Minime. 199



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 199 del primo settembre 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. L'8 settembre a Roma
2. "Peacereporter": Un record stupefacente
3. Aziz Ahmad Tassal: Da Musa Qala
4. Enrico Piovesana: la guerra per l'oppio
5. Veronique Tadjo: L'Africa, i giovani
6. Valentina Parisi presenta "Sinceramente vostro, Surik" di Ljudmila
Ulickaja
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. INCONTRI. L'8 SETTEMBRE A ROMA
[Da varie persone amiche riceviamo e diffondiamo questo invito di Pina Nuzzo
(per contatti: udinazionale at tin.it).
Pina Nuzzo, apprezzata pittrice, e' una delle figure piu' prestigiose
dell'Unione delle donne in Italia (Udi)]

A tutte le donne interessate: sabato 8 settembre ci vediamo nella sede
nazionale dell'Unione donne in Italia (Udi), via dell'Arco di Parma 15, a
Roma, dalle 11,30 alle ore 16 per organizzare la manifestazione del 13
ottobre.
Questo e' un appuntamento cruciale perche' nel pieno della campagna "50 e 50
ovunque si decide" - la raccolta delle firme si concludera' il 30 novembre -
diremo a tutti che noi vogliamo esserci dove si decide perche' non e' piu'
sopportabile sentirci raccontare, un giorno si' e l'altro pure, da quanti
poi possono decidere veramente, cosa e' meglio per noi.
E' importante che tante donne partecipino all'incontro perche' solo insieme
possiamo fare una grande manifestazione, vi chiedo percio' di far girare
questa lettera tra le singole, i gruppi e le associazioni di donne che io
non posso raggiungere.
La giornata si concludera' nel giardino della Casa internazionale delle
donne.
A presto,
Pina Nuzzo

2. AFGHANISTAN. "PEACEREPORTER": UN RECORD STUPEFACENTE
[Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net)]

Allarme Onu: la produzione afgana d'oppio ha raggiunto livelli paurosi.
Colpa dei talebani che producono e raffinano oltre la meta' del totale nel
distretto di Musa Qala.
Ma colpa anche del "tremendo livello di collusione" tra Karzai e
narcotrafficanti denunciato dall'Onu e gia' raccontato da "PeaceReporter".

3. AFGHANISTAN. AZIZ AHMAD TASSAL: DA MUSA QALA
[Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo il seguente
articolo del 29 agosto 2007, dal titolo "Prove di regime neo-talebano" e dal
sommario "Musa Qala e' diventata il maggior centro di produzione,
lavorazione e smercio di oppio".
Aziz Ahmad Tassal, giornalista afgano, e' corrispondente locale
dell'Institute for War and Peace Reporting (Iwpr)]

Si combatte ovunque nella provincia di Helmand. Non nel distretto di Musa
Qala, da febbraio saldamente in mano ai talebani che qui hanno imposto il
loro regime, con un nuovo governatore, mullah Matin, un nuovo sindaco
cittadino, mullah Hassan, un nuovo capo della polizia, mullah Torjan. E
ovviamente nuove leggi - quelle della sharia - e nuove scuole - solo per
maschi, dove l'alfabeto si insegna "alla talebana", con A come Allah e J
come Jihad.
*
Smugglers District
Questo e' ormai conosciuto in tutto l'Afghanistan come "il distretto del
contrabbando", cioe' dei narcotrafficanti. Musa Qala e' infatti diventato il
maggior centro di produzione, lavorazione e smercio di oppio del paese.
Quando sono arrivati, questo inverno, i talebani hanno promosso la
coltivazione del papavero e la costruzione di laboratori artigianali per la
raffinazione dell'oppio in eroina.
*
Regime moderato
Molta gente del posto pare contenta del ritorno dei talebani, che a quanto
dicono si sono presentati in versione piu' moderata rispetto al passato.
"Come un tempo, girano per la citta' con i loro pick-up, raccolgono razioni
di cibo da ogni famiglia e tagliano le mani ai ladri", racconta Mohammed
Aref, negoziante. "Ma non maltrattano piu' la gente, non impediscono alle
donne di uscire di casa, non vietano di ascoltare la radio, guardare la tv,
e nemmeno di tagliarsi la barba. Ma soprattutto - sottolinea Aref - non
pretendono piu' un figlio maschio da arruolare come facevano in passato".
*
Ma comunque talebano
Ma qualcuno pare meno entusiasta. "E' vero che sono meno duri di un tempo -
dice Sher Mohammad - ma alla radio ci fanno ascoltare solo musica talebana e
preghiere trasmesse dalla loro emittente, Voce della Sharia. Le donne escono
poco di casa e le bambine non possono andare a scuola".
Ma a fare piu' paura dei talebani e' il rischio di nuovi bombardamenti aerei
della Nato. "Dopo l'arrivo dei talebani molti sono scappati da Musa Qala per
timore che gli aerei della Nato sarebbero tornati a bombardare", racconta un
residente senza dare il suo nome. "Per lo stesso motivo, la gente dei
villaggi vicini ha paura di venire da queste parti".

4. AFGHANISTAN. ENRICO PIOVESANA: LA GUERRA PER L'OPPIO
[Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo il seguente
reportage.
