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Minime. 199
- Subject: Minime. 199
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 1 Sep 2007 00:39:18 +0200
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 199 del primo settembre 2007 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. L'8 settembre a Roma 2. "Peacereporter": Un record stupefacente 3. Aziz Ahmad Tassal: Da Musa Qala 4. Enrico Piovesana: la guerra per l'oppio 5. Veronique Tadjo: L'Africa, i giovani 6. Valentina Parisi presenta "Sinceramente vostro, Surik" di Ljudmila Ulickaja 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. INCONTRI. L'8 SETTEMBRE A ROMA [Da varie persone amiche riceviamo e diffondiamo questo invito di Pina Nuzzo (per contatti: udinazionale at tin.it). Pina Nuzzo, apprezzata pittrice, e' una delle figure piu' prestigiose dell'Unione delle donne in Italia (Udi)] A tutte le donne interessate: sabato 8 settembre ci vediamo nella sede nazionale dell'Unione donne in Italia (Udi), via dell'Arco di Parma 15, a Roma, dalle 11,30 alle ore 16 per organizzare la manifestazione del 13 ottobre. Questo e' un appuntamento cruciale perche' nel pieno della campagna "50 e 50 ovunque si decide" - la raccolta delle firme si concludera' il 30 novembre - diremo a tutti che noi vogliamo esserci dove si decide perche' non e' piu' sopportabile sentirci raccontare, un giorno si' e l'altro pure, da quanti poi possono decidere veramente, cosa e' meglio per noi. E' importante che tante donne partecipino all'incontro perche' solo insieme possiamo fare una grande manifestazione, vi chiedo percio' di far girare questa lettera tra le singole, i gruppi e le associazioni di donne che io non posso raggiungere. La giornata si concludera' nel giardino della Casa internazionale delle donne. A presto, Pina Nuzzo 2. AFGHANISTAN. "PEACEREPORTER": UN RECORD STUPEFACENTE [Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net)] Allarme Onu: la produzione afgana d'oppio ha raggiunto livelli paurosi. Colpa dei talebani che producono e raffinano oltre la meta' del totale nel distretto di Musa Qala. Ma colpa anche del "tremendo livello di collusione" tra Karzai e narcotrafficanti denunciato dall'Onu e gia' raccontato da "PeaceReporter". 3. AFGHANISTAN. AZIZ AHMAD TASSAL: DA MUSA QALA [Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo il seguente articolo del 29 agosto 2007, dal titolo "Prove di regime neo-talebano" e dal sommario "Musa Qala e' diventata il maggior centro di produzione, lavorazione e smercio di oppio". Aziz Ahmad Tassal, giornalista afgano, e' corrispondente locale dell'Institute for War and Peace Reporting (Iwpr)] Si combatte ovunque nella provincia di Helmand. Non nel distretto di Musa Qala, da febbraio saldamente in mano ai talebani che qui hanno imposto il loro regime, con un nuovo governatore, mullah Matin, un nuovo sindaco cittadino, mullah Hassan, un nuovo capo della polizia, mullah Torjan. E ovviamente nuove leggi - quelle della sharia - e nuove scuole - solo per maschi, dove l'alfabeto si insegna "alla talebana", con A come Allah e J come Jihad. * Smugglers District Questo e' ormai conosciuto in tutto l'Afghanistan come "il distretto del contrabbando", cioe' dei narcotrafficanti. Musa Qala e' infatti diventato il maggior centro di produzione, lavorazione e smercio di oppio del paese. Quando sono arrivati, questo inverno, i talebani hanno promosso la coltivazione del papavero e la costruzione di laboratori artigianali per la raffinazione dell'oppio in eroina. * Regime moderato Molta gente del posto pare contenta del ritorno dei talebani, che a quanto dicono si sono presentati in versione piu' moderata rispetto al passato. "Come un tempo, girano per la citta' con i loro pick-up, raccolgono razioni di cibo da ogni famiglia e tagliano le mani ai ladri", racconta Mohammed Aref, negoziante. "Ma non maltrattano piu' la gente, non impediscono alle donne di uscire di casa, non vietano di ascoltare la radio, guardare la tv, e nemmeno di tagliarsi la barba. Ma soprattutto - sottolinea Aref - non pretendono piu' un figlio maschio da arruolare come facevano in passato". * Ma comunque talebano Ma qualcuno pare meno entusiasta. "E' vero che sono meno duri di un tempo - dice Sher Mohammad - ma alla radio ci fanno ascoltare solo musica talebana e preghiere trasmesse dalla loro emittente, Voce della Sharia. Le donne escono poco di casa e le bambine non possono andare a scuola". Ma a fare piu' paura dei talebani e' il rischio di nuovi bombardamenti aerei della Nato. "Dopo l'arrivo dei talebani molti sono scappati da Musa Qala per timore che gli aerei della Nato sarebbero tornati a bombardare", racconta un residente senza dare il suo nome. "Per lo stesso motivo, la gente dei villaggi vicini ha paura di venire da queste parti". 