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Nonviolenza. Femminile plurale. 100
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 100
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 3 May 2007 11:00:46 +0200
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 100 del 3 maggio 2007 In questo numero: 1. Valeria Ando': Donne e nonviolenza: si dice in molti modi 2. Maria G. Di Rienzo: Femminista nonviolenta 3. Paola Mancinelli: Il grembo come potenza kenotica 1. RIFLESSIONE. VALERIA ANDO': DONNE E NONVIOLENZA: SI DICE IN MOLTI MODI [Ringraziamo Valeria Ando' (per contatti: andov at tele2.it) per questo intervento. Valeria Ando', docente di Cultura greca all'Universita' di Palermo, e' tra le promotrici ed animatrici presso quell'ateneo di un gruppo di riflessione e di pratica di nonviolenza di genere; direttrice del Cisap (Centro interdipartimentale di ricerche sulle forme di produzione e di trasmissione del sapere nelle societa' antiche e moderne), tutor del laboratorio su "Pensiero femminile e nonviolenza di genere", autrice di molti saggi, ha tra l'altro curato l'edizione di Ippocrate, Natura della donna, Rizzoli, Milano 2000. Opere di Valeria Ando': (a cura di), Saperi bocciati. Riforma dell'istruzione, discipline e senso degli studi, Carocci, Roma 2002; con Andrea Cozzo (a cura di), Pensare all'antica. A chi servono i filosofi?, Carocci, Roma 2002; L'ape che tesse. Saperi femminili nella Grecia antica, Carocci, Roma 2005] Donne e nonviolenza: un binomio che si puo' declinare in tanti modi possibili e che puo' essere variamente interpretato. Ci sono le donne consapevoli della propria differenza sessuale e del percorso di liberazione compiuto dal femminismo e che vogliono esprimere e significare tale differenza in una scelta di vita improntata alla nonviolenza: una duplice consapevolezza che si attualizza in forme di politica e in pratiche di relazioni dotate di grande potenzialita' trasformativa. Poi ci sono le pensatrici, le filosofe del pensiero della differenza sessuale che, a partire dalla decostruzione del soggetto universale e attingendo alle grandi maestre del '900, hanno fondato una soggettivita' femminile strutturalmente aperta alla alterita', in relazioni empatiche di cura. Poi ci sono le donne che pur assumendo la differenza sessuale come lente interpretativa del reale e pur considerando la propria pratica politica un implicito impegno per la pace, tuttavia non nominano esplicitamente la nonviolenza all'interno del proprio progetto politico, forse non conoscendone la portata teorica sia sul piano filosofico sia in merito alla soluzione dei conflitti. Ci sono anche le donne che del femminismo vedono solo gli effetti della raggiunta parita', non hanno consapevolezza della portata politica della propria differenza, ma sono impegnate nel terreno della nonviolenza, si spendono in progetti e pratiche, sia personali sia pubbliche, di trasformazione del reale e di costruzione di una cultura di pace. Ci sono infine le donne che pur non avendo consapevolezza ne' del femminismo ne' della propria differenza sessuale, e magari non avendo conoscenza del pensiero e della pratica della nonviolenza, hanno agito e agiscono in pratiche sociali e in forme di lotta autenticamente nonviolente. Queste mi sembrano le possibili articolazioni del binomio donne e nonviolenza. In fondo poco importa il livello di conoscenza teorica o la consapevolezza di un percorso di pensiero, ma importante e' invece che il binomio venga riproposto in forme sempre piu' esplicite e che il nesso tra le donne e la nonviolenza divenga sempre piu' stretto. Si', perche' le donne, tutte, femministe e non, hanno bisogno della nonviolenza: quelle impegnate in politica, che da anni lavorano nel sociale, possono trovare nella nonviolenza l'esito naturale e indispensabile in questo momento della storia. Inserire in forma esplicita la nonviolenza nella politica delle donne, nell'impegno pubblico e sociale, significa aggiungere un di piu' da cui trarre orientamento per l'azione. Dall'altra parte la nonviolenza ha bisogno delle donne, della ricchezza del loro pensiero, dell'esperienza maturata nelle loro pratiche; ha bisogno di riconoscerne la specificita', di valorizzarne il contributo. Penso soprattutto al