Enrico Piovesana, giornalista, lavora a "Peacereporter", per cui segue la
zona dell'Asia centrale e del Caucaso; e' stato piu' volte in Afghanistan in
qualita' di inviato]

La provincia di Helmand e' cuore della "Mezzaluna d'Oro". Da qui proviene
quasi meta' dell'eroina prodotta in Afghanistan, che da solo copre ormai
oltre il 92% della produzione mondiale. Il business dell'oppio afgano non e'
mai stato cosi' florido come sotto il governo Karzai. Le autorita'
governative di Kabul, piu' che combattere contro il narcotraffico, sembrano
combattano per spartirsi l'immensa torta.
*
Lashkargah, profondo sud dell'Afghanistan, primavera 2007. Le acque del
fiume Helmand, che serpeggia lento e sinuoso attraverso il Dashte-Margo, il
Deserto della Morte, danno vita e fertilita' a una terra altrimenti arida.
Nell'aria calda e polverosa della citta', il profumo degli alberi di
mandarino in fiore si mescola all'odore acre di carne bruciata dei cadaveri
straziati e carbonizzati dall'esplosione dell'ennesimo uomo-bomba saltato in
aria in centro.
Nella notte tiepida e illuminata dalla luna, il dolce canto dei grilli fa da
sottofondo al rumore degli elicotteri da guerra e dei jet militari che
volano senza sosta, carichi di missili e bombe che sganceranno sui villaggi
controllati dai talebani. Missili e bombe che uccidono centinaia di civili,
come testimoniano i feriti che arrivano nell'ospedale di Emergency a
Lashkargah. Ma nessuno lo dice, perche' dall'anno scorso il governo afgano -
di concerto con la Nato - ha imposto la censura piu' completa su qualsiasi
notizia che possa ingenerare sentimenti "contrari alle forze internazionali
presenti nel paese".
Forze che a Lashkargah non si vedono piu': hanno paura. Contrariamente a
quanto accadeva fino a pochi mesi fa, oggi e' impossibile incrociare per le
polverose strade della citta' i Land Rover dellíesercito britannico - questa
e' zona loro: se ne stanno chiusi nella loro base-fortezza, il Prt di
Lashkargah. Muoversi in convoglio per il centro abitato sarebbe un suicidio:
la gente qui odia i militari stranieri, e i talebani ormai sono presenti
ovunque e colpiscono ovunque. In giro ci sono solo soldati e poliziotti
afgani armati fino ai denti, oltre ai contadini e ai primi braccianti
stagionali che da tutto il paese stanno affluendo per il raccolto qui in
Helmand, dove si produce la meta' di tutto l'oppio afgano.
*
Nei campi fuori citta', i papaveri da oppio sono sfioriti e quasi pronti per
essere incisi. Quest'anno si prevede un raccolto che straccera' ogni record
storico.
Le abbondanti piogge primaverili, del tutto eccezionali per questa regione
arida, dovrebbero garantire una produttivita' mai vista prima, sfondando
addirittura il tetto dei cento chili di oppio per ettaro, il doppio della
norma.
Questo, ovviamente, ha fatto scendere di molto il prezzo di mercato del
tariak, l'oppio grezzo, quotato a 80-90 dollari al chilo. Meno degli anni
passati - quando l'oppio rendeva 100-120 dollari al chilo - ma sempre molto
piu' di quanto renderebbero altre colture come il riso, il grano o il mais,
ancora fortemente deprezzate a causa dell'imbattibile concorrenza delle
forniture gratuite del World Food Programme che negli ultimi anni hanno
inondato il mercato afgano.
Per questa gente l'oppio e' l'unica possibile fonte di sussistenza. Vista la
mancanza di alternative, senza l'oppio morirebbero di fame.
Per questo sono pronti a difendere i loro campi, anche con le armi, anche a
costo della loro vita. Sono gia' decine i contadini uccisi quest'anno dalla
polizia afgana impiegata nella campagna antidroga del governo Karzai,
sostenuta dai quattrini della comunita' internazionale. Ma anche questi
fatti vengono tenuti nascosti, o camuffati: i contadini uccisi diventano, da
morti, talebani.
*
Gia', la campagna antidroga: un programma fantasma, che in cinque anni non
ha dato nessun risultato. La produzione dell'oppio in Afghanistan non e' mai
stata florida come sotto il governo Karzai. L'anno scorso nel paese c'erano
165.000 ettari di terreno coltivati a oppio e quest'anno sfioreranno i
180.000 ettari, vale a dire il doppio rispetto ai 91.000 ettari coltivati
del 1999, l'anno del record storico sotto il regime talebano, quando vennero
prodotte 4.600 tonnellate di oppio. Quest'anno il raccolto previsto e' di
settemila tonnellate. Le strade delle citta' europee sono inondate di eroina
"made in Afghanistan" molto piu' oggi (il 92% della produzione mondiale) di
quando a produrla c'erano i mullah con turbante e barba lunga (il 40%).
Come spiegare un simile fallimento nel conseguire un obiettivo che fin
dall'inizio dal 2001 era stato presentato come una delle ragioni per cui
bisognava abbattere il regime talebano? Un obiettivo tanto piu' importante
in quanto - lo sapevano tutti - il rifiorire dell'oppio sarebbe stato usato
dai talebani per finanziare la loro riscossa, com'e' puntualmente accaduto.
*
La risposta a questa domanda la iniziamo a trovare alla periferia di
Lashkargah, all'ombra di un grande cartellone che pubblicizza i raid
antioppio delle ruspe governative. Qui incontriamo Faizullah e Nur, due
coltivatori amici di amici di amici che hanno acconsentito a raccontarci
cose che non si dovrebbero dire a nessuno, tanto meno a uno straniero.