4. AFGHANISTAN. ENRICO PIOVESANA: LA GUERRA PER L'OPPIO [Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo il seguente reportage. Enrico Piovesana, giornalista, lavora a "Peacereporter", per cui segue la zona dell'Asia centrale e del Caucaso; e' stato piu' volte in Afghanistan in qualita' di inviato] La provincia di Helmand e' cuore della "Mezzaluna d'Oro". Da qui proviene quasi meta' dell'eroina prodotta in Afghanistan, che da solo copre ormai oltre il 92% della produzione mondiale. Il business dell'oppio afgano non e' mai stato cosi' florido come sotto il governo Karzai. Le autorita' governative di Kabul, piu' che combattere contro il narcotraffico, sembrano combattano per spartirsi l'immensa torta. * Lashkargah, profondo sud dell'Afghanistan, primavera 2007. Le acque del fiume Helmand, che serpeggia lento e sinuoso attraverso il Dashte-Margo, il Deserto della Morte, danno vita e fertilita' a una terra altrimenti arida. Nell'aria calda e polverosa della citta', il profumo degli alberi di mandarino in fiore si mescola all'odore acre di carne bruciata dei cadaveri straziati e carbonizzati dall'esplosione dell'ennesimo uomo-bomba saltato in aria in centro. Nella notte tiepida e illuminata dalla luna, il dolce canto dei grilli fa da sottofondo al rumore degli elicotteri da guerra e dei jet militari che volano senza sosta, carichi di missili e bombe che sganceranno sui villaggi controllati dai talebani. Missili e bombe che uccidono centinaia di civili, come testimoniano i feriti che arrivano nell'ospedale di Emergency a Lashkargah. Ma nessuno lo dice, perche' dall'anno scorso il governo afgano - di concerto con la Nato - ha imposto la censura piu' completa su qualsiasi notizia che possa ingenerare sentimenti "contrari alle forze internazionali presenti nel paese". Forze che a Lashkargah non si vedono piu': hanno paura. Contrariamente a quanto accadeva fino a pochi mesi fa, oggi e' impossibile incrociare per le polverose strade della citta' i Land Rover dellíesercito britannico - questa e' zona loro: se ne stanno chiusi nella loro base-fortezza, il Prt di Lashkargah. Muoversi in convoglio per il centro abitato sarebbe un suicidio: la gente qui odia i militari stranieri, e i talebani ormai sono presenti ovunque e colpiscono ovunque. In giro ci sono solo soldati e poliziotti afgani armati fino ai denti, oltre ai contadini e ai primi braccianti stagionali che da tutto il paese stanno affluendo per il raccolto qui in Helmand, dove si produce la meta' di tutto l'oppio afgano. * Nei campi fuori citta', i papaveri da oppio sono sfioriti e quasi pronti per essere incisi. Quest'anno si prevede un raccolto che straccera' ogni record storico. Le abbondanti piogge primaverili, del tutto eccezionali per questa regione arida, dovrebbero garantire una produttivita' mai vista prima, sfondando addirittura il tetto dei cento chili di oppio per ettaro, il doppio della norma. Questo, ovviamente, ha fatto scendere di molto il prezzo di mercato del tariak, l'oppio grezzo, quotato a 80-90 dollari al chilo. Meno degli anni passati - quando l'oppio rendeva 100-120 dollari al chilo - ma sempre molto piu' di quanto renderebbero altre colture come il riso, il grano o il mais, ancora fortemente deprezzate a causa dell'imbattibile concorrenza delle forniture gratuite del World Food Programme che negli ultimi anni hanno inondato il mercato afgano. Per questa gente l'oppio e' l'unica possibile fonte di sussistenza. Vista la mancanza di alternative, senza l'oppio morirebbero di fame. Per questo sono pronti a difendere i loro campi, anche con le armi, anche a costo della loro vita. Sono gia' decine i contadini uccisi quest'anno dalla polizia afgana impiegata nella campagna antidroga del governo Karzai, sostenuta dai quattrini della comunita' internazionale. Ma anche questi fatti vengono tenuti nascosti, o camuffati: i contadini uccisi diventano, da morti, talebani. * Gia', la campagna antidroga: un programma fantasma, che in cinque anni non ha dato nessun risultato. La produzione dell'oppio in Afghanistan non e' mai stata florida come sotto il governo Karzai. L'anno scorso nel paese c'erano 165.000 ettari di terreno coltivati a oppio e quest'anno sfioreranno i 180.000 ettari, vale a dire il doppio rispetto ai 91.000 ettari coltivati del 1999, l'anno del record storico sotto il regime talebano, quando vennero prodotte 4.600 tonnellate di oppio. Quest'anno il raccolto previsto e' di settemila tonnellate. Le strade delle citta' europee sono inondate di eroina "made in Afghanistan" molto piu' oggi (il 92% della produzione mondiale) di quando a produrla c'erano i mullah con turbante e barba lunga (il 40%). Come spiegare un simile fallimento nel conseguire un obiettivo che fin dall'inizio dal 2001 era stato presentato come una delle ragioni per cui bisognava abbattere il regime talebano? Un obiettivo tanto piu' importante in quanto - lo sapevano tutti - il rifiorire dell'oppio sarebbe stato usato dai talebani per finanziare la loro riscossa, com'e' puntualmente accaduto. * La risposta a questa domanda la iniziamo a trovare alla periferia di Lashkargah, all'ombra di un grande cartellone che pubblicizza i raid antioppio delle ruspe