutto qualche informazione sulle caratteristiche del gruppo cui si rivolgeva; altre avevano l'obiettivo di misurare il grado di conoscenza dei fatti, al fine di operare qualche verifica mirata, ad esempio cosa sanno i ventenni di oggi riguardo al numero di ebrei annientati, o ancora su quello che accadde in Italia; nello stesso tempo si voleva indagare sulla presenza di eventuali stereotipi piu' o meno radicati, in particolare sull'immagine degli ebrei di fronte alle persecuzioni naziste. Un terzo gruppo di domande aveva invece lo scopo di delineare un quadro delle fonti attraverso le quali si e' diffusa tra i ragazzi intervistati la conoscenza dello sterminio e la consapevolezza della sua importanza. Le domande che aprivano il questionario avevano infine l'obiettivo di valutare quale fosse l'idea d'insieme che ognuno aveva dello sterminio, valutando piu' in particolare quale fosse il peso delle componenti emotive sulla capacita' di articolare precisi interrogativi. Seguono gli interventi di Fabio Levi e Anna Bravo. * L'intervento di Fabio Levi Vorrei prima di tutto spiegare come e' nato e che cos'e' il libro di cui stiamo discutendo. Alla prima lezione di uno dei corsi di Storia contemporanea dell'anno scorso alla Facolta' di Lettere di Torino, i duecento studenti presenti hanno tutti risposto a un questionario su vari aspetti dello sterminio degli ebrei negli anni della seconda guerra mondiale. Poi un gruppo di loro, insieme al docente, ha trascritto le risposte, riflettendo sul loro significato, ma soprattutto cercando di trovare un modo per riproporle agli altri in forma organizzata e comprensibile. E' nato cosi' un libro che, composto e stampato in tempi strettissimi, e' stato distribuito e discusso all'ultima lezione. Il libro voleva essere una sorta di specchio: intendeva cioe' offrire a tutti quelli che avevano compilato il questionario la possibilita' di rispecchiarsi nelle risposte degli altri, ma anche di misurare il proprio atteggiamento, cosi' come era maturato nel corso del semestre, su quello della prima lezione. Lo stesso potranno fare coloro i quali, in altre scuole e in altre situazioni, avranno occasione di rispondere alle stesse domande. Potranno confrontare il proprio punto di vista con quello del gruppo che ha realizzato il libro: un gruppo peraltro con caratteristiche assai particolari, trattandosi di studenti quasi tutti ventenni, in grande maggioranza provenienti dai licei e iscritti a un corso di laurea fra i piu' ambiti dagli studenti in questo momento: quello di Scienze della comunicazione. Dicevo che il libro di cui ci stiamo occupando e' una sorta di specchio, ma e' anche a mio avviso un ricchissimo caleidoscopio di immagini, idee, giudizi e, proprio per questo, di informazioni sui ragazzi che hanno risposto al questionario. Prima pero' di proporre qualsiasi valutazione nel merito penso valga la pena chiederci quale debba essere l'atteggiamento piu' giusto da assumere nei confronti delle innumerevoli risposte riportate via via nelle pagine del volume; o, meglio ancora, credo sia il caso di riflettere su cio' che non bisogna assolutamente fare esaminando un materiale del genere e, piu' in generale, quando si affronta il tema dello sterminio nazista in un'aula scolastica. Senza alcun dubbio la prima cosa da non fare e' scandalizzarsi per gli errori piu' o meno consistenti commessi dai nostri interlocutori nel rappresentare quello che e' successo, o per le loro difficolta' a porre i vari problemi in modo adeguato. Un atteggiamento del genere non solo e' sbagliato, ma molto controproducente. Nel nostro caso poi si rischierebbe di sottovalutare un grado di informazione e anche una capacita' di esprimersi e di ragionare tutt'altro che trascurabili. Dobbiamo saper riconoscere ai piu' giovani di noi, nel nostro caso ai ventenni appena iscritti all'universita', il diritto di non sapere. Oltre tutto, se non sanno, la responsabilita' e' prima di tutto nostra: degli insegnanti o degli studiosi cioe' che, ad esempio, compilano molto spesso manuali di storia imprecisi e deludenti. Non e' meno sbagliato spaventarsi oltre misura di fronte ad affermazioni o giudizi che non condividiamo o che giudichiamo pericolosi. Nel libro si notano ad esempio pregiudizi assai diffusi e radicati nei confronti degli ebrei; ma non solo. Di pregiudizi ce ne sono tanti, su molte cose: e prese di posizione unilaterali e rigide si presentano spesso quando meno ce le aspettiamo, in forma quasi automatica. In proposito e' utile ricordare