Minime. 24



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 24 del 10 marzo 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Ci sta a cuore
2. Cecilia Strada: Donne in Afghanistan
3. Elena Pulcini: Luci ed ombre di una rivoluzione permanente. Sessant'anni
dopo il voto alle donne
4. Fosco Funesti: Una lettera del 1914
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. CI STA A CUORE
[Daniele Mastrogiacomo, giornalista, e' stato rapito alcuni giorni fa in
Afghanistan]

Ci sta a cuore la vita di Daniele Mastrogiacomo, la vita di ogni essere
umano.
*
Uccidere, ordinare di uccidere, comandare ad altre persone di uccidere e
farsi uccidere: non esiste crimine piu' atroce e piu' infame che provocare
la morte di esseri umani.
*
Che orrore un parlamento in cui le persone che votano contro la guerra
(quindi contro tutte le stragi, contro ogni terrorismo, contro tutte le
uccisioni) si contano sulle dita di una sola mano.
*
"L'Italia ripudia la guerra" afferma la legge fondamentale del nostro
ordinamento giuridico.
Un governo e un parlamento che deliberano la guerra (quindi le stragi, il
terrorismo, le uccisioni) sono fuorilegge; l'aula dove si fanno le leggi e'
ridotta a bivacco di manipoli.
*
Tu opponiti a tutte le uccisioni. Tu opponiti a tutte le guerre, a tutti i
terrorismi, a tutte le stragi. Tu difendi la vita di ogni essere umano.

2. MONDO. CECILIA STRADA: DONNE IN AFGHANISTAN
[Dal sito www.peacereporter.net riprendiamo il seguente articolo dell'8
marzo 2007.
Cecilia Strada, figlia di Gino Strada, impegnata in Emergency, e'
giornalista e documentarista]

Dal 2001 a oggi, qualcosa e' cambiato per la popolazione femminile in
Afghanistan. Diverse donne sono state elette all'Assemblea nazionale (tutte
pero', e' bene ricordarlo, grazie alle "quote rosa" e non perche' siano
state realmente premiate dal voto degli elettori), nelle citta' in molte
hanno potuto ricominciare a lavorare fuori casa, a studiare, a frequentare
gli spazi pubblici. Per la stragrande maggioranza di chi abita al di fuori
dei grossi centri urbani, tuttavia, sembra che il tempo non sia passato.
Ancora oggi, una donna che nasce in Afghanistan - chiamiamola Gulchi', con
nome di fiore - ancora prima di venire al mondo appartiene al padre. Nella
vita di tutti i giorni, e' il fratello a controllarla, accompagnandola e
sorvegliandola quando e' costretta a uscire di casa. Se il padre deve
assentarsi per lavoro, o se il padre muore, e' il fratello a diventare il
capo della famiglia e a disporre di lei. "Il fratello e' peggio del padre"
e' la frase di circostanza che le donne usano ogni volta che vengono a
conoscenza di qualche abuso perpetrato su una donna da parte del fratello.
*
Matrimoni forzati
Il matrimonio in Afghanistan perlopiu' non e' una faccenda di cuore, ma un
affare di famiglia: i matrimoni combinati sono all'ordine del giorno,
perche' dare in sposa le proprie figlie a questo o quell'altro gruppo
sociale serve a stringere legami di solidarieta' e cooperazione (e in
questo, notiamo, raramente i maschi hanno piu' liberta' di scelta rispetto
alle loro sorelle). Gulchi' quindi sposera' per scelta della sua famiglia,
in cui ha poca o nulla voce in capitolo, un uomo che attraverso il
matrimonio acquisisce il diritto di disporre della sua persona, del suo
lavoro e della sua capacita' riproduttiva. La dote, o shir baha, viene di
norma corrisposta alla famiglia della sposa, proprio nel momento in cui
questa lascia la casa del padre per trasferirsi con il nuovo marito. Questo
sistema, contrario peraltro alle disposizioni coraniche (secondo il Corano,
infatti, la dote spetta alla sposa, che ne dispone in completa liberta' e
non puo' essere costretta a cederla o alienarla contro la sua volonta') fa
si' che Gulchi' di fatto non possieda nulla in tutto l'arco della sua vita,
anche perche' tendenzialmente sara' costretta a lavorare in casa, ma non
potra' trovare un impiego al di fuori di essa. La condizione delle donne e'
ulteriormente complicata dalla tendenza, piuttosto frequente in Afghanistan
e pressoche' abituale per i gruppi pashtun, al matrimonio fra cugini primi,
e in particolare fra i figli di fratelli maschi. Nei matrimoni esogamici,
vale a dire quando si sposa qualcuno estraneo al proprio nucleo familiare, i
poteri del padre e del marito possono in qualche modo bilanciarsi allentando
la pressione sulla donna, che ha "piu' gioco" fra l'uno e l'altro per
ottenere maggiore liberta'. Al contrario, quello che succede quando ci si
sposa all'interno della famiglia, e' che il controllo sulla donna di fatto
raddoppia.
