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Nonviolenza. Femminile plurale. 102
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 102
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 17 May 2007 15:32:31 +0200
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 102 del 17 maggio 2007 In questo numero: 1. Giovanna Providenti: Disarmare il mondo 2. Giancarla Codrignani: Donne, diplomazie, nonviolenza 1. RIFLESSIONE. GIOVANNA PROVIDENTI: DISARMARE IL MONDO [Ringraziamo Giovanna Providenti (per contatti: providen at uniroma3.it) per averci messo a disposizione i seguenti appunti alla base dell'intervento tenuto a Palermo il 10 maggio 2007 in occasione della presentazione del libro La nonviolenza delle donne, da lei curato. Giovanna Providenti e' ricercatrice nel campo dei peace studies e women's and gender studies presso l'Universita' Roma Tre, saggista, si occupa di nonviolenza, studi sulla pace e di genere, con particolare attenzione alla prospettiva pedagogica. Ha due figli. Partecipa al Circolo Bateson di Roma. Scrive per la rivista "Noi donne". Ha curato il volume Spostando mattoni a mani nude. Per pensare le differenze, Franco Angeli, Milano 2003, e il volume La nonviolenza delle donne, "Quaderni satyagraha", Firenze-Pisa 2006; ha pubblicato numerosi saggi su rivista e in volume, tra cui: Cristianesimo sociale, democrazia e nonviolenza in Jane Addams, in "Rassegna di Teologia", n. 45, dicembre 2004; Imparare ad amare la madre leggendo romanzi. Riflessioni sul femminile nella formazione, in M. Durst (a cura di), Identita' femminili in formazione. Generazioni e genealogie delle memorie, Franco Angeli, Milano 2005; L'educazione come progetto di pace. Maria Montessori e Jane Addams, in Attualita' di Maria Montessori, Franco Angeli, Milano 2004. Scrive anche racconti; sta preparando un libro dal titolo Donne per, sulle figure di Jane Addams, Mirra Alfassa e Maria Montessori, e un libro su Goliarda Sapienza. Il libro di cui qui si parla, Giovanna Providenti (a cura di), La nonviolenza delle donne, "Quaderni Satyagraha" - Libreria editrice fiorentina, Pisa-Firenze 2006, pp. 288, euro 16, reca contributi, oltre che della curatrice, di Lidia Menapace, Luisa Muraro, Valeria Ando', Patrizia Caporossi, Fabrizia Abbate, Debora Tonelli, Elisabetta Donini, Luisa Del Turco, Ada Donno, Federica Ruggiero, Sandra Endrizzi, Luana Pistone, Itala Ricaldone, Diego Marani, Cecilia Brighi, Adriana Chemello, Monica Lanfranco, Giancarla Codrignani, Maria G. Di Rienzo, Elena Zdravomyslova, Livia Alga. Per richieste: presso la casa editrice Libreria Editrice Fiorentina, via Giambologna 5, 50132 Firenze, tel. 055579921, fax: 0553905997, e-mail: editrice at lef.firenze.it; o anche presso la redazione dei "Quaderni satyagraha", Centro Gandhi, via Santa Cecilia 30, 56127 Pisa, tel. 050542573, e-mail: roccoaltieri at interfree.it, sito: www.centrogandhi.it] Esaurite le prime 1.500 copie de "La nonviolenza delle donne", l'editore ha deciso di fare una ristampa e, su richiesta della curatrice, di inserire una dedica che maggiormente presenti il senso del volume. Eccola: "ad ogni singola donna che contrasta attivamente la violenza invece di subirla. Costruendo pace a partire da se'". Il "successo" di pubblico ottenuto da "La nonviolenza delle donne" mi sta portando in giro per varie citta' d'Italia a presentare il libro. La cosa che piu' mi sorprende positivamente in questi incontri e' il constatare che le persone a cui e' affidato l'arduo compito di "introdurre" i contenuti del libro tradiscono quasi sempre una sorta di scivolamento dal senso del dovere a quello del piacere. Mi accorgo, insomma, che il libro piace, o meglio, trova una rispondenza. Chi man mano va leggendolo credo ritrovi ne "La nonviolenza delle donne" cio' che piu' le/gli sta a cuore. E poiche' lettori privilegiati sono sicuramente coloro che ancora credono nella cosiddetta "politica prima" - ovvero una politica che partendo dal basso contribuisca a trasformare la societa' - credo che il tema conduttore del libro sia proprio questo: trasformare il mondo dal basso, a partire da se'. Oltre alla "trama d'amore" rivelata da Valeria Ando' qui a Palermo: amore come "forza in campo" nel contributo di Luisa Muraro a "La nonviolenza delle donne", e amore come "campo di forza", come dimensione "altra", in cui si muovono le molte donne raccontate nel libro. Amore per il mondo: per le "buone notizie" oscurate dal clamore del terrorismo mediatico che propina solo catastrofi e orrori, e non racconta dei doni offerti da donne e uomini nel mondo, che credono e lavorano alla costruzione di una pace autentica, giorno dopo giorno e a partire da se'. * L'intenzione del libro, sia nella parte di riflessioni sul sapere femminile sia in quella in cui vengono riportate delle pratiche di donne, voleva essere quella di individuare costruttrici di pace sia simboliche che concrete, tese a impegnarsi attivamente e ad affermare la responsabilita' sulle proprie vite, contrastando la violenza subita in qualsiasi forma, sia