che Primo Levi, nei suoi innumerevoli incontri nelle scuole sulla deportazione e sui lager, di fronte a qualunque domanda, a qualunque atteggiamento degli studenti che aveva di fronte, mai mostrava di scandalizzarsi; anzi, puntava ogni volta al dialogo e cercava sempre di rispondere. Anche in questo vale la pena raccogliere la lezione che ci ha lasciato. Un terzo atteggiamento assolutamente da evitare e' quello di chi, ancor prima di raccontare, fa sentire in colpa i suoi interlocutori. Comportarsi in quel modo, soprattutto su temi come lo sterminio nazista, e' forse la cosa peggiore. I sensi di colpa chiudono invece di aprire, allontanano invece di avvicinare e impediscono oltre al dialogo anche il ragionamento. E allora che altro resta da fare? Credo che forse la cosa piu' utile sia di scoprire, attraverso un lavoro di scavo, di analisi minuziosa, in atteggiamenti e giudizi come quelli manifestati nel libro, le contraddizioni, le linee di frattura che li attraversano. Si tratta di scoprirle e subito dopo di renderle evidenti agli occhi di chi quelle contraddizioni ha espresso. In tal modo e' piu' facile sollecitare l'interesse di chi abbiamo di fronte e anche una sua partecipazione attiva alla discussione. Proprio in questa logica vorrei cercare ora di individuare quali sono secondo me alcune delle contraddizioni piu' evidenti che emergono dalle risposte contenute nel libro. Nello stesso tempo cerchero' anche di fornire, in modo molto sommario, quasi telegrafico, alcune indicazioni su come, a mio avviso, sia possibile intervenire per sviluppare lo studio e il dialogo. Vediamo la prima. Le risposte al questionario fanno chiaramente vedere come lo sterminio non cessi di suscitare anche nei giovani di oggi emozioni profondissime, emozioni tali da impedire o da bloccare sul nascere quel tanto di riflessione che pure - e qui sta a mio avviso la contraddizione - molti mostrano di voler avviare, sulla base di una considerazione attenta di quanto e' successo. Come comportarsi di fronte a tutto questo? Credo che in primo luogo si debba fare di tutto per riferire le emozioni a dei fatti precisi, uscendo dalla genericita', e in tal modo cercare di governarle. Ma non solo: puo' anche essere utile ragionare proprio prendendo spunto da quelle emozioni; ragionare a partire da se stessi, riflettendo sul proprio atteggiamento nei confronti di una realta' tanto sconvolgente. L'obiettivo principale dovrebbe infatti essere, a mio avviso, di saper andare oltre la semplice reazione emotiva e arrivare, se non a rispondere, quanto meno a formulare delle domande piu' precise e circostanziate. Non penso assolutamente che valga la pena alimentare ulteriormente la reazione emotiva dei soggetti cui ci si rivolge, credo anzi che si debba fare esattamente il contrario. Seconda contraddizione: se leggiamo le risposte alla domanda "Quale immagine ti viene in mente quando pensi allo sterminio degli ebrei?", si presenta ai nostri occhi un paesaggio desolato e immobile, irrigidito dalla morte; si vedono i campi come si pensa fossero allora o come sono oggi, bloccati in un universo senza tempo; la scena e' dominata da oggetti inanimati e da corpi devastati. Su tutto questo si innesta pero' un flebile residuo di vita rappresentato quasi soltanto dal muoversi lento ed esausto di chi non e' ancora stato spazzato via. Anche questa contraddizione va rilevata, resa esplicita e affrontata adeguatamente. In particolare credo vada contrastata un'idea dello sterminio come frutto quasi necessario di un meccanismo perverso, inarrestabile, e mosso da una forza indipendente dalla volonta' degli uomini. Esso va viceversa ricondotto sempre e ogni volta all'uomo e cioe' alle diverse figure che allora vi furono coinvolte: a quelle delle vittime in primo luogo, ma anche alle figure dei carnefici e degli spettatori. Senza ovviamente negare la sostanza dello sterminio, che e' una sostanza di morte, bisogna pero' evitare di averne una visione irrigidita e meccanica, che trascuri ogni riferimento alla coscienza e alla volonta' degli individui. Bisogna insomma evitare che lo sterminio continui ad agire su di noi condizionando ancora oggi anche il nostro modo di considerarlo. Ed eccoci ora ad una terza questione. C'e' nelle risposte al questionario una evidente difficolta' a collocare lo sterminio nazista nella storia. Prevale la tendenza a guardare alla realta' di quel periodo come a una realta' popolata di simboli. Anche i lager molto spesso diventano un simbolo astratto. In