ruolo specifico che le donne possono ricoprire nella soluzione dei conflitti, sia quelli internazionali, in cui le donne sono state e sono strumento di pace, sia anche nei conflitti interpersonali della quotidianita', in cui la particolare competenza emotiva che le donne hanno, la sapienza, tutta femminile, di mettere in parola sentimenti e emozioni possono creare un ponte di comunicazione tra le parti, contribuendo al ristabilimento di un circuito di comprensione, di empatia, di amore. Anzi, forse e' proprio l'amore la forza che salda insieme le donne e la nonviolenza: la magia, l'alchimia, il lievito che rende il mondo piu' vivibile e piu' umano. 2. RIFLESSIONE. MARIA G. DI RIENZO: FEMMINISTA NONVIOLENTA [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005] C'e' una categoria, il 51% della popolazione umana, che fa due terzi di tutto il lavoro nel mondo e possiede l'1% delle risorse economiche; che viene uccisa e torturata, venduta e umiliata per il solo far parte della categoria. I membri non hanno scelto di far parte della categoria, e nemmeno possono uscirne. La loro colpa e' esistere. Questa categoria viene chiamata "donne", ed e' per questo che io sono una femminista. Ci sono spinte e qualita', nell'animo umano, a cui tendono maschi e femmine: il bisogno di essere amati e di amare, la gentilezza, il curarsi degli altri, la dignita' ed il rispetto, la ricerca e la costruzione di equita' e giustizia. Ce ne sono altre meno simpatiche, e alcune francamente orribili come la glorificazione della violenza in tutte le sue forme. Le spinte vengono favorite o sfavorite dall'ambiente culturale, sociale, familiare, religioso, economico, eccetera. A me piacciono di piu' le prime, e credo che tramite esse gli esseri umani possano vivere meglio tra loro e con le altre creature di questo pianeta, ed e' percio' che sono amica della nonviolenza. * Le due cose in che rapporto sono? Ho gia' scritto altrove, ed altre/altri hanno scritto meglio di me, che l'essere femmina non predispone in modo "naturale" a fare alcunche', e cio' e' valido anche per l'essere maschio. E' biologico essere mestruate, restare incinte, nutrire un bimbo al seno; cosi' come e' biologico avere una barba o cambiare la voce crescendo: non e' biologico svolgere i lavori domestici o prendere a cazzotti qualcuno se ci disturba. E' la socializzazione a darci istruzioni su cio' che sarebbe alla nostra portata e cio' che non lo sarebbe, in relazione al genere a cui apparteniamo, a dirci cio' che e' giusto e buono per noi ma non per altri dal sesso diverso, o dal colore diverso o dalla classe sociale diversa, eccetera. Tant'e' che esistono, ed in passato sono probabilmente esistite in numero molto maggiore, aggregazioni umane cui il concetto dell'uso della violenza per il maneggio dei conflitti e' sconosciuto o contenuto ai minimi termini tramite una forte riprovazione sociale. A volte esso e' ritualizzato in forma incruenta, e cioe', per esempio, le lance vengono conficcate con forza nel terreno, se si e' molto arrabbiati, ma mai e poi mai verranno dirette contro il corpo di un altro essere umano. Questi gruppi (tribu', villaggi, regioni, dalla Cina alla Nuova Guinea) presentano, e per me non e' sorprendente, una caratteristica comune: la sostanziale eguaglianza fra i generi. Possono esservi specializzazioni del lavoro, delle mansioni necessarie a mantenere la comunita' viva e in salute, ma non vi e' gerarchia di valore in tali mansioni. La gerarchia di valore, che ha costi alti per femmine e maschi ed e' basata su una rigida opposizione binaria, e' "agganciata" in tutto il resto del mondo alle differenze biologiche. Poiche' sono le donne a partorire i piccoli ed allattarli, e questo si configura come un "lavoro di cura", si assume che volontariamente e spontaneamente e naturalmente le donne debbano "aver cura" ed essere pronte al servizio anche nella vita sociale, e che quindi essere segretarie, infermiere o lavoratrici domestiche sia una sorta di destino biologico. Sarebbero anche, in virtu' della biologia, pacifiste nate. All'altra estremita' della faccenda gli uomini devono avere "controllo e comando" come provveditori e protettori: sono politici, manager, lavoratori dell'industria e del commercio, decisori, ed il loro ruolo