La nonviolenza e' in cammino. 1478



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1478 del 13 novembre 2006

Sommario di questo numero:
1. Osvaldo Caffianchi: Tu pensi
2. Letture: Ivan Illich, Elogio della bicicletta
3. Bruna Peyrot: Dell'educare come nonviolenza
4. L'agenda "Giorni nonviolenti" 2007
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. OSVALDO CAFFIANCHI: TU PENSI

Tu pensi di vedere un incendio da lontano
e invece le fiamme sono gia' qui.

2. LETTURE. IVAN ILLICH: ELOGIO DELLA BICICLETTA
Ivan Illich, Elogio della bicicletta, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp.
102, euro 7. Di questo breve saggio di Ivan Illich su "energia, velocita' e
giustizia sociale" (cosi' il titolo dell'edizione originale francese)
raccomandiamo vivissimamente la lettura.

3. RIFLESSIONE. BRUNA PEYROT: DELL'EDUCARE COME NONVIOLENZA
[Ringraziamo Bruna Peyrot (per contatti: peyrotb at libero.it) per averci messo
a disposizione il testo del capitolo nono, "Nona consapevolezza.
Dell'educare come nonviolenza", del suo libro La cittadinanza interiore,
Citta' aperta, Troina (Enna) 2006, alle pp. 113-130. Bruna Peyrot, torinese,
scrittrice, studiosa di storica sociale, conduce da anni ricerche sulle
identita' e le memorie culturali; collaboratrice di periodici e riviste,
vincitrice di premi letterari, autrice di vari libri; vive attualmente in
Brasile. Si interessa da anni al rapporto politica-spiritualita' che emerge
da molti dei suoi libri, prima dedicati alla identita' e alla storia di
valdesi italiani, poi all'area latinoamericana nella quale si e' occupata e
si occupa della genesi dei processi democratici. Tra le sue opere: La roccia
dove Dio chiama. Viaggio nella memoria valdese fra oralita' e scrittura,
Forni, 1990; Vite discrete. Corpi e immagini di donne valdesi, Rosenberg &
Sellier, 1993; Storia di una curatrice d'anime, Giunti, 1995; Prigioniere
della Torre. Dall'assolutismo alla tolleranza nel Settecento francese,
Giunti, 1997; Dalla Scrittura alle scritture, Rosenberg & Sellier, 1998; Una
donna nomade: Miriam Castiglione, una protestante in Puglia, Edizioni
Lavoro, 2000; Mujeres. Donne colombiane fra politica e spiritualita', Citta'
Aperta, 2002; La democrazia nel Brasile di Lula. Tarso Genro: da esiliato a
ministro, Citta' Aperta, 2004; La cittadinanza interiore, Citta' Aperta,
2006]

Dire che la democrazia e' un ragionamento significa necessariamente
destinarla a diventare oggetto di educazione che coinvolge, ma non solo, le
nuove generazioni. Un processo educativo procede sempre attraverso
insegnamenti e situazioni pedagogiche, in cui i primi compromettono le
personalita' individuali, mentre le seconde agiscono in spazi pubblici. Due
insegnamenti imprescindibili per fondare la democrazia nel ventunesimo
secolo sono: la storia nonviolenta del mondo e l'interculturalita'. Due
situazioni che radicano la democrazia sono: saper praticare la politica e
trovare luoghi riconosciuti per farla. Educare con questi riferimenti
significa riportare al  suo vero significato la parola "soggetto":
sub-iectum, stare sotto se stesso. Essere padrone di se stessi, tuttavia, e'
un atto difficile da compiere in solitudine, perche' "la ghianda ha bisogno
di un mentore" (1), il nucleo speciale che e' in ognuno di noi, il nostro
contributo originale al mondo non schiude da solo. Ha bisogno di un
accompagnamento per trovare la propria forma affinche' il disegno di una
nuova persona sia compiuto. Il rapporto educativo che lo forgia deve percio'
essere ispirato da "un eros di reciproca fiducia" fra maestro e allievo,
perche' insegnare "e' toccare cio' che vi e' di piu' serio in un essere
umano" (2), cio' che permette l'accesso alla sua integrita' piu' intima.