governative. Qui incontriamo Faizullah e Nur, due coltivatori amici di amici di amici che hanno acconsentito a raccontarci cose che non si dovrebbero dire a nessuno, tanto meno a uno straniero. "Voi credete che il governo venga a distruggere i raccolti. Invece viene a rubarli", afferma il barbuto afgano lasciandoci a dir poco perplessi. "Vedete quei camion laggiu'?", dice indicando una lunga fila di mezzi parcheggiati ai margini della citta'. "Sono quelli sui quali il governo carichera' i papaveri tagliati dalle ruspe, per poi portarli a Kabul dove tutto dovrebbe essere bruciato in grandi falo'. Ma li avete mai visti questi falo'?", domanda Faizullah facendo la faccia di chi la sa lunga. "Dovrebbero farli davanti alle telecamere, dando alla cosa la massima pubblicita', non vi pare? Invece dicono che fanno tutto di nascosto, per motivi di sicurezza. La verita' e' che l'oppio viene portato nelle raffinerie del governo, trasformato in eroina, e poi smerciato all'estero. Altro che campagna antidroga!". Interviene il suo amico, Nur, il quale ci invita a riflettere su un semplice fatto. "Secondo voi, per quale ragione il governo decide di 'distruggere' i campi di papavero proprio in coincidenza con il raccolto? Perche' aspetta che i papaveri siano pronti? Se lo scopo fosse veramente quello di distruggere i raccolti, il governo potrebbe mandare le ruspe prima, quando i papaveri sono ancora bassi. Invece aspetta la maturazione delle piante, per raccoglierle, non per distruggerle! Vi siete mai chiesti perche' il governo si e' sempre opposto all'uso degli aerei per distruggere i campi con i defolianti? Credete forse che, come dicono loro, vogliano tutelare la salute dei contadini? A spararci addosso pero' non si fanno problemi!". Dopo la chiacchierata con Faizullah, decidiamo di approfondire l'argomento. Parliamo con altre persone di Lashkargah, altri coltivatori di papavero. Tutti confermano: il governo di Kabul finge di lottare contro il narcotraffico, ma in realta' sta semplicemente cercando di imporre una sorta di "monopolio di Stato" su questo lucroso business, colpendo solo i produttori di oppio "antigovernativi", quelli che non si adeguano o che, peggio, sfidano le autorita'. "Chi come me ha un campo di oppio - spiega Gulam, proprietario di una piccola piantagione appena fuori citta' - ha due spese principali, che sostiene in oppio o in denaro: pagare la manodopera stagionale necessaria per il raccolto lasciando ai braccianti una parte dell'oppio da essi raccolto, e pagare il governo per mettere al riparo il campo dalle ruspe e dalle irruzioni della polizia. Chi non paga questa tassa, o peggio paga il pizzo ai talebani, rischia che il suo raccolto finisca razziato dal governo". Insomma: il governo di Kabul si impossessa dell'oppio o "prelevandolo" con questo sistema di tassazione feudale clandestina, o rubandolo con la forza a coloro che non si adeguano, agendo dietro la copertura della campagna antidroga. * Che fine faccia l'oppio che arriva a Kabul a bordo dei camion mostratici da Faizullah ce lo spiega Sayed, che ha un fratello che lavora per il governo nella capitale. A suo dire, fino a un paio di anni fa, quell'oppio veniva trasportato direttamente all'estero, soprattutto in Iran e Tagikistan, dove c'erano le raffinerie in cui veniva trasformato in eroina da inviare in Europa. "Poi il governo - spiega Sayed - ha capito che conveniva costruire raffinerie qui in Afghanistan, cosi' da smerciare all'estero direttamente il prodotto finito, l'eroina. Con dieci chili di oppio si fa un chilo di polvere bianca: un camion carico di eroina ne vale almeno dieci carichi di oppio. Ovviamente questo lo hanno capito anche i talebani e i trafficanti a loro collegati, che qui al sud hanno costruito centinaia di raffinerie. Quelle governative invece stanno tutte nella zona di Kabul. Mio fratello mi ha detto di aver visto l'anno scorso un camion del governo stracolmo di sacchi di farina pachistana: dentro pero' c'era un altro tipo di polvere bianca. Tra l'altro - conclude Sayed - gira voce che molti di questi sacchi vengano rivenduti, o regalati, anche a ufficiali stranieri, soprattutto statunitensi". * Al di la' delle leggende urbane, i racconti di queste e di molte altre persone che abbiamo incontrato a Lashkargah descrivono una situazione completamente diversa, anzi opposta rispetto a quella che conosciamo noi in Occidente: il governo di Kabul sostenuto dalle nostre truppe e dai nostri soldi finge di lottare contro la produzione e il commercio dell'oppio, in realta' ci e' invischiato fino al collo. Il che non dovrebbe stupire piu' di tanto, se si considera che Walid Karzai, fratello dell'elegante presidente afgano, e' noto per essere il maggiore trafficante d'oppio della regione di Kandahar. Ciononostante, i dubbi rimangono. Almeno fino a quando la realta' dei fatti non ci viene platealmente sbattuta in faccia con un evento che ha dell'incredibile. Pochi giorni dopo, infatti, i braccianti stagionali della provincia di