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Nonviolenza. Femminile plurale. 101
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 101
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 10 May 2007 11:07:00 +0200
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 101 del 10 maggio 2007 In questo numero: 1. Maria G. Di Rienzo: La violenza dei fondamentalismi 2. Elisabetta Donini: La rete delle Donne in nero: tra capacita' e limiti, tra locale e globale 1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: LA VIOLENZA DEI FONDAMENTALISMI [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005. Un piu' ampio profilo di Maria G. Di Rienzo in forma di intervista e' in "Notizie minime della nonviolenza" n. 81] Il 19 aprile 2007, nelle quattro maggiori citta' pakistane (Lahore, Islamabad, Karachi e Peshawar) migliaia di persone hanno protestato contro i fondamentalismi, in particolare contro le azioni degli studenti di due scuole religiose musulmane, Jamia Hafsa e Jamia Fareedia, che fanno capo alla medesima organizzazione nella capitale. I dimostranti hanno denunciato la progressiva "talibanizzazione" del paese. Che sta succedendo? Per esempio succede che alcune scuole musulmane stanno incoraggiando i loro giovani ad impegnarsi nel lavoro di conversione. Il metodo che hanno escogitato e' molto semplice: si rapiscono ragazze non musulmane e le si violentano (15 casi denunciati nel 2006 solo nel distretto di Sindh, ma vedremo da quanto segue che e' probabile il numero sia molto maggiore). Se le famiglie protestano o sporgono denuncia, i giovani devoti producono un certificato rilasciato dalla loro scuola ove si attesta che le ragazze in questione si sono convertite all'Islam, e sono sposate con loro. La maggior parte delle fanciulle sono minorenni, e le leggi del Pakistan fissano a 18 anni l'eta' legale per il matrimonio, ma i tribunali incredibilmente accettano i certificati e nessun violentatore viene condannato. E' ad esempio il caso di Deepa, diciassettenne, che manca da casa dal 31 dicembre 2006 dopo essersi recata a ripetizione da uno di questi farabutti che dava lezioni private ed e' anche insegnante di una madrasa (scuola religiosa). La famiglia cerca disperatamente di mettersi in contatto con lei, ma il suo rapitore dice che l'ha convertita all'Islam e sposata, mentre grazie alle parentele che costui ha con uomini influenti la polizia consiglia i parenti di non sporgere denuncia: cosi' troveremo Deepa piu' facilmente, concludono, ma a cinque mesi di distanza non se ne sa ancora nulla. Pooja di anni ne aveva quindici, quando fu rapita e brutalmente stuprata nel luglio 2006, come gli esami medici hanno confermato. Per meglio proteggerla, suppongo, le autorita' l'hanno trasferita dall'ospedale alla prigione, da cui e' stata rilasciata il 19 dicembre e consegnata ai suoi aguzzini: i quali avevano prodotto in tribunale il famoso certificato per cui Pooja sarebbe convertita all'Islam eccetera. * Organizzate dal Waf (Forum d'azione delle donne), le marce hanno portato in strada sindacati, studenti, gruppi della societa' civile, avvocati, giornalisti, attiviste/i per i diritti umani, politici. A Lahore ha parlato Asma Jehangir, presidente della Commissione pakistana per i diritti umani, denunciando il sostegno dell'esercito ai mullah: "Non ci potra' essere democrazia nel nostro paese sino a che i mullah si arrogheranno il diritto di emanare decreti per sfruttare il popolo in nome dell'Islam". E' intervenuto anche il presidente della regione del Punjab, Shah Mahmood Qureshi, che ha ammesso la crisi. La maggior parte dei dimostranti ad Islamabad erano donne. I loro cartelli recitavano: "Dove sono le leggi dello stato?", "No agli estremismi religiosi. Si' alla vita e alla musica", "Riaprite la biblioteca per i bambini". Shirin Mazari, una delle organizzatrici, ha spiegato ai giornalisti che "Siamo cittadini preoccupati, che hanno guardato con rabbia e frustrazione al terrorismo inflitto loro da una minoranza estremista della societa'. Siamo sconcertati dall'incapacita' o dalla riluttanza dello stato di contrastare le violazioni di legge commesse dagli 'studenti' delle scuole Jamia Hafsa e Jamia Fareedia. Si tratta praticamente di un governo alternativo". A Karachi molte le donne cristiane, assieme a sindacati, ong, universitari, artisti. Il loro canto, un riferimento alla poesia pakistana, diceva "Hum dekhain gay!" ("La vedremo!"). "E' difficile ormai trovare una singola donna che non sia stata costretta a fronteggiare l'estremismo religioso", ha raccontato l'attivista Naib Nazim Nasreen Jalil, "Qualche anno fa ho raggiunto Karachi da Islamabad in aereo. All'aeroporto sono stata aggredita da un gruppo di estremisti religiosi della formazione Jamaat-e-Islami. Mi hanno circondata come cacciatori addosso ad una preda, ed hanno preso a colpirmi e a spingermi. Se non fossero intervenute le persone che erano all'aeroporto a ricevermi, non so come sarebbe finita". "Per qualcosa oggi pero' li ringraziamo", ha scherzato la dottoressa Aqila, membro della Commissione pakistana sull'energia e della Fondazione Aurat, "Ci hanno fatto ritrovare tutte le amiche qui". L'estremismo religioso fa capolino ovunque, hanno testimoniato le dimostranti. Le donne vengono insultate e assalite per strada se non indossano il "dupatta", da parte di zelanti devoti che fingono di pregare in parchi e piazze, ma il cui scopo e' sorvegliare gli spazi pubblici. Un tempo i genitori erano lieti di chiamare in casa insegnanti religiosi per i loro figli, ma oggi, stanti i numerosissimi casi di violenze e stupri perpetrati da tali insegnanti, la pratica sta svanendo. La sopravvissuta