e' "superiore" all'altro. Ovviamente, e mica si puo' lottare contro gli ormoni no?, sarebbero tutti guerrafondai. E' chiaro che cio' non descrive la realta': nessuna persona esiste in una cornice ristretta come quella disegnata da tali stereotipi. Gli uomini possono allevare bimbi e curare case in modo eccellente, le donne possono in modo altrettanto eccellente guidare istituzioni. E, per maggior buona fortuna del genere umano, si possono avere anche le due cose insieme, e se ne possono avere persino di piu'. E' possibile essere sensibili e pronti all'ascolto pur rivestendo una posizione decisionale, lasciarsi toccare dai sentimenti propri ed altrui ed essere forti, e si puo' fare questo essendo donne o essendo uomini. * A prima vista, tra l'altro, il posizionamento dei due sessi, specializzati dalla socializzazione in un ruolo o nell'altro, diciamo al primo sguardo di un marziano del tutto ignaro della storia dell'umanita', potrebbe apparire al massimo blandamente coercitivo e sopportabile: ma anche il marziano si accorgerebbe subito che il risultato finale dello sbilanciamento di potere nelle relazioni tra i due sessi e' la violenza. Un tipo di violenza allarmante e spaventoso, perche' molto spesso condonato socialmente, giustificato con ogni sorta di teorie "scientifiche" e persino spacciato come prescritto da Dio stesso. Il "controllo e comando" del maschio umano puo', deve, spingersi al punto di usare violenza sulla femmina umana, alla quale si richiede in sostanza di soffrire in silenzio e di biasimare se stessa per aver "provocato" le incontrollabili reazioni del suo compagno e fratello di specie. Il quadro ha delle implicazioni allucinanti per il nostro marziano: si puo' conferire un tale ammontare di potere ad un soggetto che non e' in grado di gestirlo perche' apparentemente in balia delle proprie emozioni molto piu' della creatura che bolla come "emotiva" e instabile? Meta' dell'umanita' puo' violare, picchiare e uccidere al primo campanello che suona? L'altra meta', per non soccombere, dovrebbe restituire colpo su colpo? Com'e' possibile che la violenza venga riconosciuta e sanzionata come tale non in base all'atto che si compie, ma in base a di che sesso e' la vittima? Che senso ha definire "minori" e inferiori le donne per la maggior parte delle loro vite, e in troppi luoghi del mondo considerare responsabili di decisioni che spettano a loro i padri, i figli, i cognati, e poi punirle orribilmente qualora "sgarrino" dal quadro? Non abbiamo appena detto che non sono in grado di prendere decisioni? Se e' positivo, e quindi desiderabile, essere ad esempio assertivi e avventurosi, perche' un uomo che lo sia sta rispondendo alle norme sociali e una donna che lo sia le trasgredisce? Probabilmente, il marziano se ne andrebbe a casa con il mal di teste (ho deciso che ne ha due) prima di porsi il resto delle domande: la lista diverrebbe lunga un anno luce. * Quali che siano, e ve ne sono a bizzeffe, le commistioni ed il flusso d'informazioni passate storicamente dall'uno all'altro concetto, ecco cosa penso io: la nonviolenza ha bisogno del femminismo, il femminismo ha bisogno della nonviolenza. Per quello che mi riguarda, io non sono piu' in grado di scindere l'uno dall'altra. C'e' stato un periodo in cui, non trovando riferimenti e rappresentazioni adeguate per me stessa ed il mio agire nel mondo, pensavo di non avere "casa". Per alcune mie amiche femministe questo e' liberatorio, e poiche' non fa male a nessuno ed ha anche delle ragioni consistenti (visto quanti conflitti violenti sensi di appartenenza stretti e immodificabili possono causare), io non contesto il loro pensiero. Se come Virginia Woolf sentono di appartenere a tutto poiche' non si radicano in nulla di particolare mi va benissimo. Ma a me il luogo simbolico, non fisico, in cui tornare mancava. E quelli a disposizione li respingevo perche' non sapevano dare risposta al dilemma che mi tormentava: e' possibile per me solo subire violenza o usarla io stessa? Non c'e' un posto "terzo", dove si parli un'altra lingua, la mia lingua? La nonviolenza mi ha risposto nella mia lingua, e mi ha risposto sorprendendomi. Non mi ha dato una "casa", infatti, mi ha dato una strada. Ci cammino, mi siedo ai suoi bordi e rifletto, mi