eclatante che strutturale. Le donne vittime di violenza in Rwanda, India, Bangladesh, Sudan, che formano gruppi di auto-aiuto tra donne, (talvolta di fazioni "nemiche") o si organizzano tra loro formando associazioni, cooperative (talvolta facendo buon uso di strumenti come il microcredito, le ong, gli aiuti internazionali), per contrastare la violenza che subiscono, trovano forme altre rispetto a quelle della logica della vendetta o della punizione. Si tratta di forme di resistenza, e di impegno politico, rivolte alla vita piu' che alla morte, e definibili nonviolente, anche se non esplicitamente tali (nel libro solo l'esperienza dell'Assefa in india - rivolta alla costruzione di scuole nello spirito gandhiano - e quella di Aung San Suu Kyi in Birmania hanno un esplicito riferimento alla nonviolenza intesa come pratica-pensiero) in quanto si tratta di pratiche creative, spontanee o meno, rivolte a reagire in maniera costruttiva a condizioni di violenza, spostandosi dal consueto e prevedibile all'inaspettato e pur possibile. Ora questa cosa di trovare qualita' altre, creative e inconsuete, maturate sia all'interno di condizioni di estrema tragicita' sia nelle nostre vite quotidiane, che rompendo la catena del gattopardiano "cambiare tutto perche' nulla cambi" - che noi siciliani conosciamo bene -, rompendo la catena del ribadirsi di sofferenze e violenze relazionali (anche nel contesto dei nostri privati, ad esempio nella relazione adulti-bambini, trovando modalita' altre di relazionarsi), e' strettamente connesso con percorsi di nonviolenta lenta, dolce e profonda trasformazione (Alexander Langer). Ed e' anche connesso con tutta una serie di esperienze che le donne nella loro storia, soprattutto la storia della liberazione delle donne - ci vanno proponendo.... * A questo proposito vi propongo schematicamente e brevemente alcuni esempi (nel libro ne vengono fatti molti altri): 1) Le donne storicamente (una storia iniziata ad essere studiata solo da pochi decenni) si sono occupate non tanto di formare eserciti ed organizzare guerre quanto di affrontare e gestire pratiche di vita: nutrire, accudire, curare, assistere, etc. A questo tipo di esperienza storica di "nutrimento" e di cura si sono riferite le prime donne scese in piazza per la pace, costituendo, durante la prima guerra mondiale, un piccolo ma significativo movimento pacifista che ha dato origine al Wilpf, Lega Internazionale per la Pace e la Liberta', ancora esistente. Durante la prima guerra mondiale queste donne si sono opposte alla guerra in nome del valore "altro" rappresentato dal loro essere madri. In questo contesto ci tengo a sottolineare che l'accostamento proposto da queste prime femministe non e' solo tra "madri nutrienti e pace", ma anche tra liberazione femminile e pace. 2) Cosa si intende per liberazione femminile? Innanzitutto lo spostamento della relazione Maggiore>minore (Genitore>figlia, Uomo>donna) verso una relazione paritaria Adulto><Adulta, e la valorizzazione delle donne e del femminile: entrambi questi obiettivi (spostamento e valorizzazione) sono finalizzati non alla negazione dell'altro, ma al riconoscimento di se'. Spostare i termini della relazione Maggiore>minore e' una pratica nonviolenta, che molte donne hanno messo in atto, divenendo protagoniste dalla propria vita, individuando i "nodi insolubili" del "rapporto emotivo superiore-inferiore". Carla Lonzi, da molti definita la fondatrice del femminismo italiano, cosi' scriveva nel suo diario l' 8 agosto 1972: "L'inferiore si libera dell'inferiorita' riconoscendo le sue inferiorizzazioni e diventa soggetto: come soggetto apre gli occhi sull'altro e lo misura sull'autenticita' che e' il valore scoperto nella sua liberazione. Se l'altro non accetta per salvaguardare il suo piano di potere si manifesta inautentico, dunque in quel momento inferiore... l'oppressione non si risolve con la giustizia della rotazione del potere, ma in modo che l'inferiore, offrendo la parita' al superiore crei in quel momento con l'altro la parita'; per realizzarla infatti l'altro deve a sua volta liberarsi della superiorita' che lo mantiene inautentico e che egli sente adesso come la vera inferiorita' aiutando l'uomo a liberarsi dall'inautenticita' patriarcale e ponendosi in relazioni interpersonali autentiche". 3) Il femminismo presuppone un lavoro di coscienza ed ha praticato per molti anni l'autocoscienza di gruppo. Scriveva Carla Lonzi: "prendendo coscienza dei condizionamenti culturali, di quelli che non sappiamo, non immaginiamo neppure di avere, potremmo scoprire qualcosa di essenziale, qualcosa che cambia tutto, il senso di noi, dei rapporti, della vita. Via via che si andava al fondo dell'oppressione il senso di liberazione diventava piu' interiore. Per questo la presa di coscienza e' l'unica via, altrimenti si rischia di lottare per una liberazione che poi si rivela esteriore, apparente, per una strada illusoria". E ancora: "Il femminismo ha inizio quando la donna cerca la risonanza di se' nell'autenticita' di un'altra donna... e non per escludere l'uomo, ma rendendosi conto che l'esclusione che l'uomo le ritorce contro esprime un problema dell'uomo, una frustrazione sua, una consuetudine sua a concepire la donna in vista del suo equilibrio patriarcale" (Scacco ragionato, pp. 32-33). 