La nona consapevolezza che propongo riguarda, dunque, il valore dell'educare
e dell'insegnare. Dell'educare inteso nella sua radice originaria: ex-duco,
conduco fuori, aiuto a uscire da se stessi con un atto che impone
l'autoriflessione. Dell'insegnare inteso nel suo valore piu' reale:
in-signare, lasciare segni, lanciare semi che poi fruttificano sull'albero
della vita che ci e' affidata. Socrate e Gesu' sono i primi maestri
dell'educare, insegnando. Socrate scava lo sconosciuto, o meglio
l'apparentemente conosciuto, con domande in risposta a domande, le quali,
come una lunga scala, gradino dopo gradino, accompagnano verso la
consapevolezza di un'idea. Gesu' insegna con un gesto parabolico che inverte
la tradizione e il gia' compiuto fino a quel momento. Lanciare la prima
pietra, lavare i piedi, oppure - gesto bellissimo -  scrivere con il dito
sulla polvere (Giovanni 8, 1-8), regalano, rompendo schemi di pensiero
abituale, significanze immediate che tutti possono comprendere.
Insegnare non e' trasmettere pillole di sapere. A tutta la storia della
pedagogia, da John Dewey a Gianni Rodari, e ancora prima, da Comenio e
Rousseau,  interessa l'anima degli educandi, importa entrare nelle loro
soggettivita' attraverso la convinzione, cercare il "punto - ponte" dove
lasciar filtrare il raggio della comunicazione fra due esseri. Solo con lo
stabilirsi di un rapporto fra individui, fra corpi, fra persone, puo'
passare, infatti, il messaggio educativo che porta conoscenza.
"Democrazia e' amore", dice Luce Irigaray e comincia dalla coppia. Dal "due"
inizia il nostro piegarsi alle ragioni dell'"altro", primo fra tutti, allo
sguardo dei genitori. La democrazia germina sin dall'intimita' di un atto
d'amore e si allarga a tutti i rapporti che in seguito si sperimentano,
soprattutto nel legame fra donne e uomini, perche' "una relazione sbagliata
fra loro rappresenta la fonte di molti poteri antidemocratici. Senza
trasformare questo piu' quotidiano tra noi, non cambieremo il pianeta" (3).
*
Noi e il pianeta: e' un'altra fondamentale relazione da tenere presente
nell'educare che, fra i suoi compiti, ha in primo luogo quello di dedicarsi
all'umanita'. Lo spiega Edgar Morin attraverso i "sette saperi necessari
all'educazione del futuro" (4): l'incompletezza della conoscenza, la
capacita' di raccogliere informazioni sul mondo, la condizione umana,
l'identita' terrestre, il sapere affrontare le incertezze, la comprensione e
infine l'etica del genere umano. La storia nonviolenta del mondo e
l'Interculturalita', che ho proposto per consolidare l'educazione alla
democrazia, si conciliano molto bene con gli ultimi due saperi indicati da
Morin. Insegnare la comprensione, infatti, assicura "la garanzia della
solidarieta' intellettuale e morale dell'umanita'" (5). Insegnare l'etica
del genere umano avvalora invece la "coscienza individuale oltre
l'individualita'" (6) che implica la volonta', non timorosa, di scommettere
sull'incerto. Non sono obiettivi raggiungibili con l'applicazione di
semplici ricette educative. Solo l'insegnare il dubbio, l'allenare al
dissenso, l'accettare i contrari, il preparare alle separazioni come salti
dovuti alla crescita, equipaggiano la vita, nell'andirivieni continuo dalla
"casa" verso il mondo. Queste ripetute traiettorie aggiungono parole nuove
alla comprensione del genere umano, piegato dalla "didattica della
sensatezza" (7), a rinascere all'adultita' dentro una relazione
responsabile, in cui le parole dirette al prossimo sono misurate sul
principio del rispetto.
*
Per costruire una societa' pacifica, ogni popolo non puo' ignorare le
proprie storie di guerra. Per questo motivo, ogni agenzia formativa, in
primo luogo le scuole, le universita', gli istituti culturali, ma anche le
chiese e i partiti, non possono esimersi dall'interrogare i modi in cui e'
avvenuta la trasmissione del passato alle nuove generazioni, perche' la
guerra insegna guerra, anche se combattuta per una buona ragione (ma c'e'
una buona ragione oggi per fare guerra?). L'esperienza della guerra produce
uomini che conservano nel profondo di loro stessi la legge indelebile che le
soluzioni ai conflitti passano per metodi violenti, e questo pensiero e'
trasmesso, in modo cosciente o inconscio, ai figli. La guerra insegna mondi
divisi fra amici e nemici, questi ultimi situati oltre una frontiera,
definita da coloro che hanno deciso la guerra, anche se la complicita' del
soldato con la logica del combattimento puo' indurre a forme di mistica
estatica, come accadde a molti nella prima guerra mondiale (8).
