Minime. 299



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 299 del 10 dicembre 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Peppe Sini: Ancora sull'abbattimento delle abitazioni dei rom a Roma
2. Ancora sulle stragi di "presunti talebani"
3. Vincenza Perilli: Chi ha paura del separatismo?
4. Patricia Tough: Quando il separatismo assume un doppio valore simbolico
5. Rossana Rossanda presenta "Principia iuris" di Luigi Ferrajoli
6. Tecla Mazzarese presenta "Principia iuris" di Luigi Ferrajoli
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. PEPPE SINI: ANCORA SULL'ABBATTIMENTO DELLE ABITAZIONI DEI ROM
A ROMA

L'abbattimento delle abitazioni (e la distruzione dei beni che esse
contenevano) di moltissime famiglie rom nelle periferie della capitale,
devastazione decisa, fatta eseguire e trionfalmente rivendicata dal sindaco
di Roma come atto inteso a costringere chi le abitava ad andarsene da Roma e
dall'Italia, e' un crimine contro l'umanita'.
Un crimine di fronte al quale dovrebbe esserci un'insurrezione morale di
tutte le persone di retto sentire e di volonta' buona; dovrebbe esserci
immediato l'intervento della polizia e della magistratura per arrestare,
processare e condannare chi ha deciso, fatto eseguire e finanche
pubblicamente vantato un atto cosi' disumano, cosi' delittuoso, cosi'
tipicamente modellato su logiche e condotte mafiose, naziste.
Il capo dello stato, il governo e il parlamento dovrebbero intervenire per
stigmatizzare l'accaduto, riaffermare la legalita' democratica, la vigenza
della Costituzione e dello stato di diritto, e risarcire le vittime; il
popolo italiano tutto dovrebbe condannare il pogrom.
Invece e' il silenzio.
*
Peggio del silenzio: la complicita' effettuale, il sostegno tronfio, il
godimento sadico.
Le televisioni riprendono e trasmettono il pogrom, da casa (le nostre case,
che ancora non vengono rase al suolo in virtu' della nostra casuale
appartenenza alla preclara razza italica) tanta parte del pubblico della
prima serata - ben addestrato da anni ed anni di ideologia razzista, mafiosa
e totalitaria profusa a piene mani e a reti unificate dalle televisioni
tutte - annuisce, grugnisce soddisfatto, mentre attuffa il volto nel piatto
della pastasciutta.
*
Scrivo queste cose e mi guardo intorno sperando che qualcun altro dica
almeno: "E' vero. E' proprio la stessa modalita' d'azione dei nazisti di
sempre e d'ovunque: distruggere le abitazioni per cacciare chi le abitava.
E' proprio la logica dei pogrom, delle deportazioni, delle pulizie etniche.
E' razzismo, e' fascismo. Come possiamo permettere tutto questo?".
Invece e' il silenzio.
Anzi, peggio del silenzio.
*
Quando a fondo ha scavato la tabe che ha consunto tutto cio' che una volta
fu la democrazia nel nostro paese.

2. EDITORIALE. ANCORA SULLE STRAGI DI "PRESUNTI TALEBANI"

Quando apprendo dai mass-media del ministero unificato della guerra e della
cultura popolare che la coalizione dei virtuosi - l'armata di occupazione
imperialista e razzista di cui l'Italia fa parte - ha individuato e
abbattuto altri "presunti talebani", so cosa vuol dire in lingua italiana:
che abbiamo fatto un'altra strage di innocenti e di patrioti in Afghanistan.
Che abbiamo compiuto un altro atto di terrorismo su di un popolo martoriato,
che abbiamo ancora una volta detto al mondo intero: uccidere e' tutto,
l'umanita' e' nulla. La ragione e' di chi stermina tutti.
*
Ad ogni terrorismo occorre opporsi. Ad ogni guerra, ogni esercito, ogni
arma.
A tutte le uccisioni occorre opporsi, a tutte le violenze. Ed ogni vita
umana avere a cuore.
Cessi la partecipazione italiana alla guerra terrorista e stragista in
Afghanistan.
Torni l'Italia al rispetto del diritto internazionale e della legalita'
costituzionale.
Si adoperi l'Italia per la pace nell'unico modo con cui la pace si
costruisce: con mezzi di pace, salvando le vite. Ripudiando la guerra, gli
eserciti, le armi.
La sola politica adeguata alla presente distretta dell'umanita' e' quella
che assume la nonviolenza come criterio e come prassi. Solo la nonviolenza
puo' salvare l'umanita'.
La nonviolenza e' l'unica possibile politica del XXI secolo.

3. RIFLESSIONE. VINCENZA PERILLI: CHI HA PAURA DEL SEPARATISMO?
[Dal sito de "IL paese delle donne" (www.womenews.net/spip3/).
Vincenza Perilli, intellettuale ed attivista femminista, acuta saggista e
libera ricercatrice, cura il sito di "Marginalia"
(http://marginaliavincenzaperilli.blogspot.com/)]

Vorrei focalizzare l'attenzione sul dibattito, acceso e appassionato, che si
e' sviluppato - essenzialmente tra donne - nella fase preparatoria della
giornata del 24, discussione prevalentemente concentrata sulla scelta delle
organizzatrici (e condivisa da molte delle donne presenti a Roma nelle due
assemblee preparatorie nazionali e di molte che hanno partecipato alla
discussione altrove) di caratterizzare l'iniziativa come una manifestazione
di sole donne.