4) Carla Lonzi, "prendendo coscienza dei condizionamenti culturali, di quelli che non sappiamo, non immaginiamo neppure di avere", tenendo una quotidiana pratica di autocoscienza sia personale che collettiva, ha scoperto qualcosa di essenziale alla realizzazione della pace: una liberazione autentica non proviene dall'esterno ma va coltivata interiormente giorno dopo giorno. 5) Grazie al femminismo, la trasformazione della relazione uomo-donna ha agito non sul piano di cio' che e' giusto idealmente, ma di cio' che e' autentico nella relazione tra due persone. Un esempio in questo senso e' dato del ripudio della violenza sessuale, sia a livello personale che a livello politico, e di cui sono barometro i numerosi recenti appelli pubblici di uomini contro la violenza alle donne. Nel privato del "talamo" ormai le donne rinunciano a fingere e propongono una sessualita' appagante per entrambi. Nel pubblico, donne di schieramenti diversi si sono unite per far passare leggi contro la violenza sessuale, inclusa quella tra le mura domestiche. Se si considera che il reato di violenza sessuale era considerato per legge "un atto di libidine contro la morale", e non contro una persona, e' evidente lo spostamento rivoluzionario in direzione nonviolenta. E' grazie al femminismo che la donna, uscendo dalla condizione di oppressa, individua strade nuove di liberazione personale, coinvolgendo il compagno uomo, a sua volta oppresso nel ruolo maschile definito dalla cultura bipolare patriarcale. 6) Nel volume dal titolo Per-donare. Una critica femminista dello scambio, Genevieve Vaughan propone una revisione del linguaggio e dell'ordine dei valori nella prospettiva di un cambiamento del paradigma su cui e' fondata la societa' capitalista e patriarcale: quello dello scambio, per cui il prodotto vale piu' del bisogno e tutto cio' che va dato va anche restituito. E propone di "riportare la pratica del dono come chiave interpretativa del simbolo" e farla emergere dalla invisibilita' in cui e' relegata. A parere di Vaughan, la pratica del dono e', in realta', alla base della nostra vita e "va riconosciuta in cio' che molte donne e alcuni uomini fanno gia' tutti i giorni", soprattutto attraverso il lavoro di cura: "La pratica del dono permea le attivita' umane ed e' ancora il mezzo con cui trasmettiamo beni e messaggi, comunichiamo e formiamo la nostra comunita'; essa e' stata tuttavia alterata, e utilizzata per gli 'uni' contro i 'molti'... I nostri bisogni del 'Mondo occidentale' vengono in realta' soddisfatti in modo gratuito o a costi bassissimi (per noi) dai lavoratori del 'Terzo Mondo', che non ricevono indietro l'equivalente del lavoro che svolgono. I nostri propositi di profitto a breve termine, che tanto bene si conciliano con il sistema dell'Io privilegiato, lasciano che le popolazioni nell'ombra vengano danneggiate o distrutte dalla poverta', dall'inquinamento e dalle guerre, pagando per cio' che e' 'in luce', il nostro ininterrotto benessere". 7) Pensare oltre la barriera dell'opposizione binaria e della logica "do ut des" e' la prima strategia mentale per passare dalla logica dello scambio a quella del dono: permetterci di accettare, intanto, l'idea che il ricevere non debba per forza essere connesso al "meritare", e che soddisfare un reale bisogno vale molto di piu' di un'equazione. E che ha piu' importanza chi ha effettivamente bisogno rispetto a chi puo' dare di piu'. * Per concludere. Sia il femminismo che la nonviolenza sono strumenti di disarmo culturale (cfr il libro di Raimon Panikkar, Pace e disarmo culturale), perche' si rivolgono all'acquisizione di coscienza, di consapevolezza personale. E tendono a non acquisire per buono tutto cio' che viene dall'esterno, ma a interloquire criticamente, approdando cosi' ad un tipo di politica dal basso, che e' poi la politica nel senso etimologico originario: la cosiddetta politica prima. Noi non possiamo disarmare gli eserciti ma abbiamo il potere (nel senso inteso da Aldo Capitini) di disarmare la cultura, disarmare il mondo, a partire da se', a partire dal disarmare le nostre menti, permettendo un attraversamento piu' fluido, un passaggio piu' accogliente e creativo, dei nostri stessi disagi, le nostre stesse sofferenze. Abbiamo il potere di "disarmarci" (e attraverso noi stessi disarmare il mondo) in maniera lenta, dolce e profonda da tutti i condizionamenti oppressivi che sono radicati - o anche che si formano attraverso il martellamento mass-mediatico - dentro di noi. Abbiamo il potere di non dare per scontato che il progresso e' positivo in ogni caso, e dallo stare sempre all'erta, perche' la cultura di stampo patriarcale da cui proveniamo e' in grado di rinnovare le forme della sua oppressione. Adesso che abbiamo ottenuto la parita' di