"La guerra e' normale" (9), proclama Hillman, anzi, un amore. Non possiamo
capirla se non ammettiamo la sua attrazione. L'uso di  metafore bellicose
per descrivere la vita quotidiana e' un esempio della permeabilita' del suo
fascino, che "la normazione dell'irragionevole" (10) contenuta nei miti
tenta di spiegare. Infatti, la storia di Marte e Venere, amanti sorpresi da
Efesto marito della dea, insegna che "l'uno colma un vuoto dell'altro e
viceversa, espresso allegoricamente nella figlia nata dalla loro unione:
Armonia" (11). Marte e Venere, guerra e amore, raffigurano una possibile
unione archetipica per gli umani, testimoniata dal fatto che anche la guerra
suscita passioni e permette comportamenti amorosi, come parte della
letteratura in merito documenta: amore per il compagno, il vicino, il
proprio capo, persino, a volte, per il nemico, figura che mobilita le
energie in slanci epici. Al mito della guerra impresso nella psiche
individuale e collettiva, la democrazia puo' opporre un ragionamento
educativo per sottrarre, a poco a poco, al buio dell'irragionevole le forze
che forgiano le immagini del nemico. Solo l'educazione ad accendere la luce
sulle nostre paure puo' pulire gli atavici anfratti d'attrazione verso cio'
che distrugge il creduto nemico sul nostro cammino.
*
La cultura della pace pretende lunghi processi educativi che non possono
essere improvvisati. Il loro insegnamento richiede un impegno in grado di
affrontare i molteplici aspetti delle culture nazionali, in particolare le
varie forme della comunicazione sociale, poiche' la lingua ormai non e' piu'
un luogo di verita' per l'esperienza. La democrazia comincia dal proprio
vicino, prima di diventare la forma di governo di un paese, nei gesti
quotidiani di ognuno di noi sperimentati nell'azione sociale. Solo un
costante apprendistato garantisce un'etica sana del potere, inteso come
servizio reso alla comunita' di appartenenza. Le basi di tale addestramento
risiedono nelle pratiche del presente e nella trasmissione di un passato di
altruismi. La proposta, dunque, e' di cercare episodi di riconciliazione
dentro storie di contrapposizione, dalle seicentesche guerre religiose alla
Resistenza al nazifascismo. Potrebbe significare cercare il classico ago nel
pagliaio, che se e' difficile da scovare non vuol dire che non esista.
Storie simili sono antesignane di una storia laica dei valori del mondo, da
scrivere per un'umanita' che ha fallito nel narrare tracce di pace che pur
sono state lasciate. In ogni tradizione politica, in Oriente come in
Occidente, a Sud come a Nord, si trovano esempi di tolleranza. La proposta
e' di situarli in un unico racconto. Solo cosi' la storia dell'umanita' puo'
essere riformulata oltre i segmenti nazionali, etnici, continentali in cui
e' stata letta. Una scommessa educativa idonea al XXI secolo non puo' che
intraprendere questo arduo cammino per congiungere, in un nuovo racconto
"globale" (del globo, appunto), le trame sepolte di un'umanita' vissuta in
giustizia e tenerezza con il proprio simile. Sogno? Utopia? Forse solo una
grande sfida educativa e politica, che da' significato all'essere abitanti
di questa terra nel nostro misero quarto d'ora di storia, spesso sprecato
nell'inessenzialita'.
*
Potremmo cominciare, per esempio, ripensando la Resistenza al nazifascismo,
con l'obiettivo di scoprire lo spirito che ha  costruito la societa' europea
dell'ultimo mezzo secolo, travagliata da laceranti contraddizioni sociali,
dalle emigrazioni del sud del mondo all'inasprirsi di una convivenza civile
ridisegnata spesso su afflati etnici conflittuali. Nonostante queste acute
polarizzazioni, l'Europa, soprattutto dopo lo "strappo" della seconda guerra
mondiale, e' diventata consapevole di abitare "uno spazio condiviso, aperto
a una conflittualita', che puo' diventare guerra civile ma anche polemos
democratico e, dunque, spazio e apertura di un dialogo" (12). Come proporre,
allora, una lettura dell'antifascismo, che ha usato la violenza delle armi
per ristabilire la democrazia, e che non poteva essere che cosi', vista la
forza immane dell'avversario e lo stato delle consapevolezze dell'epoca?
