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Nonviolenza. Femminile plurale. 124
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 124
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 30 Aug 2007 14:42:10 +0200
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 124 del 30 agosto 2007 In questo numero: 1. Helena Smith: "Suicidati, o ti uccideremo noi" 2. Andrea Barron: Donne in Tunisia 3. Igiaba Scego: Dall'antica tradizione orale al rap 4. Cristina Ali Farah: In fuga dalla nave degli schiavi 1. TURCHIA. HELENA SMITH: "SUICIDATI, O TI UCCIDEREMO NOI" [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di Helena Smith apparso sul "Guardian" del 23 agosto 2007. Helena Smith, giornalista e saggista, e' inviata del "Guardian"] Batman, Turchia. Nuran Uca non e' riuscita ad arrivare al numero 61 di Aydin Arslan Street. Se avesse raggiunto il colorato edificio a due piani, avesse salito le sue scale strette e si fosse seduta in una confortevole poltrona marrone, come tante altre donne hanno fatto e fanno, oggi potrebbe essere viva. La', assieme alle consulenti del gruppo di supporto "Kam-er", avrebbe potuto parlare del "crimine" dell'essere innamorata di un uomo che non avrebbe mai potuto sposare. Invece, il 14 giugno scorso, questa donna curda soccombe al fenomeno che sta reclamando cosi' tante vite nell'area curda dell'Anatolia del sudest, e si impicca nel bagno di casa. "Aveva solo 25 anni, ma la storia e' una tragedia particolare perche' entrambi erano insegnanti, persone istruite, che avevano strumenti", dice Remziye Tural di Kam-er, l'organizzazione di donne che e' diventata un salvavita per coloro che in questa zona della Turchia fronteggiano la morte a causa di una percezione di "disonore". "Era una giovane donna moderna, e vestiva in modo spigliato", continua Remziye Tural, "E questa e' una delle ragioni per cui la sua famiglia l'ha respinta. I suoi genitori le hanno poi proibito di vedere quest'uomo, o di parlargli, e le hanno impedito di lasciare la casa. Alla fine, la pressione e' stata troppa, per lei". Sulle strade di Batman, una citta' che conta 250.000 abitanti, un allarmante numero di essi sta nutrendo pensieri suicidi; in Turchia, gli uomini si suicidano di piu' delle donne, ma a Batman vale il contrario: piu' di 300 donne hanno tentato il suicidio nel 2007. Sette sono morte in suicidi/fotocopia in un solo mese. Il crescente numero di queste morti ha portato le studentesse in strada, in una marcia di protesta che e' arrivata sino al cimitero della citta', al grido di "Basta violenza!". Un atto assai coraggioso, stanti i costumi conservatori della citta'. "Si', il numero sta crescendo", dice ancora Remziye Tural, "Solo nel giugno di quest'anno, in 19 hanno cercato di togliersi la vita, e per la maggior parte ci sono riuscite. Ma questi sono solo i numeri di Batman. Dappertutto, nei villaggi e nelle citta' piu' piccole, le ragazze si stanno suicidando". Ci sono quelle che si sono lanciate nel fiume Tigri, o gettate giu' dai tetti, o si sono tagliate i polsi, ed altre come Nuran Uca hanno scelto di mettere bruscamente fine alla propria esistenza mentre facevano i lavori di casa. Invariabilmente, le sopravvissute dicono era il loro "kader", o destino, cercare una tale fine. Ma i gruppi di donne e i gruppi per i diritti umani credono che dietro molti suicidi vi sia istigazione. Sono emerse storie di bambine di 12 anni rinchiuse in una stanza per giorni con a disposizione una corda, del veleno, o una pistola. "Ci sono troppe prove per non suggerire che questi siano, come in effetti sono, 'delitti d'onore' mascherati da suicidi. Le ragazze vengono forzate a togliersi la vita", dice Aytekin Sir, una psichiatra che sta studiando il fenomeno. L'anno scorso, l'inviata speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani, Yakin Erturk, arrivo' alla stessa conclusione, dicendo che i "suicidi d'onore" stavano rimpiazzando i "delitti d'onore", e i decessi venivano sempre piu' mascherati da incidenti. * Per lungo tempo, le potenti forze della paura e della vergogna hanno trattenuto le giovani donne dal visitare il centro di "Kam-er" sulla Aydin Arlsan Street. Ma di recente, almeno quattro ragazze al giorno hanno cominciato a farvi visita, spesso terrorizzate da sentenze di morte emesse nei loro confronti da padri e fratelli, per "infrazioni" lesive dell'onore familiare. Alcune avevano semplicemente ricevuto un messaggio sul cellulare: "Hai sconciato il nostro nome. Ucciditi da sola, o ti uccideremo noi". Secondo Vildan Aycicek, che lavora