cittadinanza (ma non in tutti i paesi del mondo) dobbiamo stare attente alle nuove forme di oppressione. Attente al burka della chirurgia estetica, alla colonizzazione del corpo delle donne attraverso l'eccessiva medicalizzazione e prevenzione. E poi abbiamo il potere di passare ad una logica di accoglienza, a partire dai nostri stessi limiti, accogliendo l'idea di essere imperfetti e complessi: sia giusti che sbagliati, sia buoni che cattivi, sia brutti che belli, sia naturali che artificiali, ed anche sia donna che uomo. Accogliere l'emergere di tutta una serie di categorie di persone, per prime le donne, ma anche lo straniero, le culture orientali o maya, i gay, i clandestini, i portatori di handicap, i malati terminali, etc. che prima erano interdetti e che adesso reclamano che il mondo cambi e cambi non tanto includendo anche loro ma che si trasformi a partire da loro, accogliendo le qualita' altre che loro rappresentano, superando il manicheismo - sia sociale che personale - e relazionandosi in maniera aperta, creativa, positiva, all'ambivalenza della realta'. 2. RIFLESSIONE. GIANCARLA CODRIGNANI: DONNE, DIPLOMAZIE, NONVIOLENZA [Ringraziamo Giancarla Codrignani (per contatti: giancodri at libero.it) per averci messo a disposizione il seguente saggio apparso nel volume a cura di Giovanna Providenti, La nonviolenza delle donne, "Quaderni satyagraha" - Libreria Editrice Fiorentina, Pisa-Firenze 2006. Giancarla Codrignani, presidente della Loc (Lega degli obiettori di coscienza al servizio militare), gia' parlamentare, saggista, impegnata nei movimenti di liberazione, di solidarieta' e per la pace, e' tra le figure piu' rappresentative della cultura e dell'impegno per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Giancarla Codrignani: L'odissea intorno ai telai, Thema, Bologna 1989; Amerindiana, Terra Nuova, Roma 1992; Ecuba e le altre, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1994; L'amore ordinato, Edizioni Com nuovi tempi, Roma 2005] Un ruolo femminile nella strategia dei mutamenti di sistema e della prevenzione dei disastri? Elisabeth Cheney, funzionaria del Dipartimento di Stato e figlia del ministro degli Esteri Usa, intervenendo recentemente ad un convegno della Foreign Policy Association, ha sostenuto la rilevanza strategica, nel disegno americano di far avanzare la democrazia nei paesi islamici, del ruolo delle donne come motore di cambiamento. Timothy Garton Ash, che commenta per "Repubblica" (10 marzo 2006) il suggerimento, ritiene corretta l'intuizione e invita ad incoraggiare la distensione mediante i nostri diplomatici, gli uomini d'affari, giornalisti e propone alle universita' di invitare gli accademici e gli studenti e via elencando autorita' maschili, come se si trattasse di propagandare idee attraverso l'agente politico tradizionale e non ricorrendo al soggetto piu' proprio a dire come si fa politica di cambiamento al femminile. Le donne, anche quando vengono riconosciute soggetti fondamentali nelle fasi di trasformazione sociale, non possono avere voce propria e probabilmente anche una donna come Elizabeth Cheney, che ha fatto carriera secondo gli standard neutri, sarebbe d'accordo con un Dipartimento di Stato che redigesse piani d'azione innovativi, ma al tempo stesso riferiti ai modelli tradizionali. Innovazioni, tanto per intenderci, che hanno prodotto la guerra in Afghanistan per la liberta' delle donne che, infatti, portano ancora il burqa, non hanno lavoro ne' assistenza e restano in balia delle famiglie patriarcali soprattutto se restano vedove o sono scoperte adultere. La domanda, tuttavia, resta, pur implicita, ma valida: le donne, che sanno bene di essere - se fosse loro consentito - soggetti potenziali di ogni cambiamento e che, se anche non lo sanno, fanno presto a capirlo, dato che in ogni luogo sono scontente della propria condizione, sono in grado di avere un ruolo nella strategia dei mutamenti di sistema e della prevenzione dei disastri? Interrogativo forte, che ha bisogno di riflessione non solo "di genere", ma di entrambi i generi, con uno spirito - da parte degli uomini - disponibile ad accogliere il magistero femminile. Tracce utili a far pensare non mancano. Possiamo partire da un uomo vissuto quasi duemilacinquecento anni fa, Aristofane, che, uomo di teatro, mentre Atene era in guerra, invento' la Lisistrata (nome greco che significa "dissolvitrice di eserciti"). Si tratta dell'invenzione di una strategia, commentata e messa in scena di solito secondo l'interpretazione maliziosa dello sciopero dell'amore attuato dalle donne per porre fine alla guerra; ma la commedia contiene anche una provocazione politica alle grandi strategie dei militari. Infatti, un rappresentante dei maschi, quando si presenta a pretendere dalle donne la fine della loro stupida iniziativa, sostiene la dignita' delle pratiche belliche: figurarsi voi che cosa fareste... E qui Lisistrata dice che per le donne risolvere i conflitti e' come filare e tessere: si scarda la lana, la si percuote per farne uscire tutte le brutture, la