ci sdraio a riposare, ci corro e ci ballo, e non sono mai sola tranne quando lo desidero: c'e' sempre qualcuno o qualcuna disponibile ad insegnarmi qualcosa, a scambiare conoscenze, a lottare con me, a vivere, vivere, vivere e a non uccidere, ne' corpi, ne' menti, ne' cuori. E' percorrendo tale via che io sento di appartenere al mondo, e che il mondo appartiene a me. Ci mancherebbe che non facessi nulla per averne cura, vi pare? "Perche' un'altra?", mi disse una delle mie maestre, quando io esitavo a ricevere dalle sue mani la consegna a trasmettere cio' che lei mi aveva donato, "Nessun'altra. Tu." Va da se', era una trainer femminista nonviolenta. 3. RIFLESSIONE. PAOLA MANCINELLI: IL GREMBO COME POTENZA KENOTICA [Ringraziamo Paola Mancinelli (per contatti: mancinellipaola at libero.it) per questo intervento. Paola Mancinelli, nata ad Osimo (An) il 28 giugno 1963, dottore di ricerca in filosofia teoretica e docente di scuola superiore, saggista e poetessa, si e' occupata tra l'altro del rapporto fra mistica e filosofia e la violenza del sacro in Rene' Girard, del pensiero di Rosenzweig e dell'influenza dell'ebraismo nel rinnovamento dell'ontologia; collabora alle riviste "Filosofia e teologia" e "Quaderni di scienze religiose" ed alla rivista telematica di filosofia "Dialeghestai". Fra le opere di Paola Mancinelli: Vibrazioni, Pentarco, Torino 1985; Come memoria di latente nascita, Edizioni del Leone, Venezia, 1989; Oltre Babele, Edizioni del Leone, Venezia, 1991; Cristianesimo senza sacrificio. Filosofia e teologia in Rene' Girard, Cittadella, Assisi 2001; Homo revelatus, homo absconditus, di alcune tracce kierkegaardiane in Rene' Girard, in AA. VV., "Nota Bene, Quaderni di studi kierkegaardiani", Citta' Nuova, Roma 2002; La metafisica del silenzio, Stamperia dell'Arancio, Grottammare, 2003; Pensare altrove. Rivelazione e linguaggio in Franz Rosenzweig, Quattroventi, Urbino 2006] Premessa Per iniziare a delineare - peraltro molto sinteticamente - una riflessione sulla capacita' di costruire pace da parte del femminile, inteso non tanto come categoria di genere, quanto come paradigma del pensiero della gratuita' (Emmanuel Levinas) ricorreremo alla sineddoche metaforica del grembo, associandola a tutta la sua valenza antropologica e alla figura mutuata dalla teologica cristiana con i suoi richiami all'innocenza ed all'inermita' entro cui si manifesta la potenza della vita dall'Amore Crocifisso. Il grembo puo' certamente essere un richiamo alla passivita', all'esposizione estrema, alla rinuncia, alla spogliazione di se'; tuttavia non si dovrebbe dimenticare che patior non implica solo il subire, ma il senso forte del patire che si fa carico di una vita e che e' capace di avvertire tutta la portata della responsabilita' fino alla rappresentanza (Stellvertretung secondo la categoria molto efficace della teologa protestante Dorothee Soelle) persino sostitutiva dell'altro dinanzi alla strutturale ingiustizia del mondo che ne sovverte la dignita'. Per questo motivo il principio materno assurge ad un paradigma oltre il biologico per rappresentare l'universo antropologico dell'umanita' contrassegnata dall'intrinseca alterita' per la quale essa e' ontologicamente relazione. D'altronde la kenosis starebbe dinanzi al grembo in un'apparente contraddizione. Essa dice di un abbassamento e di un'umiliazione che rasenta quasi la decreazione. La contraddizione, pero', e' feconda e traguarda ad un paradosso. La kenosis dice, in realta', di un cammino storico di Dio, del Suo imparare a balbettare le sillabe del Verbo, che e' Suo progetto creativo gia' da sempre compiuto, nei gemiti dogliosi d'attesa della storia, nel grido di redenzione della creazione che passa attraverso la passivita' del suo diminuire per essere rigenerata pneumatologicamente secondo un piu' grande amore. Stando cosi' le cose, la kenosis e' il grembo di Dio che vive l'immensa passione per l'umano e che nel Suo stesso spogliarsi abbassandosi riassume l'ascesa, l'orizzonte dell'ascesa a cui la creazione e' chiamata attraverso la mediazione stessa dell'umanita' che del divino e' coscienza. Si tratta di un agire cosmoteandrico. Senza voler operare rivendicazioni di genere, si potrebbe dire, in ogni caso, che qui si da' un lato