"Voi credete che il governo venga a distruggere i raccolti. Invece viene a
rubarli", afferma il barbuto afgano lasciandoci a dir poco perplessi.
"Vedete quei camion laggiu'?", dice indicando una lunga fila di mezzi
parcheggiati ai margini della citta'. "Sono quelli sui quali il governo
carichera' i papaveri tagliati dalle ruspe, per poi portarli a Kabul dove
tutto dovrebbe essere bruciato in grandi falo'. Ma li avete mai visti questi
falo'?", domanda Faizullah facendo la faccia di chi la sa lunga. "Dovrebbero
farli davanti alle telecamere, dando alla cosa la massima pubblicita', non
vi pare? Invece dicono che fanno tutto di nascosto, per motivi di sicurezza.
La verita' e' che l'oppio viene portato nelle raffinerie del governo,
trasformato in eroina, e poi smerciato all'estero. Altro che campagna
antidroga!".
Interviene il suo amico, Nur, il quale ci invita a riflettere su un semplice
fatto. "Secondo voi, per quale ragione il governo decide di 'distruggere' i
campi di papavero proprio in coincidenza con il raccolto? Perche' aspetta
che i papaveri siano pronti? Se lo scopo fosse veramente quello di
distruggere i raccolti, il governo potrebbe mandare le ruspe prima, quando i
papaveri sono ancora bassi. Invece aspetta la maturazione delle piante, per
raccoglierle, non per distruggerle! Vi siete mai chiesti perche' il governo
si e' sempre opposto all'uso degli aerei per distruggere i campi con i
defolianti? Credete forse che, come dicono loro, vogliano tutelare la salute
dei contadini? A spararci addosso pero' non si fanno problemi!".
Dopo la chiacchierata con Faizullah, decidiamo di approfondire l'argomento.
Parliamo con altre persone di Lashkargah, altri coltivatori di papavero.
Tutti confermano: il governo di Kabul finge di lottare contro il
narcotraffico, ma in realta' sta semplicemente cercando di imporre una sorta
di "monopolio di Stato" su questo lucroso business, colpendo solo i
produttori di oppio "antigovernativi", quelli che non si adeguano o che,
peggio, sfidano le autorita'.
"Chi come me ha un campo di oppio - spiega Gulam, proprietario di una
piccola piantagione appena fuori citta' - ha due spese principali, che
sostiene in oppio o in denaro: pagare la manodopera stagionale necessaria
per il raccolto lasciando ai braccianti una parte dell'oppio da essi
raccolto, e pagare il governo per mettere al riparo il campo dalle ruspe e
dalle irruzioni della polizia. Chi non paga questa tassa, o peggio paga il
pizzo ai talebani, rischia che il suo raccolto finisca razziato dal
governo".
Insomma: il governo di Kabul si impossessa dell'oppio o "prelevandolo" con
questo sistema di tassazione feudale clandestina, o rubandolo con la forza a
coloro che non si adeguano, agendo dietro la copertura della campagna
antidroga.
*
Che fine faccia l'oppio che arriva a Kabul a bordo dei camion mostratici da
Faizullah ce lo spiega Sayed, che ha un fratello che lavora per il governo
nella capitale. A suo dire, fino a un paio di anni fa, quell'oppio veniva
trasportato direttamente all'estero, soprattutto in Iran e Tagikistan, dove
c'erano le raffinerie in cui veniva trasformato in eroina da inviare in
Europa.
"Poi il governo - spiega Sayed - ha capito che conveniva costruire
raffinerie qui in Afghanistan, cosi' da smerciare all'estero direttamente il
prodotto finito, l'eroina. Con dieci chili di oppio si fa un chilo di
polvere bianca: un camion carico di eroina ne vale almeno dieci carichi di
oppio. Ovviamente questo lo hanno capito anche i talebani e i trafficanti a
loro collegati, che qui al sud hanno costruito centinaia di raffinerie.
Quelle governative invece stanno tutte nella zona di Kabul. Mio fratello mi
ha detto di aver visto l'anno scorso un camion del governo stracolmo di
sacchi di farina pachistana: dentro pero' c'era un altro tipo di polvere
bianca. Tra l'altro - conclude Sayed - gira voce che molti di questi sacchi
vengano rivenduti, o regalati, anche a ufficiali stranieri, soprattutto
statunitensi".
*
Al di la' delle leggende urbane, i racconti di queste e di molte altre
persone che abbiamo incontrato a Lashkargah descrivono una situazione
completamente diversa, anzi opposta rispetto a quella che conosciamo noi in
Occidente: il governo di Kabul sostenuto dalle nostre truppe e dai nostri
soldi finge di lottare contro la produzione e il commercio dell'oppio, in
realta' ci e' invischiato fino al collo.
Il che non dovrebbe stupire piu' di tanto, se si considera che Walid Karzai,
fratello dell'elegante presidente afgano, e' noto per essere il maggiore
trafficante d'oppio della regione di Kandahar.
Ciononostante, i dubbi rimangono. Almeno fino a quando la realta' dei fatti
non ci viene platealmente sbattuta in faccia con un evento che ha
dell'incredibile.
Pochi giorni dopo, infatti, i braccianti stagionali della provincia di
Helmand hanno minacciato uno sciopero per chiedere di essere pagati di piu'.