particolare le camere a gas, i crematori o i treni assurgono a simboli per eccellenza dello sterminio. Non sono descritti come luoghi reali o lo sono a mio avviso in modo molto sommario. Anzi, i dati piu' propriamente realistici, laddove sono presenti, invece di dare concretezza alla rappresentazione, molto spesso sono la' piu' che altro per esaltare la natura parossistica ed estrema di quei simboli. E questo vale anche per i personaggi: Hitler per molti e' il simbolo dello sterminatore, non e' Hitler. D'altra parte pero' c'e' la tendenza nelle risposte a considerare lo sterminio come un evento che deve poter essere paragonato ad altri. Per questa via torna cosi' ad essere collocato nel corso della storia, di una storia lunga migliaia di anni, perche' - senza togliere nulla a fatti piu' recenti come le eliminazioni di massa compiute dai regimi comunisti o le "pulizie etniche" nella ex-Jugoslavia, citati in molte risposte - solo sul tempo lungo pare possibile trovare eventi cosi' terribili da poter reggere il confronto con le gesta dei nazisti. Come affrontare a questo punto la contraddizione fra la difficolta' a storicizzare da un lato e dall'altro invece la tendenza ad assumere lo sterminio come un fatto della storia? Credo che in primo luogo si tratti di fare un grosso sforzo per dare concretezza ai soggetti e alle situazioni connessi a quella vicenda, per andare oltre una rappresentazione puramente simbolica, raccogliendo nello stesso tempo la disponibilita' a confrontare fra loro situazioni anche molto diverse e lontane nel tempo. E ancora: c'e' una contraddizione evidente tra i forti pregiudizi che emergono dalle risposte in particolare riguardo agli ebrei e, viceversa, la grande disponibilita', la grande apertura, il grande rispetto nei confronti degli altri che risultano non solo dal senso di molte delle risposte riportate nel libro, ma anche dall'atteggiamento tenuto durante tutto il corso dalla generalita' dei ragazzi coinvolti. Per esempio, all'ultima lezione, molti, e non certo per far piacere al docente ma perche' ne erano intimamente convinti, hanno riconosciuto senza remore che molte delle risposte date al questionario erano state condizionate da pregiudizi riproposti in forma largamente inconsapevole. Alcuni si sono alzati e hanno detto: "Adesso non risponderei piu' cosi', risponderei in un altro modo". Si tratta ovviamente di intervenire anche su questa contraddizione, ma non esclusivamente sulla base di un ragionamento morale, proclamando magari come indiscutibile un generico rispetto dell'altro. Si tratta invece prima di tutto di isolare e di individuare i pregiudizi, di farne risaltare la rigidita', di ricostruirne la storia, scavando al loro interno, mettendone in luce tutta la loro forza, ma anche la debolezza. Accettandone tuttavia l'indiscutibile utilita': tutti noi ragioniamo sulla base di pre-giudizi nel tentativo di fermare la realta' nella nostra mente e di formulare una prima interpretazione di quanto abbiamo intorno. Il problema e' essere consapevoli che non bisogna rimanere schiavi dei pregiudizi e che quando e' il caso quei pregiudizi vanno discussi e criticati. Colpisce poi il contrasto fra la grande fiducia dimostrata nelle risposte al questionario nel valore rigeneratore della conoscenza - in tanti hanno ribadito con convinzione che bisogna far conoscere lo sterminio, che bisogna fornire un'informazione precisa e documentata e cosi' via - e, viceversa, una consapevolezza piuttosto parziale e limitata del fatto che la conoscenza non basta, che non solo si deve informare, ma bisogna - come segnalano alcuni - "sensibilizzare", "formare", "educare". In questo caso credo che il modo piu' semplice per affrontare la questione sia di dimostrare che il male compiuto dai nazisti non era un male primitivo ma grondava cultura, era un male che nasceva da una cultura evoluta, la cultura del nostro tempo. Rimangono infine altri due punti importanti. Il primo e' dato dalla contraddizione tra il forte senso di giustizia che emana dalle risposte al questionario e dall'altra la percezione dell'impotenza della Giustizia di fronte a crimini di quella portata. Qui penso si debba saper mostrare come il male si alimenti molto spesso di interessi di basso profilo, di paure banali. Il male, anche quello molto grande, ha in realta' le sue origini, le sue radici nel molto piccolo, nella vita quotidiana, nelle azioni all'apparenza irrilevanti di tutti i giorni. E' su quel terreno che si deve indagare e anche, dove