ad uno di questi casi, Kainat Soomro, che ha sofferto uno stupro di gruppo, era pure alla manifestazione: "Ancora dopo la denuncia sono costretta a subire minacce e insulti. Non me ne importa. Restero' salda, perche' i colpevoli devono essere portati in tribunale". A Peshawar sono scese in piazza anche le donne delle tribu', ed hanno denunciato le minacce, le violenze, e la presenza insopportabile degli "studenti" religiosi armati di bastone: "Nessuna religione al mondo permette ai suoi fedeli di sostituire il bastone alla fede", ha detto la dottoressa Begum Jan, presidente dell'Associazione per il welfare delle donne tribali. Da Lahore a Peshawar un coro: queste non sono le nostre tradizioni, per cortesia gli occidentali smettano di avallare questa falsita'. * La stessa cosa dicono le donne irachene dell'Ofwi (Organizzazione per la liberta' delle donne in Iraq) e di "Voce irachena per la pace". Aseel Albanna, fondatrice di quest'ultima ong, attesta che "Il conflitto settario e' un fenomeno del tutto nuovo per il nostro paese. Precedentemente all'invasione ed alla decisione statunitense di assegnare seggi in parlamento sulla base dell'appartenenza religiosa non ci siamo mai identificati cosi' strettamente come sunniti e sciiti. La decisione ha trasformato una questione spirituale e privata in una faccenda di concreto potere politico". "Cosa dovremmo fare, tagliare i nostri figli in due?", aggiunge Namaa Alward, "I matrimoni misti erano la regola. La mia famiglia include sunniti, sciiti, curdi e persino ebrei. Io sono il risultato di queste unioni che si sono date nei secoli in quel punto d'incontro che l'Iraq e' stato". Namaa Alward e' un'attrice famosa, che ha lasciato il suo paese negli anni '80 dopo essere stata arrestata in diverse occasioni quale oppositrice del regime di Saddam Hussein. E' ritornata per la prima volta come "scudo umano" nel 2003. Oggi sua madre, che vive a Baghdad, la prega di restare all'estero. Per le donne e' troppo pericoloso, dice. La "caccia alle streghe" comprende artiste, docenti, professioniste, femministe, lesbiche, e si conclude troppo spesso con esecuzioni extragiudiziali. Namaa Alward ha perso in questo modo una cugina e due nipoti. Zainab Salbi, fondatrice di "Women for Women International", dice che non riesce piu' a tenere il conto: "Le donne vengono uccise semplicemente perche' hanno una professione, o perche' note come attiviste per i diritti umani". Yanar Mohammed dell'Ofwi aggiunge che il controllo delle donne e' diventato la bandiera dell'Islam politico e fondamentalista. Oggi a Bassora indossare pantaloni o uscire senza sciarpa in testa per una donna e' punibile con la morte: "Gli sciiti e i sunniti competono su quanto e come le 'loro' donne devono coprirsi. E questo non ha niente a che fare con le tradizioni irachene o la moralita'". "Se lo chiedete a me", aggiunge con una battuta Nawaa Alward, "preferisco che si vendano minigonne alle donne piuttosto che armi agli uomini". "Sottomettere la Costituzione alla religione ha peggiorato le cose", dice ancora Aseel Albanna, "Per le donne ha significato che qualsiasi cosa vogliano fare ora devono chiedere il permesso ad un uomo della famiglia. Questo in un paese in cui prima della guerra il 60% degli studenti universitari erano femmine". Attualmente, invece, le ragazze vengono minacciate e forzate ad abbandonare gli studi. Le due figlie della dottoressa Entisar Mohammad Ariabi, una delle donne che l'anno scorso si reco' negli Usa per unirsi all'azione di Code Pink che chiedeva il ritiro delle truppe, hanno lasciato la facolta' di medicina dopo aver ricevuto ripetute minacce di morte. Ma la cosa attinge a profondita' ben maggiori: un quinto delle bambine in eta' scolare, nel 2004, non e' stata iscritta o re-iscritta alle elementari. Nel 2006 si e' toccato il picco piu' basso di bambine e ragazze nelle scuole, a Baghdad e nelle regioni centrali e del sud dell'Iraq. (L'Unicef redige rapporti dettagliati al proposito da anni, sfortunatamente in Italia non vengono letti). Le scuole dell'area menzionata sono controllate dalle milizie settarie: pur di evitare che le bambine vengano aggredite, rapite, stuprate o sfigurate con l'acido, i loro genitori le tengono comprensibilmente a casa. Non hanno memoria di "tradizioni" simili, considerano il tutto un orrore in piu' da aggiungere agli orrori quotidiani dell'occupazione straniera. * In Malesia, negli ultimi quarant'anni, musulmani, cristiani, hindu e sikh hanno vissuto senza grosse difficolta' fianco a fianco. Ultimamente le cose sono molto peggiorate: grazie all'introduzione dei tribunali religiosi islamici e di leggi che proibiscono la conversione o l'abbandono della religione a chi alla nascita venga registrato come musulmano (il contrario, invece, va benone). "Un piccolo ed esclusivo gruppo di persone, dice Zainah Anwar, si e' arrogato il diritto di interpretare i testi, e di codificarli in maniera tale che spesso sono completamente isolati dal contesto socio-culturale in cui si diede la rivelazione. Isolano inoltre le classiche opinioni giuridiche dal contesto socio-culturale in cui si davano le vite dei giuristi fondatori dell'Islam, ed isolano i testi dal contesto della societa' contemporanea in cui viviamo oggi". Zainah Anwar e' la direttrice esecutiva di "Sorelle nell'Islam", un gruppo di professioniste musulmane impegnato a promuovere i diritti delle donne, ed e' membro della Commissione per i diritti umani della Malesia. Revathi Masoosai e' nata 29 anni fa a Kuala Lumpur, da genitori musulmani. Allevata dalla propria nonna, hindu, ha scelto quest'ultima fede, nel 2001 ha cambiato il nome musulmano che le era stato