Ritengo che il confronto e le diversita' siano elementi preziosi in ogni
processo e progetto politico. Nondimeno vorrei rilevare come, a mio parere,
questa discussione si sia svolta su delle false premesse che, se da una
parte non sono state in grado di cogliere le reali motivazioni dell'opzione
"separatista", dall'altra hanno rivelato una non conoscenza delle molteplici
e distinte espressioni storiche del separatismo, del dibattito che le ha
accompagnate e delle inedite e "fluttuanti" configurazioni assunte da questa
pratica politica nel contesto odierno, soprattutto in quelle che - con
termine ambiguo, ma oramai corrente -, vengono definite "giovani
generazioni" femministe.
Nonostante il singolare usato nel titolo che ho dato a questo mio
intervento, sarebbe opportuno parlare di "separatismi", cosi' come oramai si
e' da qualche anno consolidato l'uso di parlare di "femminismi", non senza
importanti conseguenze teoriche. Innumerevoli e diversificate sono le forme
che la pratica separatista ha assunto nel corso della storia dei femminismi
e soprattutto le riflessioni che ha generato.
Basti pensare al movimento suffragista che, pur essendo nella maggioranza
"misto", gia' percepiva distintamente il rischio costituito dalla presenza
degli uomini, della loro tendenza (non "naturale", ma che attiene a rapporti
di potere asimmetrici) al leaderismo, l'attentato continuo all'autonomia
delle donne, la maggiore difficolta' per queste ultime di prendere, in un
ambito politico misto, parola e decisioni, di dimostrare (a se stesse e
alle/agli altre/i) la propria capacita' di assumersi - e di sapersi
assumere - quelle responsabilita' generalmente ritenute appannaggio
esclusivo degli uomini.
Da qui la necessita' di ritagliarsi "spazi", o anche soltanto "momenti", tra
"sole donne".
Cio' nonostante, in un certo immaginario - soprattutto maschile, ma non
solo - il separatismo e' legato indissolubilmente al movimento femminista e
lesbico degli anni '70, con l'immagine minacciosa di una guerra totale dei
sessi, cio' che denota anche lo shock, non ancora superato, costituito
dall'entrata in scena di un forte ed autonomo movimento delle donne.
"Atto fondatore" del femminismo degli anni '70, come e' stato definito da
Francoise Picq nella sua bella ricostruzione delle vicende del movimento
femminista francese degli anni '70, il separatismo e', anche in quel
periodo, lontano dall'essere una pratica totalmente condivisa e, soprattutto
lontano dall'essere accettato "pacificamente" dagli uomini, anche da quelli
che all'epoca, si chiamavano "compagni".
In Italia, ad esempio, esistono in quegli anni, gruppi "misti" e che tali
resteranno, donne che praticano la cosiddetta "doppia militanza", cioe' la
contemporanea attivita' politica in gruppi della sinistra e dell'estrema
sinistra e in gruppi di donne, gruppi che inizialmente sono aperti agli
uomini (come ad esempio il Demau e Il cerchio spezzato) e che solo in
seguito adotteranno la pratica separatista.
Questa era, inizialmente, segno distintivo solo dei primissimi gruppi di
autocoscienza (essenzialmente i gruppi di Rivolta Femminile) e del movimento
lesbico, prima di diventare pratica condivisa dalla maggioranza del
movimento delle donne.
Ma soprattutto il separatismo e' una pratica multiforme: diverse erano le
motivazioni e le modalita' del "separarsi" che esistevano anche tra chi
aveva fatto questa scelta, tra le militanti femministe e le militanti
lesbiche.
Delle differenze (importanti) sussistevano anche all'interno di queste due
(principali) "configurazioni", come ha mostrato, ad esempio, Nerina Milletti
per il movimento lesbico, in un interessante saggio che ripercorre le due
pratiche - per certi versi contraddittorie - del separatismo e della
visibilita'.
Il separatismo, quella necessita' di "darsi la liberta' di non essere
referenziali al potere" (Daniela Pellegrini in una significativa intervista
raccolta da Nicoletta Poidimani), pratica di "sottrazione", piuttosto che di
"esclusione" (ancora Milletti), poteva avere delle ragioni di ordine tattico
o contingente, delle ragioni di tipo teorico o politico.
Poteva andare da riunioni precluse agli uomini, senza che questo
significasse una pratica separatista nella quotidianita', a forme di
"nazionalismo" lesbico, contestate in un oramai celebre articolo di Ti-Grace
Atkinson.
Poteva basarsi su un discorso di tipo "essenzialista", o fatto proprio da
gruppi decisamente anti-essenzialisti, si pensi soltanto ai gruppi
separatisti che avevano come punto teorico di riferimento, l'analisi
"materialista" sviluppata da Christine Delphy in L'ennemi principal, uno dei
testi chiave di quegli anni.