alla sede principale dell'organizzazione, nella citta' di Diyarbakir, ad ovest di Batman: "Le donne ricorrono a noi quando capiscono che non possono piu' sopravvivere alla violenza. La maggior parte di esse e' analfabeta e non conosce i propri diritti legali, ma anche se sa di averli, non ha la piu' pallida idea di come usarli". Ci sono stati casi, racconta l'attivista, di donne curde e turche che hanno chiamato la linea telefonica di "Kam-er" dalla Gran Bretagna o da altri paesi, in cui pure temevano che le loro vite fossero a rischio. E' noto come sia difficoltoso fare una stima, a livello mondiale, dei "delitti d'onore". Ma in Turchia questa pratica di vendetta e' citata nelle statistiche come la causa di morte per centinaia e centinaia di donne, ogni anno, ed il numero odierno supera le cifre relative agli anni '70. A volte basta il desiderio di una donna di divorziare, perche' un "consiglio di famiglia" completamente composto da maschi ordini l'omicidio. Ma la liste delle "offese" meritevoli di morte e' lunga: stupro subito, incesto subito, gravidanza e rifiuto di interrompere la gravidanza, l'aver scambiato occhiate con un ragazzo o l'indossare una camicetta scollata. Ad una ragazzina e' bastato l'aver telefonato in diretta ad un programma radiofonico. Un uomo del villaggio prossimo a Diyarbakir, Seyikan Arslan, spiega cosi' l'atteggiamento diffuso nel luogo in cui vive: "Senza regole c'e' il caos. Se mia sorella o mia madre fanno un errore noi [gli uomini - nda] dobbiamo rimettere le cose a posto. Loro devono pagare per ripulire il nostro onore". Pochi luoghi, in Turchia, mostrano il cozzo tra modernita' e tradizione meglio delle citta' dell'Anatolia. Sia Diyarbakir sia Batman, il sito della prima raffineria petrolifera turca, hanno visto un aumento del flusso migratorio proveniente delle aree rurali, che sono disperatamente povere. Le tensioni culturali hanno giocato un grosso ruolo nell'esacerbare i problemi delle famiglie, specialmente quelli tra padri patriarcali e le loro figlie. I suicidi e gli omicidi "d'onore" hanno ormai di gran lunga superato altri castighi tradizionali per le donne, quali il taglio del naso o la rasatura della testa. C'e' anche chi da' la colpa dell'aumento dei suicidi agli sforzi del governo turco per mettere fine agli omicidi: infatti il governo riformista, pur con radici islamiche, di Ankara, determinato ad entrare nell'Unione Europea, ha inasprito le leggi contro i delitti d'onore. Riduzioni di pena per chi cita a sua discolpa l'essere stato provocato dal comportamento della donna non sono piu' possibili. Percio' le famiglie, per risparmiare agli uomini un'esistenza in prigione, forzano le donne a togliersi la vita da sole. "Di solito passano circa due mesi tra il momento in cui l'omicidio viene ordinato ed il momento in cui accade", dice Vildan Aycicek, menzionando le squadre di intervento che il suo gruppo forma con polizia, imam e funzionari governativi, "Cio' ci fornisce un certo tempo per salvare le donne". Assente dalle campagne di questo tipo a Batman e' il sindaco, Huseyin Kalkan, che pero' si e' fatto un nome, ed ha ricevuto parecchio danaro, nella causa contro la Dc Comics per l'uso del nome della sua citta' per il supereroe dei fumetti Batman. Le attiviste dicono che quei soldi avrebbero potuto essere usati per salvare le donne come Nuran Uca. 2. TUNISIA. ANDREA BARRON: DONNE IN TUNISIA [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di Andrea Barron apparso su "The Globalist" di luglio 2007. Andrea Barron, docente, storica, saggista, giornalista, e' Program Manager for International Affairs al Washington Center for Internships and Academic Seminars ed e' direttrice dell'International Conflicts Seminar. Ha insegnato alla George Mason University ed in altre universita', si e' occupata soprattutto delle rivoluzioni del XX secolo, del conflitto mediorientale, della condizione delle donne nel sud del mondo, di relazioni internazionali, di diritti umani; ha pubblicato vari articoli su "Miami Herald", "Jordan Times", "Jerusalem Post", "Journal of Palestine Studies", "Washington Jewish Week", "Muslim Democrat", "The Forward", "Critique - Critical Middle Eastern Studies"] Sotto il brutale regime di Saddam Hussein le irachene beneficiavano di alcune delle politiche piu' "amiche" delle donne nel mondo arabo. Oggi, sotto il nuovo governo dominato dagli sciiti, le milizie islamiste minacciano e uccidono le donne che non seguono il loro codice d'abbigliamento o le insegnanti che istruiscono donne analfabete. In