*
Suocere e mullah
All'interno della casa, che per una donna sposata e' quindi gran parte del
mondo, Gulchi' e' sottoposta all'autorita' della madre del marito: la
suocera dirige la casa, decide dell'educazione dei nipoti, da' ordini alle
nuore. La vecchiaia e' di fatto l'unico periodo della vita in cui una donna
acquisisce una forma di potere, per quanto limitato all'ambito domestico.
Ogni venerdi' della vita di Gulchi', invece, il mullah - figura religiosa
che a livello del villaggio incarna una serie di altre funzioni politiche e
di controllo sociale - puo' dettare le regole della sua liberta' dagli
altoparlanti della moschea, imponendo ad esempio restrizioni sui movimenti
delle donne, o sulla loro possibilita' di andare a scuola.
*
Lo spazio negato
E' bene ricordare che alle donne afgane lo spazio pubblico e' di norma
negato. Quando escono di casa lo possono attraversare, ad esempio per andare
a comprare qualcosa al mercato (accompagnate naturalmente da un uomo di
famiglia) o per raccogliere legna, ma non lo possono abitare: gli uomini si
fermano a chiacchierare al mercato, un diritto che le donne non hanno. Tutto
lo spazio e' diviso e organizzato in modo che uomini e donne appartenenti a
diverse famiglie non si possano mai incontrare. Ad esempio la strada e'
maschile, come il bazar e la moschea: le donne pregano tendenzialmente nelle
loro case. Gli spazi di necessita' comuni, come ad esempio il campo ed il
cimitero, possono essere luoghi "pericolosi": una regola non scritta,
quindi, ne regola l'accesso in tempi distinti, affinche' uomini e donne non
vi si possano incontrare. Nel caso dei funerali, alla sepoltura di un
parente (uomo o donna) possono partecipare solo gli uomini: le donne
rimangono a casa e possono recarsi al cimitero solo il giorno dopo, quando
gli uomini ne sono invece esclusi. Il primo giorno dell'anno afgano e' il
giorno della festa e dei pic-nic per tutti i maschi: le donne e i bambini
festeggiano il giorno dopo, quando prati e montagne sono precluse al sesso
opposto. La vita di una donna afgana, quindi, e' ancora oggi nelle mani
degli uomini - padri, mariti, fratelli, mullah.

3. RIFLESSIONE. ELENA PULCINI: LUCI ED OMBRE DI UNA RIVOLUZIONE PERMANENTE.
SESSANT'ANNI DOPO IL VOTO ALLE DONNE
[Ringraziamo Elena Pulcini (per contatti: e_pulcini at philos.unifi.it) per
averci messo a disposizione il seguente saggio pubblicato su "Iride", n. 49,
dicembre 2006.
Elena Pulcini e' docente di filosofia sociale all'Universita' di Firenze,
acuta saggista, da anni riflette su decisivi temi morali e politici in
dialogo con le esperienze piu' vive del pensiero delle donne, dei movimenti
solleciti del bene comune per l'umanita' e la biosfera, e della ricerca
filosofica, e specificamente assiologica, epistemologica e politica
contemporanea. Tra le opere di Elena Pulcini: La famiglia al crepuscolo,
Editori Riuniti, Roma 1987; Amour-passion e amore coniugale. Rousseau e
l'origine di un conflitto moderno, Marsilio, Venezia 1990; con P. Messeri (a
cura di), Immagini dell'impensabile. Ricerche interdisciplinari sulla guerra
nucleare, Marietti, Genova 1991; L'individuo senza passioni, Bollati
Boringhieri, Torino 2001; con Dimitri D'Andrea (a cura di), Filosofie della
globalizzazione, Ets, Pisa 2001, 2003; Il potere di unire, Bollati
Boringhieri, Torino 2003; con Mariapaola Fimiani, Vanna Gessa Kurotschka (a
cura di), Umano, post-umano, Editori Riuniti, Roma 2004]

1. In generale sono piuttosto scettica sul potere comunicativo delle
celebrazioni e delle riflessioni che hanno origine occasionalmente da un
centenario o da un anniversario simbolicamente significativo. Spesso c'e'
infatti il pericolo di una stanca formalita' che finisce per opacizzare i
contenuti sostanziali.
E questo e' un rischio che non voglio correre, trattando di un evento
rilevante come la ricorrenza dei 60 anni dalla conquista del diritto al voto
da parte delle donne. Provero' quindi a cogliere quest'occasione per
proporre qualche riflessione, che non rifugga dalla critica e da uno
schietto disincanto, sul percorso che, a partire da quell'ormai lontano 2
giugno 1946, ha caratterizzato la rivoluzione pacifica (e forse la piu'
incisiva) del '900.
Con il referendum istituzionale che chiama i cittadini a scegliere tra
Monarchia e Repubblica, le donne italiane, dopo una lunga serie di sconfitte
e con sensibile ritardo rispetto ad altri paesi (non solo occidentali),
ottengono di entrare a far parte dell'elettorato sia attivo che passivo; 21
di loro, inoltre, risulteranno elette nell'Assemblea costituente della nuova
Repubblica.