I gruppi potevano essere costituiti solo da donne (eterosessuali e
lesbiche), o viceversa includere alcuni uomini (i gay). Potevano essere
gruppi di sole lesbiche o, come ad esempio negli Usa, di sole donne nere
(eterosessuali e lesbiche), o di sole lesbiche nere. C'e' stata anche
l'esperienza di chi, e penso al Combahee River Collective - collettivo di
donne e lesbiche nere, pioniere del Black Feminism -, ha rifiutato, senza
per questo desolidarizzarsi dal resto del movimento femminista, il
separatismo, in nome della comune esperienza del razzismo con gli uomini
neri.
In questo scenario piuttosto variegato, l'unico elemento che sembra
realmente omogeneo e' la reazione di rifiuto, anche violenta, che la pratica
del separatismo ha suscitato negli uomini.
Se la "secessione delle donne" - come ha sottolineato in un saggio sul
"separatismo come metafora" Liliane Kandel -, rianimava i fantasmi arcaici
della guerra tra i sessi, il vero "scandalo" del separatismo risiedeva nel
suo carattere metaforico o simbolico, nella sua capacita' di veicolare - con
immediatezza e "violenza" - un certo numero di messaggi.
La scelta separatista denunciava il carattere "non misto" della nostra
societa' (l'esclusione delle donne da luoghi, attivita', istituzioni;
esclusione che, quando non sancita dal diritto, lo era nei fatti), nominava
l'esclusione e l'oppressione di tutte le donne in quanto gruppo e delle
singole donne in quanto individuo, annunciava la presa di coscienza e la
rivolta nascente, designava infine "l'identita' dell'oppressore", non piu'
soltanto un "sistema" (capitalista o patriarcale), ma un gruppo sociale
definito (e insisto sul gruppo sociale): quello degli uomini.
Sarebbe bastato, forse, gettare uno sguardo verso questo passato, verso
questa storia cosi' complessa e istruttiva, eppure inspiegabilmente
dimenticata o mai appresa, per evitare alcune delle semplificazioni che
hanno contraddistinto il dibattito sul separatismo (nella forma della rigida
contrapposizione separatismo si'/separatismo no) prima e durante la grande
manifestazione del 24 a Roma "contro la violenza maschile sulle donne".
Tornando brevemente sulla discussione pre-manifestazione, la scelta di un
corteo di sole donne - che tra l'altro ho condiviso -, viene contestata da
alcune donne (e solo in seguito, e marginalmente, da uomini) in quanto
giudicata "discriminatoria" soprattutto verso coloro che, pur se
"biologicamente" di sesso maschile, subiscono e/o combattono la violenza in
prima persona, come i gay, i trans FtM o gli uomini impegnati in una critica
della "mascolinita'".
Questa decisione viene inoltre percepita come un'imposizione dall'alto di
una pratica non piu' condivisa e le donne che la sostengono vengono tacciate
di "veterofemminismo" (creando, tra l'altro una fittizia contrapposizione
tra "giovani" e "vecchie") e di farsi portatrici con questa scelta di un
discorso di tipo identitario, essenzialista e finanche "razzista".
Visto come un pericoloso arretramento culturale che individua
nell'appartenenza "biologica a un genere la legittimita' di partecipazione e
mobilitazione", sordo ad "anni di contaminazioni queer e critica trans", lo
spettro del "separatismo" (parola invero mai nominata nel documento di
convocazione della manifestazione), comincia ad aggirarsi nel dibattito.
Nei discorsi privati e pubblici, cosi' come nelle mailing list, nei siti e
nei blog di singole donne, gruppi e associazioni coinvolti
nell'organizzazione, la discussione cresce in maniera esponenziale man mano
che la data della manifestazione si avvicina. Il 18 novembre l'inserto
domenicale di "Liberazione", "Queer", dedicato alla manifestazione del 24,
pubblica due articoli che dovrebbero illustrare le due posizioni separatismo
si'/separatismo no verso le quali si e' rapidamente polarizzata - e, forse,
cristallizzata - la discussione. Se l'irrigidimento di questa
contrapposizione ha rischiato di indurre, come e' stato da piu' parti
sottolineato, un rischioso allontanamento da quello che era l'obiettivo
primario della manifestazione, esso ha anche prodotto una semplificazione
drastica e riduttiva delle ragioni e dei problemi in campo.
Mi sono chiesta - e mi chiedo - perche' e' intorno alla scelta di "un"
corteo separato che si e' acceso il dibattito, un dibattito che ha posto in
maniera forte il problema dell'essenzialismo e/o del "razzismo", veicolato
dai nostri discorsi e dalle nostre pratiche.
Mi sono chiesta perche', se altre questioni si possono - strategicamente -
"mettere nel cassetto" come sottolineava Gaia Maqi Giuliani nel suo articolo
su "Liberazione", senza (quasi) suscitare discussioni, questo non e'
possibile con il separatismo, nonostante in molte ne abbiano spiegato la
contingenza.
Mi e' sembrato, del resto, troppo "facile" e mistificante mettere sul conto
dell'opzione in favore di una manifestazione separata, in una certa
circostanza, un certo giorno e su un certo tema, i guasti prodotti da un
essenzialismo che, in Italia, ha nutrito una lunga egemonia del "pensiero
della differenza sessuale" e che ancora pervade pratiche e discorsi di
diversi femminismi, talvolta in maniera "inconsapevole", come ha
sottolineato Lidia Cirillo nel suo Meglio orfane.
