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Minime. 275
- Subject: Minime. 275
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 16 Nov 2007 00:48:51 +0100
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 275 del 16 novembre 2007 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Letizia Bianchi: Per le Madri di Plaza de Mayo 2. Mao Valpiana: Pestaggi e bombe. Verona esca dalla spirale della violenza 3. Giampiero Girardi: Franz Jaegerstaetter, martire 4. A Piacenza il primo dicembre 5. La "Carta" del Movimento Nonviolento 6. Per saperne di piu' 1. ESPERIENZE. LETIZIA BIANCHI: PER LE MADRI DI PLAZA DE MAYO [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo la laudatio tenuta da Letizia Bianchi in occasione del conferimento della laurea ad honorem alle Madres de Plaza de Mayo all'Universita' di Bologna il 17 ottobre 2007. Dallo stesso sito rirpendiamo la seguente notizia: "Le madri di Plaza de Mayo sono il simbolo della resistenza della societa' argentina contro il golpe militare che, dal 24 marzo 1976, porto' alla scomparsa di trentamila persone. Da allora, il nome 'desaparecidos' rimase a indicare una categoria di persone mai dichiarate morte, e un crimine mai conosciuto prima, legato a un perverso progetto: non lasciando corpi - e dunque l'evidenza della colpa - non ci sarebbero stati colpevoli. Nella paralisi di una societa' annichilita dal terrore, le madri dei ragazzi e delle ragazze scomparsi cominciarono coraggiosamente a unirsi tra loro, sfidando il potere militare che vietava qualsiasi forma di assembramento. Iniziarono a protestare, sfilando davanti alla piazza del governo, la famosa Plaza de Mayo che avrebbe dato loro il nome, ciascuna con un fazzoletto bianco in testa, sul quale era scritto il nome del figlio scomparso. Marcia che ogni giovedi' da allora continuano a fare. Le tre madri che fondarono l'associazione - Mary, Azucena ed Esther - vennero sequestrate e uccise, ma le altre riuscirono a far sapere all'estero quello che avveniva in Argentina. Da semplici casalinghe, pazze di dolore per la scomparsa dei figli, poco per volta si trasformarono in donne capaci di capire il mondo che le circondava. Fu cosi' che compresero che l'uccisione dei loro figli aveva come scopo ultimo quello di sgombrare il campo da ogni ostacolo che si frapponesse alla realizzazione di un efferato piano economico che nel corso degli anni, avrebbe portato l'Argentina allo sfascio del 2001. In questo arco di storia trentennale, le Madri, determinate a non lasciare al potere la capacita' simbolica di rendere davvero morti quei figli a cui loro, un giorno, avevano dato vita, si sono trasformate nella voce, nella volonta', nel desiderio di cambiamento di una generazione scomparsa, inventando forme nuove di resistenza, sviluppando un pensiero e una pratica politica del tutto originali, che mette al centro l'assunzione di responsabilita' verso l'altro che ci sta accanto. Oggi le Madri sono convinte che i 'nuovi desaparecidos' siano i bambini che ogni giorno continuano a doversi prostituire per le strade hanno aperto una scuola dove i 'ninos de la calle' possano essere accuditi e ricominciare a fidarsi del mondo. Tutte le loro energie, in questo momento, sono rivolte alla realizzazione di questo progetto, e all'apertura di una seconda scuola a Lanus, nella periferia di Buenos Aires. Esse hanno anche aperto a Buonos Aires una universita' popolare. Le Madri di Plaza de Mayo hanno ricevuto il Premio Unesco per la pace, il premio Nonino e quello citta' di Orvieto. Jose' Saramago le ha candidate al premio Nobel per la pace, ma la proposta per ora non ha avuto seguito". Letizia Bianchi e' docente all'Universita' di Bologna. Tra le opere di Letizia Bianchi: (con Grazia Colombo, Emanuela Cocever), Il lavoro di cura. Come si impara, come si insegna, Carocci, Roma 2004] Le Madri di Piazza di Maggio, ormai da trent'anni, tutti i giovedi' marciano nella piazza centrale di Buenos Aires che ha dato loro il nome. Ho detto "marciano" e non "fanno il giro della piazza", perche' - come loro sottolineano - non girano in tondo: "seppure camminiamo in circolo stiamo andando verso una meta: e' stato camminando a braccetto attorno alla piazza che abbiamo costruito il nostro pensiero". Ma cosa voleva dire marciare nel giugno 1977 in Argentina quando hanno iniziato? E perche' continuare a farlo ancora oggi? * Chiedere, incontrarsi, dire, creare legami Il 24 marzo 1976 va al potere in Argentina una giunta militare che nei sette anni di esistenza incarcero' 10.000 prigionieri politici, costrinse all'esilio un milione e 500.000 dissidenti, fucilo' 3.000 persone in strada e fece sparire 30.000 persone. I due terzi dei desaparecidos - "e' un triste privilegio argentino che oggi questa parola si scriva in castigliano in tutto il mondo" - aveva tra i venti e i trenta anni. Scomparvero anche centinaia di bambini, subito dopo il parto o ancora in fasce. C'era complicita' in tutti i settori della societa': nella magistratura, nella chiesa, nel sindacato, nell'universita', nei giornali. La vita diventa un incubo quando tutto quello che sei stata educata a rispettare, tutti quelli che fino ad allora erano stati amici si devono considerare nemici. Quando non fu di connivenza, la reazione della societa' argentina di