"Gli anni scorsi i proprietari terrieri ci pagavano lasciandoci un decimo,
un quindicesimo dell'oppio che raccoglievamo", raccontava un contadino in
quei giorni. "Noi accettavamo qualsiasi paga perche' avevamo bisogno di
lavorare. Ma quest'anno sono i coltivatori ad avere bisogno di noi: il
raccolto eccezionale richiede una quantita' eccezionale di manodopera per
incidere tutti questi papaveri prima che il sole li secchi. Inoltre
quest'anno - proseguiva il bracciante - lavorare qui in Helmand e'
pericoloso perche' c'e' la guerra, si rischia la vita. Per questo abbiamo
deciso che avevamo il diritto e la forza contrattuale per chiedere di essere
pagati meglio: vogliamo la meta' dell'oppio raccolto, altrimenti andiamo a
lavorare da un'altra parte".
Messi alle strette da questa minaccia, i coltivatori d'oppio della zona sono
subito andati a manifestare sotto il palazzo del governatore di Helmand,
Asadullah Wafa, chiedendo di intervenire in questa disputa salariale a
difesa dei loro profitti.
"Abbiamo speso tutti i nostri soldi per coltivare i campi e ora rischiamo di
perdere tutto se il raccolto si blocca. Il governo deve intervenire, ci deve
difendere!", dicevano i proprietari terrieri scesi in piazza sotto gli occhi
di quella stessa polizia che, in teoria, dovrebbe distruggere le loro
piantagioni.
Sono bastate poche ore di protesta perche' il governatore accettasse di
intervenire, stabilendo il "giusto salario" dei raccoglitori nella misura di
un quarto del raccolto.
Incredibile: le autorita' governative, lungi dal combattere i produttori
d'oppio, ne difendono gli interessi, per un motivo molto semplice: sono soci
in affari. E tali sono considerati dai proprietari delle piantagioni, che
infatti trovano del tutto naturale rivolgersi al governo per chiedere il suo
aiuto: se salta il raccolto ci perdono entrambi, coltivatori e governo.
*
Sotto la tutela dell'Occidente, Stati Uniti in testa, l'Afghanistan sta
diventando il narco-Stato piu' potente del pianeta. Il famoso "Triangolo
d'Oro" in Indocina e' diventato una bazzecola a confronto. Due realta'
lontane, accomunate pero' da una caratteristica che fa riflettere: quella di
svolgere, o di aver svolto, il ruolo di roccaforte alleata degli Stati Uniti
nelle loro guerre contro "il male" del momento: il comunismo ieri, il
terrorismo oggi.
Una volta chiesi a un esperto straniero di questioni economiche: "Qual e' la
vera ragione per cui gli Stati Uniti hanno invaso l'Afghanistan nel 2001?
Visto che li' di petrolio non ce n'e' e la famosa faccenda dell'oleodotto
della Unocal era marginale e superata, l'hanno fatto per cosa: per vendicare
gli attentati dell'11 settembre oppure per difendere i loro interessi
strategici nella regione, le basi militari a ridosso della Cina?".
Lui rispose: "Ne' l'uno ne' l'altro. In Afghanistan non c'e' petrolio, ma
c'e' l'oppio. Nel 2000 i talebani, per ottenere il riconoscimento della
comunita' internazionale, avevano smesso di coltivarlo, destabilizzando e
rischiando di mettere in crisi il terzo mercato piu' redditizio del pianeta
dopo quello del petrolio e delle armi: quello della droga. Ora tutto e'
tornato a posto".
All'epoca non lo presi sul serio.
*
Scheda
180.000 ettari le piantagioni di papavero.
7.000 tonnellate il raccolto di oppio previsto per quest'anno.
560 milioni di dollari il ricavo complessivo dei coltivatori d'oppio.
3 miliardi di dollari il ricavo complessivo dei trafficanti afgani.
114 miliardi di dollari il valore di mercato dell'eroina ricavata.
26.000 gli afgani, civili e combattenti, morti dal 2001.
570 i soldati occidentali caduti dal 2001.

5. RIFLESSIONE. VERONIQUE TADJO: L'AFRICA, I GIOVANI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 luglio 2007, col titolo
"Africa/Afriche. Nuove generazioni urbane sul treno della modernita'" e il
sommario "Sulle opportunita' che si aprono oggi ai giovani africani,
desiderosi di entrare a far parte del flusso degli scambi globali interviene
l'autrice franco-ivoriana Veronique Tadjo. A mezzo secolo di distanza dalla
stagione delle indipendenze, inaugurata nel '57 dal Ghana, gli scrittori
riflettono sulla vita culturale del continente fra il peso della tradizione
e la tendenza alla diaspora Gli scrittori non parlano piu' con una sola voce
come al tempo della 'negritude', quando l'obiettivo comune era combattere la
colonizzazione francese per ottenere l'indipendenza" (traduzione di Laura
Pugno).