Troppo facile, e forse consolatorio, mettere sul conto del "separatismo" le
difficolta' storiche proprie a molt* di interrogarsi sul nodo cruciale
sessismo e razzismo, tema che ha assunto con troppo ritardo - e solo
"grazie" alla campagna ignobile montata da politici e media dopo l'omicidio
di Giovanna Reggiani - una posizione centrale nel dibattito pubblico, senza
peraltro, e mi sembra sintomatico, suscitare una necessaria riflessione sul
razzismo "interno" alle stesse teorie e pratiche femministe (e qui mi
permetto di rinviare al mio contributo a Donne di mondo, recente numero
della rivista "Zapruder" sui femminismi transnazionali).
Mi sono chiesta ancora se le critiche mosse alla scelta separatista oltre a
denotare una non conoscenza delle configurazioni assunte nel passato dal
separatismo, manifestassero anche ignoranza di quelle attuali.
In una ricerca sulle giovani generazioni femministe in Francia, ad esempio,
Liane Henneron, ha mostrato come - sullo sfondo del peculiare, e talvolta
conflittuale, rapporto di rottura/continuita' che lega le "giovani"
militanti al femminismo degli anni '70 -, non esista una modalita' univoca
nelle forme adottate dalle militanti per relazionarsi con gli "altr*".
Se privilegiare situazioni "miste" sembra maggioritario (e talvolta con una
volonta', non sempre esplicita, di "smarcarsi", attraverso il rifiuto del
separatismo, da una certa immagine del femminismo), non mancano situazioni
in cui la strategia politica del separatismo e' rivendicato e rimodulato in
forme inedite.
Basti pensare al gruppo parigino delle Furieuses Fallopes, che nel 2005
organizzarono una grande manifestazione separatista notturna contro la
violenza sessista, manifestazione che suscito', sia detto per inciso, una
qualche ostilita' da parte di alcune "vecchie" e l'entusiasmo contagioso
delle piu' "giovani".
La strategia politica separatista e' reinventata a partire dalle
"contaminazioni queer" e dall'opposizione a ogni tentazione naturalista: il
separatismo delle Furieuses Fallopes e' una militanza "tra donne", ovvero
tra tutte e tutti quelle/i che sono identificate/i, si sentono, si
dichiarano, si "vivono" come donne.
Del resto la maggioranza delle singole donne, dei gruppi, della associazioni
che hanno condiviso la scelta separatista della manifestazione romana,
praticano una felice e fruttuosa commistione tra momenti "separati" e "non
separati", militando magari in gruppi di sole donne ma partecipando
attivamente ad altri progetti politici "misti" (lotte contro la deriva
securitaria, il precariato, l'omofobia, la lesbofobia e la transfobia,
contro il razzismo e per i diritti e la liberta' dei/delle migranti).
Oltre a motivazioni tattiche o strategiche (l'evitare strumentalizzazioni da
parte di forze politiche ed istituzionali, ad esempio), penso che quante
hanno sostenuto la scelta di una manifestazione di sole donne,
condividessero la necessita' - in questa precisa congiuntura - che fossero i
nostri "corpi" (dove "corpo" non e' ne' genere, ne' "sesso"), a dire basta
alla violenza e alla sua strumentalizzazione in chiave razzista e
securitaria, a dire ancora una volta "non in nostro nome" come scandiva lo
slogan della rete femminista transnazionale Nextgenderation contro la guerra
in Iraq, ricordato nel suo intervento su queste pagine da Cristina Papa.
Il - sacrosanto - allontanamento delle donne ministre da parte delle
manifestanti, oltre ad aver dimostrato (se ce ne fosse stato bisogno) quanto
la scelta "separatista" fosse lontana da ogni nostalgia "biologica", ha
scatenato sulla stampa un nuovo attacco in nome della (presunta) violenza
delle partecipanti al corteo, che si e' in alcuni casi tradotto
nell'equazione separatiste uguale violente.
Con questo intervento spero di aver contribuito, oltre a chiarire qualche
equivoco di merito, a indicare di che cosa e di chi c'e' (forse) da aver
paura.

4. RIFLESSIONE. PATRICIA TOUGH: QUANDO IL SEPARATISMO ASSUME UN DOPPIO
VALORE SIMBOLICO
[Dal sito de "IL paese delle donne" (www.womenews.net/spip3/).
Patricia Tough fa parte delle Donne in nero di Bologna ed ha partecipato ad
iniziative internazionali di solidarieta' e di interposizione nonviolenta]

A mio parere, e lo dico con tutto l'entusiasmo con cui ho partecipato sia
alla preparazione che al corteo, e' stata una delle manifestazioni piu'
importanti del movimento delle donne e che puo' essere in grado ancor piu'
della manifestazione in difesa delle 194, di rilanciare questo movimento
perche' va al cuore della questione delle relazioni fra i generi, la
violenza appunto del genere maschile su quello femminile.
Questa questione e' alla base della cultura patriarcale, la attraversa e la
informa di se' perche' e' questa violenza a condizionare la nostra liberta',
in tutti i suoi aspetti e i timori atavici che ci portiamo dentro piu' o
meno consapevolmente.
Pensiamo solo durante i conflitti armati o durante i colpi di stato come sia
stata usata e si usa l'arma dello stupro in modo generalizzato sia per
umiliare il nemico ma anche per fiaccare la resistenza delle donne, non
dimentichero' mai quello che mi disse in tal senso una donna argentina
rispetto al golpe di Videla.