dato e tre anni dopo si e' sposata con un uomo hindu, Suresh Veerappan. Il matrimonio non viene considerato valido dalle autorita', poiche' manca la conversione all'Islam del marito. I due hanno una bimba. A questo punto che si fa? Semplice, si spedisce la giovane donna in galera e subito dopo in un "centro di riabilitazione" dove deve pentirsi della sua trasgressione religiosa; si sottrae al marito la custodia della figlioletta di 15 mesi e la si affida alla nonna musulmana. Quando Revathi Masoosai sara' sufficientemente "riabilitata" potra' riavere la figlia "se ne fara' richiesta", dichiarano le autorita' musulmane, ovvero il Dipartimento religioso islamico. Il 5 aprile 2007 ci sono state proteste a Kuala Lumpur per questo ed altri casi, con l'appoggio del Partito d'azione democratica (all'opposizione in Parlamento). I dimostranti hanno detto che e' "inumano separare una bimba dalla madre" e che "questo non ha nulla a che fare con la cultura del nostro paese". Chi li ha visti, della stampa occidentale? Pochi. Per quanto riguarda l'Italia, nessuno. Io sto scrivendo: qualcuno comincia ad ascoltare? * Sentite qua. Negli stessi giorni in cui approda sui nostri giornali la protesta degli studenti iraniani a cui ora la legge vieta, in nome di dio sa che, di indossare calzoncini corti, 278 (duecentosettantotto) donne vengono arrestate dalla polizia e vanno in galera perche' "non indossano vesti adeguate". Ad altre 3.548 (tremilacinquecentoquarantotto) donne vengono dati "avvisi e guida islamica" e minacce di arresto futuro per lo stesso motivo. Tutto questo passa sotto silenzio. E' il 23 aprile 2007 e si tratta del giro di vite piu' pesante al proposito negli ultimi due anni. Quattro giorni prima, Fariba Davoudi Mohajer e Sussan Tahmasebi, attiviste per i diritti umani impegnate nella campagna "Un milione di firme" che chiede l'abolizione delle leggi iraniane discriminatorie nei confronti delle donne, vengono condannate rispettivamente ad un anno e a sei mesi di detenzione perche' raccogliere firme "minaccia la sicurezza nazionale". Donne ed uomini stanno firmando a migliaia la petizione. Alle attiviste dichiarano che la condizione delle donne come si presenta oggi in Iran e' qualcosa di terribile e del tutto "nuovo e sconvolgente" nella loro esperienza. Non ha a che fare con la tradizione, la cultura, gli usi e costumi come loro li conoscono. Ma alle nostre anime belle basta una dichiarazione contro gli Usa del presidente "nucleare" iraniano per andare in brodo di giuggiole: ho persino letto che, essendo un buon musulmano, costui non fara' certo la bomba atomica! Sta solo aiutando la sua povera gente a competere nello spietato mercato globale delle potenze nucleari, come se a chi muore di fame in Iran (300.000 mendicanti donne, ad esempio) potesse fregargliene qualcosa, e per quanto riguarda il resto "quelle sono le loro tradizioni ed e' arrogante che gli occidentali diano giudizi ecc. ecc.". Peccato che i non occidentali ve lo stiano urlando in una gran varieta' di lingue che questo e' un falso. Peccato che in maggioranza abbiano la lettera "F" sui documenti d'identita', altrimenti forse otterrebbero un briciolo d'ascolto. * Quando l'aderenza all'ortodossia religiosa si trasforma in misura di legittimazione politica, un governo democratico e' seriamente a rischio, ovunque. I politici corrono a scavalcarsi per dimostrare il loro impegno religioso controllando le donne ed imponendo severe punizioni, violando grossolanamente i diritti delle donne ed i diritti umani in genere. Sta accadendo dappertutto, e sta accadendo soprattutto in rapporto alle tre maggiori religioni monoteistiche. Negli Usa patria di democrazia ed opportunita', un'insegnante di francese e' stata licenziata da una scuola cattolica perche' lei ed il marito hanno usato la fecondazione in vitro per avere figli. Come ha annunciato di essere incinta delle due gemelle, Kelly Romenesko ha dovuto fare i bagagli: si sta battendo perche' questa violazione flagrante ai suoi diritti di lavoratrice venga annullata. * Una donna ebrea ortodossa e' stata presa a calci e sputi su un autobus, a Gerusalemme, perche', come la compianta Rosa Parks, ha rifiutato l'apartheid dei sedili. Miriam Shear, questo e' il nome della donna, stava usando un mezzo della compagnia nazionale degli autobus (e non uno dei mezzi in cui si opera la segregazione per sesso e che pure esistono e vengono detti "mehadrin"), e non ha ovviamente obbedito all'ordine del primo sconosciuto che le ha detto di andarsi a sedere in fondo come devono fare le donne. In tre l'hanno rovesciata sul pavimento dell'autobus per poterla prendere meglio a calci. L'episodio in se', ed il fatto che la comunita' femminile ortodossa sia praticamente insorta nei giorni seguenti, volantinando, picchettando le fermate, portando il caso degli autobus segregazionisti in tribunale affinche' si discuta della loro liceita', non sono stati riportati da nessuno dei media italiani. * Le forze estremiste politico-religiose stanno aumentando il loro controllo sulle vite delle donne, intersecando la loro agenda politica a etnie, nazionalismi, tradizioni e culture per giustificare definizioni rigide dei ruoli di genere, negazione di diritti umani (in special modo quelli correlati alla salute riproduttiva e all'istruzione), imposizione di codici d'abbigliamento, restrizioni sui diritti ereditari o di proprieta'. Queste forze, ovunque si collochino sullo spettro socio-politico, si oppongono diametralmente ai diritti umani, ed in particolare al diritto per le persone di fare scelte, di dissentire, di formulare alternative. Il loro impatto sta interessando anche comunita' e paesi