fronte ai sequestri e alle violenze fu di paura e sgomento, di incredulita'. Il risultato fu una societa' paralizzata dal terrore, attenta a non dire una parola di troppo, disposta ad occuparsi solo delle cose che riguardavano strettamente la propria famiglia e i propri affari. Le Madri dei desaparecidos nei giorni dopo il sequestro dei figli, si dicevano che era successo qualcosa di impensabile. "Mi ripetevo no, non puo' essere, non puo' essere. Pero' era" (Beba). "Per una madre e' impensabile, pero' e' successo, e' successo" (Juanita). Era impensabile ed era successo. Da subito, le madri cercarono di stare a quanto stava loro accadendo. Prima singolarmente, poi insieme, si recarono in tutti i luoghi, andarono da tutte le persone che potevano dar loro notizie dei figli che erano stati portati via all'improvviso, senza nessuna spiegazione. E' quanto meno si aspetta un potere dittatoriale, che fa affidamento sulla paura per ottenere acquiescenza. Ma - dicono le Madri - cosa gli poteva succedere di peggio di cio' che era gia' successo? La prima marcia avvenne nel giugno 1977. Da alcuni mesi le Madri si recavano una volta alla settimana nella Plaza de Mayo dove si affaccia la Casa Rosada, sede del governo argentino che ospita anche il Ministero degli interni. C'erano andate perche' ci lavoravano persone a cui era stato loro detto potevano rivolgersi per avere notizie dei figli. Quando il loro gruppo in Piazza divenne piu' numeroso, arrivo' la polizia, disse che c'era lo stato di assedio, gli assembramenti erano vietati, che dovevano circolare. E loro marciarono. Inizio' cosi' il rapporto delle Madri con la Piazza, luogo pubblico e di incontro per eccellenza. Il primo anno fu di grande solitudine e di grande attivita': il desiderio di far sapere al mondo cosa era successo ai figli, cosa stava avvenendo in Argentina al di la' delle menzogne dei golpisti, le porto' ad inventare i piu' svariati modi per comunicare. Scrissero "ho un figlio scomparso" sulle banconote e quando si accorsero che la gente spaventata le distruggeva, iniziarono a farlo su banconote di grosso taglio affidando la circolazione del loro messaggio a quel mediatore universale che e' il denaro; andarono in chiesa la mattina presto, e nei libri di preghiera dove c'era il segno della liturgia del giorno, infilavano un foglio in cui era scritto "e' venuta la polizia e si e' presa mio figlio"; stampare volantini era proibito, scrissero a mano ognuna di loro centinaia di cartoline che distribuivano all'angolo delle strade. Le madri, come ha scritto Daniela Padoan in un bel libro a cui sono profondamente debitrice (Daniela Padoan, Le pazze, Bompiani, Milano 2005), hanno sempre avuto una grande capacita' di convertire una cosa nel suo contrario: un insulto, "pazze", in un punto di forza: "si', siamo pazze d'amore per i nostri figli"; una costrizione, "circolate", in una liberta'; "marciamo"; un divieto, "non si fanno volantini", in una invenzione. Una delle armi piu' potenti da loro usate e' stato il linguaggio. Le parole vanno scelte bene, usate per dire la realta' di cio' che avviene nel mondo, per dare agli avvenimenti il proprio senso e segno. Nelle madri la cura della parola rimanda alla verita' e quindi alla lingua materna: "una madre insegna al bambino a nominare le cose con parole che corrispondono al vero. Una mela e' una mela" (Hebe). E soprattutto e' questione di responsabilita' di fronte alle parole che si dicono: ogni parola e' una promessa. "Noi abbiamo imparato dai nostri figli la verita' delle parole o per meglio dire la forza delle parole che contengono la verita'" (Hebe). Tale e' la forza delle loro parole d'ordine. Tutto l'opposto dell'uso che le dittature fanno del linguaggio, nel quale le parole servono per stornare la realta' dalla realta': l'eufemismo "volo" invece che "gettare vivo in mare" e' un modo per nascondere a se stessi e al mondo la realta' delle azioni compiute; un linguaggio nel quale l'etichettamento - pazze, terroristi - aiuta ad ingenerare in noi un senso di distanza e nell'altro un senso di non appartenenza al consorzio umano. Sara' per questo che le madri non vogliono che si parli di "bambini di strada": in questo modo diventano della strada e possiamo non occuparcene, ma se sono bambini, sono nostri, e a noi adulti spetta prenderci cura di loro. Con tutti questi mezzi cominciarono a spezzare il muro di omerta' e di silenzio. Nel 1978 ci furono i mondiali di calcio. Le madri in un momento in cui tutta l'Argentina tifava per la nazionale furono forse le uniche a non esultare per le loro vittorie. E per questo erano considerate antipatriottiche oltre che pericolose. Il loro progetto era approfittare della presenza straniera per far sapere al mondo che l'Argentina non era i tre stadi nuovi costruiti a tempo di record, le strade aperte per l'occasione, la sospetta bravura nel calcio: l'Argentina erano i loro figli desaparecidos e i campi di concentramento. E ci riescono: la troupe olandese non filma la cerimonia inaugurale dei giochi ma va in piazza a riprendere la marcia delle Madri, e la loro nazionale di calcio, arrivata seconda, non ritira la coppa. Il mondo incomincia a reagire. Le Madri dicono sempre che quello che ha permesso loro di sopravvivere, che ha impedito ad una dittatura brutale di