femminile, quel lato femminile che anche il testo biblico contrassegna con viscere di misericordia. Tanto nel caso del grembo, sineddochica ipostasi del femminile, quanto in quello della kenosis si trova una passivita' che immette ad una nuova grammatica dell'agire: quella dell'asimmetria. Ancora una volta sara' Levinas il mentore che ci illustra il senso di questo asimmetrico agire. Si tratta di un'interruzione della reciprocita', di un'inversione del commercium che lega il dono allo scambio. Dunque, chi agisce asimmetricamente dona senza ritorno, proprio come la madre che genera. Non solo, e' capace di per-donare, secondo quella semantica che fa del perdono la sovrabbondanza del dono, e che la teologia cristiana chiama grazia. L'agire asimmetrico porta con se' l'inquietudine non solo per la vittima, ma per lo stesso persecutore e solo nel farsi carico si da' veramente quell'interruzione della violenza simmetrica che sembra nuovamente assurgere ad ideologia dello scontro delle civilta'. Cosi' scrive Levinas: "Allora l'inquietudine del perseguitato non sarebbe altro che una modificazione della maternita', del "gemito delle viscere" ferite in coloro che esse portavano o porteranno? Nella maternita' significa la responsabilita' per gli altri - che arriva fino alla sostituzione agli altri e fino a soffrire sia l'effetto della persecuzione, sia del perseguitare stesso in cui sprofonda il persecutore" (1). Su queste parole si deve sostare per poter dare conto del loro significato politico nel senso piu' eminente del termine. In effetti, l'inquietudine delle vittime ci assedia ed ossessiona; al di la' di ogni Realpolitik pur affidata alle diplomazie, e' sempre l'umile gesto compiuto da donne comuni e ignote alle categorie generalizzanti della storia che scardina i soli principi ed invita a guardare le esistenze incarnate della singolarita' umana, dei volti, icone piu' vere delle leggi non scritte e vincolanti in quanto an-hypotethon, fondamento oltre ogni fondazione possibile dell'ekumene umana. Eppure, queste donne hanno in qualche modo una voce ed un volto, hanno persino un nome, radice di una singolarita' irriducibile: Antigone, Marianela Garcia, Simone Weil. La prima capace di opporre la pietas al nomos, la seconda capace, nel Salvador della dittatura militare ma anche di Oscar Romero, di sfidare inerme la cieca violenza del potere per essere la fonte a cui dissetare i perseguitati a causa della giustizia e di essa assetati, di essere il grido del loro silenzio imposto attraverso ogni violazione, di essere la testimonianza vivente di un quinto Evangelo sempre scritto. Infine l'ultima, filosofa e mistica, capace di coniugare la verita' della kenosis e dell'Eucaristia fin dentro le piu' umili fibre della terra di cui si faceva carico, capace di fare della filosofia la carne ed il sangue di una liberta' incardinata nella responsabilita' fino a dare la vita in una terra non sua per un popolo divenuto suo, perche' appartenente ad ogni uomo e donna e' il popolo che cerca la liberta' e la dignita' e che morendo per la citta' dell'uomo erige con gioia il Corpo della citta' di Dio (Charles Peguy). * Femminilita' e creativita' Il principio femminile e' un principio creativo in quanto e' capace di generare sempre il novum dell'attesa e della speranza, ma la sua creativita' acquista, a nostro avviso, un forte significato etico in quanto si esplica come epiekeia, correctio legis, e da' origine ad un'ermeneutica rinnovata capace di trasgredire l'amore dei soli principi che, per dirla con Maritain, abita i monti vicino al fanatismo, in nome di una riscoperta del volto e dei volti. Solo il femminile, che sa la passione e la debolezza della vita indifesa puo' leggere nel volto e nei volti l'incondizionatezza del comandamento che recita Tu non ucciderai, leggendo cosi' il senso della fraternita' universale che lega l'umanita' intera. Il femminile sa scoprire l'uni-versalita' come multi-versalita', in quanto riesce a ricondurre ogni vita, ogni volto al principio comune, ma non totalizzante ed oggettivante, dell'umanita' e pure riesce a rispettarlo nella sua irriducibilita', lasciandolo essere nella sua stessa creaturalita'. Cio' implica la sua capacita' di spezzare ogni catena di violenza pur con il semplice