Giordania, Siria ed Egitto, e nella maggior parte dei paesi arabi, un uomo che uccida una parente di sesso femminile per difendere "l'onore" della famiglia riceve una pena ridotta, o puo' anche non finire in prigione del tutto. Nei territori palestinesi, nonostante la presenza di un forte e vibrante movimento delle donne, gli stupratori non vengono perseguiti, mentre le loro vittime vengono forzate a sposarli per proteggere la reputazione della famiglia. In Iran, paese non arabo, le donne vengono lapidate a morte per adulterio, e gli uomini possono usufruire di "matrimoni temporanei" se vogliono fare sesso fuori dal legame coniugale. Il quadro e' molto differente per le donne di un piccolo paese nordafricano, la Tunisia, che si dice orgoglioso delle sue differenti origini (araba, islamica, mediterranea) e del suo attenersi a valori di moderazione, tolleranza, pluralismo religioso ed eguaglianza per le donne. Le donne costituiscono un terzo dei docenti universitari tunisini, il 58% degli studenti universitari, piu' di un quarto dei giudici, il 23% dei membri del Parlamento ed hanno forte rappresentanza in polizia e nelle forze armate. Il tasso di analfabetismo delle donne e' crollato dall'82% del 1966 al 31% del 2004. * La Banca della Solidarieta' tunisina concede prestiti alle donne imprenditrici come Gamra Zeid, una madre trentottenne con la licenza media, che ha ricevuto 10.000 dinari tunisini (circa 7.700 dollari) per aprire una fabbrica di suole da scarpe. Alle donne sono stati forniti questi prestiti per aprire pasticcerie, centri diurni, negozi di abbigliamento, eccetera. E il loro lavoro contribuisce in modo significativo all'economia tunisina: le imprese dirette da donne hanno il doppio di possibilita' di sopravvivenza, dopo i primi cinque anni, rispetto a quelle dirette da uomini. Ma cio' che distingue nettamente la Tunisia da altri paesi arabi o a maggioranza musulmana, sono le sue politiche rispetto a matrimonio, divorzio, sostegno ai bambini, interruzione di gravidanza, delitti d'onore e violenza domestica. Dopo tutto, ha importanza che una donna possa andare all'universita', dirigere i propri affari ed essere eleggibile ad una carica politica, se non puo' scegliersi il marito ed essere libera dalla violenza perpetrata su di lei dalla sua stessa famiglia? La Tunisia ha le politiche piu' progressiste del mondo arabo rispetto alle donne, sin da quando il presidente Habib Bourguiba proclamo' il Codice sullo status personale nell'agosto 1956, subito dopo aver dichiarato l'indipendenza del paese dalla Francia. Il Codice abolisce la poligamia senza eccezioni, e punisce l'uomo che sposi una seconda moglie con un anno di prigione e una multa. Proibisce ai mariti di divorziare unilateralmente e da' alle donne piu' diritti di custodia sui bambini. Bourguiba e i liberali nazionalisti che andarono al potere nel 1956 non stavano rispondendo alle richieste di un movimento femminista, perche' all'epoca non ve n'era alcuno. Vedevano il miglioramento dei diritti delle donne come una parte integrante del loro sforzo per fare della Tunisia un paese moderno, libero da "anacronistiche tradizioni e mentalita' di retroguardia". Si basarono molto sulle idee di Tahar Haddad, il riformatore islamico tunisino che scrisse il famoso libro "Le nostre donne nella sharia e nella societa'" piu' di settant'anni orsono. "L'Islam e' un'infinita fonte di progresso", scrisse Haddad, "Predica l'uguaglianza fra tutte le persone, in particolare fra uomini e donne, che Dio ha creato come uguali". Haddad si batteva contro i matrimoni forzati di ragazze molto giovani e voleva che le donne avessero il pieno diritto di lavorare fuori casa. * Il dottor Kamel Omran, un imam tunisino di gran nome, e docente all'Universita' di Al-Zaytouna, segue la tradizione di un Islam moderno nella sua interpretazione dei versi coranici sulla poligamia. La maggior parte dei musulmani, e dei non musulmani, crede che il Corano permetta ad un uomo di avere sino a quattro mogli. Ma non e' cosi', spiega il dottor Omran: "Il Corano limita la poligamia ad un contesto specifico. Agli uomini era permesso sposare altre donne se erano vedove o orfane di guerra, perche' durante la guerra i loro mariti e padri erano stati uccisi (Corano, Sura 4, v. 3). In Tunisia vi e' un consenso condiviso fra religiosi, laici ed opinione pubblica che rende la poligamia assolutamente improponibile". Confrontate l'interpretazione tunisina del Corano con quella che ne fanno in Arabia Saudita, dove nello scorso marzo si e' permesso ad un uomo di 110 