Helmand hanno minacciato uno sciopero per chiedere di essere pagati di piu'. "Gli anni scorsi i proprietari terrieri ci pagavano lasciandoci un decimo, un quindicesimo dell'oppio che raccoglievamo", raccontava un contadino in quei giorni. "Noi accettavamo qualsiasi paga perche' avevamo bisogno di lavorare. Ma quest'anno sono i coltivatori ad avere bisogno di noi: il raccolto eccezionale richiede una quantita' eccezionale di manodopera per incidere tutti questi papaveri prima che il sole li secchi. Inoltre quest'anno - proseguiva il bracciante - lavorare qui in Helmand e' pericoloso perche' c'e' la guerra, si rischia la vita. Per questo abbiamo deciso che avevamo il diritto e la forza contrattuale per chiedere di essere pagati meglio: vogliamo la meta' dell'oppio raccolto, altrimenti andiamo a lavorare da un'altra parte". Messi alle strette da questa minaccia, i coltivatori d'oppio della zona sono subito andati a manifestare sotto il palazzo del governatore di Helmand, Asadullah Wafa, chiedendo di intervenire in questa disputa salariale a difesa dei loro profitti. "Abbiamo speso tutti i nostri soldi per coltivare i campi e ora rischiamo di perdere tutto se il raccolto si blocca. Il governo deve intervenire, ci deve difendere!", dicevano i proprietari terrieri scesi in piazza sotto gli occhi di quella stessa polizia che, in teoria, dovrebbe distruggere le loro piantagioni. Sono bastate poche ore di protesta perche' il governatore accettasse di intervenire, stabilendo il "giusto salario" dei raccoglitori nella misura di un quarto del raccolto. Incredibile: le autorita' governative, lungi dal combattere i produttori d'oppio, ne difendono gli interessi, per un motivo molto semplice: sono soci in affari. E tali sono considerati dai proprietari delle piantagioni, che infatti trovano del tutto naturale rivolgersi al governo per chiedere il suo aiuto: se salta il raccolto ci perdono entrambi, coltivatori e governo. * Sotto la tutela dell'Occidente, Stati Uniti in testa, l'Afghanistan sta diventando il narco-Stato piu' potente del pianeta. Il famoso "Triangolo d'Oro" in Indocina e' diventato una bazzecola a confronto. Due realta' lontane, accomunate pero' da una caratteristica che fa riflettere: quella di svolgere, o di aver svolto, il ruolo di roccaforte alleata degli Stati Uniti nelle loro guerre contro "il male" del momento: il comunismo ieri, il terrorismo oggi. Una volta chiesi a un esperto straniero di questioni economiche: "Qual e' la vera ragione per cui gli Stati Uniti hanno invaso l'Afghanistan nel 2001? Visto che li' di petrolio non ce n'e' e la famosa faccenda dell'oleodotto della Unocal era marginale e superata, l'hanno fatto per cosa: per vendicare gli attentati dell'11 settembre oppure per difendere i loro interessi strategici nella regione, le basi militari a ridosso della Cina?". Lui rispose: "Ne' l'uno ne' l'altro. In Afghanistan non c'e' petrolio, ma c'e' l'oppio. Nel 2000 i talebani, per ottenere il riconoscimento della comunita' internazionale, avevano smesso di coltivarlo, destabilizzando e rischiando di mettere in crisi il terzo mercato piu' redditizio del pianeta dopo quello del petrolio e delle armi: quello della droga. Ora tutto e' tornato a posto". All'epoca non lo presi sul serio. * Scheda 180.000 ettari le piantagioni di papavero. 7.000 tonnellate il raccolto di oppio previsto per quest'anno. 560 milioni di dollari il ricavo complessivo dei coltivatori d'oppio. 3 miliardi di dollari il ricavo complessivo dei trafficanti afgani. 114 miliardi di dollari il valore di mercato dell'eroina ricavata. 26.000 gli afgani, civili e combattenti, morti dal 2001. 570 i soldati occidentali caduti dal 2001. 5. RIFLESSIONE. VERONIQUE TADJO: L'AFRICA, I GIOVANI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 luglio 2007, col titolo "Africa/Afriche. Nuove generazioni urbane sul treno della modernita'" e il sommario "Sulle opportunita' che si aprono oggi ai giovani africani, desiderosi di entrare a far parte del flusso degli scambi globali interviene l'autrice franco-ivoriana Veronique Tadjo. A mezzo secolo di distanza dalla stagione delle indipendenze, inaugurata nel '57 dal Ghana, gli scrittori riflettono sulla vita culturale del continente fra il peso della tradizione e la tendenza alla diaspora Gli scrittori non parlano piu' con una sola voce come al tempo della 'negritude', quando l'obiettivo comune era combattere la colonizzazione francese per ottenere l'indipendenza" (traduzione di Laura Pugno). Su Veronique Tadjo dalla medesima fonte dell'articolo riprendiamo la seguente scheda: "Nata a Parigi nel 1955 da madre francese e padre ivoriano, Veronique Tadjo e' cresciuta ad Abidjan, in Costa d'Avorio. Con la sua famiglia ha viaggiato molto fra Africa, Europa, Stati Uniti e America latina. Dopo gli studi in Costa d'Avorio, si e' specializzata in letteratura nordamericana alla Sorbonne, conseguendo un dottorato in studi afro-americani. Pittrice e autrice di romanzi, libri di poesia e di numerosi