E' evidentemente un passaggio epocale che coincide, non a caso, con una
stagione felice della storia e della politica italiana, e che apre un varco
attraverso il quale potranno susseguirsi ulteriori e importanti tappe di un
cammino emancipativo tuttora in atto; nel quale converge un intreccio
straordinario di ragioni e di passioni, di mobilitazione collettiva e di
mediazione istituzionale, di coinvolgimento personale e di impegno politico,
di mutamenti culturali e di battaglie giuridiche.
Ogni conquista sul piano del diritto - ed e' forse questo uno dei tratti
distintivi della rivoluzione femminile - si presenta in altri termini come
l'esito di un intenso e capillare lavoro di discussione e di presa di
coscienza, che prima ancora di penetrare nelle istituzioni, scardina modelli
culturali e relazionali, decostruisce immagini consolidate, penetra nella
vita privata e interiore dei soggetti: scaturisce, in una parola, da un
movimento inarrestabile che, pur attraverso momenti di implosione e di
crisi, fornisce l'humus che andra' poi, di volta in volta, a depositarsi
nelle leggi.
Ricordiamone allora alcuni momenti decisivi: la legge sulla parita'
salariale tra uomini e donne del 1960; l'approvazione della legge sul
divorzio del 1970 che vede le donne attive protagoniste; la tutela della
maternita' alle lavoratrici dipendenti del 1971; la riforma del diritto di
famiglia del 1975 che introduce la parita' tra i sessi in ambito familiare
conferendo ad entrambi i coniugi la parita' sui figli; la legge sulla
parita' nel lavoro del 1977; quella del 1978 sulla interruzione volontaria
della gravidanza (la ben nota 194) che legittima la prevenzione delle
gravidanze indesiderate e pone fine all'aborto clandestino; la legge sulle
pari opportunita' per uomini e donne nell'ambito del lavoro e delle
professioni, del 1991; le nuove norme sulla violenza sessuale del 1996, le
quali stabiliscono che la violenza sessuale non e' piu' un delitto contro la
morale, ma contro la persona; la legge sui congedi parentali del 2000 che
estende la cura dei figli anche ai padri puntando ad una maggiore
condivisione dei compiti all'interno del nucleo familiare; le misure contro
la violenza nella relazioni familiari, del 2001, che stabilisce particolari
sanzioni per il coniuge violento.
Si tratta, indiscutibimente, di conquiste emancipative che hanno fortemente
dilatato gli spazi di autonomia e di liberta' per le donne, ridimensionando
il potere maschile e patriarcale e ponendole su un piano di parita' e di
uguaglianza con l'altro sesso. Ma non solo. L'acquisizione di determinati
diritti (basti pensare alla legge 194) e' anche l'evidente testimonianza
della battaglia, da parte delle donne, per l'affermazione di un principio
che va oltre la prospettiva puramente emancipativa ed egualitaria e che, in
Italia in particolare, ha visto una intensa fioritura a partire dal
femminismo degli anni '70; vale a dire l'affermazione della differenza, che
significa in prima istanza capacita' di autodeterminazione rispetto a
territori confinati per secoli alla zona oscura ed amorfa di una astorica e
destinale naturalita': come il corpo, la sessualita', la maternita'. Le
donne rivendicano cioe' il diritto a gestire da soggetti tutto cio' che la
cultura e la storia (maschili) hanno confinato nella sfera marginale del
privato - come la nascita, la vita, l'amore - rivelandone il profondo
significato simbolico e le stesse implicazioni politiche.
Tutto questo e' universalmente noto, anche perche' si tratta, appunto, di
trasformazioni dirompenti che hanno via via trovato il modo di coagularsi
nella sfera del diritto, producendo cosi' maggiore consapevolezza e
acquisendo maggiore autorevolezza; tanto da consentire alle donne quei nuovi
spazi di liberta' e di possibilita' che si sono progressivamente aperti
nella vita pubblica e nelle professioni, nella sfera privata e nella
politica, legittimandone una nuova dignita' di soggetti sia pubblici che
privati.
Tuttavia, sarebbe un errore valutare queste conquiste attraverso un'ottica
di illuministico ottimismo, per almeno due ragioni fondamentali: la prima e'
che ogni acquisizione non e' mai definitivamente data, ma e' esposta, sul
piano legislativo, a ciclici rischi regressivi o a interpretazioni
arbitrarie e distorte; la seconda e' che, anche laddove si tratta di
traguardi consolidati e indiscutibili, il diritto non e' sufficiente a
garantire alle donne un'autentica liberta'.
*
2. Il primo aspetto e' forse il piu' facile da dimostrare e il piu'
immediatamente visibile, almeno per chi segua con attenzione vicende che
purtroppo sono spesso oggetto di indifferenza e di rimozione.
Basti fare due esempi recenti e significativi.