che hanno goduto sino ad ora di una lunga tradizione di laicita', e numerosi governi stanno cedendo alle pressioni legiferando in maniera contraria alle pari opportunita' o alla cornice dei diritti umani. Le politiche fondamentaliste, estremiste e di esclusione emergono anche per riempire dei vuoti ove la democrazia vacilla e l'insicurezza economica cresce. Ma invece di identificare le radici del problema ed affrontarle, ogni decisione viene tradotta nella politica del noi e loro. Persino quando non sono esplicite, le agende di questo tipo influenzano pratiche, leggi, politiche in modo assai distruttivo rispetto ai diritti umani, ed in particolare ai diritti umani delle donne a cui, e' bene non dimenticarlo, il benessere e la salute dei bambini sono strettamente legati. Milioni di bimbe e bimbi in tutto il mondo continueranno a soffrire per mancanza di cibo, cure ed istruzione sino a che le loro madri saranno costrette a vivere in condizioni di abuso nelle loro case e a subire discriminazioni sul posto di lavoro. * Esempio: in Sri Lanka, le donne con bimbi dall'eta' inferiore ai cinque anni non possono piu' accettare impieghi fuori dal paese, una legge voluta all'inizio del 2007 dai fondamentalisti, a beneficio dell'unita' familiare. Poiche' lavoro nel paese non ce n'e', e guerriglia e disastri ambientali lo hanno prostrato non poco; e poiche' il lavoro domestico all'estero era una delle pochissime opportunita' economiche alla portata delle donne; e poiche' tali donne mantenevano con questo lavoro famiglie estese: quanto durera' l'unita' familiare senza niente da mettere nel piatto? E quanto meglio staranno, da poveri e affamati, i bambini con meno di cinque anni? Volete mettere, pero', potranno guardare tutto il giorno la mamma che piange. * Ma che le situazioni "lontane" non vengano viste e discusse dai/sui media se non tramite occhiali ideologici o quando fa comodo e' forse la cosa meno sconvolgente. Quello che mi lascia basita e' che nessuno stia riconoscendo i segnali d'allarme del fondamentalismo nel nostro paese. Le maggiori organizzazioni che lottano per i diritti umani ne indicano sostanzialmente cinque: 1. L'introduzione (o la re-introduzione) di leggi penali tese a normare il comportamento degli individui costringendolo ad uniformarsi ad un modello unico in nome della "moralita'", della "purezza culturale" o della "religione": codici di abbigliamento, criminalizzazione dell'omosessualita', separazione degli spazi fra uomini e donne ed incremento del dislivello nelle opportunita', repressione di gruppi e organizzazioni che lavorano per il cambiamento sociale; 2. Campagne mediatiche di denuncia e discredito, con insulti e accuse pesanti, dirette alle persone che non intendono (e a volte neppure possono per condizioni oggettive) uniformarsi al modello unico imposto per legge o che si intende imporre quale legge de facto; 3. Il linguaggio attorno alle istanze di diritto umano viene infestato di manipolazioni: banalizzazione, revisionismi storici, rovesciamento di responsabilita' dall'aggressore alla vittima, appelli al "multiculturalismo" ed al "rispetto" di tradizioni diverse per giustificare ogni tipo di violazioni dei diritti umani; 4. L'incremento di proibizioni e censure: divieto di manifestare e/o di riunirsi, chiusura di siti web e giornali, allontanamento dalla scuola di insegnanti considerati "immorali" in base ai dettami della "purezza" culturale o religiosa; 5. L'aumento della violenza nella sfera privata: violenza domestica, "delitti d'onore", "caccia al diverso", bullismo nelle scuole, ed il silenzio o addirittura l'incoraggiamento (tacito o esplicito) da centri di potere (governi, chiese, forze dell'ordine) per queste forme di aggressione. * Ripercorrete le vicende dei Dico, del "Family Day", le dichiarazioni relative dei vari politici, fra cui quella della Ministra Bindi: "gli omosessuali non sono legittimati a partecipare alle audizioni per la Famiglia" (la maiuscola e' sua, e mi si permetta di chiedere: chi legittima questi untermenschen quando pagano le tasse, vanno a lavorare, stipulano un contratto, eccetera?); ripensate all'omicidio della ragazza pakistana o al suicidio del ragazzo di Torino, alle uscite recenti e non di vari prelati-imam-rabbini... Riconoscete nulla? Pensate che ci sia qualcosa da fare? O aspettiamo che un altro po' di vite vengano devastate dalla sofferenza e dalla morte? Fino a ieri, essere laica per me era un dato di fatto, e che lo stato italiano fosse uno stato laico un'ovvieta'. Oggi sull'ultimo punto sono insicura. Sono spaventata, e decisa ad oppormi a questo stato di cose prima che peggiori. Mi piacerebbe avere delle compagne e dei compagni di strada. * Fonti: Asian Human Rights Commission, Women's Media Center, Women E-News, International Herald Tribune, Associated Press, Ha'aretz. 