necessario, agire. I grandi principi, se non sanno calarsi nella realta' di tutti i giorni, non valgono assolutamente nulla. L'ultima considerazione riguarda il forte interesse specifico nei confronti dello sterminio che risulta dalle risposte al questionario e piu' in generale dalla grande disponibilita' con cui oggi viene accolto un corso su un tale argomento; insieme a questo pero' la presenza, dietro e dentro quell'interesse, di motivazioni che rinviano a tante altre cose, non sempre cosi' chiare. Molto spesso ansie, paure, preoccupazioni frutto della realta' attuale vengono in vario modo proiettate su quel tema specifico e contribuiscono a caricarlo di significati ulteriori. E qui vorrei proporre un'unica citazione che mi ha colpito in modo particolare. Dice una delle risposte alla domanda sui sentimenti suscitati dal pensiero dello sterminio: "Paura di essere influenzata, plagiata, ingannata da altri individui, paura delle decisioni di massa e di non pensare e agire autonomamente". Mi sembra una risposta molto eloquente, che richiama situazioni e problemi molto vicini a noi, di fronte alla quale - come pure di fronte a tante altre - si tratta si' di parlare dello sterminio in modo sistematico e rispettando tutte le indicazioni cui si e' appena accennato. Ma senza trascurare il resto, senza rinunciare a individuare le innumerevoli domande e sollecitazioni derivanti dalla realta' di oggi che attribuiscono tanta maggiore attualita' a quell'argomento in particolare. Oltre a questo, bisogna cercare di capire come si realizzano quei fenomeni di proiezione, per quali ragioni, in quali condizioni specifiche. Il tema di cui stiamo discutendo va collocato ogni volta in un contesto piu' ampio che comprende fra le altre cose la vita, la realta' quotidiana delle persone che abbiamo di fronte. Mi avvio ora alla conclusione. Molto spesso ci si lamenta di una diffusa tendenza ad appiattire la storia e si attribuisce la responsabilita' di tutto questo in primo luogo ai mezzi di comunicazione di massa che, rimescolando in modo disordinato i fatti del passato e del presente finirebbero per cancellare ogni distinzione di tempo, di spazio, di rilevanza e cosi' via. Riguardo allo sterminio nazista una qualche forma di appiattimento o, meglio, una sorta di corto circuito tra passato e presente risulta evidente anche in molte risposte pubblicate nel libro di cui stiamo discutendo. Ma, oltre a ricondurre tale fenomeno alle condizioni generali che tendono a determinare il modo in cui oggi si guarda alla storia, sarei portato a considerare nel nostro caso un fattore specifico e ulteriore. E' l'enormita' dello sterminio che finisce per pesare fortemente sul presente, per ridurre la distanza tra quel passato e il nostro presente, facendo appello innanzitutto alla nostra sensibilita'. Non senza che sia pero' necessario misurarsi con un tale problema. Credo anzi che si debba fare uno sforzo per recuperare la distanza da quanto e' accaduto ormai quasi sessant'anni fa, proprio per poter valutare appieno la dimensione reale, l'importanza e la gravita' di quello che e' successo. Si tratta insomma di fare quanto bisognerebbe fare sempre quando si studia la storia: da un lato lasciarsi coinvolgere dalla realta' che si sta considerando, per partecipare anche emotivamente a quanto e' accaduto nel passato, ma nello stesso tempo tentare di ricondurre quella realta' al contesto particolare del periodo per analizzarla meglio, per avviare utili confronti, per andare oltre un approccio puramente empatico e sentimentale. Sapendo pero' che su certi temi tutto questo e' molto piu' difficile che su altri. * L'intervento di Anna Bravo Prima di entrare nel merito di due punti che mi hanno colpito in particolare, vorrei dire che questo libro e' veramente importante; fa pensare moltissimo anche persone come me che su questo lavorano da vent'anni. Credo che sia dovuto in parte anche al metodo: il questionario aperto o parzialmente aperto, che da' quindi la possibilita' di scrivere i propri pensieri, e' sicuramente un buon modo per far esprimere la soggettivita' delle persone. Non c'e' bisogno di scrivere sette pagine; a volte, anzi, una scrittura limitata ti costringe a selezionare e diventa anche piu' significativa. L'altro elemento che mi fa apprezzare questo libro e' che i duecento studenti e studentesse che hanno risposto al questionario non sono stati considerati come un campione rappresentativo della loro fascia di eta'. Ci sono tantissime inchieste sui giovani: se ne