gesto di dare un bicchiere d'acqua al piu' piccolo, incurante della divisa e dei reggimenti perche', come magistralmente scrive Ungaretti, "Di che reggimento siete, fratelli?". Cosi' il femminile nella sua tenace attenzione alle singolarita' prepara la strada alla pace. Come dire che la femminilita' in quanto categoria paradigmatica di una prassi rinnovata puo' essere coniugata con quella altrettanto pregnante di ospitalita', di cui cosi' ineccepibilmente ha parlato Jacques Derrida, uno dei piu' prestigiosi e suggestivi filosofi francesi di recente scomparso. Nelle sue riflessioni sulla societa' multietnica, il filosofo francese evidenzia con molto vigore che la legge dell'ospitalita' traguarda oltre il diritto. Lasciar venire lo straniero, infatti, significa aprire la propria dimora al di la' della reciprocita', all'altro assoluto, anonimo, forse sprovvisto di un nome ed un cognome ed accoglierlo senza domanda alcuna. Questo, pur nell'indigenza, e forse proprio perche' capace di sperimentare visceralmente l'indigenza, riesce a fare il femminile,inaugurando con questo accogliere incondizionato una nuova modalita' del vivere umano da cui la politica ha tutto da imparare. Si tratta di un gesto che oseremmo dire profetico, rispondente ad un appello e ad un imperativo Altro e piu' alto, tanto alto da essere intimo e familiare: "Ero straniero e mi avete ospitato". La profezia sta nel fatto che il semplice gesto dell'accoglienza e' in grado di aprire una prospettiva di ulteriorita' che interrompe l'etica fin troppo ristretta della terra e del sangue e che denuncia l'idea di una nuda vita resa anonima disponibilita' come accade negli stati di eccezione, divenuti ora, non tanto un paradigma geo-storico ma una sorta di prassi in atto, tacitamente in atto nei campi profughi (2). Una creativita' che reca il semplice segno della condivisione come riconoscimento di una dignita' che viene prima di tutto e dunque capace di essere istitutiva di un nuovo ordine nella societa', ovvero istituendo, quella sorta di ordo amoris capace di testimoniare un altro modo dell'ekumene. * Il femminile come grammatica della pace Il ricorso della parola nonviolenza che traduce la gandhiana satyagraha, sottende una poverta' lessicale che non e' riducibile alla sola grammatica, dato che il linguaggio denota una visione del mondo. La grammatica della pace di fatto langue e il non aver un linguaggio adeguato, ovvero il ricorrere ad un suffisso privativo dice che in realta' si e' anche in una sorta di indigenza concettuale le cui radici affondano in quanto Levinas sostiene: "La filosofia occidentale coincide con quel disvelamento dell'Altro in cui l'Altro, manifestandosi come essere, perde la propria alterita'. Sin dalla sua infanzia, la filosofia e' affetta da un orrore verso l'Altro che rimane Altro, da un'inguaribile allergia" (3). Tale esclusione reca in se' una radice di polemos che non lascia spazio al diverso, ma che, al contrario, opera l'esclusione. Cio' implica che il diverso, l'eteron, non solo non ha cittadinanza nel pensiero ma deve essere superato nell'identita' ontologica. Nonostante alcune variazioni molto significative nella tradizione filosofica, quali Plotino, ma gia' lo stesso Platone, il pensiero politico ha di fatto assunto tale caratteristica panlogistica tradotta in una vera e propria Weltanschauung. L'alterita' dell'altro viene oggettivata nel concetto e concentrata in un paradigma ottico: quello delle essenze astratte. Dunque una sola cosa e' l'essere ed il pensiero. L'interruzione dell'identita' e la stessa salvezza della filosofia nel suo radicarsi nella vita e' costituito dal pensiero femminile che non esiteremo a contrassegnare come il pensiero delle relazioni. L'esperienza del grembo dice gia' di una relazione nella quale l'altro e' lasciato essere, ed in cui si apprende a riconoscerlo nell'ascolto. Ecco dunque che il paradigma acroamatico od acustico fa battere in ritirata qualsiasi oggettivazione o reificazione dell'altro. Il lasciar essere l'altro che si esplica nell'ambito del femminile e' la cura di una vita irriducibile alla specie ed il riconoscimento di una dignita' che pur nella debolezza della sua an-archica nudita' (4) ingiunge nella fermezza l'etica della responsabilita'. Dunque, questa