si lava ben bene dalla corruzione, poi si lavora di spola, andando con i fili su e giu', avanti e indietro, fino a fare una bella tunica "per la citta'". L'ultima espressione rivela la metafora: si deve fare pulizia dei corrotti e non stancarsi di fare la spola tra le posizioni diverse degli avversari e la citta' avra' la pace. E' quello che dovrebbe essere il normale lavoro diplomatico: e' singolare che un autore greco lo faccia inventare a una donna che usa il linguaggio dei lavori di casa e della quotidianita'. Ed e', appunto, la quotidianita' l'unita' di misura di cio' che uomini e donne dovrebbero intendere per sopravvivenza e convivenza. Da difendere come? Le donne sono d'accordo con Lisistrata e Virgilio, anche se piange le guerre maledette dalle madri, le ritiene ineludibili e fondamento della gloria, che si ottiene solo con la vittoria sui nemici. Le donne, invece, sono cosi' poco sensibili all'onore virilmente inteso, che, arrivate dagli incendi e dagli stupri di Troia ai porti della Sicilia, pensano bene di dar fuoco alle navi per impedire ai loro, uomini di rimettersi in mare a cercar guai: limitatezza di un genere poco virtuoso... Le storie antiche e moderne ricordano, tuttavia, anche tante eroine che, combattendo "come uomini" hanno ribaltato il giudizio sulla pochezza d'animo di donnette incuranti della gloria patria. Sono un dato importante, perche' rivelano il persistere storico di quell'imbroglio che e' l'omologazione, un vizio suggerito alle donne per affermare il modello unico, che si propaganda come neutro ed e' maschile. Se ancora l'uomo vive e muore combattendo nelle guerre, la professionalita' militare via via estesasi alle donne produce il fenomeno Abu Graib, in versione bisex. Ci sono nei nostri tempi esempi di interventi femminili non omologati e non vittimistici? E, soprattutto, alternativi o, comunque, fortemente segnati da volonta' concreta di affrontare i problemi uno ad uno con il "lavoro di spola" e di non dare la precedenza alle competizioni di potere? Non e' facile individuarli perche', come sempre, restano sommersi nella storia fatta dai poteri. Si ha conoscenza di associazioni femminili che hanno fatto dimostrazioni per porre fine alle guerre, ma si tratta sempre della ripetizione in serie delle azioni di quelle italiane che, per la guerra di colonizzazione italiana in Libia, finirono sulla copertina della "Domenica del Corriere" perche' avevano occupato i binari delle stazioni da cui dovevano partire i soldati. Interventi ritenuti folcloristici e non politici, anche se gli uomini in cuor loro non li disapprovavano; in ogni caso erano disperati e tardivi. Infatti, tutti, davanti ai pericoli della belligeranza, dovremmo saper prevenire la degenerazione dei conflitti, se e' vero che, quando c'e' la guerra, la si subisce, sia che ci si difenda con le armi, sia che si resti coerenti con la nonviolenza. Alcune tracce, tuttavia, delle possibilita' di azioni nonviolente e decisive, almeno sul lungo periodo e rispetto all'informazione diffusa, si trovano. Ricordiamo le Madri di piazza di maggio: fu la piu' eclatante iniziativa di opposizione al regime dei militari nell'Argentina della dittatura. Plaza de Mayo e' uno dei luoghi storici della politica delle donne. Quando la dittatura "rubava" 20.000 mariti, figli, padri, fratelli alla vita civile e alle famiglie per farli "sparire" in carceri segrete e, poi, gettarli dagli aerei nell'oceano solo perche' oppositori del regime, non ci fu possibilita' di un'opposizione politica visibile e formale. Solo mogli, madri, figlie, sorelle trovarono la via di una reazione pubblica. Erano donne comuni, che forse avevano consigliato prudenza a chi era iscritto al sindacato o frequentava riunioni politiche e studentesche: si conobbero perche', andando alla polizia per chiedere notizie degli uomini che non erano rientrati alle loro case e ricevendo, dopo la falsa promessa di fare ricerche, la risposta che, forse, il fedifrago era fuggito con un'amante, si resero conto della realta' criminosa dei militari al governo e decisero la denuncia. Inventarono cosi' la pratica di presentarsi il giovedi' di ogni settimana, nella piazza piu' importante di Buenos Aires, con un fazzoletto bianco in testa e il cartello con il nome del loro "desaparecido" in mano. Sostavano in silenzio, donne inoffensive e la polizia non aveva possibilita' di infierire su di loro. Da quella piazza molte di queste donne, che venivano dalla casalinghita', arrivarono direttamente a Ginevra, alla Commissione per i diritti umani dell'Onu e alle cancellerie dei governi democratici. Fu per opera loro che anche noi sapemmo. Le donne di piazza di Maggio, le locas, le "pazze", come le definiva il regime dei militari, sono sempre state le piu' savie. Solo, praticavano un'altra politica, quella del partire da se' anche per le questioni piu' difficili, che si rivelano fondamentali per la convivenza democratica se chi resiste oppone al coraggio delle armi quello della denuncia. Adesso quella strategia torna a confluire nel