scelgono un certo numero secondo criteri statistici e poi si dice: "I giovani pensano cosi'...". Per lo piu' servono a poco. Quello cui si fa riferimento nel libro era invece un microgruppo con un progetto in comune e una scuola alle spalle di tipo simile, nulla di piu'. Le parole e le interpretazioni di ragazze e ragazzi non sono state forzate attribuendo loro un significato generale, per dimostrare qualcosa, o, peggio ancora, per prendere chi le aveva espresse come indicatore dei problemi della societa'. E' un secolo che il mondo occidentale si e' accorto che ci sono i giovani; quando si affaccia un nuovo problema lo si vuole sempre vedere attraverso la lente del "problema dei giovani", e spesso si proiettano semplicemente i problemi del mondo adulto. I due aspetti appena indicati, oltre all'invito esplicito a nominare le emozioni che sono secondo me una forma molto alta e creativa di conoscenza, danno al libro che stiamo discutendo una forza particolare, ne fanno una risorsa a nostra disposizione: ogni risposta e' un'occasione per pensare, per suscitare nuove idee. Un'altra cosa da dire e' che queste studentesse e studenti hanno un'informazione concettuale molto buona. Dieci anni fa alla Facolta' di Magistero avevo fatto un questionario analogo, anche se non cosi' articolato, e ne era emerso che l'informazione era molto piu' grezza. Qui invece si fa una cosa che gli storici fanno ma che non e' detto si debba saper fare a vent'anni: lo sterminio viene collocato su due assi cronologici, riferiti a due aree tematiche diverse. Da un lato la storia dei totalitarismi e in proposito vedo che molti citano anche il totalitarismo sovietico, un dato importante nel quadro interpretativo; dall'altro la storia delle persecuzioni contro gli ebrei, dell'antisemitismo. Si potrebbero individuare anche altri assi temporali e tematici, ma quelli sono fondamentali e ci sono tutti e due. Credo sia anche un effetto della particolare attenzione che si da' a questi temi nelle scuole di Torino. Sul piano delle nozioni riscontro invece la stessa vaghezza che avevo notato dieci anni fa. Di fronte a questo limite mi viene proprio da dire "viva le nozioni", non in generale, ma su questo tema certamente. Se infatti un giorno vi trovate a discutere con qualcuno che non vuole saperne di ammettere quel che e' successo, dovete sapere, dovete dire le cose il piu' possibile vicine a come si sono svolte veramente o a come noi siamo in grado oggi di ricostruirle dal punto di vista storico. Si tratta insomma di acquisire nozioni finalizzate a una concettualizzazione che gia' c'e', e che rappresenta un'acquisizione veramente importante. Detto questo, vorrei fermarmi brevemente su due punti. Il primo e' gia' stato enunciato ed evidentemente ha interessato tutti: e' quello degli stereotipi. L'ho sperimentato solo pochi giorni fa su di me, con che facilita' gli stereotipi entrano in gioco appena smettiamo di pensare. Con che "naturalezza" il nostro vuoto di pensiero viene subito sostituito da un pieno di idee formulate tanto tempo prima, da un pensiero tra virgolette, da un pensiero cristallizzato, morto. Questa e' una minaccia continua, non possiamo mai dire: ho fatto la mia lotta contro i pregiudizi e ho vinto, non si vince mai. Vi faccio un esempio ridicolo, visto che faccio la storica. Mi sono trovata, condizionata anche dalla fretta, sul punto di scrivere, parlando della Grande guerra, che gli irredentisti volevano il "ritorno" di Trento e Trieste all'Italia. Mentre si sarebbe dovuto parlare piu' correttamente di "annessione", anche se non in senso peggiorativo perche' c'erano popolazioni non italiane e anche popolazioni italiane. Ma il linguaggio politico e la propaganda di allora usavano il termine "terre irredente" perche' non erano "tornate" alla madre patria: di qui la formula del "ritorno di Trento e Trieste". E io stavo scrivendo proprio questa scemenza, perche' senza volerlo stavo lasciando spazio al luogo comune tramandato attraverso questi 80 e piu' anni. Ho una grande paura della vischiosita' dei pregiudizi, del loro potere di manipolare, distorcere. Si dice ad esempio - mi riferisco qui a molte risposte riportate nel libro - che gli ebrei siano particolarmente attaccati alla ricchezza e al potere. E' uno dei contenuti piu' durevoli dello stereotipo, altri sono caduti, per esempio quello diffuso a cavallo tra '800 e '900 della lascivia degli ebrei, del loro essere seduttori, e in quanto tali una minaccia per le famiglie: in quel periodo c'era una