Trovo fondamentale il fatto che per la prima volta si sia esplicitato il
genere della violenza sulle donne: la parola "maschile" aggiunta per la
prima volta pubblicamente ha dato un senso ultimativo alla nostra lotta da
cui non possiamo tornare indietro.
Abbiamo inderogabilmente posto sul piatto la questione, e la manifestazione
in tal senso non poteva che essere radicale, nel senso che non ci poniamo
genericamente il compito di ottenere una legge ma di cambiare la cultura che
sta alla base di questo reiterarsi millenario della violenza sulle donne.
Il fatto che la manifestazione fosse "separatista" assume quindi un doppio
valore simbolico, quello del riconoscimento delle responsabilita' del genere
maschile con cui si intende indicare non solo gli autori materiali ma anche
chi e' semplicemente connivente con la violenza, indifferente, resta in
silenzio di fronte a tutte quelle espressioni di sessismo che danno
nutrimento alla cultura della violenza ecc. ma pone anche le donne di fronte
alla necessita' di superare le corresponsabilita' e connivenze laddove i
ruoli e l'indifferenza o la superficialita' superano l'appartenenza di
genere.
L'atteggiamento delle ministre doveva naturalmente essere di ascolto e non
di protagonismo e questo ci riporta alla questione della rappresentanza che
va rivisitata in modo approfondito fra di noi.
Ho sentito fortemente il calore della sorellanza in questa manifestazione,
quella che sento in genere all'interno delle Donne in Nero intese non solo
come rete locale ma anche internazionale.
Le donne dell'America Latina pongono al centro della loro attivita' proprio
la sorellanza fra donne ed e' questo che da' loro la forza di lottare in
situazioni tanto piu' difficili rispetto alla nostra in paesi come
Guatemala, Peru', Colombia, ecc. dove le cifre delle violenza e del
femminicidio sono molto piu' alte che da noi.
Questo mi fa riflettere sul fatto che nessun sistema, neanche il piu'
democratico, ci salva da questa situazione se la questione non viene
affrontata direttamente con misure non generiche ma chiaramente rivolte al
tema, e in questo dovrebbero essere coinvolti tutti i soggetti della vita
sociale di un paese, a cominciare dalle donne che ne sono e ne debbono
essere protagoniste, a seguire con le istituzioni i mezzi di comunicazione
di massa, le associazioni ecc., ma con al primo posto i maschi che devono
riflettere sulla propria sessualita' e la propria relazione con il genere
femminile, eterosessuali e lesbiche, ma anche con l'omosessualita' in
genere.
Credo comunque che ancora una volta dipenda da noi tutte dare impulso a
questa lotta e affrontare tutti i soggetti della societa' che possono darci
un contributo; a questo scopo dobbiamo continuare con la campagna, con
video, teatro, ogni tipo di attivita' che ci faccia incontrare la societa'
civile e possa convincere alla necessita' di un cambio davvero importante
che potrebbe dare uno slancio alla societa', dare valore alle donne e alla
loro liberta'.

5. LIBRI. ROSSANA ROSSANDA PRESENTA "PRINCIPIA IURIS" DI LUIGI FERRAJOLI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 dicembre 2007, col titolo "La passione
del fare politico" e il sommario ""Rigore e semplicita'. Le qualita' di
'Principia Iuris'. Un'opera che interroga il secolo breve senza ritrarsi di
fronte ai nodi che ha lasciato in eredita'".
Rossana Rossanda e' nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio
Banfi, antifascista, dirigente del Pci (fino alla radiazione nel 1969 per
aver dato vita alla rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in
rapporto con le figure piu' vive della cultura contemporanea, fondatrice del
"Manifesto" (rivista prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata
da sempre nei movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu'
drammatica attualita' e sui temi politici, culturali, morali piu' urgenti.
Tra le opere di Rossana Rossanda: L'anno degli studenti, De Donato, Bari
1968; Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o della politica
come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche per me. Donna,
persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987; con Pietro
Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; con
Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalita',
Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996; La
ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005. Ma la maggior parte del
lavoro intellettuale, della testimonianza storica e morale, e della
riflessione e proposta culturale e politica di Rossana Rossanda e' tuttora
dispersa in articoli, saggi e interventi pubblicati in giornali e riviste.
Luigi Ferrajoli, illustre giurista, nato a Firenze nel 1940, gia' magistrato
tra il 1967 e il 1975, dal 1970 docente universitario, insegna filosofia del
diritto e teoria generale del diritto all'Universita' di Camerino. Opere di
Luigi Ferrajoli: della sua vasta produzione scientifica segnaliamo
particolarmente Teoria assiomatizzata del diritto, Giuffre', Milano 1970;
(con Danilo Zolo), Democrazia autoritaria e capitalismo maturo, Feltrinelli,
Milano 1978; Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza,
Roma-Bari 1989; La sovranita' nel mondo moderno, Laterza, Roma-Bari 1997; La
cultura giuridica nell'Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999;
Diritti fondamentali, Laterza, Roma-Bari 2001; Principia iuris, Laterza,
Roma-Bari 2007]

Coloro che hanno seguito sia pur da lontano Luigi Ferrajoli nella stesura
dei Principia Iuris sanno quanta fatica gli sia costato non l'impianto
dell'opera, cosi' radicato nella sua formazione intellettuale, quanto la
determinazione a renderla come un pane da spezzare per qualsiasi cittadino
che si interroghi sulle relazioni interindividuali e fra individui e
societa'. Come darsi un sistema di regole al fine di garantire la reciproca
liberta' e sicurezza dei diritti? Antico problema, ma rivisto alla fine di
un secolo che ha messo in causa sia le forme della democrazia, sia quello
che si voleva un suo superamento in senso comunista. Ne e' venuto un lavoro
imponente e semplice, rigoroso e comunicante senza nulla togliere allo
spessore dell'argomentazione, ai riscontri del e nel sistema, e alla genesi
storica e teorica dei concetti.