Su Veronique Tadjo dalla medesima fonte dell'articolo riprendiamo la
seguente scheda: "Nata a Parigi nel 1955 da madre francese e padre ivoriano,
Veronique Tadjo e' cresciuta ad Abidjan, in Costa d'Avorio. Con la sua
famiglia ha viaggiato molto fra Africa, Europa, Stati Uniti e America
latina. Dopo gli studi in Costa d'Avorio, si e' specializzata in letteratura
nordamericana alla Sorbonne, conseguendo un dottorato in studi
afro-americani. Pittrice e autrice di romanzi, libri di poesia e di numerosi
libri per ragazzi da lei illustrati, Veronique Tadjo ha insegnato per
diversi anni all'Universita' nazionale della Costa d'Avorio. Dopo alcuni
anni trascorsi in Kenya, la scrittrice attualmente vive in Sudafrica. In
Italia, per le edizioni Ilisso di Nuoro, e' uscito nel 2005 L'Ombra di
Imana. Viaggio al termine del Ruanda (Ilisso, pp. 107, euro 12) , al tempo
stesso reportage narrativo sul genocidio in Ruanda e amara riflessione sulla
violenza e la condizione umana. Per la casa editrice torinese Le Nuove Muse
e' invece da poco apparso Regina Poku (pp. 96, euro 12), che riscrive la
leggenda - conosciuta da tutti i ragazzi della Costa d'Avorio - della regina
Pokou che sacrifica il figlio gettandolo nel fiume Comoe' per salvare il suo
popolo. Edito da Giannino Stoppani e' invece Tamburi parlanti, un libro per
ragazzi di poesie africane illustrate. Fra le altre sue pubblicazioni, le
poesie di Laterite (Hatier, 1984), Le Royaume Aveugle (L'Harmattan, 1991), A
Vol d'Oiseau (L'Harmattan, 1992), Champs de Bataille et d'Amour (Presence
Africaine, 1999), A mi-chemin (l'Harmattan, 2000)"]

Sala conferenze. Qualcuno dal pubblico alza la mano per fare una domanda.
"Lei si lamenta sempre dell'immagine che l'Occidente da' dell'Africa
attraverso i media - un continente di carestie, di conflitti, di corruzione
e di epidemie. Eppure, voi scrittori africani nei vostri libri non fate
altro che parlare di questi stessi mali. Mi puo' dire perche'?". L'uomo
aveva rivolto questa domanda senza particolare animosita', solo con un tono
un po' irritato. Era la prima domanda. La sera sarebbe stata lunga. Mio
malgrado, ho tirato un sospiro. Eccolo, il grande interrogativo che ci
preoccupa tanto. A che giova parlare senza posa dei problemi dell'Africa?
*
Una questione sempre attuale
La domanda non e' nuova. Il dibattito era animato gia' nel 1968, quando
usci' Le Devoir de Violence de Yambo Ouologuem, un romanzo che fece
discutere molto. C'era chi lodava lo scrittore maliano per aver rivolto un
sguardo privo di compiacenza sul passato africano, mentre altri gli
rimproveravano di dare una immagine negativa del continente nero, quasi a
confermare l'immagine che l'Europa aveva gia' dell'Africa. Sono passati
quasi quarant'anni, e la domanda e' sempre attuale, anche se oggi la critica
e' rivolta piu' che altro alle societa' nostre contemporanee.
Ma scrivere non significa forse rifiutare le risposte facili? Affrontare il
proprio destino anche quando e' pieno di dolore? Resistere alle spiegazioni
semplicistiche, agli stereotipi e ai pregiudizi? Scrivere e' cercare di
guardarsi allo specchio del nostro divenire, alla luce del nostro presente e
del nostro passato, e' rimettere l'essere umano al centro delle nostre
preoccupazioni.
*
Dov'e' la bellezza?
Il continente africano e' sempre piu' complesso. Gli scrittori non possono
piu' parlare con una sola voce come facevano una volta, sessanta o
settant'anni fa, al tempo del movimento della "negritudine" che li riuniva
in vista di un obiettivo comune: combattere la colonizzazione francese per
ottenere l'indipendenza. Oggi non abbiamo piu' a che fare con l'uomo nero
che fronteggia il bianco, ma dell'uomo nero davanti a se stesso, ai propri
sogni e ai propri fallimenti. Come ritrovare la propria anima? Come essere
allo stesso tempo uno e molteplice?
Ed ecco che dal pubblico un altro alza la mano e chiede: "E in tutto questo,
la bellezza, dove si trova?". Rifletto sulla portata di questa nuova
domanda. Il nostro desiderio di denunciare cio' che non va nel nostro
continente ci avra' forse indotti a dimenticare la bellezza? Quella bellezza
che gli scrittori di tutto il mondo cercano con fervore cesellando le
parole, modellandole per dare loro un senso inedito, sforzandosi di
raccontare, con un giro particolare di parole, una realta' nuova.
La bellezza, dunque. La bellezza si trova nella vita che in Africa straripa
ovunque: in queste donne che "fabbricano" giorno dopo giorno la
quotidianita', in questi uomini che vivono faticosamente, ma senza mai
mollare, la loro vita, in questi ragazzi che si arrangiano cercando di
cavarsela. Eccoli, sono dappertutto, e sono loro a dare forma all'Africa e a
darle forza e dinamismo. E' un'energia che si percepisce, che e' palpabile
dovunque ci si trovi, che sia a Lagos, Kinshasa, Abidjan, Nairobi o
Johannesburg. C'e' una voglia di vivere e di rifiutare il pessimismo che va
oltre la comprensione. L'ingegnosita', l'arte del riciclo, la creativita' e
lo spirito d'iniziativa sono presenti sul continente africano e permettono
alla grande maggioranza degli abitanti di continuare a vivere nonostante
tutto. E' una bellezza fragile certo, ma nondimeno e' bellezza. Come tutti
gli altri i giovani africani vogliono vivere: sognare, preparare il domani,
credere nell'avvenire.