Il primo riguarda la sentenza della Cassazione, emessa nel febbraio scorso,
che attenua la pena al patrigno stupratore perche' la ragazza aveva gia'
avuto in precedenza rapporti sessuali. Si tratta evidentemente di
un'intrepretazione del tutto discutibile, ma giuridicamente legittima della
legge sulla violenza sessuale che di fatto ne azzera il contenuto
emancipativo, ricadendo in pregiudizi a dir poco arcaici relativi alla
sessualita' femminile, la quale viene sempre ritenuta potenzialmente e
oscenamente colpevole.
Il secondo, ancora piu' macroscopico, riguarda gli attacchi, piu' o meno
espliciti e provenienti da vari settori del mondo politico, alla legge 194;
attacchi che hanno prodotto non a caso la piu' intensa mobilitazione delle
donne a cui si sia assistito negli ultimi anni, confluita simbolicamente
nella grande manifestazione del 14 gennaio 2006. Nonostante, infatti, il
consenso che eccezionalmente la legge sull'interruzione volontaria della
gravidanza ha ottenuto e continua ad ottenere da parte di donne parlamentari
di destra e di sinistra, essa torna ripetutamente ad essere rimessa in
discussione, raccogliendo in un magmatico crogiuolo i dissensi del mondo
cattolico e le ambiguita' della sinistra istituzionale; e confermando
l'impressione che tanto piu' fragile e precaria una data acquisizione sembra
essere quanto piu' e' incisiva per l'autonomia delle donne.
Nulla insomma e' mai definitivamente dato; e se e' vero che questa e' una
ovvia e universale verita', lo e' tanto piu' per le donne a causa della
pressione sotterranea e permanente che, a dispetto di un apparente e
compiaciuto progressismo, una mentalita' e una cultura regressive, sempre in
agguato, possono esercitare sul diritto.
Ma se, come dicevo, il rischio regressivo e' sotto gli occhi di tutti e
soprattutto non sembra sfuggire allo sguardo attento delle donne, ogni volta
pronte a mobilitarsi e a dare battaglia, piu' insidioso e sottile e' l'altro
aspetto che dovrebbe immunizzarci da ogni facile ottimismo, e che potremmo
riassumere nella insufficienza del diritto.
Basta infatti misurarlo con due ombre ineludibili che ne inficiano
l'efficacia: la violenza e il potere.
L'esistenza di determinate leggi che proteggono le donne da varie forme di
violenza non sembra granche' scalfire certe patologie sociali e culturali
che persistono nonostante tutto o che, in maniera apparentemente
inspiegabile, tornano addirittura ad acuirsi in determinati momenti; forse
proprio in quei momenti - e' legittimo il sospetto - in cui la liberta' e la
dignita' delle donne acquistano maggiore visibilita' e peso sociale.
Il diritto rischia in primo luogo di infrangersi contro la violenza, non nel
senso, si badi bene, che la seconda ne rappresenta sempre e comunque la
prevedibile e inevitabile trasgressione cui si risponde di rimando
attraverso sanzioni; ma nel senso, molto piu' tortuoso, che la violenza
sembra di fatto pervicacemente tornare ad azzerare quei valori e principi
che il diritto, quale coagulo di difficili e faticose lotte, tenta di
affermare.
Abbiamo assistito di recente al moltiplicarsi di episodi di violenza sulle
donne (gli stupri a Milano in agosto, la violenza sessuale a Roma e Napoli,
delitti d'amore e di gelosia, molestie e violenza in ambito domestico) che,
a dispetto delle conquiste giuridiche, sembra attraversare come un fiume
carsico una societa' per lo piu' indifferente e sempre incline a cadere
nella trappola dell'omerta'.
Si tratta inoltre di episodi che non e' certo possibile scaricare sulla
presenza "contaminante" di soggetti e culture altre, ancora dichiaratamente
fondate su un atavico potere patriarcale. Nonostante il chiasso massmediale
che e' stato fatto l'estate scorsa sul caso di Hina (uccisa da padre e
fratelli in quanto trasgressiva della legge islamica), quale evento
simbolico di una "arretratezza" e di una ferocia arcaica da cui l'occidente
illuminato sarebbe immune; e malgrado il dilagare del dibattito sulla
questione del "velo", dibattito spesso subdolamente connivente con il
pericoloso mito dello "scontro di civilta'", non e' possibile ignorare i
tanti episodi di violenza autenticamente nostrana che infestano le nostre
citta' consegnandole, soprattutto per quanto riguarda la popolazione
femminile, alla paura e all'insicurezza che spesso pervadono le stesse mura
domestiche.
Sappiamo infatti che la prima causa di morte e di invalidita' permanente per
le donne europee tra i 16 e i 44 anni e' la violenza dei mariti, dei
compagni, dei padri; che il 90% di stupri, maltrattamenti, violenze fisiche
e psicologiche degli uomini sulle donne avviene in casa; che ogni 4 minuti
in Italia, e ogni 90 secondi negli Stati Uniti una donna viene stuprata.