Sembra impossibile che un titolo cosi' severo e la mole delle pagine
costituiscano un'opera che chiunque puo' prendere in mano senza sentirsi
allontanato. Si deve certo all'eleganza della scrittura, ma soprattutto,
credo, alla convinzione morale e politica di Ferrajoli che urge ricostruire
un sistema di rapporti umani ormai a rischio di imbarbarimento. Bisogna e si
puo'. E' poi il fondamento del politico, una posta alta, il contrario d'un
esercizio accademico. In questo Luigi Ferrajoli e' proprio un illuminista,
ne possiede (e' posseduto da) quella passione di capire, dirimere e spiegare
che si fonda sulla convinzione che la specie umana ha la capacita' di darsi
un senso e delle regole che ne consentano una terrena sopravvivenza. Si
potranno fare altre accuse all'illuminismo, non quella di non averci
restituito la possibilita' di quella salvezza, nei limiti della vita, che le
religioni negano, rimettendo il nostro destino nelle nostre mani. Filo
d'Arianna l'uso della ragione, strumento da usare e verificare nella sua
struttura logica e fin matematica. Questa non e' una fede, e' una scelta.
Controcorrente, a stare agli ormai trentennali assalti alla ragione tacciata
di imperialismo occidentalista, astrazione, pretesa universalistica,
misconoscenza delle differenze. E' proprio la sigla di Ferrajoli - si
ricordera' Diritto e ragione - e non perche' ignori quanto l'irrazionalita'
sia costituente dell'umano, ma per la persuasione che non e' possibile
fondare sull'irrazionale una rete di rapporti che garantisca la liberta'.
Liberta' "di" e liberta' "da".
Ne viene - sembrera' un paradosso - una lezione di rigore e di senso del
limite. Ferrajoli insiste sul carattere di convenzione nel tempo e nello
spazio d'una teoria assiomatica del diritto che considera decisiva per una
moderna democrazia concreta. Convenzione, che esclude dunque il sacro e
l'indicibile, non sconfina dal suo territorio, non si concede divisioni di
tempi e settori, non si presta a un'eterogenesi dei fini. Non e' mortifera.
La domanda e', se mai, dove trascenda altri tempi e altre culture, ma gia'
questo e' uno sconfinare. E' dal suo interno - il da noi e oggi - che va
interrogata. Ma soprattutto utilizzata. Chi legge si sente raccomandare
dall'autore di non spaventarsi per la mole del lavoro, di saltare questa e
quella parte, di andare senz'altro al secondo volume perche' questo libro
non e' stato pensato soltanto per sperimentare fino in fondo un percorso di
metodo, ma per essere agito. Per il fare politico, arendtiano. Come se la
completezza della ricerca, la politura dell'opera fosse una sfida prima di
tutto per chi l'ha stesa, bisogno di non lasciarsi zone non controllate. Gli
altri, gente non addetta ai lavori, non si annoino, non si stanchino, vadano
al dunque, il nocciolo utile, necessario che e' il come della democrazia. La
scommessa e' stata anche nello scrivere un'argomentazione inattaccabile in
quel che Ferrajoli chiama "il linguaggio comune", per quel che di comune sta
nel definire i nostri rapporti con l'altro e gli altri.
E' una scrittura densa e senza trappole. A me, confesso, e' capitato di
farne un uso irrispettoso; avevo il manoscritto e piu' volte sono andata a
cercare - indici irreprensibili - com'era impostato o risolto un problema
che le cose del mondo mi ponevano. E di li' poi vagavo per richiami, perche'
in questa idea del diritto come convenzione compatta, articolata,
logico-matematica, tutto si tiene. E tutto serve. Invitata a guardarmi dal
primo volume, vi ho pescato invece alcuni passi per me decisivi, e quindi mi
sono messa a leggerlo a cavalletta, saltando le verifiche
logico-matematiche, con la voglia di riflettere, tornarvi, discutere,
qualche volta litigare.
Per chi viene dal Novecento, Principia iuris impatta sui nodi
dell'esperienza e li riproblematizza. Mi sia permesso, da profana, di
evocarne due. Il primo riguarda il rapporto tra quel che Marx chiama
materiale reale e il diritto. Lasciamo pure da parte la vulgata su struttura
e sovrastruttura, chi viene prima e chi viene dopo, dalla quale sono venuti
molti guai. E' un fatto che l'attuale prepotere dell'economico sul politico
non deriva da un errore di diritto, da una incomprensione del pubblico o da
una miopia del privato - c'e' un rapporto di forza che appare oggi del tutto
asimmetrico, tale che infatti obbliga Ferrajoli a interrogarsi sulla
globalizzazione. Ma non ci rinvia a un problema troppo rapidamente
affrontato nell'affermazione che, certo, la difesa della liberta' "dalla"
proprieta' andrebbe regolata non meno che la difesa dell'individuo dallo
stato? Perche' questa regolazione non si e' mai data e sempre meno si da'?