farle sparire tutte, fu l'aver rotto l'isolamento e la solidarieta' internazionale. Teniamolo a mente. Non tutte pero' sono sopravvissute: tre di loro furono sequestrate nel dicembre del 1977 e poi scomparvero. In questa occasione, in riconoscenza per quanto hanno fatto, permettetemi di ricordarne i nomi delle Madri delle Madri: Azucena Villaflor De Vincenti, Esther Balestrino de Careaga, Mary Ponce. Chiedere, incontrarsi, dire, stringere relazioni: e' proprio quello che tutte le dittature maggiormente reprimono perche' sanno che possono esistere solo se il legame tra generazioni viene spezzato, le relazioni famigliari sconvolte, i rapporti tra vicini avvelenati dal sospetto della delazione. Quando il tessuto sociale si sfrangia e si corrompe, la societa' si atomizza e tutto puo' succedere. Per questo quando nel giugno 1982, dopo la catastrofica avventura delle isole Falkland, la dittatura cade, o oggi che l'attuale presidente argentino Kirchner si dice figlio delle Madri di Piazza di Maggio, esse non sentono di aver raggiunto il loro scopo, perche' sanno che il lavoro di tessitura sociale non ha fine. Non si puo' che continuare a marciare... Nel fare della lotta hanno imparato che perche' in Argentina come nel resto del mondo, "Nunca mas" ("Mai piu'") non sia solo un urlo di dolore o un angoscioso richiamo, bisogna sempre continuare a tessere relazioni e occuparsi di chi ha difficolta' o stenta in questo tessuto ad inserirsi. Che e' poi il compito di ogni educatrice ed educatore, il senso "vero" del lavoro che noi tutte e tutti portiamo avanti nella Facolta' in cui lavoriamo, il senso vero del fare Universita'. Poter vivere in una societa' che non esclude e lavorare perche' possa essere tale, operando nella quotidianita' della vita e del lavoro, facendo di questo un sapere. * Storia vivente Le Madri in piu' di una occasione hanno sostenuto che a loro non interessa la memoria o il ricordare come azione politica. Il ricordo, la memoria di quanto e' successo ai loro figli e' cosa intima. Non vogliono ricordare ne' le torture ne' gli abusi sessuali, ne' tutto un apparato di morte (sarebbe come violarli una seconda volta). Non vogliono risarcimenti, lapidi; non intendono fare di quanto e' successo ai loro figli un monumento. "Nell'universita' de La Plata all'ingresso c'e' oggi una lastra di marmo con su scritto i nomi dei desaparecidos: i ragazzi che vanno li' a studiare non sanno niente di loro, di quali vite e destino si celino dietro a quei nomi e non si chiedono perche' questa lapide, cosa e' successo"(Hebe). La storia dei loro figli vogliono che sia storia vivente: continuare quello che i figli avevano iniziato a fare, fare anche loro quello che i figli facevano. Per questo lavorano con i giovani e per loro, si occupano dei bambini che vivono nella strada, continuano ad andare puntualmente in piazza, luogo di lotta e di conquista, hanno aperto la casa delle Madri, una scuola, una universita', una stamperia, un centro culturale, un caffe' letterario. Fanno corsi di ceramica, laboratori di scrittura, di comunicazione mediatica. Lavorano e si preoccupano perche' le nuove generazioni possano vivere con dignita', pensare, studiare, dissentire, criticare, far lavoro politico senza che nessuno li reprima come e' successo ai loro figli. * "Abbiamo preso un profondo impegno con i nostri figli: di non abbandonarli mai" Come sono riuscite in questo? Le madri dicono che l'unica lotta persa e' quella che si abbandona. La loro bussola, la forza interiore che le ha sempre sostenute e' stata la riconoscenza per quello che i figli e le figlie avevano fatto e per cui erano stati fatti sparire. "Abbiamo preso un profondo impegno con i nostri figli; di non abbandonarli mai" (Hebe). Dopo aver accettato che non sarebbero piu' tornati, esse hanno fatto un doloroso passaggio dall'impegno per il loro ritorno, all'impegno con quanto loro avevano fatto, credevano e speravano. Non erano stati fatti sparire a caso. Spariva chi voleva un mondo migliore e lavorava perche' si potesse realizzare, sparivano i giovani e ci si impossessava dei bambini. Centinaia di bambini vennero dati in adozione alla nascita ad amici di chi ne aveva ucciso la madre, cancellandone nome ed origini. Si eliminava la possibilita' stessa di un futuro diverso da quello progettato dalla dittatura. Un vero e proprio genocidio generazionale, una rottura cinica e spietata di genealogie. Abbiamo preso un impegno irrinunciabile con i nostri figli, dicono le Madri. Le madri non possono rimetterli al mondo, ma possono fare qualcosa dell'ordine della vita, della creazione: e costruiscono legami sociali e un mondo piu' simile a quello che i figli desideravano. Il loro dolore si converte in lotta. E' per questo, soprattutto per questo che le madri non hanno mai accettato la morte dei figli. "Per le madri niente morte. Vita" (Beba). La loro vita e' stata ed e' testimonianza della resistenza della vita sulla morte, del dar vita materno sul dar morte dei regimi. La morte che loro combattono non e' l'umano fine di ogni vita. E' alla morte imposta, alla morte anonima, che e' la vera faccia del potere, che si ribellano. * Socializzazione della maternita' "Sopportare la scomparsa di un figlio non si puo' spiegare, non me lo spiego nemmeno io; noi Madri non ce lo