Insomma violenze e delitti di ogni sorta, a cui va tristemente ad
aggiungersi la lista recentissima e quanto mai inquietante della violenza
fra gli adolescenti, in cui quasi sempre la vittima e' una giovane teen-ager
che diventa malauguratamente ostaggio di piccoli bulli in cerca di una
distorta identita'.
Ma non solo. C'e' anche un altro tipo di violenza, meno eclatante e piu'
indiretta, ma non per questo meno efficace, che e' quella della
mercificazione e spettacolarizzazione dell'immagine e del corpo femminile
che continua indisturbata ad imporsi, veicolata attraverso schermi di ogni
tipo (la tv, il cinema, Internet); violenza tutt'altro che nuova, bensi'
coeva a quella "societa' dello spettacolo" che da tempo erode ogni contenuto
e valore, ma che attinge oggi nuovo vigore dall'imperversare di una logica
competitiva selvaggia, alimentata dal modello delle "sfide" televisive e del
"saranno famosi", spingendo le donne, soprattutto le piu' giovani, ad
inseguire il sogno postmoderno di almeno un frammento di visibilita'.
Da sponde apparentemente opposte, queste due forme di violenza finiscono di
fatto per convergere nel riconfermare, ancora una volta, quel pernicioso e
secolare pregiudizio che consiste nella identificazione delle donne con il
corpo, con il loro corpo.
Velato o scoperto, ammirato o violato, assoggettato o trasgressivo, il corpo
continua ad essere, sempre e comunque, il fondamento granitico su cui,
attraverso le culture, si costruisce l'identita' femminile la quale rischia
oggi di essere schiacciata nella desolante alternativa tra il "velo" e la
"velina", tra il dominio coercitivo della tradizione e quello morbidamente
pervasivo della postmodernita'.
Tutto questo vuol dire che il patriarcato non e' "finito" con l'introduzione
del nuovo diritto di famiglia, o con il riconoscimento della violenza
sessuale come delitto contro la persona (e non piu' contro la morale), o con
le norme sui congedi parentali. Passi importanti certo e, e' forse opportuno
ribadirlo per non offrire il fianco a possibili fraintendimenti, passi
assolutamente necessari; e tuttavia non sufficienti.
Ne e' ulteriore testimonianza il fatto che la patologia della violenza non
e', come ho premesso, l'unico terreno nel quale viene messa alla prova
l'efficacia del diritto. Questo sembra infatti incorrere in un'altra
difficolta', se non in un altro scacco, che riguarda il suo impatto con il
potere e con le sue congenite anomalie.
Se e' vero che, per esempio, la legge sulla parita' del lavoro e quella
sulle pari opportunita' hanno aperto alle donne l'accesso a ruoli
professionali e istituzionali prima unicamente riservati al sesso maschile,
e' anche vero che spesso questa apertura si rivela, almeno in parte,
illusoria. Quella che si afferma infatti, in modo strisciante e nel migliore
dei casi inconsapevole, e' una sorta di automatica svalutazione delle donne
la quale fa si' che, nei luoghi di lavoro o nelle stanze alte della
politica, esse vengano per lo piu' tenute ai margini, bloccate di fatto
nella carriera o confinate in ruoli secondari; e spesso costrette, per
sottrarsi a questa sorta di condanna alla mediocrita', ad una caricaturale
mimesi del maschile che ne mortifica l'identita' e ne impoverisce le
potenzialita'. A questo ostacolo invisibile che tiene le donne al di sotto
di quella soglia oltre la quale soltanto si da' l'accesso reale al potere
inteso sia come prestigio sia come disponibilita' e gestione delle risorse,
e' stato dato il suggestivo ed eloquente nome di "soffitto di cristallo":
una barriera che non permette di toccare cio' che allo stesso tempo consente
di vedere creando un'illusione di accessibilita'.
Questo non vuol dire che si debbano sottovalutare i pur consistenti successi
delle donne nei vari settori del sociale - dalla magistratura
all'universita', dalle professioni all'imprenditoria - dove negli ultimi 15
anni in Italia esse hanno ottenuto anche incarichi di responsabilita'. Non
possiamo inoltre non rallegrarci di fronte alle dichiarazioni recenti del
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che invita i partiti a dare
maggiore spazio alle donne in ruoli dirigenziali.
Il fatto e', pero', che molto cammino c'e' ancora da fare; e che non bastano
neppure successi a livello internazionale, come una Hillary Clinton o una
Segolene Royal in odore di presidenza, per scardinare il pregiudizio diffuso
di una inadeguatezza delle donne a ricoprire posizioni di potere; come
migliaia di loro sperimentano ogni giorno nei luoghi del lavoro e della
politica, oppresse dalla lotta impari per un riconoscimento di
"eccellenza" - nuova e pericolosa parola d'ordine! - che quasi sempre
stenta, nonostante i meriti, ad arrivare.
Certo, non si puo' negare che forse una delle ragioni di questa marginalita'
sia da rintracciare nel complesso e tormentato rapporto delle donne stesse
col potere, nella loro difficolta' ad identificarsi con la logica
competitiva e stritolante che spesso la gestione del potere richiede, nella
loro refrattarieta' al compromesso e nelle loro paure dei costi personali
che necessariamente si pagano quando si arriva ai piani elevati della
dirigenza.