La loro passione per la modernita' e' ineguagliabile. Gli Internet cafe'
sono sempre pieni (anche perche', va detto, controllare la posta elettronica
costa assai meno a Abidjan, Accra o Dakar che a Parigi o a Londra). Piccoli
centri internet si trovano a ogni angolo di strada, lo stesso vale per i
telefoni. Varie volte al mese chiamo senza difficolta' il villaggio di mio
padre che si trova a 250 chilometri dalla capitale. Spesso a rispondermi e'
il caposquadra che si occupa delle piantagioni. Se ci sono problemi con la
linea, quando e' mio padre a volermi parlare, esce semplicemente per strada,
dove un ragazzo ha messo su un piccolo posto telefonico pubblico.
Per i giovani in Africa l'informatica rappresenta una opportunita' nuova. Il
linguaggio dell'informatica e' universale, e padroneggiarlo significa
entrare a far parte del mondo globalizzato, comunicare con l'esterno. Anche
i giovani che non hanno una istruzione superiore riescono, malgrado tutto, a
formarsi delle competenze. Quasi si trattasse di una lingua straniera, che
ha tuttavia il vantaggio di essere neutra e internazionale.
*
Dinamismo e amarezza
Non solo. I giovani africani hanno una passione speciale per gli ultimi
gadget elettronici - quasi sempre non hanno i mezzi per comprarli, ma sanno
tutto in materia. E le ragazze, le ragazze africane, sono elegantissime.
Mostrate a un sarto la pagina di una rivista di moda e nel giro di poche ore
sara' capace di cucirvi l'abito piu' sofisticato. Insomma, in Africa di
creativita' ce n'e' tanta, e riesce spesso a esprimersi liberamente.
Per questo, davanti a tanto dinamismo, davanti a tanta voglia di migliorare
la propria condizione, non si puo' che essere amareggiati per la triste
sorte riservata a molti giovani africani. Se solo la si potesse canalizzare
positivamente, questa loro energia rappresenterebbe una risorsa enorme per
lo sviluppo del continente. E invece, troppo di frequente, i giovani
finiscono per essere un facile bersaglio per chi e' in cerca di reclute: con
la promessa di una vita migliore, si fa di loro una forza di retroguardia,
come e' successo di recente in Costa d'Avorio, dove tanti ragazzi sono stati
reclutati dai ribelli oppure si sono arruolati nelle truppe governative.
Come stupirsi allora che tanti giovani vogliano andare a cercare all'estero
cio' che non trovano nel loro paese? E proprio come loro, sono sempre piu'
numerosi gli scrittori che cercano di scrollarsi di dosso il fardello
dell'impegno politico. Simili in questo ai giovani, che non hanno conosciuto
la colonizzazione, anche gli intellettuali si sentono piu' liberi dei loro
predecessori dal peso del passato.
Ma le cose non sono cosi' semplici ed e' difficile immaginare come i giovani
(e a maggior ragione gli intellettuali) potrebbero mai sottrarsi alla
storia. Essenzialmente urbane, le nuove generazioni si preoccupano
soprattutto di entrare a far parte del flusso della globalizzazione e e di
non perdere il treno della modernita'. Come tutti i giovani, non vogliono
guardare al passato: conoscono le tradizioni dei loro genitori, ma
preferirebbero farne a meno. Delusi dalle elite politiche, i giovani si
accorgono che gli individui contano poco e che a pesare e' la nazione che si
ha alle spalle, e al tempo stesso sono amaramente consapevoli del fatto che
i paesi africani sono ancora troppo vulnerabili di fronte alla
globalizzazione. Per questo, isolati come si sentono di fronte alla mancanza
di opportunita', alla crisi economica e al peso della societa', tanti di
loro scelgono di andare all'estero. Sono tanti, i giovani che sognano di
essere gli "ospiti" benvenuti di una nazione potente come la Francia, la
Gran Bretagna, il Canada o gli Stati Uniti. Anche se, fenomeno nuovo, da
qualche anno anche il Sudafrica viene percepito come un paese che nel
continente riveste un ruolo a parte, una sorta di accogliente Eldorado
africano.
*
Il diritto alla differenza
Sono, appunto, sogni come dimostra il fatto che i figli dell'immigrazione,
gli africani che vivono dall'altra parte del Mediterraneo, in Europa, hanno
come obiettivo delle proprie lotte il riconoscimento integrale. Ma quale
prezzo dovranno pagare queste nuove generazioni per essere completamente
accettate nel paese d'arrivo? Potranno vivere il diritto alla differenza,
l'accettazione della differenza?
Non a caso proprio questi temi - che gia' si affacciavano sulla scena
letteraria due o tre decenni fa, tanto che Tchicaya U Tam'Si aveva coniato
il termine di congaulois per i congolesi residenti in Francia - diventano
sempre piu' cruciali nei romanzi delle nuove leve di scrittori: e non
soltanto perche' sono sempre piu' numerosi gli africani che vivono
all'estero, ma perche' la maggior parte degli autori africani vive di fatto
lontano dal continente. E tuttavia la posizione di questi intellettuali che,
piu' che emigrati, preferiscono considerarsi "cittadini del mondo" o
"neropolitani", e' diversa.