spieghiamo ancora". Le madri avevano iniziato a portare il fazzoletto bianco, che oggi le distingue, negli anni della dittatura come un modo per riconoscersi ed identificarsi reciprocamente nei raduni che il regime faceva per autocelebrarsi, per imporre la loro lettura di quanto stava avvenendo. Le madri partecipavano per far sentire un'altra voce, per dare con la loro presenza esistenza ai figli. All'inizio si misero in testa un pannolino dei figli, poi un fazzoletto bianco di batista su cui era scritto il nome dei figli, delle figlie scomparse, portavano una loro fotografia sul petto, cartelli con le loro immagini. Ma quando iniziarono a vedere che c'erano madri che non venivano in piazza, madri che erano morte, altre che non osavano combattere o non volevano, altre che cercavano persino di ignorare la scomparsa dei figli, capirono che non potevamo lasciare soli e dimenticati tutti quei ragazzi e ragazze che non avevano nessuno a lottare per loro. "Abbiamo capito che dovevamo farci madri di tutti. E' stato un passaggio lungo, che abbiamo chiamato socializzazione della maternita', anche se le parole, come sempre, sono venute dopo; prima e' venuto il sentimento che ci ha spinte "(Hebe). "Togliere il nome dal fazzoletto, la fotografia dal petto, non portare piu' il cartello con la loro immagine, segnalo' il passaggio. Alcune di noi perche' la cosa non fosse troppo violenta cominciarono scambiandosi le foto dei figli e cosi' si marciava con il figlio, con la figlia di un'altra; tutto cosi' si realizzo' piu' dolcemente". Man mano, lentamente, ognuna con il tempo che le era necessario, diventarono le madri dei trentamila desaparecidos: "li rivendichiamo tutti, li amiamo tutti, li difendiamo tutti. Tutti stavano facendo qualcosa di giusto e di bello, tutti a modo loro e come hanno creduto e potuto. La socializzazione della maternita' fu una decisione molto importante: dimostra come tutto, a partire dalla cosa piu' sacra che e' la maternita', si possa condividere e socializzare" (Beba). Fu capire che non si poteva scegliere, escludere, privilegiare. Fu stare alla lezione dei figli e delle figlie, quello per cui avevano lottato: "stavamo davvero imparando da loro che avevano a cuore tutti". "Gli altri sono io" dicono le madri, facendo dell'empatia e della responsabilita' quotidiana della vita e del vivente il loro impegno e la loro politica. * Apprendere dai figli Le Madri non si stancano di ripetere di essere figlie dei loro figli, messe da loro al mondo della consapevolezza di cio' che dobbiamo agli altri, oltre che a noi stessi e alla nostra famiglia. "Credo che sia bello per ogni mamma guardare i propri figli, gia' quando sono piccoli, pensare quanto ha da imparare da loro ogni giorno; il rapporto che un adulto puo' avere con un bambino e' uno scambio meraviglioso... la loro allegria diventa la tua" (Hebe). Lo scambio generazionale e' importante nell'accrescere l'esperienza di ciascuno di noi e non e' a senso unico. Ma le Madri non si fermano ad apprendere dai loro figli piccoli, attraverso la loro lotta hanno capito meglio i figli e le figlie e hanno capito che questo e' lo scambio piu' vitale che ci puo' essere nelle famiglie, come nella scuola o all'universita', sapere apprendere gli uni dagli altri. L'energia che deriva dal riconoscimento di questo debito reciproco, il praticarlo insegnando ed apprendendo gli uni dagli altri, il saper restituire in forma accresciuta ed elaborata cio' che gli altri ci hanno dato, e' una delle cose piu' importanti che possiamo tutte e tutti guadagnare dalla loro esperienza. Grazie alle Madri e a Hebe. 2. RIFLESSIONE. MAO VALPIANA: PESTAGGI E BOMBE. VERONA ESCA DALLA SPIRALE DELLA VIOLENZA [Ringraziamo Mao Valpiana (per contatti: azionenonviolenta at sis.it) per averci messo a disposizione questo articolo. Mao (Massimo) Valpiana e' una delle figure piu' belle e autorevoli della nonviolenza in Italia; e' nato nel 1955 a Verona dove vive ed opera come assistente sociale e giornalista; fin da giovanissimo si e' impegnato nel Movimento Nonviolento (si e' diplomato con una tesi su "La nonviolenza come metodo innovativo di intervento nel sociale"), e' membro del comitato di coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento, responsabile della Casa della nonviolenza di Verona e direttore della rivista mensile "Azione Nonviolenta", fondata nel 1964 da Aldo Capitini. Obiettore di coscienza al servizio e alle spese militari ha partecipato tra l'altro nel 1972 alla campagna per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza e alla fondazione della Lega obiettori di coscienza (Loc), di cui e' stato segretario nazionale; durante la prima guerra del Golfo ha partecipato ad un'azione diretta nonviolenta per fermare un treno carico di armi (processato per "blocco ferroviario", e' stato assolto); e' inoltre membro del consiglio direttivo della Fondazione Alexander Langer, ha fatto parte del Consiglio della War Resisters International e del Beoc (Ufficio Europeo dell'Obiezione di Coscienza); e' stato anche tra i promotori del "Verona Forum" (comitato di sostegno alle forze ed iniziative di pace nei Balcani) e della marcia per la pace da Trieste a Belgrado nel 1991; nel giugno 2005 ha promosso il digiuno di solidarieta' con Clementina Cantoni, la volontaria