vera ossessione sulla sessualita', sulla sanita' della stirpe, sull'educazione demografica, un'osssesione supportata dall'opinione di "esperti", di intellettuali, di scienziati che davano veste autorevole agli stereotipi, che alimentavano paure. Agli ebrei veniva anche attribuita la tendenza a non rispettare la legge, programmaticamente, e in proposito venivano accomunati alle donne. Di tutto questo non si parla quasi piu'. Invece restano saldi questi contenuti legati al possedere, al contare. Mi chiedo intanto se gli studenti di Roma avrebbero risposto allo stesso modo, perche' a Roma chiunque ha esperienza diretta di strati di popolazione ebraica che fanno lavori di non particolare rilievo economico. In fondo un'inchiesta registra sempre dei pregiudizi vecchi adattati a situazioni particolari e anche delle sfumature nuove. Nell'introduzione del libro si dice giustamente che, se il questionario fosse stato proposto dopo che la stampa ha parlato della pulizia etnica in Kosovo, forse le risposte sarebbero state diverse. Ma consideriamo un aspetto interessante dello stereotipi sulla ricchezza. C'e' una risposta sul come gli ebrei avrebbero eventualmente contribuito ad alimentare una diffusa ostilita' nei propri confronti, che dice: "molti ebrei erano banchieri". Questa e' apparentemente un'enunciazione di fatto, non contiene un giudizio di valore: molti ebrei erano banchieri, punto. "Molti" cosa vuol dire? Puo' voler dire il 50% piu' uno? Abbassiamo il numero; diciamo il 30%. Sembra una stima abbastanza plausibile. Ma gli ebrei in Italia erano 40.000 e allora, se e' corretta la frase "molti ebrei erano banchieri", vorrebbe dire che circa 10.000 di loro erano banchieri. Il che e' evidentemente una sciocchezza. La frase giusta, libera dal pregiudizio, avrebbe dovuto essere semmai: "molti banchieri erano ebrei". Vedete come il pregiudizio fa dire cose che sembrano innocue e sensate e invece sono insensate e dannose? Se io vengo qui e vi dico: molti ventenni fanno i calciatori professionisti, voi mi dite: ma lei e' pazza. Se invece vi dico: molti calciatori professionisti sono ventenni la mia diventa realmente un'enunciazione di fatto. Cosi' funziona il pregiudizio: si scambia il soggetto col predicato in un modo apparentemente innocuo, dopodiche' finisce che la frase ha assunto un significato completamente diverso, si e' caricata di contenuti ideologici forti. Lo stereotipo e' stupido, ma e' anche subdolo, ci prende senza che ce ne accorgiamo. Proprio per questo dicevo che sarebbe bello leggere frase per frase questo libro. A volte il pregiudizio e' rifiutato con grande nettezza. C'e' una risposta che dice degli ebrei negli anni dello sterminio: "se anche fossero stati statue, li avrebbero uccisi lo stesso". Il che vuol dire: non li avrebbero uccisi solo se fossero stati gia' morti. E' un modo questo di alzare una barriera rigidissima per difendersi dalla pervasivita' del pregiudizio. Passo ora al secondo tema che mi ha colpito di questo lavoro e che attraversa le risposte a diverse domande: quelle sulle cause dello sterminio, sull'atteggiamento di fronte all'ipotetico coetaneo negazionista e sugli antidoti contro una possibile ripetizione dello sterminio. Cominciamo dalle cause dello sterminio. C'e' a volte negli storici la tentazione di spiegare tutto quando invece non tutto si puo' spiegare; rimane in questa parte di storia, ma anche nella storia in generale, un tanto di enigmaticita' che gli storici per primi devono riconoscere. Non possiamo spiegare tutto; devono contribuire altre discipline o forse ci vogliono il romanzo e la poesia, per il tipo di conoscenza che posssono offrire, quella fondata sull'identificazione. Ma veniamo ai nostri problemi. Quando si parla del nazismo c'e' anche da fare i conti, come peraltro sottolineano molte risposte al questionario, con l'elemento della follia: Hitler era un pazzo, ci fu un impazzimento collettivo... Io credo che Hitler fosse anche un pazzo, sicuramente, come lo era Stalin, qualcuno ha parlato di personalita' paranoiche. Pero', se pure la sua pazzia e' stata una variabile determinante della storia di quegli anni, ha potuto contare tanto anche perche' aveva al suo servizio un apparato enorme. E allora, mi chiedo: da parte di chi sottolinea l'elemento della pazzia, c'e' il riconoscimento di questa complessita' oppure c'e' invece piu' che altro la paura di ammettere che il male c'e' stato, ci puo' essere, che non e' sempre padroneggiabile, che anzi spesso vince? Un interrogativo