Rispetto all'Africa, infatti, la vita all'estero degli autori espatriati si
impernia su quella che si potrebbe definire come "una certa distanza", una
distanza tuttavia che non dovrebbe approfondirsi al punto da spezzare i
legami. Inutile ricordare come molto resti ancora da fare e come gli
scrittori africani che hanno scelto di vivere in occidente abbiano una forma
di responsabilita' che li costringe a impegnarsi concretamente nei confronti
dei loro lettori africani. Progetto ambizioso e sicuramente difficile, ma
non impossibile, magari ispirandosi alla soluzione innovativa ideata da
alcuni immigranti originari dello Zimbabwe che, per aiutare i loro cari,
hanno realizzato dei siti internet dove e' possibile procurarsi ogni sorta
di prodotti di prima necessita' da inviare ai parenti e agli amici rimasti
in Africa. Perche' non pensare a una iniziativa analoga nel campo della
cultura, e in particolare per quanto riguarda i libri?
*
Edizioni parallele
Gli scrittori africani, insomma, dovrebbero impegnarsi di piu' per far
circolare le loro idee e i loro scritti sul continente. Per esempio, quando
i loro libri vengono pubblicati in Europa, potrebbero chiedere in parallelo
una edizione africana, cedendo i diritti a condizioni agevolate. E questo
forse potrebbe incoraggiare un movimento inverso: purtroppo infatti, anche
se in Africa si scrive molto, i testi non arrivano a passare la frontiera.
Edizioni economiche, romanzi, poesia, teatro, testi di facile lettura, o
opere complesse in grado di tradurre la realta' del territorio, i libri,
tutti i libri, rivelano la nostra tenace capacita' di lottare contro
l'impossibile.
E questo dialogo, questo incessante va e vieni tra l'Africa e il resto del
mondo, tra chi va e chi resta, deve continuare a essere alimentato.

6. LIBRI. VALENTINA PARISI PRESENTA "SINCERAMENTE VOSTRO, SURIK" DI LJUDMILA
ULICKAJA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 12 agosto 2007 col titolo "L'ironia di
Ljudmila Ulickaja proiettata su fondali brezhneviani" e il sommario "Dotato
di un fascino sottilmente demode' e ambientato nel grigiore degli anni '70,
l'ultimo romanzo della scrittrice moscovita, uscito da Frassinelli con il
titolo Sinceramente vostro, Surik, e' affidato al protagonismo di un uomo un
po' santo un po' idiota, impegnato a riscattare i suoi sensi di colpa
offrendo molteplici servizi a uno stuolo di piagnucolose ammiratrici".
Valentina Parisi, docente, saggista, traduttrice, e' una fine slavista.
Ljudmila Ulickaja, scrittrice russa,  nata nel 1943 nella regione degli
Urali, vive e lavora a Mosca: studiosa di genetica, autrice di testi
teatrali, storie per bambini, racconti e romanzi, dalla fine degli anni
Ottanta ha iniziato a pubblicare sulle riviste "Novyj Mir", "Ogonek" e
"Kontinent"; per alcuni anni ha diretto la sezione letteraria del Teatro da
camera ebraico di Mosca; per la sua opera narrativa ha ricevuto numerosi
riconoscimenti internazionali, tra cui nel 1996 in Francia il premio
Medicis; le sue opere sono state tradotte in numerose lingue. Opere di
Ljudmila Ulickaja: Sonja, e/o, 1997; La figlia di Buchara, e/o, 1998; (con
I. Grekova, Galina Scerbakova) Due per una, Tufani, 2000; Medea, Einaudi,
2000; Funeral party, Frassinelli, 2004; Le bugie delle donne, Frassinelli,
2005; Il dono del dottor Kukockij, Frassinelli, 2006; Sinceramente vostro,
Surik, Frassinelli, 2007]

"Scrivo per un pubblico di bibliotecarie e professoresse". L'affermazione
recente con cui Ljudmila Ulickaja ha perentoriamente circoscritto l'ambito
di ricezione della sua prosa suona in maniera curiosa, dal momento che il
successo di cui godono i suoi libri, attualmente tradotti in una trentina di
lingue e gratificati di prestigiosi riconoscimenti sia in patria che
all'estero, sembrerebbe estendersi ben oltre i confini di qualunque riserva
indiana. Eppure questa ammissione polemica, dettata forse dal desiderio di
ironizzare sul dibattito circa la presunta "femminilita'" della propria
scrittura, colpisce per la sua chiaroveggente modestia. Al di la' di
qualunque fuorviante schematizzazione, lo stile equilibrato della Ulickaja
si rivolge intenzionalmente a un pubblico tradizionalista e colto, incline a
una appassionata tutela dei valori letterari nazionali piu' che a forme
eterodosse di sperimentazione. Lontana dalla democrazia virtuale dei blog
(che Mauro Martini, nel suo L'utopia spodestata, definiva a ragione come
vere e proprie fucine per la giovane creativita' russa), indifferente ai
colpi deliberatamente inferti alla lingua letteraria da innovatori ormai
classici come Vladimir Sorokin o Viktor Erofeev, la sessantaquattrenne
scrittrice moscovita persegue una sua via indubbiamente peculiare, guidata
da una levita' quasi miracolosa che pone in secondo piano eventuali
interrogativi sull'attualita' delle sue scelte.