italiana rapita in Afghanistan e poi liberata. Un suo profilo autobiografico, scritto con grande gentilezza e generosita' su nostra richiesta, e' nel n. 435 del 4 dicembre 2002 de "La nonviolenza e' in cammino"; una sua ampia intervista e' nelle "Minime" n. 255 del 27 ottobre 2007] Anche a Verona si e' rimessa in moto la spirale di violenza (che non voglio definire "politica", perche' tale non e' e non ha la dignita' per esserlo) che vede contrapposti gruppi (o bande) giovanili, e come vittime singoli cittadini che subiscono pestaggi o atti di vandalismo. Dopo l'aggressione all'uscita dal circolo Malacarne arriva la bomba al negozio di Borgo Trento. La correlazione fra i due fatti e' evidente, e non ci vuole molto a prevedere nelle prossime notti qualche altra spedizione punitiva. La citta' che finora ha osservato e taciuto, deve reagire e trovare il modo per espellere il cancro della violenza. Aggressioni e violenze fisiche erano all'ordine del giorno anche negli anni '70. Allora il nostro gruppo studentesco del Movimento Nonviolento riusci' in alcuni casi a evitare il peggio mettendosi fisicamente in mezzo alle due fazioni "di destra" e "di sinistra" che si fronteggiavano ogni sabato pomeriggio. Cercammo anche il dialogo con i piu' lontani da noi, e i militanti del Fronte della Gioventu' rimasero attoniti quando ci presentammo alla loro sede per lamentare il fatto che regolarmente ci coprivano o stracciavano i nostri manifesti di chiamata all'obiezione di coscienza. Non riuscimmo ad aprire un vero e proprio dialogo, ma da allora ottenemmo almeno il rispetto e non subimmo piu' minacce. Oggi offriamo nuovamente la nostra intermediazione a quei gruppi che fossero disposti ad uscire dalla perversa e perdente spirale di violenza, e a riconoscersi reciprocamente come attori di una citta' che tutti diciamo di volere migliore, e nella quale tutti viviamo insieme. I singoli cittadini, le forze sociali, i sindacati, i partiti, i mezzi di informazione, la scuola, le istituzioni: ognuno deve fare la propria parte affinche' nella nostra citta' si sappia ritrovare, a tutti i livelli, il terreno del dialogo e del confronto civile e rispettoso. Il lavoro da fare e' molto, ma non c'e' altra strada. Bisogna uscire dall'omerta', dal non detto, dalla connivenza; bisogna smetterla con la demonizzazione dell'avversario, con la denigrazione, con il linciaggio morale, con le offese e il turpiloquio usato come arma politica. Chi usa la violenza fisica al posto del dialogo e del confronto fra le idee, compie un reato, e per questo va processato e condannato. Questo e' il compito delle forze dell'ordine e della magistratura. Compito delle istituzioni e', pero', anche quello di educare i cittadini alla legalita'. E questo spetta sorprattutto alla scuola, e alla politica. Prima che avvenga il peggio (abbiamo visto purtroppo quanto poco ci vuole perche' ci scappi il morto) la citta' deve reagire. Ma non bastera' condannare la violenza, bisognera' dare esempio concreto che ognuno per la propria parte compie la scelta concreta di non usare nessuna violenza. La proposta della nonviolenza attiva e' a disposizione di chiunque voglia accoglierla seriamente. 3. MEMORIA. GIAMPIERO GIRARDI: FRANZ JAEGERSTAETTER, MARTIRE [Ringraziamo Giampiero Girardi (per contatti: gia.gira at gmail.com) per averci messo a disposizione il seguente testo dal titolo originale "Franz Jaegerstaetter, martire e padre di famiglia. Un nuovo beato per la chiesa" apparso nel volume di AA. VV., Franz Jaegerstaetter, il contadino contro Hitler: una testimonianza per l'oggi, Berti, Piacenza 2007. Giampiero Girardi e' animatore di "Franz Jaegerstaetter Italia" e curatore dell'edizione italiana del libro di Erna Putz su Jaegerstaetter, autore e curatore di ricerche e pubblicazioni per una cultura della pace, attivo nella promozione della nonviolenza. Franz Jaegerstaetter, contadino cattolico, condannato a morte ed ucciso il 9 agosto 1943 per essersi rifiutato di prestare servizio militare nell'esercito nazista. Scritti di Franz Jaegerstaetter: Scrivo con le mani legate. Lettere dal carcere e altri scritti, Edizioni Berti, Piacenza 2005. Opere su Franz Jaegerstaetter: Gordon Zahn, Il testimone solitario. Vita e morte di Franz Jaegerstaetter, Gribaudi, Torino 1968, poi: Franz Jaegerstaetter, il testimone solitario, Editoria Universitaria, Venezia 2002; Erna Putz, Franz Jaegerstaetter. Un contadino contro Hitler, Berti Piacenza, 2000; segnaliamo anche l'articolo di Enrico Peyretti riprodotto sul n. 637 de "La nonviolenza e' in cammino", articolo che segnalava anche i seguenti materiali: Alfons Riedl, Josef Schwabeneder (Hg), Franz Jaegerstaetter - Christlicher Glaube und politisches Gewissen [Fede cristiana e coscienza politica], Verlag Taur, 1997; videocassetta Franz Jaegerstaetter: un contadino contro Hitler, (27 minuti, in vhs) prodotta dall'Associazione Franz Jaegerstaetter, via Endrici 27, 38100 Trento (tel. 0461233777, oppure 810441); il capitolo "Un nemico dello Stato" (pp. 76-86), in Thomas Merton, Fede e violenza, prefazione di Ernesto Balducci, Morcelliana, Brescia 1965; una nota di Paolo Giuntella in "Adista", n. 11, 13 febbraio 1993, pp. 9-10. L'associazione "Franz Jaegerstaetter Italia" pubblica periodicamente una newsletter alla figura di Franz