Ma la verita' di questa ambivalenza non legittima il pregiudizio; e
soprattutto, come provero' a suggerire piu' avanti, in questa ambivalenza,
in questo scarto tra il volere e il non volere, tra il gestire e il non
identificarsi, puo' risiedere uno dei punti di forza delle donne, laddove
accettino davvero di rompere il tabu' del potere.
Tornando al diritto e alla sua insufficienza, si potrebbe allora proporre
una prima osservazione conclusiva: il diritto non basta se non si e'
realmente capaci di esercitare i diritti che esso consente di acquisire,
modificando allo stesso tempo pregiudizi culturali e scompigliando le
logiche sottilmente gerarchiche delle relazioni personali, decostruendo
immagini consolidate e denunciando l'inconsistenza di certe presunte
verita', correndo il rischio di scardinare in primo luogo nella propria
interiorita' la potenza narcotizzante dell'ovvio.
Mi pare molto feconda, a questo proposito, la distinzione, proposta da
Amartya Sen e (con particolare riferimento alle donne) da Martha Nussbaum,
tra diritti e "capacita'", dove il secondo termine allude, appunto, non solo
a cio' che ci viene riconosciuto e legittimamente attribuito ma anche a cio'
che siamo effettivamente in grado di fare per realizzare la nostra dignita'
di persone e cambiare in meglio le nostre vite; o per dirla con le parole
stesse di Nussbaum, allude a "cio' che le persone realmente sono in grado di
fare e di essere, avendo come modello l'idea intuitiva di una vita che sia
degna della dignita' di un essere umano" (Nussbaum, Diventare persone, Il
Mulino, 2001).
Proprio le donne (e non solo quelle dei paesi non occidentali, a cui
Nussbaum specificamente si riferisce) mostrano spesso come si possano avere
dei diritti, legalmente e formalmente attribuiti, senza possedere la
capacita' di esercitarli, di farne uso; a causa, vorrei ribadire, della
discrasia fra la sfera giuridica da un lato e quella culturale, emotiva,
simbolica dall'altro.
Acquisire capacita' significa colmare quella discrasia, attraverso un lavoro
incessante e capillare di trasformazione a tutto campo che spezzi le
resistenze di una cultura  profondamente radicata nella psiche e
nell'immaginario dei soggetti.
*
3. Ma e' importante che nel fare questo, le donne non dimentichino di
valorizzare la loro differenza. Questa non e', si badi bene, da intendersi
in senso naturale e biologico, come cio' che le inchioda a determinati
valori, qualita', comportamenti che finirebbero per ricostituire una
identita' "femminile" rigida e coercitiva e per riprodurre, magari con un
rovesciamento di segno e di valore, quel dualismo sessuale che e' stato
sapientemente costruito, per secoli, dal pensiero patriarcale.
Inoltre, valorizzare la differenza non implica solo, come accennavo sopra,
esercitare la propria capacita' di autodeterminazione su tutto cio' che
riguarda il corpo, la sessualita', la vita. Ma vuol dire soprattutto
valorizzare la capacita' di differenziarsi, di disidentificarsi dai modelli
egemoni della cultura, della politica, della famiglia, svelandone le
contraddizioni e le logiche gerarchiche, le aporie e le patologie. In
questo, le donne conservano un vantaggio che deriva dalla loro stessa storia
di esclusioni, di silenzi, di marginalizzazioni; una storia da interrogare,
da decostruire, da rovesciare, per porsi in una posizione critica verso la
presunta ovvieta' dei modelli consolidati e la protervia delle logiche di
potere e di dominio; e per poter pensare prospettive e modelli alternativi.
E in fondo e' proprio questo che le donne, e le migliori versioni del
femminismo, hanno fatto in questi ultimi decenni: opponendo al soggetto
neutro e logocentrico della modernita' un soggetto incarnato e contestuale,
integrando l'etica dei diritti con quella della responsabilita' e della
cura, innervando l'astrattezza del pensiero con la pratica dell'esperienza,
disvelando la valenza politica del privato, rivitalizzando l'astratto
formalismo della ragione con la potenza della passione, criticando il
modello individualistico della soggettivita' attraverso l'attenzione al
momento della relazione.
Tutto questo costituisce il bagaglio vitale da portare sempre con se', come
una sorta di handbag, di prezioso accessorio del quale non si puo' fare a
meno in nessuno dei molteplici ruoli che le donne oggi si trovano a
ricoprire e che spesso fanno fatica a conciliare, rischiando a volte di
cadere esse stesse in una logica settoriale che finirebbe per impoverire la
ricchezza delle loro potenzialita'.
Questo bagaglio, peraltro faticosamente acquisito, non puo' essere lasciato
a casa neppure nel momento in cui si accede a posizioni di potere, si entra
nella politica, si assumono posizioni di responsabilita' pubblica.