Totalmente estranea ai ritmi sincopati della Mosca odierna, Ljudmila
Ulickaja si rifugia sovente - e non e' un caso - nella rilettura del recente
passato sovietico, privilegiando storie considerate esemplari. Come quella
ricostruita nel Dono del dottor Kukockij (centrato sulle complesse vicende
familiari del ginecologo moscovita che, alla fine degli anni '40, elaboro'
un progetto per la legalizzazione dell'aborto) o la storia di Daniel Stein,
traduttore - il suo ultimo romanzo ancora inedito in Italia, liberamente
ispirato alla figura di Daniel Rufeisen, ebreo polacco che, infiltrandosi in
qualita' di interprete nella Gestapo, riusci' a salvare parte della
popolazione del ghetto della citta' bielorussa di Mir.
*
Il fascino sottilmente demode' della Ulickaja, tipico del suo stile avverso
a qualsiasi tentazione post-modernista, nonche' la sua tendenza a indagare
con finezza i rapporti tra i sessi, emergono chiaramente dal romanzo
Sinceramente vostro, Surik, pubblicato da Frassinelli nell'elegante
traduzione di Emanuela Guercetti. Figlio illegittimo di una malinconica
contabile con velleita' artistiche inespresse, cresciuto in un confortevole
ma opprimente microcosmo femminile, Surik e' convinto di avere stroncato con
la propria nascita la presunta vocazione teatrale della madre. Nulla di
sorprendente, dunque, se egli passera' la vita a espiare la sua "colpa",
trasformandosi in una sorta di indaffaratissimo consolatore, pronto a
soddisfare con i suoi servigi - sessuali e non - uno stuolo di piagnucolose
ammiratrici. Con una certa dose di sadismo l'autrice ricostruisce la mancata
evoluzione del protagonista seguendo la proliferazione delle sue
masochistiche ipostasi: allievo modello per la nonna insegnante di francese,
valletto per la madre inetta, infermiere e amante per la bella Valerija
dalle gambe paralizzate, marito legale per la compagna di studi Lena,
allorche' decidera' di mascherare con un matrimonio fittizio la sua
posizione di ragazza-madre agli occhi della famiglia benpensante. E ancora:
veicolo di promozione sociale per Alja, ambiziosa chimica giunta a Mosca
dalla provincia kazaka; confidente per la scultrice Matilda e vittima ideale
per la pedinatrice paranoica Svetlana. Inghiottito da questa routine
sfiancante, Surik giunge alla soglia dei trent'anni invecchiato anzitempo e
insoddisfatto della sua monotona occupazione di traduttore tecnico
(intrapresa ovviamente per non lasciare sola la madre).
La sua vita potrebbe subire una svolta imprevista quando Lilija, la ragazza
di cui un tempo era innamorato, ora emigrata in Israele, lo chiama per
annunciargli che trascorrera' ventiquattro ore a Mosca in attesa del volo
diretto a Tokio. Inutile dire che anche questa ultima occasione andra'
sprecata. Il giudizio che Lilija emettera' dopo avere vagabondato una notte
intera con lui per la citta' sara' infatti implacabile: Surik e' un incrocio
tra un santo e un perfetto idiota.
*
Ma ridurre questo romanzo ironico e deliziosamente misogino al suo intreccio
sarebbe davvero ingiusto. Sinceramente vostro, Surik e' innanzitutto un
notevole affresco della cosiddetta "stagnazione brezhneviana", ossia di
quegli anni '70 che, in tempi recenti, sono divenuti oggetto di una vera e
propria rivalutazione collettiva. La nostalgia che la maggior parte della
popolazione russa sembra attualmente provare per il tranquillo grigiore di
quel decennio - distante tanto dagli sconvolgimenti bellici e dalle
repressioni staliniane quanto dal crollo dell'Urss - assume in questo
romanzo una sfumatura quasi cechoviana. All'evocazione commossa di uno dei
rari momenti di stabilita' nella storia russa si fonde lo sgomento di fronte
al vicolo cieco sociale e spirituale che una simile quiete sottintendeva.
Nel timido Surik l'autrice incarna la paralisi di quella frazione
dell'intelligencija che, istintivamente critica verso la cultura di massa
elaborata dal potere sovietico, era d'altronde incapace di convogliare la
propria ansia nel neo-avanguardismo proposto dalle cerchie artistiche
underground o nel dissenso politico. Per Surik la vita e' un succedersi di
piccoli riti domestici legati alla memoria della nonna, indispensabili per
la salvaguardia del delicato equilibrio esistenziale della madre. Impegnato
incessantemente a fornire alle sue donne piccole rassicurazioni quotidiane
sotto forma di leccornie di difficile reperibilita', farmaci omeopatici o
indumenti di importazione, l'eroe della Ulickaja non si accorge nemmeno che
il mondo intorno sta cambiando, che il francese che utilizza per le sue
traduzioni e' innegabilmente desueto, che l'idillio biedermeier cui va
sacrificando tutte le sue energie non reggera' alla prova del tempo.
L'autrice affida il giudizio finale su questa Unione Sovietica convertita
alla sicurezza borghese per mancanza di prospettive all'emigrante ebrea
Lilija, decisa a costruire la sua esistenza altrove: "Mi hanno fatto
mangiare dei piatti incredibili, all'antica pure loro. E' sorprendente, nei
negozi c'e' la miseria piu' nera, ma la tavola e' imbandita con ogni ben di
Dio". Cosi', attraverso la rimozione apparente di ogni conflitto, Ljudmila
Ulickaja crea un universo narrativo perfettamente calibrato che, nondimeno,
comunica al lettore un lieve senso di inquietudine.

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 199 del primo settembre 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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