Jaegerstaetter dedicata (per richieste e contatti: Giampiero Girardi, via del Forte 44/B, 38100 Martignano, tel. 0461829526 o 3474185755, e-mail: franzitalia at gmail.com, gia.gira at gmail.com)] Il volto sereno, pieno di composta felicita', di Franziska, la vedova quasi novantacinquenne del nuovo beato. E' indubbiamente questa la "misura" della recentissima beatificazione di Franz Jaegerstaetter, il contadino contro Hitler. La chiesa ha riconosciuto il carattere di martirio alla morte da lui subita per aver rifiutato l'arruolamento nell'esercito nazista, in Austria nel 1943. Un gesto compiuto in nome della propria fede, avendo riconosciuto l'assoluta incompatibilita' tra l'essere cristiano e l'essere nazista. La sua non fu una scelta facile: era sposato e padre di tre figlie, sentiva molto l'amore per la famiglia e le responsabilita' che aveva di fronte. Ma ando' avanti per la sua strada: "Avere moglie e figli e' forse una scusa per cadere nella menzogna e nella falsita'? Non lo credo". Molto opportunamente la diocesi di Linz, cui apparteneva e che oggi lo proclama beato, lo presenta come "martire e padre di famiglia", unendo al motivo della sua morte anche il senso della sua vita. Egli trovo' nel matrimonio una forza enorme non solo per vivere da cristiano ma anche per morire da eroe. La moglie seppe stargli vicino con grande coraggio e profonda condivisione, totale fiducia, piena comprensione. E soffri' molto non solo per la perdita, ma anche per la freddezza che circondo' la figura del marito per molti anni dopo la fine della guerra. La stessa Chiesa, all'inizio, non seppe riconoscere la grandezza di quest'uomo, che aveva saputo dare il giusto valore alla coscienza della persona, libera davanti a Dio: "Per quale motivo preghiamo Dio e i sette doni dello Spirito santo, se dobbiamo comunque prestare in ogni caso cieca obbedienza? A che pro Dio ha fornito agli uomini un intelletto e una libera volonta' se non ci e' neppure concesso, come alcuni dicono, di giudicare se questa guerra che la Germania sta conducendo sia giusta o ingiusta?". C'e' chi si chiede se la beatificazione sia un riconoscimento tardivo (e forse un po' improvvi-do), dopo che Jaegerstaetter fu lasciato solo dalla chiesa, che tanto amava, e dopo che essa lo ha ignorato per molti anni. Certamente e' cosi', se si ragiona in una logica puramente terrena e con parametri utilitaristici. Ma se si guardano le cose nella prospettiva della fede, della spiritualita', della ricerca della verita', allora questo momento diventa un aiuto per comprendere la grandezza di quest'uomo e la giustezza delle sue scelte. Egli e' stato un cristiano coerente, coraggioso, fedele al vangelo. La Chiesa ne riconosce queste caratteristiche e lo pone ad esempio per tutti i cristiani. La dimensione personale e soggettiva del suo gesto, pero', non si esaurisce in se stessa o nel solo significato religioso. Aver detto un "no" deciso al nazismo e' stato, per Jaegerstaetter, anche un gesto di responsabilita' civile, un atto "politico" e sociale, che e' partito dall'analisi del contesto del tempo e si e' concretizzato in una vera e propria obiezione di coscienza. La sua testimonianza va letta sia nella profondita' dell'ispirazione e nella ricchezza della fede, sia nella carica di contestazione al sistema disumano instaurato dal nazismo e, purtroppo, accettato dalla maggioranza del popolo austriaco. Piu' volte, nei suoi scritti, Franz ritorna sull'esito del referendum che nel 1938 sanci' l'annessione della sua patria alla Germania, considerando quel voto una colpevole accondiscendenza, un "si'" al male e alla barbarie. Ne' va dimenticato che queste valutazioni, che a noi oggi possono apparire scontate, poiche' siamo a conoscenza di tutto cio' che e' stato il nazismo, sono state fatte da Jaegerstaetter negli anni bui del terrore, in una situazione di isolamento geografico (viveva in un paesino sperduto in mezzo alla campagna) e di totale assenza di contatti e collegamenti con altri resistenti. Cio' non fa che aumentare il valore di quest'uomo semplice, che ha saputo opporsi in una situazione di quasi completa solitudine. Tanto piu' grande, dunque, oggi e' la gioia di colei che, unica, ha saputo stargli vicina: la moglie Franziska. La beatificazione del marito non le ha dato orgoglio o vanto. Anche lei, nella sua semplicita', riflette la contentezza per il riconoscimento di aver saputo percorrere la strada giusta, quella che conduce alla verita' e alla giustizia. Anche coloro che vogliono bene a Franz, perche' ne ammirano le qualita' e se ne lasciano interrogare ancora oggi, sono invasi da sentimenti di soddisfazione, gioia, gratitudine. Il ricordo del nuovo beato e' stato fissato al 21 maggio, giorno del suo battesimo. * In italiano ci sono cinque libri da leggere sulla vicenda di Franz Jaegerstaetter: Scrivo con le mani legate. Lettere dal carcere e altri scritti dell'obiettore-contadino che si oppose ad Adolf Hitler, di Franz Jaegerstaetter, a cura di Giampiero Girardi, traduzione di Lucia Togni, Berti, Piacenza 2005. Franz Jaegerstaetter. Un contadino contro Hitler, di Erna Putz , Berti, Piacenza 2000. Il testimone solitario. Vita e morte di Franz Jaegerstaetter, di Gordon Zahn, Editoria universitaria, Venezia 2002. Franz Jaegerstaetter, il contadino