L'altra domanda riguarda il femminismo. Ci sono, a me sembra, molti equivoci
tra le donne e Ferrajoli sul tema eguaglianza e differenza. Per farla breve,
io sono dalla sua parte. La questione e' un'altra: e' possibile che un
codice, i suoi lemmi e le sue gerarchie, scritti da uno dei due sessi valga
in assoluto anche per l'altro e si tratta soltanto di applicarlo con quella
coerenza che finora non avrebbe avuto? Le donne possono essere silenziose,
puramente riflesse, nella formazione del diritto e dei suoi assiomatici
fondamenti? L'insignificanza del femminile come soggetto non comporta
qualche problema per una teoria della liberta'?
Ma di questo e di altro avremo occasione di discutere.

6. LIBRI. TECLA MAZZARESE PPRESENTA "PRINCIPIA IURIS" DI LUIGI FERRAJOLI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 dicembre 2007, col titolo "L'indicibile
legame della democrazia" e il sommario "Da domani a Brescia un seminario
internazionale su 'Principia Iuris', di Luigi Ferrajaoli. Un lavoro di
ricerca durato quarant'anni che propone un modello coerente e unitario di
'scienza giuridica'".
Tecla Mazzarese, giurista, e' docente all'Universita' di Brescia. Tra le
opere di Tecla Mazzarese: Logica deontica e linguaggio giuridico, Cedam,
1989; Forme di razionalita' delle decisioni giudiziali, Giappichelli, 1996;
Neocostituzionalismo e tutela (sovra)nazionale dei diritti fondamentali,
Giappichelli, 2002]

Il 6 e 7 dicembre a Brescia, presso la Facolta' di Giurisprudenza, studiosi
italiani e spagnoli discuteranno di diritto e democrazia costituzionale. Un
problema classico e tuttavia di grande attualita', in un momento nel quale
la ridefinizione dell'apparato categoriale tanto del diritto che della
democrazia costituzionale, cosi' come le loro possibili interazioni, appare
tanto urgente quanto complessa e per molti aspetti controversa. Occasione
dell'incontro e' la recente pubblicazione di un'opera davvero inconsueta per
le molte singolarita' che la caratterizzano: Principia Iuris. Teoria del
diritto e della democrazia, tre volumi di Luigi Ferrajoli editi da Laterza
(in libreria i volumi sono due e il terzo, in cd, con la formalizzazione
logica della teoria del diritto, e' allegato al primo).
*
Un modello integrato
Una prima singolarita' di Principia Iuris, quanto mai rara nella letteratura
degli ultimi decenni, e' di offrire una teoria unitaria e compiuta in cui
diritto e democrazia sono due dimensioni, l'una all'altra complementare, di
uno stesso impianto concettuale e di uno stesso progetto politico; una
teoria puntuale nella sua scansione e di sorprendente ricchezza nella
molteplicita' dei temi affrontati.
In particolare, e' un'opera che sviluppa una teoria unitaria e compiuta che,
come lo stesso Ferrajoli ha sottolineato nella prima presentazione pubblica
di Principia Iuris a Citta' del Messico lo scorso 30 ottobre, in netta
contrapposizione con una situazione "caratterizzata da un sostanziale
analfabetismo giuridico dei filosofi e da un non minore analfabetismo
filosofico dei giuristi", propone un "modello integrato di scienza
giuridica" che, senza ignorarne le rispettive competenze disciplinari
tematiche e metodologiche, rivendica la reciproca complementarieta' fra
teoria del diritto, dogmatica, filosofia politica e sociologia del diritto.
Da questa caratteristica la decisione di riunire a Brescia a discutere del
suo metodo e delle sue tesi non solo filosofi del diritto (Manuel Atienza,
Juan Carlos Bayon, Riccardo Guastini, Jose' Juan Moreso, Luis Prieto, Danilo
Zolo), ma anche logici (Carlo dalla Pozza, Mauro Palma, Marina Gascon),
filosofi della politica (Michelangelo Bovero, Ernesto Garzon Valdes,
Geminello Preterossi, Pierpaolo Portinaro, Alfonso Ruiz Miguel), magistrati
e giuristi (Perfecto Andres Ibanez, Salvatore Senese, Michele Taruffo,
Gustavo Zagrebelsky), e il segretario uscente della Camera del lavoro di
Brescia, Dino Greco.
E ancora: Principia Iuris e' un'opera singolare sia sotto il profilo
metodologico, sia sotto il profilo teorico. In particolare, sotto il profilo
metodologico, la sua singolarita' e' di proporre una teoria assiomatizzata
del diritto, considerata funzionale e al tempo stesso complementare a una
teoria della democrazia costituzionale (non assiomatizzata, questa, ma
rigorosamente delineata e scandita nelle diverse tessere che ne individuano
l'impianto complessivo).