anni di sposare una trentenne, perche' "la moglie, di 85 anni, non e' in grado di soddisfarlo". "E' il costume, non la fede, ad essere responsabile di questo tipo di interpretazione patriarcale dell'Islam", dice ancora l'imam Omran, "Seguire il Corano e la Sunna, le tradizioni del profeta Maometto, dovrebbe rendere le persone piu' consapevoli del valore delle donne, non meno". Omran aggiunge che non vi e' precetto religioso che obblighi le donne a coprirsi la testa. * La Tunisia e' il solo paese arabo a maggioranza musulmana dove l'interruzione di gravidanza e' legale durante il primo trimestre, e dove le donne possono ottenere l'intervento a spese dello stato e senza che sia richiesto il permesso del marito. Ma non devono usare l'interruzione di gravidanza come metodo di controllo per le nascite, come sono costrette a fare in alcuni paesi in via di sviluppo: la Tunisia ha realizzato un ambizioso programma di pianificazione familiare, tramite l'informazione e l'accesso ai contraccettivi. Nel 1993, Zine El Abidine Ben Ali, che successe a Bourguiba come presidente, emendo' il Codice sullo status personale per garantire alle donne maggiori diritti. In quel momento vi era un movimento femminista attivo a cui si deve molto per questi cambiamenti. Non era piu' richiesto ad una donna di obbedire a suo marito, fu stabilito un fondo speciale per dar sostegno alle madri divorziate, e fu possibile da allora per le donne tunisine trasferire la propria nazionalita' ai figli. E l'articolo 207 del Codice penale che riduceva le pene per i "delitti d'onore" fu abolito. Precedentemente, un uomo che ammazzasse la moglie perche' adultera era colpevole semplicemente di "condotta disordinata", oggi e' passibile di ergastolo per omicidio. In Pakistan, se vogliamo fare un confronto, un fratello che uccide sua sorella puo' scampare a qualsiasi conseguenza "confessando" il delitto al padre, che prontamente lo "perdona" e chiude la questione. Souad Khalfallah, presidente dell'Alleanza delle donne avvocate, ricorda che i fondamentalisti islamici si opposero alla cancellazione dell'articolo 207. "All'epoca ero studente all'Universita' di Tunisi. I fondamentalisti venivano a distribuire nel campus i loro volantini, con su scritto: 'Applichiamo la legge coranica! Il Codice sullo status personale e' anti-coranico'. Ma il governo rifiuto' di lasciarsi intimidire". La Tunisia continua ad essere il baluardo dei diritti delle donne arabe. Quest'anno, incoraggiato dall'Unione nazionale delle donne tunisine, dall'Associazione tunisina delle donne democratiche e da altri gruppi femminili, il governo ha lanciato una campagna su larga scala per contrastare la violenza domestica. La coordinatrice del progetto e' Nabila Hamza, del Consiglio nazionale per la famiglia e la popolazione, che dirige i programmi di pianificazione familiare e di salute riproduttiva. Il progetto contro la violenza domestica sta monitorando il territorio nazionale per accertarne la frequenza, e sta lavorando con imam, consiglieri religiosi, poliziotti, giudici, medici, ostetriche ed assistenti sociali per alzare il livello di consapevolezza rispetto alla violenza domestica e trovare le misure piu' adatte per ridurla. Sin dal gennaio 2007 si sono organizzati seminari in quattro "governatorati", o stati (Gabes, Kairouan, Monastir e Jendouba), dove si sono incontrati imam maschi e femmine e sapienti religiosi. "In marzo, in Jendouba, ne abbiamo incontrati sessanta", racconta Hamza, "Hanno discusso di come il Profeta si rivolgesse alle donne per consiglio, e come le sue mogli, soprattutto la giovane Aisha, fossero leader religiose e persino militari. Gli imam, uomini e donne, erano d'accordo sul fatto che un'interpretazione corretta dell'Islam non puo' che rigettare completamente la violenza contro le donne. L'unico punto su cui si dividevano, era se considerare tale violenza un fenomeno isolato o un problema sociale piu' pervasivo. Molti si sono comunque impegnati a parlare contro la violenza domestica durante il 'khutba', e cioe' il sermone che dicono nelle moschee ogni venerdi'". * Puo' un paese piccolo come la Tunisia, la cui popolazione e' di dieci milioni, dare la misura del futuro delle donne nel mondo arabo? Secondo il rapporto delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano nel mondo arabo (2005), l'avanzamento delle donne e' "un prerequisito per il Rinascimento arabo, inseparabilmente legato al destino del mondo arabo ed al suo raggiungimento di sviluppo umano". Per chiunque voglia vedere questo tipo di Rinascimento nel mondo arabo, i notevoli progressi delle donne tunisine sono una storia di successo che non ci si puo' permettere di ignorare. 