2. RIFLESSIONE. ELISABETTA DONINI: LA RETE DELLE DONNE IN NERO: TRA CAPACITA' E LIMITI, TRA LOCALE E GLOBALE [Ringraziamo Elisabetta Donini (per contatti: elisabetta.donini at alice.it) per averci messo a disposizione il seguente saggio gia' apparso in Giovanna Providenti (a cura di), La nonviolenza delle donne, "Quaderni satyagraha" - Libreria Editrice Fiorentina, Pisa-Firenze 2006. Elisabetta Donini, scienziata, punto di riferimento delle Donne in nero di Torino, e' docente di fisica all'Universita' di Torino ed e' da sempre attiva nel movimento femminista e in quello pacifista; si occupa anche in particolare di critica di genere dello sviluppo e di politica delle diversita'. Nata in provincia di Cuneo nel 1942, vive per lo piu' a Torino, con un lungo periodo di lavoro e di esperienza umana e politica nel Meridione; fa parte del Cirsde - Centro Interdipartimentale di Ricerche e Studi delle Donne, e del Centro di Studi per la Pace dell'Universita' di Torino, e del Comitato delle scienziate e degli scienziati contro la guerra; per alcuni anni ha fatto ricerca in teoria delle particelle elementari e poi ha spostato i suoi interessi verso la critica storica delle scienze, la prospettiva ecologica e le culture del femminismo; da anni i suoi interessi di ricerca si sono concentrati anche sul rapporto tra scienza e societa'; man mano che cresceva in lei l'impegno nel movimento delle donne e nell'elaborazione femminista si approfondiva anche il desiderio di interrogare scienza, tecnologia, modelli di sviluppo in relazione al segno di genere che vi hanno impresso secoli di dominanza maschile; il lavoro teorico e l'attivita' di impegno civile sono infatti sempre stati in lei strettamente legati, sia rispetto a questioni come il nucleare negli anni Ottanta sia rispetto alle guerre degli anni Ottanta e Novanta e attuali, con un continuo sforzo di contribuire al consolidamento delle relazioni tra donne di parti in conflitto (dalle esperienze con donne israeliane e palestinesi a quelle con donne dei Balcani); ha pubblicato molti saggi e articoli, e contribuito a numerosi volumi. Tra le opere di Elisabetta Donini: Il caso dei quanti, Clup, 1982; La nube e il limite. Donne, scienza, percorsi nel tempo, Rosenberg & Sellier, Torino 1990; Conversazioni con Evelyn Fox Keller. Una scienziata anomala, Eleuthera, Milano 1991] L'8 gennaio 1988 dieci donne ebree israeliane andarono in una piazza centrale di Gerusalemme Ovest, vestite di nero e in silenzio, con dei cartelli a forma di mano su cui era scritto "Stop all'occupazione". Era trascorso appena un mese dall'inizio della prima Intifada palestinese; cominciata il 7 dicembre 1987 nel campo profughi di Jabalia, nella Striscia di Gaza, quella che da allora e' rimasta nota come "la rivolta delle pietre" era immediatamente dilagata anche in Cisgiordania e la repressione israeliana era stata subito durissima, con uccisioni, ferimenti, arresti, deportazioni, case sigillate o distrutte, coprifuoco e divieti di tutti i tipi. Scegliendo di manifestare in silenzio e vestite di nero, quel piccolo gruppo di donne intendeva esprimere un duplice lutto: da un lato il dolore per le sofferenze della popolazione dei Territori che Israele aveva occupato sin dal 1967 e dall'altro quello per gli effetti interni alla stessa Israele, come degrado morale a causa della violenza di cui si stava rendendo colpevole. Riflettendo appunto sull'occupazione, Edna Zaretsky, attiva nel movimento di protesta, sottolineava che "tutto questo ha corrotto il paese per lungo tempo... Stiamo perdendo un po' della nostra umanita'" (Inchiesta 1991, p. 74-75) (1). Con accenti forse anche piu' amari, Gila Svirsky (1992, p. 167), una delle prime Donne in nero, ebbe a scrivere che a lei come ebrea sionista premeva "porre fine alla corruzione dell'anima ebraica di Israele... L'occupazione corrompe. Ha corrotto"; poter avere rapporti di amicizia con persone palestinesi era per lei una questione di "umanita'" e di "decenza". Nell'agosto del 2005, il XIII convegno della rete internazionale delle Donne in nero ha fatto incontrare a Gerusalemme piu' di settecento donne, da circa quaranta paesi di tutto il mondo (2). Come e' avvenuto un tale passaggio? Quali processi hanno fatto si' che l'iniziativa presa da cosi' poche donne nel 1988 diventasse in brevissimo tempo uno dei riferimenti piu' noti e condivisi del pacifismo femminista? Quali altre denunce di guerre e violenze si sono affiancate all'impegno originariamente concentrato sul caso di Palestina e Israele? Senza alcuna pretesa di analizzarne qui la grande complessita' (3), vorrei cercare piuttosto di ripercorrere qualche aspetto di quella vicenda interrogandone i risvolti che oggi mi paiono piu' significativi, ma anche piu' problematici, soprattutto in termini di incisivita' ed efficacia, ora e nell'immediato futuro. * Una pratica? Un progetto? Un orizzonte etico-politico? "I corpi neri urlano", venne scritto anni or sono (Corbetta et al. 1993, p. 11). La modalita' delle vigils, delle "uscite in nero" in luoghi, giorni e orari mantenuti costanti per mesi o anni, e' stata ed e' tuttora il primo elemento che accomuna gruppi di tanti luoghi diversi. Dal 1988, salvo qualche interruzione o variazione eccezionale, a Gerusalemme le Donne in nero continuano a trovarsi ogni venerdi' dalle 13 alle 14 in una piazza centrale (Paris square, per la toponomastica ufficiale, ma Hagar square per la rete internazionale, a ricordare Hagar Roublev, una delle dieci fondatrici, morta cinquantenne nel 2000); dal 9 ottobre 1991 le Donne in nero di Belgrado sono presenti in piazza della Repubblica tutti i mercoledi' dalle 14 alle 15; in varie citta' italiane o di altri paesi il ritrovo e' a cadenza settimanale o quindicinale o mensile, ma resta comunque un punto fermo dei rapporti sia interni sia esterni di ciascun gruppo (4). Ci sono stati in passato - e ci sono tuttora - diversi intrecci, in un misto di sovrapposizioni e di scarti, tra il "fare le Donne in nero" e "l'essere Donne in nero". Alle uscite periodiche partecipano in genere anche donne per cui quello e' l'unico momento di contatto attivo con il gruppo e che magari hanno altri luoghi politici come loro riferimento principale oppure che esprimono in quella sola presenza il loro rifiuto della violenza. Del resto, il modo stesso in cui la rete e' cresciuta, in particolare in Italia, e' stato in molti casi segnato dalla storia di gruppi che in passato avevano denominazioni diverse e "facevano" periodicamente