libri per ragazzi da lei illustrati, Veronique Tadjo ha insegnato per diversi anni all'Universita' nazionale della Costa d'Avorio. Dopo alcuni anni trascorsi in Kenya, la scrittrice attualmente vive in Sudafrica. In Italia, per le edizioni Ilisso di Nuoro, e' uscito nel 2005 L'Ombra di Imana. Viaggio al termine del Ruanda (Ilisso, pp. 107, euro 12) , al tempo stesso reportage narrativo sul genocidio in Ruanda e amara riflessione sulla violenza e la condizione umana. Per la casa editrice torinese Le Nuove Muse e' invece da poco apparso Regina Poku (pp. 96, euro 12), che riscrive la leggenda - conosciuta da tutti i ragazzi della Costa d'Avorio - della regina Pokou che sacrifica il figlio gettandolo nel fiume Comoe' per salvare il suo popolo. Edito da Giannino Stoppani e' invece Tamburi parlanti, un libro per ragazzi di poesie africane illustrate. Fra le altre sue pubblicazioni, le poesie di Laterite (Hatier, 1984), Le Royaume Aveugle (L'Harmattan, 1991), A Vol d'Oiseau (L'Harmattan, 1992), Champs de Bataille et d'Amour (Presence Africaine, 1999), A mi-chemin (l'Harmattan, 2000)"] Sala conferenze. Qualcuno dal pubblico alza la mano per fare una domanda. "Lei si lamenta sempre dell'immagine che l'Occidente da' dell'Africa attraverso i media - un continente di carestie, di conflitti, di corruzione e di epidemie. Eppure, voi scrittori africani nei vostri libri non fate altro che parlare di questi stessi mali. Mi puo' dire perche'?". L'uomo aveva rivolto questa domanda senza particolare animosita', solo con un tono un po' irritato. Era la prima domanda. La sera sarebbe stata lunga. Mio malgrado, ho tirato un sospiro. Eccolo, il grande interrogativo che ci preoccupa tanto. A che giova parlare senza posa dei problemi dell'Africa? * Una questione sempre attuale La domanda non e' nuova. Il dibattito era animato gia' nel 1968, quando usci' Le Devoir de Violence de Yambo Ouologuem, un romanzo che fece discutere molto. C'era chi lodava lo scrittore maliano per aver rivolto un sguardo privo di compiacenza sul passato africano, mentre altri gli rimproveravano di dare una immagine negativa del continente nero, quasi a confermare l'immagine che l'Europa aveva gia' dell'Africa. Sono passati quasi quarant'anni, e la domanda e' sempre attuale, anche se oggi la critica e' rivolta piu' che altro alle societa' nostre contemporanee. Ma scrivere non significa forse rifiutare le risposte facili? Affrontare il proprio destino anche quando e' pieno di dolore? Resistere alle spiegazioni semplicistiche, agli stereotipi e ai pregiudizi? Scrivere e' cercare di guardarsi allo specchio del nostro divenire, alla luce del nostro presente e del nostro passato, e' rimettere l'essere umano al centro delle nostre preoccupazioni. * Dov'e' la bellezza? Il continente africano e' sempre piu' complesso. Gli scrittori non possono piu' parlare con una sola voce come facevano una volta, sessanta o settant'anni fa, al tempo del movimento della "negritudine" che li riuniva in vista di un obiettivo comune: combattere la colonizzazione francese per ottenere l'indipendenza. Oggi non abbiamo piu' a che fare con l'uomo nero che fronteggia il bianco, ma dell'uomo nero davanti a se stesso, ai propri sogni e ai propri fallimenti. Come ritrovare la propria anima? Come essere allo stesso tempo uno e molteplice? Ed ecco che dal pubblico un altro alza la mano e chiede: "E in tutto questo, la bellezza, dove si trova?". Rifletto sulla portata di questa nuova domanda. Il nostro desiderio di denunciare cio' che non va nel nostro continente ci avra' forse indotti a dimenticare la bellezza? Quella bellezza che gli scrittori di tutto il mondo cercano con fervore cesellando le parole, modellandole per dare loro un senso inedito, sforzandosi di raccontare, con un giro particolare di parole, una realta' nuova. La bellezza, dunque. La bellezza si trova nella vita che in Africa straripa ovunque: in queste donne che "fabbricano" giorno dopo giorno la quotidianita', in questi uomini che vivono faticosamente, ma senza mai mollare, la loro vita, in questi ragazzi che si arrangiano cercando di cavarsela. Eccoli, sono dappertutto, e sono loro a dare forma all'Africa e a darle forza e dinamismo. E' un'energia che si percepisce, che e' palpabile dovunque ci si trovi, che sia a Lagos, Kinshasa, Abidjan, Nairobi o Johannesburg. C'e' una voglia di vivere e di rifiutare il pessimismo che va oltre la comprensione. L'ingegnosita', l'arte del riciclo, la creativita' e lo spirito d'iniziativa sono presenti sul continente africano e permettono alla grande maggioranza degli abitanti di continuare a vivere nonostante tutto. E' una bellezza fragile certo, ma nondimeno e' bellezza. Come tutti gli altri i giovani africani vogliono vivere: sognare, preparare il domani, credere nell'avvenire. La loro passione per la modernita' e' ineguagliabile. Gli Internet cafe' sono sempre pieni (anche perche', va detto, controllare la posta elettronica costa assai meno a Abidjan, Accra o Dakar che a Parigi