relazione, apparentemente duale, assurge invece ad un paradigma di apertura totale, dato che la responsabilita' per la concretezza di quella vita, di quel nome proprio, non si riduce alla reciprocita' dello scambio ma si esplica come un invio ad ogni concretezza, ad ogni nome proprio. Per questo motivo si e' alluso alla possibilita' di una diversa grammatica per cui la parola pace si coniuga con i termini di convivenza, di relazione, di armonia e riconoscimento delle differenze, di comunione dei volti. Riteniamo che si tratti di una koine' laica che, pero', prende bene le mosse dalla lettura di una teologia trinitaria contrassegnata dalla circumincessione e circuminsessione delle divine persone per cui si esplica il dinamismo dell'armonia di comunione nella diversita'. La pace, a partire dal femminile, assume la semantica della convivialita' e dell'ospitalita' intesa come un continuo farsi carico, un continuo esser pronti a rispondere responsabilmente portando in se stessi la ferita della persecuzione per parafrasare Levinas, spezzando il cerchio folle e distruttivo della vendetta, che troppo spesso diviene il bieco mascheramento della giustizia. Tale interruzione, come si diceva dianzi, ha nome perdono, inteso, pero', secondo la bella riflessione arendtiana (5), come capacita' di nuovo inizio nel quale e' contenuto quel potere della promessa per cui e' possibile sempre ed incessantemente il recupero dell'umanita' intangibile di ognuno sulla base di cui costruire un nuovo paradigma della civilta'. Il femminile e' capace di sancire,con la sua prassi, che un essere umano, nella dignita' della sua vita e' sempre piu' grande, trascendente, oseremmo dire, delle azioni che ha commesso, semplicemente perche' esprime una grandezza non misurabile ne' calcolabile che rinvia al senso universale della condizione umana. Allora il poter concludere che l'altro e' come me non suona piu' secondo la semantica della medesimezza che riduce l'alterita' ad un momento del soggetto assoluto, quanto invece la coscienza di una finitudine e di una fragilita' che pure sono sbilanciate sull'ulteriore, assetate di uno stesso senso e capaci di incontrare una stessa vivente Verita'. * Conclusione Si e' cercato di fare uno schizzo scabro circa la possibilita' di un pensiero della pace al femminile, ma crediamo si debba anche sottolineare che non si tratta tanto di una differenza di genere, quanto, al contrario, di una sempre differente Weltanschauung, dato che, dopo l'insegnamento junghiano, femminile e maschile non si riducono certo ad un mero biologismo. Per questo motivo si e' ritenuto opportuno rivisitare anche fondamentali categorie della teologia cristiana, perche' crediamo che, nonostante l'indubbia connotazione, esse dicano anche di una emblematica esperienza umana tout court come quella dell'accoglienza e del riconoscimento, nonche' quella di una partecipazione all'umana citta' che ha il sapore di un impegno perche' mai nessuna gioia si viva da soli, perche' ogni autentica giustizia sia molto di piu' di un mero distribuire, ma trovi nella misericordia il compimento; anche in questo caso misericordia puo' e deve avere la connotazione di un riconoscimento profondo dell'umanita' di ogni uomo, della creaturalita' che tutti accomuna e che, hoelderlinianamente, ci fa dialogo. * Note 1. Emmanuel Levinas, Totalite' et infini, 1971, trad. it. di Adriano Dell'Asta, Totalita' e infinito, Jaca Book, Milano 1977, p. 94. 2. Vorremmo qui rinviare alle belle riflessioni fatte dal filosofo italiano, ma ben noto all'estero per la sua genialita', Giorgio Agamben. 3. Emmanuel Levinas, En decouvrant l'existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1967, trad. it. di Federica Sossi, Scoprire l'esistenza con Husserl e Heidegger, Cortina, Milano 1998, pp. 216-217. 4. Si fa uso del termine an-archico nell'accezione levinassiana di indeducibile perche' oltre ogni deduzione. 5. Rinviamo alla bella opera di Hannah Arendt, The human condition, 1958, trad. it. di Sergio Finzi, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1964, 1988. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 100 del 3 maggio 2007 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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