3. RIFLESSIONE. IGIABA SCEGO: DALL'ANTICA TRADIZIONE ORALE AL RAP [Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 luglio 2007 riprendiamo il seguente articolo apparso col titolo "Dalla antica tradizione orale i codici linguistici della poesia rap" e il sommario "Dal Senegal come dalla Parigi della diaspora, il genere si irradia e raggiunge i ragazzi nella babele africana, passando dallo swahili, dal wolof, dall'arabo a lingue trasversali, addomesticando lungo il percorso le versioni 'broken' di inglese, francese e portoghese Lo smarrimento delle nuove generazioni e la gioia di trovare parole nuove per suoni antichi. A mezzo secolo di distanza dalla stagione delle indipendenze" Igiaba Scego, "somala di origine, italiana per vocazione", figlia di Ali Omar Scego, ex-ministro degli esteri somalo, e' nata a Roma nel 1974, dopo che i suoi genitori si sono rifugiati in Italia, fuggendo del colpo di stato di Siad Barre. Laureata in letterature straniere presso la Sapienza di Roma, divide il suo tempo fra la scrittura e la ricerca (dottorato in pedagogia all'Universita' Roma Tre). Le sue opere, come proprio la sua stessa identita', sono sempre in equilibrio sullo sfumato confine tra le sue due culture, quella materna e quella adottiva, che le permettono di guardare tutte e due dalla distanza e dalla vicinanza allo stesso tempo. Nel 2003 vince il premio Eks&Tra di scrittori migranti con il suo racconto 'Salsiccia' e pubblica il suo romanzo di esordio. Opere di Igiaba Scego: La nomade che amava Alfred Hitchcock, Sinnos, 2003; Rhoda, Sinnos, 2004; (con Gabriela Kuruvilla, Ingy Mubiayi), Pecore nere. Racconti. Laterza, 2005. Dalla stessa fonte dell'articolo riprendiamo la seguente breve scheda: "Alla diaspora somala appartiene anche Igiaba Scego, nata a Roma nel 1974, dopo che i suoi genitori si erano rifugiati in Italia, in seguito al colpo di stato di Siad Barre. Dopo avere vinto nel 2003 il premio letterario Eks&Tra dedicato agli scrittori migranti con il racconto 'Salsiccia', ha pubblicato con l'editore romano Sinnos il suo romanzo di esordio, La nomade che amava Alfred Hitchcock, seguito da Rhoda per la stessa casa editrice. Il suo terzo romanzo uscira' all'inizio del 2008 per Donzelli. Sui temi dell'immigrazione collabora a diverse testate, fra cui 'Nigrizia', 'Latinoamerica' e 'Carta'"] In Africa - non importa quale, se quella di Timbuktu o quella di Centocelle - miscelare e' la parola d'ordine. Lo si fa per ri-raccontare un continente a se stesso, una vita a se stessa. L'Africa non e' solo guerra, solo machete. E' anche (soprattutto) memoria mai sopita che si fa lingua e movimento. Corpi che si sfiorano, si toccano, si amalgamano, copulano - corpi giovani, soprattutto, che vivono nelle megalopoli di fumo, ferraglia e stridori demoniaci. I giovani sono arrabbiati, sempre e dovunque. Ma nel continente devono fare i conti con qualcosa di piu', il malcontento, il disgusto. Questi giovani non hanno sperimentato la felicita' forse ingenua degli anni Sessanta, non hanno vissuto l'effervescenza postcoloniale, non hanno tremato per gli ideali panafricani. Molti poi hanno l'Africa solo nel sangue, non ci sono nemmeno nati. Sono seconde generazioni: sradicati, doppi, incasinati. A questi ragazzi oggi la storia, quella che tritura, ha portato il conto da saldare: dittatori sanguinari, multinazionali predatrici, emorragie di immigrati verso il Nord, fuga di cervelli, disboscamento, rifiuti tossici, guerre civili, genocidi, stupri, paura. A cinquant'anni dall'indipendenza del Ghana, a cinquant'anni da un sogno, l'Africa festeggia la sua liberta' tra le macerie. Ma e' stata vera liberta'? Liberta' da chi l'ha stuprata per secoli? Il gigante oggi sembra stare peggio di prima, soffocato da polipi urbani, malattie apocalittiche, capi inetti. Guardando il carnet di ballo del continente viene voglia di rimpiangere Bokassa e Idi Amin Dada. Si rimpiangono i mostri, perche' quelli di adesso sembrano piu' pericolosi, privi di pieta'. Perche' la felicita' sembra aver abdicato per sempre in questi luoghi. Sono furiosi i giovani. Alcuni per rabbia imbracciano kalashnikov al soldo dei soliti noti, altri entrano nelle gang dei quartieri ghetto del Nord. I piu' fortunati invece fanno musica, non una qualsiasi, ma il rap: che e' insieme poesia e slogan, vernacolo e virtuosismo. In queste note sincopate i giovani trovano una logica che sembra impossibile da