o a Londra). Piccoli centri internet si trovano a ogni angolo di strada, lo stesso vale per i telefoni. Varie volte al mese chiamo senza difficolta' il villaggio di mio padre che si trova a 250 chilometri dalla capitale. Spesso a rispondermi e' il caposquadra che si occupa delle piantagioni. Se ci sono problemi con la linea, quando e' mio padre a volermi parlare, esce semplicemente per strada, dove un ragazzo ha messo su un piccolo posto telefonico pubblico. Per i giovani in Africa l'informatica rappresenta una opportunita' nuova. Il linguaggio dell'informatica e' universale, e padroneggiarlo significa entrare a far parte del mondo globalizzato, comunicare con l'esterno. Anche i giovani che non hanno una istruzione superiore riescono, malgrado tutto, a formarsi delle competenze. Quasi si trattasse di una lingua straniera, che ha tuttavia il vantaggio di essere neutra e internazionale. * Dinamismo e amarezza Non solo. I giovani africani hanno una passione speciale per gli ultimi gadget elettronici - quasi sempre non hanno i mezzi per comprarli, ma sanno tutto in materia. E le ragazze, le ragazze africane, sono elegantissime. Mostrate a un sarto la pagina di una rivista di moda e nel giro di poche ore sara' capace di cucirvi l'abito piu' sofisticato. Insomma, in Africa di creativita' ce n'e' tanta, e riesce spesso a esprimersi liberamente. Per questo, davanti a tanto dinamismo, davanti a tanta voglia di migliorare la propria condizione, non si puo' che essere amareggiati per la triste sorte riservata a molti giovani africani. Se solo la si potesse canalizzare positivamente, questa loro energia rappresenterebbe una risorsa enorme per lo sviluppo del continente. E invece, troppo di frequente, i giovani finiscono per essere un facile bersaglio per chi e' in cerca di reclute: con la promessa di una vita migliore, si fa di loro una forza di retroguardia, come e' successo di recente in Costa d'Avorio, dove tanti ragazzi sono stati reclutati dai ribelli oppure si sono arruolati nelle truppe governative. Come stupirsi allora che tanti giovani vogliano andare a cercare all'estero cio' che non trovano nel loro paese? E proprio come loro, sono sempre piu' numerosi gli scrittori che cercano di scrollarsi di dosso il fardello dell'impegno politico. Simili in questo ai giovani, che non hanno conosciuto la colonizzazione, anche gli intellettuali si sentono piu' liberi dei loro predecessori dal peso del passato. Ma le cose non sono cosi' semplici ed e' difficile immaginare come i giovani (e a maggior ragione gli intellettuali) potrebbero mai sottrarsi alla storia. Essenzialmente urbane, le nuove generazioni si preoccupano soprattutto di entrare a far parte del flusso della globalizzazione e e di non perdere il treno della modernita'. Come tutti i giovani, non vogliono guardare al passato: conoscono le tradizioni dei loro genitori, ma preferirebbero farne a meno. Delusi dalle elite politiche, i giovani si accorgono che gli individui contano poco e che a pesare e' la nazione che si ha alle spalle, e al tempo stesso sono amaramente consapevoli del fatto che i paesi africani sono ancora troppo vulnerabili di fronte alla globalizzazione. Per questo, isolati come si sentono di fronte alla mancanza di opportunita', alla crisi economica e al peso della societa', tanti di loro scelgono di andare all'estero. Sono tanti, i giovani che sognano di essere gli "ospiti" benvenuti di una nazione potente come la Francia, la Gran Bretagna, il Canada o gli Stati Uniti. Anche se, fenomeno nuovo, da qualche anno anche il Sudafrica viene percepito come un paese che nel continente riveste un ruolo a parte, una sorta di accogliente Eldorado africano. * Il diritto alla differenza Sono, appunto, sogni come dimostra il fatto che i figli dell'immigrazione, gli africani che vivono dall'altra parte del Mediterraneo, in Europa, hanno come obiettivo delle proprie lotte il riconoscimento integrale. Ma quale prezzo dovranno pagare queste nuove generazioni per essere completamente accettate nel paese d'arrivo? Potranno vivere il diritto alla differenza, l'accettazione della differenza? Non a caso proprio questi temi - che gia' si affacciavano sulla scena letteraria due o tre decenni fa, tanto che Tchicaya U Tam'Si aveva coniato il termine di congaulois per i congolesi residenti in Francia - diventano sempre piu' cruciali nei romanzi delle nuove leve di scrittori: e non soltanto perche' sono sempre piu' numerosi gli africani che vivono all'estero, ma perche' la maggior parte degli autori africani vive di fatto lontano dal continente. E tuttavia la posizione di questi intellettuali che, piu' che emigrati, preferiscono considerarsi "cittadini del mondo" o "neropolitani", e' diversa. Rispetto all'Africa, infatti, la vita all'estero degli autori espatriati si impernia su quella che si potrebbe definire come "una certa distanza", una distanza tuttavia che non dovrebbe approfondirsi al punto da spezzare i legami. Inutile ricordare come molto resti ancora