Non priva di illustri precedenti nella storia della filosofia del diritto
(valga per tutti il riferimento a Leibniz), questa singolarita' e'
risolutamente difesa da Ferrajoli che nella Prefazione del primo volume, non
solo giustifica l'adozione del metodo assiomatico con "ragioni teoretiche"
ma la rivendica anche, e forse soprattutto, per la sua "funzione pratica"
perche' "il metodo assiomatico rappresenta (...) un potente strumento di
chiarificazione concettuale, di elaborazione sistematica e razionale, di
analisi critica e di invenzione teorica, ed e' quindi particolarmente
efficace ai fini dell'esplicazione della crescente complessita' e
ineffettivita' degli ordinamenti moderni, nonche' della progettazione dei
loro modelli normativi e delle loro tecniche di garanzia".
Sotto il profilo teorico, poi, Principia Iuris offre una teoria
assiomatizzata del paradigma giuridico, cioe' di quella griglia analitica
che nella filosofia del diritto e nella politica degli ultimi anni e' stato
denominata come neocostituzionalismo e che, forse per prendere le distanze
dalle sue concezioni che tendono ad affermare una (nuova) versione di
cognitivismo etico sovrapponendo e confondendo diritto e morale, Ferrajoli
preferisce denominare invece giuscostituzionalismo.
*
Al riparo del mercato
Sotto il profilo teorico, Principia Iuris offre, cioe', una teoria
assiomatizzata del paradigma giuridico dei Paesi che, affrancatisi da regimi
totalitari e illiberali, dal secondo dopoguerra si sono dati una
costituzione scritta, lunga, rigida e garantita; una costituzione, cioe',
che nella positivizzazione dei diritti fondamentali e del principio del
mantenimento della pace individua e delimita quella che Ferrajoli denomina
"sfera dell'indecidibile"; una sfera, cioe', relativa ai diritti individuali
che non si possono ledere ne' violare e ai diritti sociali che si devono
attuare e implementare, la quale e' sottratta, almeno di principio anche se
non sempre di fatto, alla discrezionalita' del legislatore ed e' preclusa
alle ingerenze e interferenze del mercato e della politica.
Un'altra singolarita' e' che Principia Iuris gia' da alcuni anni e' al
centro di un vivace dibattito internazionale. Nei lunghi anni che ne hanno
accompagnato la redazione, quasi quaranta dalla prima enunciazione del suo
nucleo concettuale nella Teoria assiomatizzata del diritto del 1970, sia la
scelta del metodo assiomatico che le teorie del diritto e della democrazia
che Ferrajoli andava sviluppando sono stati infatti piu' volte discussi e
sottoposti a un attento vaglio critico, non privo, a volte, anche di toni
aspri e accenti polemici.
Molti, in particolare, gli incontri di studio che nel corso degli anni sono
stati organizzati nelle piu' diverse sedi universitarie italiane, e ancora
piu' numerosi, forse, quelli organizzati in Spagna, Argentina, Brasile e
Messico dove l'attenzione per l'opera di Ferrajoli e' davvero grande, al
punto che Principia Iuris e' gia' in corso di traduzione in castigliano. A
ogni osservazione, commento o critica, e' questa l'ulteriore singolarita' di
Principia Iuris, Ferrajoli ha sempre risposto, testimoniando cosi' della
propria irriducibile fiducia nel dialogo e nel confronto, in modo attento e
puntuale, spiegando e argomentando ogni volta il perche' delle proprie tesi
e la ragione degli argomenti scelti per giustificarle.
Principia Iuris e', cosi', il risultato di un processo di scrittura e
riscrittura continua, durato piu' di quarant'anni; processo che non si e'
interrotto neppure in fase di correzione di bozze, quando, i due giovani
studiosi che lo hanno aiutato, Dario Ippolito e Fabrizio Mastromartino, non
sono riusciti a trattenersi dal fare osservazioni e commenti alle pagine che
leggevano, e Ferrajoli non e' riuscito ad astenersi dal tener conto delle
loro osservazioni apportando qua e la' ancora qualche modifica al testo.
*
Un classico del Novecento
Ultimo aspetto dell'opera, ma non per questo meno importante, e' la mole di
materiali raccolti criticamente dall'autore. Una mole di riferimenti che,
come ha osservato Manuel Atienza, relatore della sessione introduttiva
dell'incontro bresciano, ricorda le grandi opere filosofiche del passato:
imponenti, sorprendentemente rigorosi nell'articolazione, particolareggiati
nell'argomentazione.
Nella migliore tradizione delle grandi opere filosofiche, Principia Iuris e'
dunque improntata ad un'idea forte che la fonda e, in una sola frase, ne
sintetizza e chiarisce la ragion d'essere; una singola frase che, gia' dieci
anni prima della sua pubblicazione, nel 1997, a Camerino, in occasione del
conferimento di una laurea honoris causa a Norberto Bobbio, Luigi Ferrajoli
pronuncia nelle battute conclusive della sua splendida laudatio, quando
afferma: "c'e' una cosa che la storia (del Novecento) ci ha insegnato: che
nella costruzione della democrazia non esistono alternative al diritto, e
che nella costruzione del diritto non esistono alternative alla ragione".

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 299 del 10 dicembre 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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