le Donne in nero, ma da un certo tempo in avanti hanno invece adottato proprio quella come loro autoidentificazione. Hanno contato molto in questo processo le vicende degli anni '90, attraverso la guerra del Golfo, le guerre balcaniche, la guerra Nato sulla Serbia e il Kossovo: il nucleo originario dell'assunzione di responsabilita' dall'interno di un paese colpevole di aggressioni - su cui si imperniava la forza e la suggestione della pratica avviata a Gerusalemme nel 1988 - divenne infatti in quegli anni sempre piu' inquietante e incalzante anche altrove, a causa del crescente coinvolgimento di vari governi nella scelta di ricorrere alle armi. Si approfondi' cosi' il bisogno di scavare nelle strutture profonde del militarismo e del nazionalismo e crebbe l'esigenza di accompagnare le manifestazioni del lutto con la capacita' di costruire una diversa prospettiva di relazione tra persone e popoli diversi. "Non parlate in nostro nome, parliamo noi per noi stesse", scriveva Stasa Zajovic (2003, p. 10), identificando in questa affermazione il primo dei "principi etici" di una politica di pace femminista. Dalle Donne in nero di Belgrado rispetto alle guerre condotte dalla Serbia, ai gruppi italiani rispetto alla guerra Nato del '99 e poi a quella in Afghanistan ed in Iraq, alle cittadine ed ai cittadini degli Stati Uniti che non hanno accettato le scelte di guerra dopo l'11 settembre 2001, la dissociazione attiva e' stata nei fatti il richiamo di piu' immediata efficacia, perche' sorretta da una altrettanto nitida consapevolezza che conta cio' che ciascuna persona fa o non fa. La sua forza stava percio' nel praticare l'assunzione di responsabilita' non certo per chiamarsi fuori, ma per resistere ed opporsi in modi politicamente incisivi. Rivolgendosi a donne di Srebrenica, testimoni ed esse stesse vittime dei crimini orrendi del luglio '95, ancora Stasa Zajovic, figura centrale delle Donne in nero di Belgrado, esprimeva con queste parole la tensione tra dissociazione e consapevolezza, tra responsabilita' individuale e collettiva: "vorrei ringraziarvi per non considerarci parte della storia collettiva. Questo non e' stato facile in assoluto perche' le nostre attivita' si sono svolte in un Paese il cui regime aveva commesso innumerevoli atrocita' ed e' stato responsabile del massacro della vostra Srebrenica. Pertanto sappiamo che siamo responsabili di quel che ciascuno di noi ha fatto o non ha fatto. Sappiamo che l'autonomia morale ci induce ad accettare le responsabilita' per cio' che e' stato fatto in nostro nome... non desideriamo sapere semplicemente per alleviare i nostri sensi di colpa, la responsabilita' o la vergogna, ma perche' giustizia ed onesta' ci impongono di confrontarci con quel che e' accaduto" (in Richter, Bacchi 2003, p. 232). * Appartenenza o disidentificazione? A partire da se', in un vissuto di conflitto? O cercando di dare sostegno altrove a prospettive di pace? L'esperienza delle Donne in nero israeliane (che da Gerusalemme si diffuse rapidamente in decine di altri luoghi del paese, con la partecipazione anche di donne palestinesi, cittadine di Israele, accanto alle ebree) e quella delle Donne in nero di Belgrado (5) (anch'esse con numerose ramificazioni in altre zone della Serbia-Montenegro) sono stati i due poli principali attorno a cui e' cresciuta la rete internazionale. In modi diversi, si e' trattato di due casi di opposizione "dall'interno", in quanto movimenti di protesta contro la violenza esercitata dal proprio paese. Due le differenze principali che a mio parere vanno tenute in conto; la prima riguarda il senso di appartenenza: mentre infatti per molte delle Donne in nero ebree il legame di solidarieta' non solo con la storia e la cultura, ma con lo stesso stato di Israele ha continuato ad essere un elemento fondante della loro soggettivita' ed anzi nelle crudelta' e nelle ingiustizie esercitate contro la popolazione palestinese hanno spesso visto e denunciato un tradimento dei valori considerati da loro piu' autenticamente costitutivi della loro identita' di nazione, nelle parole dette e scritte dalle Donne in nero di Belgrado e' prevalso invece il rifiuto radicale proprio del nazionalismo, sotto qualsiasi forma. In entrambi i casi e' stata ed e' tuttora cruciale la volonta' di non immedesimarsi con le tendenze prevalenti nella societa' di cui pure si e' parte, in nome pero' di una tanto sofferta quanto ribadita solidita' del legame di appartenenza nazionale, per quanto riguarda molte delle ebree israeliane, ed in nome invece della dissociazione piu' ferma proprio dalle adesioni nazionalistiche, per quanto riguarda le balcaniche. Questo aspetto si lega alla seconda differenza cui vorrei accennare: se in ambedue le situazioni l'altra faccia del lutto e' quella che si rivolge alla "parte avversa" per riconoscerne le sofferenze e i diritti, anziche' esecrarla e respingerla come nemica, bisogna pero' considerare che nel caso dei rapporti israelo-palestinesi e' occorso un processo di avvicinamento/accettazione del "diverso da se'", di chi per lingua, religione, storia, cultura, tradizioni, costumi era un altro/estraneo, mentre nel caso dei Balcani c'e' stato il deflagrare di una convivenza decennale se non secolare ed una societa' multiforme, attraversata da mescolamenti di ogni tipo, e' stata spezzata in etnie contrapposte. Tentando anche qui una schematizzazione sintetica, mi sembra che la solidarieta' con l'altra/o nel primo caso abbia dovuto superare i confini di una storica diversita' e separazione, nel secondo abbia invece potuto rifarsi alle radici di una storia comune di cui mantenere operanti i legami. E gli altri gruppi, che