solco comune della societa': bisognera' che la trasmissione alle donne piu' giovani porti nella politica generale l'intelligenza dell'attraversamento paziente dei conflitti senza omologarsi agli interessi e alle contrapposizioni, dando nuova impronta alle leggi e alle istituzioni. * Non ci basta dire basta: affrontare concretamente i problemi Tra le testimonianze di "politica di genere" che non fanno storia si puo' inserire una importante conferenza internazionale realizzata nel 1992 da gruppi femminili associati attorno al Centro di Documentazione delle Donne del Comune di Bologna per un approccio che, partendo dalla differenza femminile, esplorasse vie "altre" (e alternative) per la questione israelo-palestinese. Si voleva sperimentare che cosa puo' uscire se il corto circuito sulle situazioni di piu' grave conflittualita' si innesca tra gruppi femminili che la logica degli schieramenti tradizionali vorrebbe nemici. L'idea si venne formando di lontano, da quando donne torinesi pubblicarono, nel 1987, un manifesto, anzi una "lettera collettiva" contro la guerra sanguinosa del Libano. "Non ci basta dire basta" era la sintesi emblematica di una proposta di "campo di pace di donne" da tenersi appunto in Libano. L'espressione esprime bene due elementi rilevanti: il senso di impotenza davanti a fenomeni devastanti inattesi e rifiutati e la volonta' di non arrendersi neppure davanti al troncarsi di ogni umana speranza con il coraggio del fare. Il campo - come era prevedibile - non si fece per l'irrealizzabilita' di testimoniare la pace in mezzo alla morte; tuttavia, era stato posto un problema che non si poteva spazzare via solo perche' le donne non posseggono bacchette magiche. Ripresero gli incontri per andare a fondo su problemi che, dal 1947, ne' l'Onu, ne' l'Europa, ne' i paesi arabi erano riusciti a comporre, ma che continuavano a produrre rovine in quella Palestina che le religioni pensavano - sempre sbagliando, fin dai tempi delle Crociate - come sacra e, quindi, votata alla pace. Il conflitto fra Israele e Palestina, irrisolvibile per la sola volonta' delle due parti, e' un cancro in metastasi che avvelena da sessant'anni la politica internazionale. I gruppi italiani (le torinesi avevano trovato una grande sintonia con gran parte dell'associazionismo femminile e femminista) presero contatto con donne sia israeliane che palestinesi impegnate, pur nella contrapposizione degli interessi nazionali, nella promozione dei diritti delle donne. Si fecero molte scoperte: parlando di se' le rappresentanti delle due comunita' mostravano analogie che si pensava potessero aiutare nel momento di costruire una relazione reciproca. Le israeliane, che pur temevano le reazioni palestinesi della prima intifada, ma che si erano esposte a favore della pace con l'iniziativa delle Donne in nero, si sentivano oppresse dalla tradizione patriarcale che le emancipava solo impegnandole nel servizio militare; le palestinesi, resesi piu' autonome proprio in virtu' dell'intifada che le portava a manifestare sulle strade, denunciavano il peso dell'altro regime patriarcale, quello per cui il cibo veniva cucinato in primo luogo per gli uomini e i bambini maschi, mentre le donne e le bambine mangiavano se ce n'era abbastanza, dando luogo a statistiche sanitarie di grande disparita' fra i generi. Ma la relazione non si stabilisce se non ci si incontra e non si parla insieme. Nell'estate del 1988 un nutrito gruppo di donne italiane si reco' a Gerusalemme per un convegno ("Visitare luoghi difficili") organizzato pazientemente perche' lavorassero insieme donne italiane, israeliane e palestinesi per esplorare vie ancora intentate per produrre effetti di distensione e avvio a soluzione di problemi comuni e che, invece, ebbe giornate distinte di relazioni e dibattiti delle due rappresentanze locali, su richiesta delle palestinesi (si suppone forzate dalle autorita' politiche maschili). Comunque, il convegno si tenne ed ebbe riscontri forti per chi vi partecipo' e perfino le menzioni sulla stampa. Infatti, a margine del convegno, le italiane avevano pensato un'altra "cosa impossibile": andare al carcere speciale del Neghev con le donne dei palestinesi imprigionati. I militari dirottarono i pullman e, siccome lungo il percorso c'era un'altra prigione a Daharieh, quale opportunita' migliore per una manifestazione pacifica con canti e danze ("we shall overcome")? Il presidio non la prese bene e, dopo un'esperienza di lacrimogeni e violenze, i tre pullman furono condotti a un posto militare per le identificazioni e, naturalmente, le italiane ebbero solo fastidi, mentre non si sa quanto grande sia stata la penalizzazione per le palestinesi e gli autisti. Comunque anche quest'esperienza, nel bene e nel male, consolido' la consapevolezza che si doveva continuare a "fare" qualcosa, anche se i luoghi si erano dimostrati davvero difficili. * L'inaudito e' diventato quotidiano Intanto aveva preso la leadership dei gruppi coinvolti il Centro di Documentazione delle Donne di Bologna, che con il