Se e' piu' che legittimo aspirare all'ampliamento dei diritti, al
consolidamento della cittadinanza e ad un ingresso nei vertici della
politica, bisogna essere consapevoli del fatto che non basta lottare per una
presenza numericamente maggiore delle donne. Il problema, detto banalmente,
non e' solo quantitativo, ma qualitativo; riguarda cioe' i contenuti che le
donne intendono portare nella politica. Il problema cioe' e' come far
trasmigrare nella politica i contenuti eversivi del movimento delle donne,
tenendo sempre aperto il bagaglio a mano che custodisce tutto cio' che dalla
politica - sempre piu' incline ad essere, nel migliore dei casi, pura
mediazione degli interessi, e nel peggiore, strumento di difesa di interessi
particolaristici - e' stato finora, e prevalentemente, tenuto fuori:
l'attenzione al contesto, alla cooperazione, alla singolarita', alla
relazione, alla solidarieta'.
Forse un valido aiuto in questo senso puo' provenire proprio, come accennavo
sopra, da quella che spesso viene giudicata come una debolezza delle donne:
vale a dire la loro ambivalenza, la loro tendenza a collocarsi sempre in una
soglia tra il "dentro" e il "fuori", la loro difficolta' di identificarsi
col potere. E' infatti in questa ambivalenza, in questo scarto, che trova
spazio la memoria di cio' che potrebbe essere altrimenti. E' in questo
scarto che puo' prendere corpo l'ambizione, non liquidabile cinicamente come
ingenua utopia, a migliorare le cose, cominciando con l'irrompere in modo
irriverente nelle stanche formalita' della politica, col rifiutarne i
linguaggi artificiosi, col denunciarne le modalita' non trasparenti, e
soprattutto la prevalente indifferenza verso (e spero non mi si accusi di
retorica) il bene comune.
Abitare questo scarto - che, certo, richiede l'abilita' rocambolesca del
funambolo nietzscheano! - vuol dire, appunto, accettare di far parte del
gioco, conservando pero', allo stesso tempo, quella capacita' di non
identificazione che, forse, sola consente di immaginare qualcosa di diverso,
di proporre alternative; o per dirla con un pensatore purtroppo obsoleto
come Ernst Bloch, di coltivare quella speranza o desiderio del meglio che
oggi sembra aver decisamente ceduto il passo alla vuota ideologia del qui ed
ora.
*
4. Tenere aperto questo scarto significa inoltre mantenere la necessaria
distanza dalle cose che consente di poter individuare quelli che sono i
problemi e le sfide cruciali in un mondo sempre piu' caratterizzato dalla
cifra della complessita': problemi e sfide che spesso non arrivano ad avere
il dovuto risalto nell'agenda della politica ufficiale e della discussione
pubblica, sebbene siano, paradossalmente, la testimonianza di mutamenti o
sconvolgimenti epocali che richiederebbero il massimo stato di allerta e di
attenzione.
La lista, a questo proposito sarebbe tutt'altro che breve, ma mi limitero' a
segnalare due problemi fortemente rappresentativi.
Penso per esempio al problema dell'ambiente (dalla minaccia nucleare al
global warming) che, pur investendo il destino dell'umanita' e dell'intero
pianeta e delle generazioni future, sembra cadere per lo piu' in una
generale indifferenza, contro la quale, data anche la loro ontologica
familiarita' con la cura della vita, potrebbe forse mobilitarsi l'attenzione
e la pratica delle donne.
E penso anche ad un'altra e inquietante sfida, sulla quale vorrei, sia pure
rapidamente, soffermarmi in quanto riguarda piu' direttamente le donne:
quella che proviene dall'enorme incremento del potere della tecnica e dal
pericolo ad esso intrinseco di colonizzazione della vita.
Non si tratta qui di schierarsi pro o contro le innovazioni prodotte dallo
sviluppo tecnologico. E' opportuno anzi ribadire il carattere spesso
fuorviante del dibattito contemporaneo, laddove finisce per arenarsi nelle
strettoie di una falsa e sterile alternativa tra tecnofobia e tecnofilia.
Il punto semmai e' tentare di mostrare come anche in questo caso ci
imbattiamo in quella che ho definito l'insufficienza del diritto.
Provero' dunque a farlo con un esempio, relativo ad un evento recente, che
ritengo particolarmente significativo: il referendum del 2005 relativo alla
legge sulla procreazione assistita.
Non ho mai messo in discussione, sia chiaro, la necessita' del consenso al
"si'" come voto politico ne' l'importanza di difendere una legge
qualificante per l'autonomia delle donne. Ma il problema, appunto, sta nel
fatto che il dibattito ha finito per polarizzarsi, anche da parte delle
donne, nello scontro tra fautori del "si'", e sostenitori del "no"; in
un'alternativa riduttiva che ha di fatto oscurato la complessita' e la
profondita' dei problemi che ne costituivano la posta in gioco.