ottenere in questa vita. Per i ragazzi, in Africa, il rap e' diventato una bandiera, quel rap nato nei ghetti neri americani tra gang e pistolettate, a Dakar o a Mogadiscio prende i colori arcobaleno della pace. E' rivolta, ma allo stesso tempo speranza. Arrabbiato si', ma con un progetto, il rap in Africa - parola e ritmo, verso e denuncia - e' pedagogia dell'essere. Racconta a chi non sa leggere e scrivere o a chi deve sopravvivere. Racconta il quotidiano e l'epico: chi si e', chi si e' stati, cosa succede, cosa succedera'. Ha un po' la stessa funzione degli affreschi nelle chiese romaniche d'Occidente, la' era la Bibbia a essere raccontata, qui la vita. I testi parlano di Aids, di poverta', di memoria, di conflitti etnici. Testi di poesia, perche' il rap e' una strana creatura ibrida che vive sospesa tra letteratura e musica. Da Dakar, Dar-Es-Salam e dalla Parigi della diaspora, il genere si irradia e raggiunge i ragazzi nella babele di tutto il continente, passando come nulla dalla potenza dello swahili, del wolof, dell'arabo a lingue trasversali, il somalo, lo haussa, il bamilike', addomesticando lungo il cammino le versioni broken di inglese, francese e portoghese. Perche' il rap - ma il discorso vale per tutta la nuova produzione artistica dell'Africa, dal cinema alle arti visive alla scrittura - non e' imitazione come molti credono, e' contaminazione. * Al continente gli occidentali tendono a pensare come a un monolite tutto uguale, chiuso all'esterno, perso nelle sue tragedie, tutt'al piu' pronto a dispensare al mondo tesori di primitivita'. E cosi' dimenticano che negli ultimi due secoli l'Africa ha generosamente dispensato cultura (le radici afro del jazz, del blues, perfino del tango di Astor Piazzolla, volendo restare nell'ambito della musica), ma ha anche saputo calarsi in quello che adesso viene definito come il processo globale di scambi, attingendo nuova linfa dagli Stati Uniti e da Cuba, dal nordeste brasiliano o dai quartieri gitani di Siviglia. Una contaminazione che recupera anche una certa vena tradizionale, come nel caso dei cantori del Corno d'Africa, dagli etiopi azmari ai gabey della Terra di Punt. In questo pezzo tribolato di continente antiche oralita' si fondono con un moderno ibridato. Come i loro antenati trovatori i rapper rispondono alle provocazioni verbali con equilibrismi grammaticali. Come l'oralita' tradizionale il rap e' governato da codici linguistici: ogni rima, ogni gesto, ogni accento e' codificato nell'ambito di un rituale quasi sacralizzato. L'esito di una sfida poetica (sia nel rap, sia nella poetica tradizionale) e' incerto. I duellanti devono costruire il loro discorso poetico a seconda delle parole e delle pause dello sfidante. Esempio concreto gli Xplastaz. Nome da giochetto della playstation, il gruppo nasce nel cuore della terra Masai ad Arusha, in una zona della Tanzania conosciuta per le savane e il cratere di Ngorongoro. Vite passate in agglomerati urbani fatiscenti a fare piccoli lavori e a strimpellare storie di ordinaria quotidianita', con una sensazione di perdita, di smarrimento. Poi l'incontro casuale con il giovane cantante masai, Yamai Ole Meipuko, e la nascita di un sodalizio. Attraverso Yamay (che ora fa parte del gruppo con il nome di Merege) e' stato possibile recuperare una lingua perduta e ripercorrere le orme di Ngugi wa Thiong'o che, prima di loro, ha scelto di ritrovare il suo essere occultato, il suo nome cancellato. Anche il grande scrittore somalo Nuruddin Farah deve parte della sua fortuna ai trovatori che attraversando i secoli si sono posati sulla sua spalla raccontandogli l'inaccessibile: paragoni con il mondo animale, proverbi, citazioni, contrapposizioni oniriche. E lo stesso vale per i moderni cantanti somali (tra rap e folclore) Waahaya Cusub, di cui gira una strana canzone nei sobborghi di Eastleig, la little Mogadishu di Nairobi. La canzone si intitola Cudur, malattia, e parla di Aids in una comunita' dove il sesso e' tema tabu'. Ma lo fa attraverso un duello verbale e una logica di codici classici. Tanto Farah quanto i Waahaya Cusub attingono dunque dalla stessa cesta. E' sempre stato e sempre sara' cosi', soprattutto se si creeranno come oggi occasioni di incontro e scambio, luoghi dove musica e letteratura si fanno crocevia di esperienze diverse, come l'ormai famoso Gabao hip hop festival di Libreville. Del resto, in Senegal l'associazione degli scrittori ha inserito il rap nella Nuova antologia della poesia senegalese. E in un continente pieno di incomprensioni questo e' un reale spiraglio di dialogo. 