massimo impegno si dedico' al lavoro di "spola". Raffaela Lamberti non si arrese alle risposte negative che venivano dall'altra sponda, dove le femministe israeliane e palestinesi non si opponevano in linea di principio ad un lavoro comune, ma lo ritenevano impossibile. La situazione non era migliorata e anche l'israeliana pacifista aveva paura quando passava davanti a un cantiere con manodopera solo palestinese, mentre la palestinese non riusciva a pensare all'amica israeliana senza ricordare le case distrutte e i bambini uccisi dai militari. Tuttavia nel 1992 si realizzo' la "grande" conferenza. Anche tenendo conto dei limiti, va detto che, se le donne avessero l'autorita' per essere davvero rispettate come agenti politiche di trasformazione, quell'evento avrebbe dovuto giocare qualche parte sui tavoli di competenza. L'agenda dei lavori del convegno "Molte donne, un pianeta" era di grande interesse per le tematiche in discussione ("Fondamentalismo, ortodossia, integralismo e sistemi totalitari di pensiero"; "Genere e nazione"; "Conflitti, militarismo e guerra"; "Efficacia dei femminismi") e per le interlocutrici del panel, tutte studiose palestinesi, israeliane, italiane (e anche di altre nazionalita'). Il Comune di Bologna aveva sostenuto l'iniziativa e conferi' per l'occasione la cittadinanza onoraria a Zahira Khamal, delegata palestinese alla Conferenza di pace e a Shulamit Aloni, allora ministra dell'istruzione pubblica di Israele. I contenuti furono di alto livello, ma soprattutto centrarono problematiche di cui allora si parlava meno di oggi. Per le donne e' quasi intuitiva la distinzione fra il buono delle religioni e l'uso politico del sacro e di ogni altra ideologia. L'analisi su come il fondamentalismo islamico avesse iniziato la sua azione di infiltraggio sociale in Palestina, una delle aree piu' laiche del Medioriente, fu illuminante. Gli integralisti mirarono a ideologizzare la politica sulla base dei principi identitari islamici e a superare il nazionalismo tradizionale di Arafat attraverso l'esaltazione della contrapposizione con l'Occidente corrotto partendo dal "ritorno alle origini" e dalla "santita' della nostra famiglia". Le donne sanno quanto queste espressioni siano pericolose per la loro liberta'; l'identita' in cui gli uomini si riconoscevano era quella di una tradizione ancora viva soprattutto nelle campagne, ma che escludeva le donne dalla vita pubblica e sottraeva loro diritti. La santita' della famiglia vuole dire subalternita' delle donne, norme e consuetudini patriarcali, abiti e veli conformi a un rispetto per la donna in cui e' difficile riconoscersi. Eppure sui diritti, i ruoli e il comportamente delle donne e delle bambine gli integristi hanno ovunque uno zelo maniacale. Si ritorna al senso della famiglia estesa, anticamera del clan e legame con interessi di parte: bisogna, quindi, minare l'individualismo e la personalita' femminili che sono i prerequisiti della loro partecipazione sociale e politica. Allo stesso modo le analisi sull'occupazione israeliana orientavano a sottolineare oltre ai disastri della distruzione, gli attentati alla virta' dei giovani che potevano incorrere nella tossicodipendenza o che subivano il fascino della cultura di Tel Aviv, priva di principi morali solidi e tentata dal materialismo. La stessa politica della sinistra israeliana era contro gli interessi del popolo palestinese perche' atea. La "vera" societa' islamica e' patriarcale ed e' sottomessa al controllo dell'autorita' religiosa: si incomincia dalla casa, dai bambini e dalle donne non per il loro bene, ma per il bene degli uomini, inseriti nel "movimento" tutto maschile e controllabili dalle autorita' se sono buoni controllori delle donne. Anche per le ebree il senso di appartenenza a un'identita' nazionale suscita interrogativi. Il rapporto tra una famiglia e una comunita' si riferisce sempre a una comunita' di pura fantasia, in cui la donna e' pensata come oggetto, senza altro valore che non sia quello riproduttivo, che lascia scoperto il corpo delle donne che altri al contrario vela per usarlo in un altro modo di rafforzare il potere patriarcale. Ma di notte con il velo o senza, chi salva dallo stupratore? Forte e' la contrapposizione tra gender e nazione. Proprio per la loro capacita' procreativa le donne sono le autrici di quelle nascite su cui si costituisce, appunto, una nazione. Ma non ne fanno parte realmente. Infatti, se pensiamo che una donna serba, che avesse sposato un bosniaco e ne avesse preso il cognome e la nazionalita', avrebbe potuto essere violentata da un serbo per far nascere un bambino serbo in seno alla nazione bosniaca, si coglie il senso profondo della contraddizione che assegna e contemporaneamente sottrae alla donna la partecipazione alla nazione. Quando la nazione si definisce stato, intervengono le algerine a dire i loro conflitti con la legge e il diritto familiare: l'uomo puo' usare il certificato elettorale delle donne di casa per votare al loro posto, in tribunale la parola femminile vale la