Come raccontare la Resistenza,  consapevoli dell'asimmetria inconciliabile
fra democrazie e sistemi totalitari, ma al tempo stesso che la morale non
puo' essere prerogativa di una sola parte? Come raccontare la Resistenza,
senza lasciare nei giovani l'idea che i cambiamenti passano per una
rivoluzione violenta? Come coltivare i valori dell'antifascismo e nello
stesso tempo della nonviolenza? Non credo sia opera facile, e sarebbe gia'
importante chiedersi, per quanto riguarda l'Italia, come questi stessi
valori sono stati trasmessi nella scuola e sostenuti nella collettivita'
nazionale. Costruire un confronto pacifico non richiede pochi giorni e forse
siamo gia' in ritardo per molte coscienze, abituate ormai a considerare le
guerre alla stregua di un videogioco.
Eppure, dentro la storia della Resistenza europea sono germinati nuovi modi
di pensare. "Nessuno finora ha parlato della Resistenza come della stagione
in cui sono state scritte, pensate o salvate opere straordinarie nel campo
della letteratura, delle arti figurative, della filosofia oltre che della
storia. Nessuno si accorto che, durante il secondo conflitto mondiale, in
particolare le Alpi sono state un rifugio, un luogo di battaglia, talora
trappola, ma anche un laboratorio di idee, un luogo di elevazione
spirituale, che ha modificato il volto del pensiero europeo" (13).
Cavaglion ricorda Gueret in Francia, dove Marc Bloch ha composto l'Apologia
della storia o mestiere di storico, dalla quale molti hanno ricevuto
l'innamoramento per la storia, quella che non si limita a elencare gli
eventi, ma entra nel cuore di se stessa, interrogandosi sul perche' esiste.
Cavaglion ricorda ancora un altro luogo simbolico, pressoche' sconosciuto
alla memoria antifascista, e una data: 10 maggio 1945. In quella
congiuntura, a Degioz in Valle d'Aosta, lo storico Federico Chabod aveva
ritrovato i manoscritti seppelliti in una baita, prima di scappare in
Francia, inseguito dai tedeschi: erano i materiali preparatori de La Storia
della politica estera italiana dal 1870 al 1914, una delle piu' grandi opere
del pensiero politico italiano.
L'episodio dimostra che e' possibile narrare la Resistenza come "luogo di
elevazione spirituale" che ha contenuto gesti di "riconciliazione",
purtroppo dispersi in una storia ancora sconosciuta, perche' la loro memoria
non esce dalla cerchia dei beneficiati. Il loro recupero, tuttavia,
aiuterebbe a pensare il ruolo della responsabilita' personale. Pur in un
conflitto in armi, infatti, il sogno dei resistenti al nazifascismo era
ancorato alla moralita', individuale e collettiva, da ristabilire nello
stile politico del dopoguerra e anticipata nelle regole di comportamento dei
"ribelli". Il desiderio di una nuova societa' li ha sempre accompagnati,
perche', dice Bobbio: "lo stato totalitario era la nostra ossessione. La
democrazia, oltre che la nostra speranza, il nostro impegno" (14). Chi
credeva questo, riusciva a compiere, nonostante la guerra, gesti di
compassione infiniti. Chi puo' dimenticare la storia del "prete giusto" di
Nuto Revelli? (15), oppure le avventure di Giorgio Perlasca, commerciante
fascista che nella Budapest del 1944, fingendosi console di Spagna, salva
tremila ebrei ungheresi? Credo che a questi episodi si possa risalire per
trovare gli antenati della cittadinanza interiore, antenati ma anche maestri
per i valori che comunicano, nel coraggio e nell'umilta'.
Nelle Valli Valdesi del Piemonte ne e' stato protagonista un comandante
partigiano, Ettore Serafino, che osa partecipare al culto di Natale del 1944
nel tempio valdese di Pomaretto dove incontra un gruppo di tedeschi seduti
nei banchi davanti a lui. Ma alla fine, scrive: "alla Santa Cena insieme ci
avviamo al bianco lino su cui scintilla il calice, assieme le mani del
pastore ci porgono il pane e lo stesso messaggio e' dato per entrambi con le
parole di un unico versetto" (16).