in altri paesi e altre situazioni hanno fatta propria la modalita' delle Donne in nero? Della pratica politica delle "uscite in nero" credo che sia stata condivisa soprattutto l'intenzione di rendersi responsabili all'interno del proprio specifico contesto per denunciarne le complicita' con guerre, violenze, militarismi, razzismi. Appunto percio', per fare un esempio concreto, il numero delle manifestazioni come Donne in nero in Italia e' diventato particolarmente alto quando si e' trattato di opporsi al coinvolgimento del nostro paese in azioni di guerra: cosi' e' stato tra il '90 e il '91, quando incombeva e poi e' effettivamente avvenuta la guerra del Golfo; poi nel '99, per dire no alla guerra Nato; quindi ancora alla fine del 2001 e soprattutto nel 2003, rispetto alle guerre in Afghanistan ed in Iraq. Se questo e' lo sfondo generale, va pero' rilevato che sono state e sono molto varie le priorita' verso cui si sono orientati gruppi diversi (o ciascun gruppo in tempi diversi); in particolare, hanno contato le relazioni di conoscenza e di scambio con diversi luoghi di conflitto. Ancora per quanto riguarda il caso italiano, esso ebbe origine dal contatto diretto con le Donne in nero in Israele nel 1988, quando si svolse un "campo di pace" a Gerusalemme tra italiane, palestinesi, israeliane (6). Percio' tra le Donne in nero italiane ci fu per anni e c'e' tuttora un filone legato soprattutto a quella situazione; accanto ad esso, pero', nel corso degli anni '90 sono molto cresciute le relazioni con le Donne in nero di Belgrado e altre se ne sono aggiunte, via via che il dilagare delle situazioni di conflitto armato, ma anche l'estendersi della rete di rapporti tra femministe pacifiste faceva nascere nuovi contatti: con donne kurde e turche, con donne afgane, con donne della Colombia o del Messico... (7). Quale il senso di questo proiettarsi verso conflitti lontani, non immediatamente vissuti? Le risposte potrebbero essere tante, diverse da parte di diversi gruppi e singole donne (8). Se penso al legame con israeliane e palestinesi, che per me resta il piu' tenace nella mia esperienza come donna in nero, una ragione di fondo per continuare a perseguirlo e' quella di cercare di contribuire a tenere aperta quella alternativa di soluzione condivisa, costruita attraverso relazioni di riconoscimento reciproco (ma nella consapevolezza delle sempre piu' tragiche disparita' e asimmetrie) che a me e ad altre parve di poter intravedere sin dai tempi della prima Intifada come embrione di una "politica internazionale delle donne", tracciata a partire dall'immediatezza delle esperienze di vita. * Efficacia locale? Rafforzamento globale? Connessioni reali o virtuali? Nelle settimane successive al convegno internazionale dell'agosto 2005, sono circolate in rete molte valutazioni, alcune anche piuttosto dure nella critica di cio' che a Gerusalemme era o non era accaduto. Per concludere queste mie considerazioni riprendo qui un punto soltanto tra i numerosi sollevati: quali frutti abbia dato il convegno da un lato rispetto alla situazione tra Israele e Palestina in cui avevamo scelto di immergerci quando si era deciso che il XIII incontro si tenesse li' e dall'altro rispetto ai legami tra situazioni diverse di tutto il mondo. Su entrambi i versanti mi sembra che sia emerso uno scarto tra la forza che da' la presa di contatto diretta tra soggetti ed il limite di relazioni che non si traducano in pratiche e percorsi condivisi. Soprattutto per chi non era mai stata in Palestina e Israele, l'esperienza vissuta a Gerusalemme e negli altri luoghi in cui si e' andate (in particolare a Ramallah e Bil'in durante la "giornata palestinese" del convegno) ha significato trovarsi esposte in modo immediato - per cio' che si ascoltava dalle testimonianze e per cio' che si vedeva con i propri occhi - ad una drammaticita' delle condizioni palestinesi sotto occupazione di cui e' difficile percepire da lontano quanto risulti devastante sin nelle minime articolazioni della vita quotidiana. Avere manifestato in centinaia al check point di Kalandia o nelle terre che sono state confiscate a Bil'in per costruirvi quello che ben merita il nome di Muro dell'apartheid, ha cosi' consentito sia di sentirsi vicine alla Coalizione delle donne israeliane per la pace nella loro opposizione alle ingiustizie ed alle violenze dell'occupazione sia di dare sostegno alle donne palestinesi nella rivendicazione dei loro diritti. Questo non ha pero' comportato una maggiore capacita' di contribuire piu' a lungo termine ad una soluzione giusta di riconoscimento, pace, convivenza; ne' la stessa possibilita' di un impegno comune tra donne israeliane e palestinesi mi sembra che ne sia uscita rafforzata. Del resto, non sono mai nati gruppi di Donne in nero nei Territori occupati ne' in occasione del convegno del 2005 si sono approfonditi i confronti su nodi che pure sono decisivi per il femminismo pacifista, quali l'intreccio tra patriarcato, nazioni armate, fondamentalismi identitari. Si lega qui l'altro risvolto delle insoddisfazioni e delle critiche cui accennavo sopra: mentre nel vissuto immediato dell'incontro "corpo a corpo" l'esperienza si traduceva in generale in una grande circolazione di energia, a distanza di tempo e ragionandone con chi non vi aveva partecipato risultava difficile fare corrispondere una sostanza concreta a quella pur cosi' intensa sensazione di empowerment, una volta tornate ciascuna ad agire nel proprio ristrettissimo contesto ed una volta che i rapporti della rete tornavano ad essere fatti soprattutto di scambi virtuali. Credo che siano calzanti a questo proposito alcune questioni che