contro Hitler: una testimonianza per l'oggi, di Giampiero Girardi, Berti, Piacenza 2007. E' disponibile anche un film, della durata di 28 minuti, distribuito dalla Caritas di Trento, via Endridi 27, tel. 0461261166, e-mail: caritas at arcidiocesi.trento.it 4. INCONTRI. A PIACENZA IL PRIMO DICEMBRE [Da Emanuela Cusimano (per contatti: emanuela.cusimano at cppp.it) riceviamo e diffondiamo. Danilo Dolci e' nato a Sesana (Trieste) nel 1924, arrestato a Genova nel '43 dai nazifascisti riesce a fuggire; nel '50 partecipa all'esperienza di Nomadelfia a Fossoli; dal '52 si trasferisce nella Sicilia occidentale (Trappeto, Partinico) in cui promuove indimenticabili lotte nonviolente contro la mafia e il sottosviluppo, per i diritti, il lavoro e la dignita'. Subisce persecuzioni e processi. Sociologo, educatore, e' tra le figure di massimo rilievo della nonviolenza nel mondo. E' scomparso sul finire del 1997. Di seguito riportiamo una sintetica ma accurata notizia biografica scritta da Giuseppe Barone (comparsa col titolo "Costruire il cambiamento" ad apertura del libriccino di scritti di Danilo, Girando per case e botteghe, Libreria Dante & Descartes, Napoli 2002): "Danilo Dolci nasce il 28 giugno 1924 a Sesana, in provincia di Trieste. Nel 1952, dopo aver lavorato per due anni nella Nomadelfia di don Zeno Saltini, si trasferisce a Trappeto, a meta' strada tra Palermo e Trapani, in una delle terre piu' povere e dimenticate del paese. Il 14 ottobre dello stesso anno da' inizio al primo dei suoi numerosi digiuni, sul letto di un bambino morto per la denutrizione. La protesta viene interrotta solo quando le autorita' si impegnano pubblicamente a eseguire alcuni interventi urgenti, come la costruzione di una fogna. Nel 1955 esce per i tipi di Laterza Banditi a Partinico, che fa conoscere all'opinione pubblica italiana e mondiale le disperate condizioni di vita nella Sicilia occidentale. Sono anni di lavoro intenso, talvolta frenetico: le iniziative si susseguono incalzanti. Il 2 febbraio 1956 ha luogo lo "sciopero alla rovescia", con centinaia di disoccupati - subito fermati dalla polizia - impegnati a riattivare una strada comunale abbandonata. Con i soldi del Premio Lenin per la Pace (1958) si costituisce il "Centro studi e iniziative per la piena occupazione". Centinaia e centinaia di volontari giungono in Sicilia per consolidare questo straordinario fronte civile, "continuazione della Resistenza, senza sparare". Si intensifica, intanto, l'attivita' di studio e di denuncia del fenomeno mafioso e dei suoi rapporti col sistema politico, fino alle accuse - gravi e circostanziate - rivolte a esponenti di primo piano della vita politica siciliana e nazionale, incluso l'allora ministro Bernardo Mattarella (si veda la documentazione raccolta in Spreco, Einaudi, Torino 1960 e Chi gioca solo, Einaudi, Torino 1966). Ma mentre si moltiplicano gli attestati di stima e solidarieta', in Italia e all'estero (da Norberto Bobbio a Aldo Capitini, da Italo Calvino a Carlo Levi, da Aldous Huxley a Jean Piaget, da Bertrand Russell a Erich Fromm), per tanti avversari Dolci e' solo un pericoloso sovversivo, da ostacolare, denigrare, sottoporre a processo, incarcerare. Ma quello che e' davvero rivoluzionario e' il suo metodo di lavoro: Dolci non si atteggia a guru, non propina verita' preconfezionate, non pretende di insegnare come e cosa pensare, fare. E' convinto che nessun vero cambiamento possa prescindere dal coinvolgimento, dalla partecipazione diretta degli interessati. La sua idea di progresso non nega, al contrario valorizza, la cultura e le competenze locali. Diversi libri documentano le riunioni di quegli anni, in cui ciascuno si interroga, impara a confrontarsi con gli altri, ad ascoltare e ascoltarsi, a scegliere e pianificare. La maieutica cessa di essere una parola dal sapore antico sepolta in polverosi tomi di filosofia e torna, rinnovata, a concretarsi nell'estremo angolo occidentale della Sicilia. E' proprio nel corso di alcune riunioni con contadini e pescatori che prende corpo l'idea di costruire la diga sul fiume Jato, indispensabile per dare un futuro economico alla zona e per sottrarre un'arma importante alla mafia, che faceva del controllo delle modeste risorse idriche disponibili uno strumento di dominio sui cittadini. Ancora una volta, pero', la richiesta di acqua per tutti, di "acqua democratica", incontrera' ostacoli d'ogni tipo: saranno necessarie lunghe battaglie, incisive mobilitazioni popolari, nuovi digiuni, per veder realizzato il progetto. Oggi la diga esiste (e altre ne sono sorte successivamente in tutta la Sicilia), e ha modificato la storia di decine di migliaia di persone: una terra prima aridissima e' ora coltivabile; l'irrigazione ha consentito la nascita e lo sviluppo di numerose aziende e cooperative, divenendo occasione di cambiamento economico, sociale, civile. Negli anni Settanta, naturale prosecuzione del lavoro precedente, cresce l'attenzione alla qualita' dello sviluppo: il Centro promuove iniziative per valorizzare l'artigianato e l'espressione artistica locali. L'impegno educativo assume un ruolo centrale: viene approfondito lo studio, sempre connesso all'effettiva sperimentazione, della struttura maieutica, tentando di comprenderne appieno le potenzialita'. Col contributo