meta' di quella maschile e cosi' nelle divisioni ereditarie. Eppure, lo stato consente che una donna sia eletta in Parlamento o sia "prefetta"; ma se si sposa dovra' ottenere il consenso da un uomo della famiglia, anche un fratello minore o un figlio, purche' maschio. Per le israeliane il conflitto con la nazione si palesa in quello che e' divenuto il simbolo dell'identita' nazionale: tzahal, lo strumento che difende i cittadini, l'esercito. L'ebrea si chiede: e' questa la "mia" Torah? Ho una nazione per difenderla sterminando i nemici, anche bambini? Dove sono finiti i principi delle nostre comunita', dove la convivialita', l'ospitalita', l'uguaglianza? Dove la ricerca di uno shalom che fosse benessere per tutti? La gravita' di fare dell'esercito il principio identitario della sicurezza nazionale e' visibile nelle strutture del militarismo: ovunque rappresenta la disponibilita' dello stato a investire per una difesa fatta di armi e non di investimenti sociali e di aiuti allo sviluppo proprio e altrui. Dove sono i servizi di sostegno alla famiglia, dove le scuole per i bambini e le bambine, dove i consultori, gli ambulatori, gli ospedali? Si conservano, se il paese e' ricco e agevolato dalle alleanze, ma si usano grandi sostanze per opprimere gli altri. E questi ricorrono ad un'uguale politica che raddoppia i mali del popolo. Perche' mai non si privilegia la composizione dei conflitti attraverso la diplomazia, escludendo rivalse e vendette? Perche' non si tenta la via della "spola", come diceva Lisistrata e come stiamo facendo in questo convegno? Non sono le armi che "difendono"; e tanto meno difendono le donne, che dalla guerra ricavano non solo lutti e privazioni, ma anche accantonamento dei loro diritti, quando ne avessero di acquisiti. "Le regole del gioco non cambiano": il militare e' il simbolo della mascolinita' perfetta, della forza rassicurante perche' protegge e da' sicurezza ai (alle) deboli, si identifica con la patria e l'onore, controlla la vita civile ed economica. Per Israele "la partecipazione a una battaglia costituisce il piu' alto livello di cittadinanza; se non vieni ucciso". Mentre i pacifisti e le "donne in nero" diventano traitors and whores, traditori e puttane. Non e' solo una struttura, quella militare; diventa un'ideologia, un costume, un'educazione. Per le donne la contrapposizione e' totale, anche se nella maggior parte dei casi resta inespressa (tenendo conto che anche le donne fanno lo stesso servizio militare, anche se non fanno carriera in zona operativa): tenere come irrilevante la natura umana altrui rende intollerabile i modi attraverso i quali l'uomo si annulla nel soldato: sono soprattutto le donne che odiano la disciplina, l'obbedienza, la coercizione, anche quando i soldati sono "i nostri soldati" e le donne li guardano con occhi di madri, mentre in realta' e' il valore virile che chiede alla madre il sacrificio del figlio. Forse i veri eroi sono gli obiettori. Dietro le armi e le guerre si trova la violenza. Se Freud ha riconosciuto nella pulsione sessuale il principio di ogni violenza, compresa quella militare (l'arma, il missile non sono forse proiezioni del pene?), allora e' necessario parlare dello stupro. Lo stupro di guerra, il possesso della donna del vinto fatto in suo spregio, e' un tema difficile, ma che non abbisogna di molti ragionamenti. C'e', tuttavia, un argomento che riconduce al tema delle religioni: la violenza e' "per natura" propria degli umani? O non e' piuttosto vero che l'aggressivita' e' controllabile, ma lo e' di piu' da chi la conosce per averne subito le conseguenze? A partire dalle violenze in famiglia, dove la denuncia diventa difficile quando e' contro un oggetto d'amore e il padre dei figli e non e' dimostrabile con assoluta evidenza, la donna e' l'esperta principale non solo della fenomenologia delle violenze, ma della mediazione. Si tratta di sapere con il corpo che cosa sia la violenza e come possa uccidere l'anima; e non di stringere i denti per essere degno del nome di uomo e per fare la guerra, non solo ai nemici, ma anche al corpo della donna. Per questo il denominatore comune del convegno e' stata la cultura del femminismo. Termine di valore esteso, mai uguale nelle pratiche dei diversi paesi, proprio di minoranze femminili, ma anche sale della terra, da conoscere e su cui riflettere perche' la filosofia e la metodologia delle donne infiltri la ricerca comune di uomini e donne, perche' le differenze potenzialmente nonviolente debbono essere le meno gerarchiche, le piu' aperte e perfino piu' curiose delle ragioni degli altri. Il convegno ha posto fine alla pratica (costosa) della "spola"; e intanto, come disse Ingeborg Bachmann "l'inaudito e' diventato quotidiano". Forse, come dice ancora Ingeborg, io, donna, "devo dunque rimettermi in cammino, riaccostarmi a tutto?" Speriamo non da sola. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 102 del 17 maggio 2007 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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