simile mi pare sia sotteso a una parte dei discorsi che ragazzi e ragazze rivolgono al coetaneo negazionista, e che hanno un'impronta profondamente illuminista. Sembra infatti che informare sia... Intendiamoci, informare e' un dovere, assolutamente e sempre... Pero', da certe risposte sembra che l'informazione sia la vera soluzione, sia terapeutica, sia taumaturgica. Non e' cosi'. Molti nazisti erano persone di cultura raffinata, intendendo per cultura il sapere molte cose, dell'arte, della scienza o del passato; ma malgrado questo erano nazisti convinti. La cultura, la conoscenza non preservano di per se' dall'accogliere il male, non necessariamente un male demoniaco, ma un male concreto, banale, nel senso in cui ne parla Hannah Arendt. E' cosi' anche per il tema del ricordo come antidoto alla ripetizione dei crimini. Il ricordo e' uno degli strumenti piu' forti, tanto piu' se passa attraverso delle persone come i nostri amici che hanno testimoniato tante volte e spero tante altre volte vorranno ancora testimoniare in futuro. E' importante, e' una grande speranza, e' una grande possibilita'. Ma ricordare non offre di per se' nessuna garanzia. Ci sono persone che ricordano benissimo, ma gli va bene quello che e' avvenuto. Ci sono persone o regimi che hanno ricordato e preso a modello le cose peggiori. Lo stesso Hitler si e' sentito legittimato a procedere allo sterminio degli ebrei proprio perche' ricordava che dalla fine del secolo gli Armeni erano stati vittime di pogrom e nel 1915 di sterminio sistematico, e che tutto questo era rimasto impunito. Tutti avevano dimenticato la distruzione degli Armeni, mentre invece sarebbe stato doveroso ricordare. Hitler pero' ha ricordato e ha concluso: posso fare quello che voglio perche' tanto e' gia' successo con gli Armeni, e nessuno ne parla piu'. Il ricordo vale solo se c'e' autocoscienza, se viene elaborato individualmente e collettivamente. Ancora un'ultima cosa sui processi di identificazione che emergono nel libro da immagini anche molto belle: c'e' ad esempio quella del cappottino rosso ripresa da Schindler's List, che ci ha colpito tutti. Si tratta spesso di immagini che riguardano la singola persona, e non stupisce. In un libro recente di Annette Viewiorka, L'era del testimone, l'autrice racconta i risultati di varie ricerche svolte negli Stati Uniti e in Europa: quello che resta in mente ai lettori e agli spettatori sono le vicende individuali, le storie di vita, e resta in mente quel che viene trasmesso in forma narrativa, ben piu' che in forma saggistica. Nel libro c'e' anche qualcuno che cita Guccini e penso che questo gli sia arrivato da un padre, da una madre, da un insegnante, perche' la canzone "Auschwitz" e' stata scritta nel '64 ed edita nel '67, quindi... Dicevo di questa forma di identificazione che secondo me e' la forma di conoscenza piu' impegnativa e raffinata: metti una parte di te dentro la vita di un altro, fai entrare la vita di un altro dentro di te. Mi ha emozionato molto sentir dire da voi: "E se fossi stato tu, se fosse successo a te? Scemo!". Mi e' venuto in mente pero' che anche da questo, che pure dobbiamo considerare un dovere, non possiamo mai aspettarci una remunerazione garantita, cioe' che l'altro necessariamente capisca, anche perche' identificarsi con la vittima a volte e' molto difficile. C'e' un'ampia letteratura su questo: l'identificazione crea un'angoscia tale che non ce la fai, tieni le distanze. E poi ci sono persone che si identificano con i carnefici; persone che hanno letto i libri giusti, visto i film giusti, e che trovano seducente la figura del carnefice. Non possiamo non prendere atto anche di questo. Il fatto e' che tutte le cose che e' nostro dovere fare, continuare a fare e fare sempre meglio non bastano da sole. Alcune risposte alla domanda su quali potrebbero essere gli antidoti a un nuovo sterminio sottolineano giustamente l'importanza delle istituzioni internazionali, parlano di salvaguardia della democrazia interna ai paesi, ecc. Io aggiungerei che una cosa essenziale e', ancora prima, l'isolamento sociale di chi propone discorsi di razzismo violento o negazionista, non nel senso che bisogna uccidere o rinchiudere veramente, materialmente, costoro in uno "sgabuzzino buio", anche se trovo questa risposta veramente molto illuminante e civile. Lo sgabuzzino buio dev'essere metaforico, devono sentire che non c'e' ascolto per quei discorsi. Allora, ricordare, informare, aiutare a identificarsi... Il male pero' esiste, scusate