di esperti internazionali si avvia l'esperienza del Centro Educativo di Mirto, frequentato da centinaia di bambini. Il lavoro di ricerca, condotto con numerosi collaboratori, si fa sempre piu' intenso: muovendo dalla distinzione tra trasmettere e comunicare e tra potere e dominio, Dolci evidenzia i rischi di involuzione democratica delle nostre societa' connessi al procedere della massificazione, all'emarginazione di ogni area di effettivo dissenso, al controllo sociale esercitato attraverso la diffusione capillare dei mass-media; attento al punto di vista della "scienza della complessita'" e alle nuove scoperte in campo biologico, propone "all'educatore che e' in ognuno al mondo" una rifondazione dei rapporti, a tutti i livelli, basata sulla nonviolenza, sulla maieutica, sul "reciproco adattamento creativo" (tra i tanti titoli che raccolgono gli esiti piu' recenti del pensiero di Dolci, mi limito qui a segnalare Nessi fra esperienza etica e politica, Lacaita, Manduria 1993; La struttura maieutica e l'evolverci, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1996; e Comunicare, legge della vita, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1997). Quando la mattina del 30 dicembre 1997, al termine di una lunga e dolorosa malattia, un infarto lo spegne, Danilo Dolci e' ancora impegnato, con tutte le energie residue, nel portare avanti un lavoro al quale ha dedicato ogni giorno della sua vita". Tra le molte opere di Danilo Dolci, per un percorso minimo di accostamento segnaliamo almeno le seguenti: una antologia degli scritti di intervento e di analisi e' Esperienze e riflessioni, Laterza, Bari 1974; tra i libri di poesia: Creatura di creature, Feltrinelli, Milano 1979; tra i libri di riflessione piu' recenti: Dal trasmettere al comunicare, Sonda, Torino 1988; La struttura maieutica e l'evolverci, La Nuova Italia, Firenze 1996. Tra le opere su Danilo Dolci: Giuseppe Fontanelli, Dolci, La Nuova Italia, Firenze 1984; Adriana Chemello, La parola maieutica, Vallecchi, Firenze 1988 (sull'opera poetica di Dolci); Antonino Mangano, Danilo Dolci educatore, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1992; Giuseppe Barone, La forza della nonviolenza. Bibliografia e profilo critico di Danilo Dolci, Libreria Dante & Descartes, Napoli 2000, 2004 (un lavoro fondamentale); Lucio C. Giummo, Carlo Marchese (a cura di), Danilo Dolci e la via della nonviolenza, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2005. Tra i materiali audiovisivi su Danilo Dolci cfr. il dvd di Alberto Castiglione, Danilo Dolci. Memoria e utopia, 2004. Tra i vari siti che contengono molti utili materiali di e su Danilo Dolci segnaliamo almeno www.danilodolci.it, danilo1970.interfree.it, www.danilodolci.toscana.it, www.cesie.org, www.nonviolenti.org] Piacenza, primo dicembre 2007, ore 14,30, convegno sul tema "Se l'uomo non immagina si spegne. Danilo Dolci dieci anni dopo". A dieci anni dalla morte di Danilo Dolci, in molti si chiedono quale sia oggi la forma del suo messaggio. Dove si sono incarnati i suoi insegnamenti, in quale misura si sono concretizzati i suoi sogni. A dieci anni dalla morte di Danilo Dolci, la societa' in cui ci troviamo a vivere non e' esattamente quella che avrebbe desiderato. Danilo sognava una comunita' umana centrata sui valori della creativita' e della partecipazione, dove l'anomia individuale venisse progressivamente colmata da centri, luoghi, organismi, iniziative, sistemi educativi che riducessero il gap fra le potenzialita' creative dell'essere umano e la sua concreta espressione. Lo spreco era per lui un tema centrale. Sentiva quanta vitalita', quanta forza era contenuta nelle tante persone che incontrava e sognava per loro uno sviluppo completo, vero e fecondo. Al contrario era inquietato da come spesso tutto si perdesse nell'assorbimento conformistico e nell'incapacita' di organizzarsi e di dare il meglio di se stessi. Con questo convegno il Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti vuole esplorare la forma del sogno di Danilo nelle sue varie accezioni: la forma del laboratorio maieutico, la forma pedagogica con il riferimento educativo dei suoi lavori, la forma politica, con l'impegno a favore degli ultimi e con il desiderio di sconfiggere la mafia, la forma della nonviolenza con un impegno costante per la pace. Perche' quel sogno non si spenga. Partecipano: Giancarlo Caselli, magistrato; Daniele Novara e Paolo Ragusa, del Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti di Piacenza; Nanni Salio, Universita' di Torino. Coordina: Gaetano Rizzuto, direttore del quotidiano "Liberta'. * La partecipazione al Convegno e' gratuita. La preiscrizione e' obbligatoria contattando il numero di telefono e fax 0523499302. E' possibile lasciare un messaggio o scrivere all'indirizzo di posta elettronica: francesca.bucca at cppp.it Ufficio stampa: Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti, via Campagna 83, 29100 Piacenza, tel. e fax: 0523498594, sito: www.cppp.it 5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 6. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 275 del 16 novembre 2007 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/ L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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