4. RIFLESSIONE. CRISTINA ALI FARAH: IN FUGA DALLA NAVE DEGLI SCHIAVI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 luglio 2007 riprendiamo il seguente articolo apparso col titolo "In fuga dalla nave degli schiavi" e il sommario "'L'Africa e' una galera' dicono i giovani alla disperata ricerca di opportunita' fuori dal continente. Urgente allora e' ricomporre la lingua della diaspora, perche' presto i confini non avranno piu' senso". Ubah Cristina Ali Farah e' nata a Verona nel 1973 da padre somalo e da madre italiana. E' vissuta a Mogadiscio (Somalia) dal 1976 al 1991, quando e' stata costretta a fuggire a causa della guerra civile scoppiata nel paese. Si e' trasferita per alcuni anni a Pecs, in Ungheria, e in seguito a Verona. Dal 1997 vive stabilmente a Roma dove, nel 2001, si e' laureata in lettere presso l'Universita' La Sapienza. Sin dal 1999 si occupa di educazione interculturale, con percorsi rivolti a studenti di ogni ordine, agli insegnanti e alle donne migranti. In questo ambito ha collaborato con numerose associazioni e Ong come il Cies, Candelaria, Kel'lam, il Forum per l'Intercultura della Caritas, l'Associazione Prezzemolo. Attraverso il Circolo Gianni Bosio si e' occupata della raccolta di storie orali di donne migranti residenti a Roma ed e' responsabile dell'organizzazione di numerosi eventi letterari, tra cui la rassegna "Voci Afroitaliane" e "Lettere migranti". Ha preso parte al ciclo di incontri "Scritture migranti" tenutosi nei mesi di novembre e dicembre 2004 in Campidoglio, di cui sono stati pubblicati gli atti, a cura di Armando Gnisci e Alessandro Portelli. E' presidentessa dell'Associazione Migra e redattrice del periodico "Caffe'". Collabora, inoltre, con numerose riviste e testate come "Repubblica", "Malepeggio", "l'Europeo", "Nigrizia", "Carta", "Magiordomus", "Accattone", "Liberazione". Nel dicembre 2005 ha presentato il suo lavoro alla Brown University di Providence (Usa), in occasione delle giornate dedicate a "Migrazioni cinema letteratura nell'Italia contemporanea" e alla Columbia University di New York durante il corso "Italians tales" di Paolo Valesio, chair del dipartimento di italianistica. In questa occasione Giovanna Bellesia e Victoria Offredi Poletto, dello Smith College, hanno tradotto i racconti "Interamente" (El Ghibli, dicembre 2003), "RapdiPunt" (Italiani per vocazione, Cadmo 2005) e "Madre piccola", che usciranno nel prossimo numero della rivista di traduzione letteraria "Methamorphoses". In Italia suoi racconti e poesie sono stati pubblicati in diverse antologie e riviste come "Nuovi Argomenti", "Quaderni del 900", "Pagine", "Sagarana", "El Ghibli", "Caffe'" e "Crocevia". E' inserita inoltre nelle antologie Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano (Le Lettere, Firenze 2006) curata da Mia Lecomte, e A New Map: The poetry of Migrant Writers in Italy curata da Mia Lecomte e Luigi Bonaffini (Los Angeles, Green Integer 2007). Nel 2006 ha vinto il "Concorso Letterario Nazionale Lingua Madre" indetto dal Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile di Torino insieme a Regione Piemonte e Fiera Internazionale del Libro di Torino. Nel febbraio 2007 esce il suo primo romanzo, edito da Frassinelli. Dalla stessa fonte dell'articolo riprendiamo la seguente breve scheda: "Nata a Verona nel 1973 da padre somalo e da madre italiana, Cristina Ubax Ali Farah ha trascorso la sua infanzia e adolescenza a Mogadisco, frequentando le scuole italiane. Nel 1991 e' stata costretta a fuggire a causa della guerra civile esplosa nel paese. Ad aprile e' uscito per Frassinelli il suo romanzo d'esordio Madre Piccola, un'opera corale sullo sfondo della diaspora somala a seguito della deposizione di Siad Barre. Di capitolo in capitolo tre voci - due donne e un uomo - si avvicendano, raccontando con linguaggi differenti il tempo della separazione"] Quante lingue in una bocca abbayo? Quanti sogni sorella? Nel sogno ero seduta in mezzo a un cortile. La sabbia grigio seppia, lo stesso colore di quel rettangolo di terra in cui nella mia infanzia giocavo ad annegare le formiche. La cosa insolita erano le costruzioni intorno, muri rossi e finestre di acciaio come nella mia casa odierna. Potevano davvero stare insieme? Sono stata in Africa orientale, dopo sedici anni, appena qualche giorno fa. Dentro di me pensavo alle somiglianze, alla ricerca di quegli stessi territori che non ho piu' potuto toccare. Li ho ritrovati, ne ho annusato il sapore, senza sentirmene parte. E come avrei potuto, non sono