questa insistenza. Dev'esserci percio' una societa' in grado di isolare materialmente, anche se non con la violenza, quel genere di posizioni. E' l'unico modo che sia in grado di coinvolgere noi, voi, tutti, le scuole ecc. Perche' chi esibisce la svastica negli stadi non e' necessariamente un povero sprovveduto: puo' darsi che gli vada bene inveire all'ebreo e fare cose del genere. Non resta dunque altro se non un isolamento implacabile, lasciando pero' sempre aperta una porta al dialogo, per poter cogliere negli altri anche i piu' piccoli segni di disponibilita'. Credo che questa frase dello sgabuzzino buio abbia colpito molti di noi proprio perche' rappresenta visivamente l'autodifesa della societa' per prevenire, per impedire che le cose degenerino. Dico questo pensando alla Germania del 1932-'33, cioe' alla vigilia e subito dopo la presa del potere da parte di Hitler. La Germania non era particolarmente antisemita, lo era molto di piu' la Russia, eppure ha fatto molto poco per isolare i nazisti. Quando sai che uno si iscrive al partito nazista e va a spaccare la vetrina di un negozio ebraico, puoi per esempio, nella tua cerchia amicale, espellerlo. C'e' una possibilita' di lotta anche nel privato, che e' uno strumento forte, se uno si trova escluso per un dato motivo sara' costretto a pensarci, il fatto in se' puo' far riflettere altri. Certo, la Germania dei primi anni Trenta viveva un momento di grande disgregazione sociale, anche perche' invadere o distruggere le strutture dela coesione sociale, dalle associazioni culturali fino alle bocciofile, e' stato da subito un obiettivo dei nazisti, che si rendevano ben conto della loro importanza. Pero' restavano possibilita' di agire, e senza rischi terribili, in molti ambienti della cultura, nelle famiglie, nella vita privata e non e' stato fatto se non in pochi casi. Se nelle cerchie socialmente importanti della Germania anni '30 i nazisti conclamati non fossero stati invitati in particolari occasioni, se un prete da un pulpito avesse detto: queste cose non devono esistere... ma l'hanno fatto molto dopo. Ci sono tanti modi con cui la societa' si puo' difendere, non c'e' solo lo stato, c'e' tutta una innervatura di legami sociali che si possono manovrare, ci sono cose che la gente si puo' inventare, e' che li' non si sono inventati quasi niente, in particolare non lo ha fatto la gente rispettabile, che non ha preso posizione oppure ha aderito al nazismo, e cosi' il nazismo ha assunto un'aura di rispettabilita'... Cito ancora una volta Hannah Arendt, che dice che a rifiutare di adeguarsi al nazismo non sono state le persone piu' colte, piu' "morali" o socialmente piu' integrate: queste per lo piu' si attenevano ai vecchi criteri di comportamento senza rendersi conto di quanto ormai servivano a poco in una situazione in cui era lo stato stesso a essere diventato criminale. A rifiutare di lasciarsi contaminare dal nazismo spesso sono state persone che non si distinguevano ne' per particolari doti morali in senso tradizionale, ne' per particolare cultura, ne' per impegno o formazione intellettuale, pero' avevano capito che il vecchio sistema morale non bastava piu', e erano abbastanza forti e forse anche abbastanza arroganti da pensare di avere ragione loro anche se la stragrande maggioranza dei tedeschi sembrava pensarla in modo opposto. In fondo, in tema di isolamento sociale, non e' neppure detto che sia necessario fare parte di un gruppo: ognuno di noi nel suo privato e' padrone di accettare o di estromettere chi vuole, anche una singola persona, da sola, puo' dire: "Tu, che dici queste cose, dal momento che le dici e continui dopo che io ti ho spiegato ... nel mio spazio non hai diritto di cittadinanza". 2. DOCUMENTI. LA LEGGE ISTITUTIVA DEL GIORNO DELLA MEMORIA Legge 20 luglio 2000, n. 211: Istituzione del Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 177, 31 luglio 2000). * Art. 1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonche' coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. * Art. 2. In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all'articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto e' accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell'Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinche' simili eventi non possano mai piu' accadere. ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 148 del 27 gennaio 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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