Cynthia Cockburn ha sollevato nella premessa al suo progetto di ricerca sulle Donne in nero (9), la' dove ha scritto di ritenere che "l'attivismo delle donne contro la violenza e la guerra sia potenzialmente un significativo movimento sociale globale", ma che tali potenzialita' possano dispiegarsi soltanto se vi e' "un alto grado 1) di connessione e 2) di coerenza filosofica". Condivido queste parole, interpretando per parte mia la "coerenza filosofica" come la condivisione non certo di una carta teorica di principi, ma di quello che sopra chiamavo un orizzonte etico e politico: non un proget to politico astratto, ma una direzione lungo cui praticare azioni comuni, per contrastare guerre, militarismi, nazionalismi in ciascun caso concreto, misurandosi nello stesso tempo con la portata globale della violenza su cui si fondano i modelli di vita e di cultura prevalenti nel mondo. * Note 1. Oltre che per l'intervento di Edna Zaretsky, "Non posso dire di non sapere", rinvio al numero monografico di "Inchiesta" 1991 anche per altri contributi sugli inizi delle Donne in nero, raccolti nella sezione "Voci da Israele". Sulle origini ed i primi anni di quella esperienza cfr. inoltre Deutsch 1992, Deutsch 1994. 2. Si vedano i numerosi materiali pubblicati nel sito www.coalitionofwomen.org Una sintesi in italiano si puo' trovare in Donne in nero 2005; cfr. anche il sito www.donneinnero.it. 3. Molte notizie sia sulla storia sia sulla configurazione attuale delle Donne in nero nel mondo si possono trovare nei siti www.womeninblack.org e www.coalitionofwomen.org Tra le ricostruzioni storiche pubblicate in italiano segnalo Filippis 2003; Panero et al. 2005. 4. Nella sua ricerca Women opposing war from a global perspective Cynthia Cockburn sta costruendo una mappa ragionata dei modi di manifestare e degli orientamenti di vari gruppi di Donne in nero; molte elaborazioni preliminari sono pubblicate nel sito www.cynthiacockburn.org 5. Sin dai primi tempi, le Donne in nero di Belgrado hanno avuto cura di pubblicare ogni anno la raccolta antologica Women for Peace per documentare le attivita' svolte e fare conoscere riflessioni e testimonianze; alcuni volumi sono stati anche tradotti in italiano con il titolo Donne per la pace. 6. Sugli inizi del percorso italiano si vedano Calciati et al. 1989; Ingrao 1993; Corbetta et al. 1993. 7. Si vedano in proposito le notizie riportate nel sito www.donneinnero.it 8. Nel suo Oltre la danza macabra, Luisa Morgantini perno sin dalle origini di tutta la storia delle Donne in nero, presenta il proprio come "un percorso individuale e collettivo" (Morgantini 2004, p. 16). Ad esso rinvio per molti spunti circa i sempre piu' numerosi luoghi di conflitto in cui si e' estesa la rete delle relazioni tra donne. 9. Cfr. sopra, nota 4. * Bibliografia - Calciati, Giovanna; Gabriella Cappelletti; Luisa Corbetta; Marina Fresa; Carla Ortona; Rosanna Rossato; Ermenegilda Uccelli (a cura di). 1989. Donne a Gerusalemme. Incontri tra italiane, palestinesi, israeliane, Rosenberg & Sellier, Torino. - Corbetta, Luisa; Elisabetta Donini; Anna Maria Garelli; Margherita Granero; Carla Ortona. 1993. Il caso italiano: un'esperienza aperta, dattiloscritto non pubblicato. - Deutsch, Yvonne. 1992. "Israeli Women: From Protest to a Culture of Peace", in Deena Hurwitz (ed.), Walking the Red Line. Israelis in Search of Justice for Palestine, New Society Publishers, Philadelphia, pp. 45-55. - Deutsch Yvonne. 1994. "Israeli Women against the Occupation: Political growth and the persistence of ideology", in Tamar Mayer (ed.), Women and the Israeli Occupation. The politics of change, Routledge, London and New York, pp. 88-105. - Donne in nero. 2005. "XIII incontro internazionale delle Donne in nero e della Rete delle donne per la pace a Gerusalemme", in "il foglio de il Paese delle donne", anno XVIII, N. 19/20, 5 dicembre 2005, pp. 9-14. - Filippis, Filomena. 2003. "Fuori la guerra dalla storia". Le Donne in Nero in Europa e nel bacino del Mediterraneo: origini, riflessioni teoriche, pratiche e reti di solidarieta' da Gerusalemme a Belgrado, Tesi di laurea in materie letterarie, Storia dell'Europa contemporanea, Universita' degli Studi di Torino, Facolta' di Scienze della Formazione, Anno accademico 2002 - 2003. - "Inchiesta". 1991. "Pace e guerra in Medio Oriente. Percorsi di donne", anno XXI, n. 91-92, gennaio-giugno 1991. - Ingrao, Chiara. 1993. Salaam, Shalom. Diario da Gerusalemme, Baghdad e altri conflitti, Datanews Editrice, Roma. - Morgantini, Luisa. 2004. Oltre la danza macabra. No alla guerra no al terrorismo, Nutrimenti, Roma. - Panero, Enrica; Laura Poli; Paola Porceddu. 2005. "La specificita' di genere nell'opposizione alla guerra: le Donne in Nero", in Carla Colombelli (a cura di), La guerra non ci da' pace. Donne e guerre contemporanee, Edizioni SEB 27, Torino. - Richter, Melita; Maria Bacchi (a cura di). 2003. Le guerre cominciano a primavera. Soggetti e genere nel conflitto jugoslavo, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli. - Svirsky, Gila. 1992. "Zionist Reasons for Being Anti-Occupation", in Deena Hurwitz (ed.), Walking the Red Line. Israelis in Search of Justice for Palestine, New Society Publishers, Philadelphia, p. 165-169. - Zajovic, Stasa. 2003. "Ten Years of Women in Black", in Women in Black, Belgrade, Women for Peace, Standard 2, Beograd, p. 10-11. * Sitografia - www.coalitionofwomen.org - www.cynthiacockburn.org - www.donneinnero.it - www.womeninblack.org ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 101 del 10 maggio 2007 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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