forse Kampala o Addis Abeba piu' lontane da Mogadiscio di quanto lo siano tra loro le capitali europee? A nessuno verrebbe mai in mente di assimilarle. Eppure c'e' stato un istante, mentre giravo e cantavo intorno ai miei bambini, in cui il contatto si e' definitivamente stabilito. Una ragazza, Maria, vent'anni appena compiuti, mi si e' avvicinata. "Ti ho sentito parlare in italiano, la mia lingua, e allora sono venuta". La sua lingua frammentata, ricomposta, intrecciata al broken english, al luganda, al kiswahili, le lingue che questa ragazza conosce. Maria, che ha imparato l'italiano dal nonno italiano sposato con una donna anglo-ugandese e che maneggia questa lingua misteriosa a Kampala, sua citta' natale, mistero in cui si culla e che le fa dire, rivolta a me: "la sua lingua e' la mia, your country is my country", l'Italia, our country che lei non ha mai conosciuto. "Ora ho questa consapevolezza, io sono cittadino di questa citta', Roma" ha detto una volta il mio amico Romano Bere'. Pensavo a lui, mentre giravo per Addis Abeba e tutti mi parlavano amarico e quando dicevo che ero somala, scuotevano il capo come per dire, "ti avevamo quasi creduto, ci sono tanti di quei somali qui". Pensavo a Romano, al prete che gli ha chiesto di dov'e' e quando lui ha risposto "di Roma", quello e' rimasto in sospeso, rimproverandogli il presunto rifiuto, "come se mi vergognassi di quello che ero" e lui ha dovuto aggiungere "i miei sono tutti e due etiopi". Romano, un nome simbolico come la lingua che ha scelto, cosi' legata alla citta', ma che puo' modificare via via, perche' una lingua non ha confini, una lingua nessuno te la toglie, una lingua puo' tenere dentro tutto quello che hai. E la citta'? La citta', senza la sua mappa emotiva, senza i legami, gli amici, l'amore, si svuota di significato. La mappa emotiva e i luoghi-snodi dove puoi incontrare i tuoi simili, "i ragazzi che possono avere determinate origini, e pero' hanno vissuto qua, e conoscono questa societa' per come li conosce. Quegli attimi sono di piena sincerita', non devi fare nessuna parte. Sei te stesso, mentre stai tra di noi". E in quel "tra di noi" il canale fertile e' la lingua viva e pulsante che si modifica e si riadatta, come la "terza lingua via-di-mezzo", italiano e arabo intersecati, attraverso cui lo studente Khalid Belkchach comunica con i giovani che hanno il suo stesso dono. E' quella terza lingua, la lingua della diaspora che si innesta su tutte le voci dei luoghi percorsi, quella piu' difficile da decifrare. I confini si liquefanno e rimaniamo come stretti in uno shaker i cui esiti sono a volte insondabili. In una intervista raccolta in Quando nasci e' una roulette (Terre di Mezzo) il giovane Adil dice: "Mia madre non mi ha mai trasmesso niente di quel paese, niente davvero, nemmeno la lingua. Fino a quando non ho avuto l'eta' di farmi certe domande vivevo le mie origini solo guardando mia madre in faccia. Il suo volto era il confine". Ebbene, questo confine lo costruiamo nostro malgrado con brandelli di ricordi e di informazioni raccolte, lo costruiamo soprattutto con la forza del nostro immaginario. L'idea dell'Africa come terra vergine e selvaggia in cui lo stato di natura e' prevalente, in cui l'uomo e' padrone di se stesso lontano dai vincoli che gli impone la societa' perdura tutt'oggi. E intanto generazioni di giovani si spostano, varcano i confini, perche' per molti di loro ormai l'Afrique c'est la galere, secondo le parole di Marlene, della Rdc, arrivata in Italia qualche anno fa. C'est la galere, i giovani che vivono in Africa sentono di non avere chance, come rinchiusi in una nave schiavista, la galere. E allora forse, la cosa piu' urgente e' cominciare a lavorare con chi si ha vicino, comporre la lingua frantumata, perche' la citta' e il mondo ci contiene tutti e tra poco i confini non avranno piu' senso. Un anno fa la giovane giornalista Lucia Ghebreghiorges ha scritto un bellissimo articolo, "Ne' carne ne' pesce, probabilmente uovo": "Sentivo di avere una possibilita' tra la carne e il pesce, essere uovo. Un qualcosa che e' in se' la radice di entrambi ma allo stesso tempo non e' ne' l'uno ne' l'altro". L'idea dell'uovo e del suo potenziale implicito per me rappresenta la forza di quell'immaginario potentissimo che dobbiamo far germogliare per non imprigionarci nei confini angusti dello spaesamento. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 124 del 30 agosto 2007 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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