E la posta in gioco, per dirla con Barbara Duden (Il gene in testa e il feto
nel grembo, Bollati Boringhieri 2006), e' nientemeno che il pericolo di un
"monopolio del pensiero tecnologico" e di nuovi e piu' sottili
assoggettamenti a cui le donne sono di fatto esposte in virtu' del carattere
espropriativo ed invasivo delle biotecnologie. La posta in gioco sta nella
progressiva riduzione del corpo, privato della sua qualita' di "corpo
vissuto", a "corpo-carne", puro ammasso biologico di cellule e organi, e a
"corpo diagnosticato", oggetto di illimitate intrusioni e manipolazioni.
Manipolazioni  che rischiano non solo di privare le donne di quello che e'
il loro potere per eccellenza - il potere di generare - ma anche di incidere
perversamente e seduttivamente sui loro stessi desideri: di orientarli cioe'
secondo gli imperativi del discorso tecnologico, secondo la parola d'ordine,
a quest'ultimo sottesa, del "cio' che si puo' fare si deve fare".
Se la lotta delle donne per la soddisfazione del desiderio di maternita' e'
sacrosanta, non si puo', pero', sottovalutare il fatto che le forme della
sua realizzazione non sono neutrali e innocenti, ma profondamente
compromesse con le logiche pericolosamente totalizzanti di un potere
tecnologico che spaccia per desiderio delle donne cio' che invece e' solo
l'esito indotto dalla sua vocazione al controllo e all'illimitatezza; e che
sa rendere opache persino le eventuali alternative all'abbagliante range
delle sue offerte.
Poco di tutto questo e' venuto alla luce durante i giorni della febbrile
campagna referendaria, nonostante che non manchino, nel femminismo italiano,
voci di denuncia dei pericoli riduzionistici e invasivi delle biotecnologie
(penso, tra le altre, alle riflessioni di Maria Luisa Boccia); e nonostante
che comincino ad emergere spunti di analisi critica di quel processo di
de-corporeizzazione del vivente nel quale sembra realizzarsi uno dei miti
piu' inquietanti dell'immaginario tecnico-scientifico occidentale.
Sottrarsi all'ordine simbolico della tecnica e alla sua insidiosa
seduttivita', significa, in primo luogo per le donne, ridiventare soggetti,
del proprio corpo e dei propri desideri, magari per riscoprire o inventare
nuove e diverse possibilita'; e soprattutto per far si' che la legittima
acquisizione di un diritto non si traduca, paradossalmente, in una passiva
acquiescenza agli imperativi del discorso tecnologico e, di conseguenza, in
una lesione della propria identita' e in un indebolimento del proprio
potere.
Questo non vuol dire che non si debba gioire della vittoria ottenuta. Vuol
dire pero' acquisire la consapevolezza che il diritto puo' diventare tanto
piu' efficace quanto piu' si e' in grado di riconoscerne i limiti; quanto
piu' si e' in grado di confrontarsi a tutto campo, sul piano culturale e
psicologico, etico e simbolico, con i problemi, spesso tortuosi ed
immensamente delicati, rispetto ai quali esso, pur creando il preliminare e
indispensabile terreno per una libera discussione, non puo' pero' fornire
risposte pienamente risolutive.
La soluzione puo' venire solo dall'incessante e instancabile presa di
coscienza delle donne, dal loro coraggio di confrontarsi anche con le piu'
scomode verita' e, soprattutto, da quella capacita' di discutere e di
confrontarsi che rappresenta la permanente testimonianza della loro voglia
di condivisione, della loro capacita' di stare in relazione.
"Usciamo dal silenzio" e' lo slogan che ha attraversato il proliferare di
incontri, manifestazioni, dibattiti seguiti alla manifestazione del gennaio
2006 in difesa della  legge 194. Ma - si potrebbe obiettare -  non l'avevamo
gia' fatto in quel lontano 1946? In realta' si tratta di un compito senza
fine che ogni volta si rinnova, deve rinnovarsi, per tornare a riaffermare
quella capacita' di riconoscere e di affrontare sfide inedite, nella quale
risiede il cuore stesso di una rivoluzione permanente.

4. LE PAROLE E LE COSE. FOSCO FUNESTI: UNA LETTERA DEL 1914
[Ringraziamo il nostro buon amico Fosco Funesti per averci messo a
disposizione questa ingiallita lettera]

"Yo os aconsejo, mas bien, una posicion esceptica frente al escepticismo"
(Antonio Machado, Juan de Mairena, XVII)

Ricordo ancora, Aristo, quel morale
discorrere tra noi nell'altro inverno:
dicevi che la guerra e' sempre un male
e che le armi recano l'inferno

nulla si salva dall'orgia mortale
di guerra, tutto e' rotto in sempiterno
la guerra e' il crimine piu' colossale.
Cosi' dicevi. Ed ora sei al governo

e dici che la guerra e' buona e giusta
le nostre armi benedette, i morti
modico prezzo al trionfar del nostro

dominio su quei barbari, e la frusta
l'emblema e lo strumento di noi forti.
Specchiati Aristo, il tuo volto ora e' un rostro.

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell’ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell’uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 24 del 10 marzo 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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