da fare e come gli scrittori africani che hanno scelto di vivere in occidente abbiano una forma di responsabilita' che li costringe a impegnarsi concretamente nei confronti dei loro lettori africani. Progetto ambizioso e sicuramente difficile, ma non impossibile, magari ispirandosi alla soluzione innovativa ideata da alcuni immigranti originari dello Zimbabwe che, per aiutare i loro cari, hanno realizzato dei siti internet dove e' possibile procurarsi ogni sorta di prodotti di prima necessita' da inviare ai parenti e agli amici rimasti in Africa. Perche' non pensare a una iniziativa analoga nel campo della cultura, e in particolare per quanto riguarda i libri? * Edizioni parallele Gli scrittori africani, insomma, dovrebbero impegnarsi di piu' per far circolare le loro idee e i loro scritti sul continente. Per esempio, quando i loro libri vengono pubblicati in Europa, potrebbero chiedere in parallelo una edizione africana, cedendo i diritti a condizioni agevolate. E questo forse potrebbe incoraggiare un movimento inverso: purtroppo infatti, anche se in Africa si scrive molto, i testi non arrivano a passare la frontiera. Edizioni economiche, romanzi, poesia, teatro, testi di facile lettura, o opere complesse in grado di tradurre la realta' del territorio, i libri, tutti i libri, rivelano la nostra tenace capacita' di lottare contro l'impossibile. E questo dialogo, questo incessante va e vieni tra l'Africa e il resto del mondo, tra chi va e chi resta, deve continuare a essere alimentato. 6. LIBRI. VALENTINA PARISI PRESENTA "SINCERAMENTE VOSTRO, SURIK" DI LJUDMILA ULICKAJA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 12 agosto 2007 col titolo "L'ironia di Ljudmila Ulickaja proiettata su fondali brezhneviani" e il sommario "Dotato di un fascino sottilmente demode' e ambientato nel grigiore degli anni '70, l'ultimo romanzo della scrittrice moscovita, uscito da Frassinelli con il titolo Sinceramente vostro, Surik, e' affidato al protagonismo di un uomo un po' santo un po' idiota, impegnato a riscattare i suoi sensi di colpa offrendo molteplici servizi a uno stuolo di piagnucolose ammiratrici". Valentina Parisi, docente, saggista, traduttrice, e' una fine slavista. Ljudmila Ulickaja, scrittrice russa, nata nel 1943 nella regione degli Urali, vive e lavora a Mosca: studiosa di genetica, autrice di testi teatrali, storie per bambini, racconti e romanzi, dalla fine degli anni Ottanta ha iniziato a pubblicare sulle riviste "Novyj Mir", "Ogonek" e "Kontinent"; per alcuni anni ha diretto la sezione letteraria del Teatro da camera ebraico di Mosca; per la sua opera narrativa ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui nel 1996 in Francia il premio Medicis; le sue opere sono state tradotte in numerose lingue. Opere di Ljudmila Ulickaja: Sonja, e/o, 1997; La figlia di Buchara, e/o, 1998; (con I. Grekova, Galina Scerbakova) Due per una, Tufani, 2000; Medea, Einaudi, 2000; Funeral party, Frassinelli, 2004; Le bugie delle donne, Frassinelli, 2005; Il dono del dottor Kukockij, Frassinelli, 2006; Sinceramente vostro, Surik, Frassinelli, 2007] "Scrivo per un pubblico di bibliotecarie e professoresse". L'affermazione recente con cui Ljudmila Ulickaja ha perentoriamente circoscritto l'ambito di ricezione della sua prosa suona in maniera curiosa, dal momento che il successo di cui godono i suoi libri, attualmente tradotti in una trentina di lingue e gratificati di prestigiosi riconoscimenti sia in patria che all'estero, sembrerebbe estendersi ben oltre i confini di qualunque riserva indiana. Eppure questa ammissione polemica, dettata forse dal desiderio di ironizzare sul dibattito circa la presunta "femminilita'" della propria scrittura, colpisce per la sua chiaroveggente modestia. Al di la' di qualunque fuorviante schematizzazione, lo stile equilibrato della Ulickaja si rivolge intenzionalmente a un pubblico tradizionalista e colto, incline a una appassionata tutela dei valori letterari nazionali piu' che a forme eterodosse di sperimentazione. Lontana dalla democrazia virtuale dei blog (che Mauro Martini, nel suo L'utopia spodestata, definiva a ragione come vere e proprie fucine per la giovane creativita' russa), indifferente ai colpi deliberatamente inferti alla lingua letteraria da innovatori ormai classici come Vladimir Sorokin o Viktor Erofeev, la sessantaquattrenne scrittrice moscovita persegue una sua via indubbiamente peculiare, guidata da una levita' quasi miracolosa che pone in secondo piano eventuali interrogativi sull'attualita' delle sue scelte. Totalmente estranea ai ritmi sincopati della Mosca odierna, Ljudmila Ulickaja si rifugia sovente - e non e' un caso - nella rilettura del recente passato sovietico, privilegiando storie considerate esemplari. Come quella ricostruita nel Dono del dottor Kukockij (centrato sulle complesse vicende familiari del ginecologo moscovita che, alla fine degli anni '40, elaboro' un progetto per la legalizzazione dell'aborto) o la storia di Daniel Stein, traduttore - il suo ultimo romanzo ancora inedito in Italia, liberamente ispirato alla figura di Daniel Rufeisen, ebreo polacco che, infiltrandosi in qualita' di interprete nella Gestapo, riusci' a salvare parte della popolazione del ghetto della citta' bielorussa di Mir. * Il fascino sottilmente demode' della Ulickaja, tipico del suo stile avverso a qualsiasi tentazione post-modernista, nonche' la sua tendenza a indagare con finezza i rapporti tra i sessi, emergono chiaramente dal romanzo Sinceramente vostro, Surik, pubblicato da Frassinelli nell'elegante traduzione di Emanuela Guercetti. Figlio illegittimo di una malinconica contabile con velleita' artistiche inespresse, cresciuto in un confortevole ma opprimente microcosmo femminile, Surik e' convinto di avere stroncato con la propria nascita la presunta vocazione teatrale della madre. Nulla di sorprendente, dunque, se egli passera' la vita a espiare la sua "colpa", trasformandosi in una sorta di indaffaratissimo consolatore, pronto a soddisfare con i suoi servigi - sessuali e non - uno stuolo di piagnucolose ammiratrici. Con una certa dose di sadismo l'autrice ricostruisce la mancata evoluzione del protagonista seguendo la proliferazione delle sue masochistiche ipostasi: allievo modello per la nonna insegnante di francese, valletto per la madre inetta, infermiere e amante per la bella Valerija dalle gambe paralizzate, marito legale per la compagna di studi Lena, allorche' decidera' di mascherare con un matrimonio fittizio la sua posizione di ragazza-madre agli occhi della famiglia benpensante. E ancora: veicolo di promozione sociale per Alja, ambiziosa chimica giunta a Mosca dalla provincia kazaka; confidente per la scultrice Matilda e vittima ideale per la pedinatrice paranoica Svetlana. Inghiottito da questa routine sfiancante, Surik giunge alla soglia dei trent'anni invecchiato anzitempo e insoddisfatto della sua monotona occupazione di traduttore tecnico (intrapresa ovviamente per non lasciare sola la madre). La sua vita potrebbe subire una svolta imprevista quando Lilija, la ragazza di cui un tempo era innamorato, ora emigrata in Israele, lo chiama per annunciargli che trascorrera' ventiquattro ore a Mosca in attesa del volo diretto a Tokio. Inutile dire che anche questa ultima occasione andra' sprecata. Il giudizio che Lilija emettera' dopo avere vagabondato una notte intera con lui per la citta' sara' infatti implacabile: Surik e' un incrocio tra un santo e un perfetto idiota. * Ma ridurre questo romanzo ironico e deliziosamente misogino al suo intreccio sarebbe davvero ingiusto. Sinceramente vostro, Surik e' innanzitutto un notevole affresco della cosiddetta "stagnazione brezhneviana", ossia di quegli anni '70 che, in tempi recenti, sono divenuti oggetto di una vera e propria rivalutazione collettiva. La nostalgia che la maggior parte della popolazione russa sembra attualmente provare per il tranquillo grigiore di quel decennio - distante tanto dagli sconvolgimenti bellici e dalle repressioni staliniane quanto dal crollo dell'Urss - assume in questo romanzo una sfumatura quasi cechoviana. All'evocazione commossa di uno dei rari momenti di stabilita' nella storia russa si fonde lo sgomento di fronte al vicolo cieco sociale e spirituale che una simile quiete sottintendeva. Nel timido Surik l'autrice incarna la paralisi di quella frazione dell'intelligencija che, istintivamente critica verso la cultura di massa elaborata dal potere sovietico, era d'altronde incapace di convogliare la propria ansia nel neo-avanguardismo proposto dalle cerchie artistiche underground o nel dissenso politico. Per Surik la vita e' un succedersi di piccoli riti domestici legati alla memoria della nonna, indispensabili per la salvaguardia del delicato equilibrio esistenziale della madre. Impegnato incessantemente a fornire alle sue donne piccole rassicurazioni quotidiane sotto forma di leccornie di difficile reperibilita', farmaci omeopatici o indumenti di importazione, l'eroe della Ulickaja non si accorge nemmeno che il mondo intorno sta cambiando, che il francese che utilizza per le sue traduzioni e' innegabilmente desueto, che l'idillio biedermeier cui va sacrificando tutte le sue energie non reggera' alla prova del tempo. L'autrice affida il giudizio finale su questa Unione Sovietica convertita alla sicurezza borghese per mancanza di prospettive all'emigrante ebrea Lilija, decisa a costruire la sua esistenza altrove: "Mi hanno fatto mangiare dei piatti incredibili, all'antica pure loro. E' sorprendente, nei negozi c'e' la miseria piu' nera, ma la tavola e' imbandita con ogni ben di Dio". Cosi', attraverso la rimozione apparente di ogni conflitto, Ljudmila Ulickaja crea un universo narrativo perfettamente calibrato che, nondimeno, comunica al lettore un lieve senso di inquietudine. 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 199 del primo settembre 2007 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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