Oltre a singoli, anche gruppi di cittadini hanno contrastato la persecuzione
degli ebrei con silenziosa solidarieta', come in Danimarca, paese
considerato docile all'occupazione tedesca, tanto da aver ispirato la frase
"sdraiarsi come un danese", dove i cittadini hanno salvato quasi ottomila
ebrei, traghettandoli nella vicina Svezia (17). Cosi' in Polonia, dove un
gruppo di scuole clandestine curo' la propria identita' nazionale contro il
disegno nazista, oppure ancora la Germania "altra", quella del milione di
tedeschi imprigionati che ebbe il coraggio di opporsi al regime. Infine, non
si puo' scordare la  Resistenza civile delle donne, in guerra senz'armi (18)
in tutto il mondo e in tutte le epoche, tanto che proprio da una di loro,
una delle piu' insigni del Novecento, prorompe un grido etico che risuona
ancora nei nostri cuori mezzo secolo dopo, un "pensiero liberatore"
pronunciato sul nemico, formulato da Etty Hillesum: anche se resta un solo
tedesco decente, "grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il
proprio odio su un popolo intero" (19). La resistenza femminile e' insinuata
nel quotidiano. Come abbiamo visto, anche le ugonotte del Settecento
francese  "resistevano" nelle case, proprio come nelle case, specie di
montagna, insieme ai compagni uomini, le partigiane hanno sognato una
societa' democratica. Queste ultime non solo hanno praticato la nonviolenza,
spesso senza esserne pienamente coscienti, ma hanno provato a vivere una
diversa femminilita', a testimonianza che la prima consapevolezza descritta
in questo libro e' stata davvero un seme di nuova storia piantato negli anni
della lotta al nazifascismo. Significativa, al riguardo, e' la testimonianza
di Cecilia Pron (20), partigiana della Val Pellice (Torino) che narra come
la "preparazione" alla Resistenza e' passata per il recupero della parola
impedita dal ventennio fascista: "Parlavamo tanto... mi fermavo a dormire
alla base partigiana quando dovevo portare messaggi o roba da mangiare.
Passavamo la notte seduti sulla porta a chiacchierare fino al mattino
dell'Italia del dopo, che ci sarebbero stati i sindacati e altro, ed erano
le prime volte che parlavo anche del Partito Comunista. Era una cosa ancora
un po' fantastica, mi piacevano le idee, ma non come quelle dell'Unione
Sovietica". La politica, in altre parole, cresceva in quelle notti di
confronto, fra uomini e donne in parita' e in amicizia, un sentimento che
fondo' la Resistenza e l'dentita' democratica dell'Italia del "dopo".
Queste schegge di storia non militare della Resistenza possono essere la
base per una ricerca di pace. La geografia della memoria europea passa certo
per i simboli della tragedia novecentesca: lager, ghetti ed eccidi.
Tuttavia, nello stesso tempo, ha bisogno di una mappa diversa, capace di
orientare i significati di una nuova Resistenza, da tradursi, sostiene
Mantegazza, in una  "pedagogia della resistenza" (21), intesa come modalita'
di "salvazione del soggetto", in grado di uscire dalla dimensione
egocentrica, solo quando incontra il dolore dell'altro.
*
Se  la storia nonviolenta del mondo riscopre gli "antenati interiori",
autori degli incontri solidali, l'interculturalita' insegna il senso
profondo della democrazia che, interpretata in  mille modi, merita di essere
sviscerata in senso letterale: andare dentro le sue viscere.
Il dibattito sulla democrazia, infatti, ha sempre sollevato dubbi, prima di
tutto su cio' che  puo' offrire ai paesi poveri. La democrazia, si dice,
deve interpretare un modello di stato al servizio del cittadino, al quale
garantire alcune necessita' basiche: cibo, alloggio, lavoro, scolarita',
sanita'... Ma lo Stato, anche quello sociale, e' il  capolavoro
dell'Occidente. Dall'America latina all'Africa non ha mai rappresentato un
ente al servizio del cittadino che, al contrario, e' sempre stato
schiacciato da questo colosso che lo ha "spremuto" con tasse e burocrazie,
esattamente come durante l'epoca coloniale.
Un altro dubbio riguarda l'opportunita' di promuovere la democrazia in paesi
che non la conoscono con questo nome o, peggio ancora, esportarla con le
armi. Si arriva "a presumere che la democrazia sia un'idea le cui radici si
possono ricercare solo ed esclusivamente in un tipo di pensiero occidentale,
fiorito unicamente in Europa" (22). Amartya Sen, con queste parole, da'
un'indicazione utile allo studio dell'Interculturalita': la possibilita' di
scoprire in altre tradizioni cio' che e' simile alla democrazia occidentale.
Lo studioso sviluppa l'idea di John Rawls in merito all'"esercizio di
ragione pubblica". Capire, in altre parole, le strategie decisionali in
grado di influenzare le scelte politiche di un paese, potrebbe essere la
lente d'ingrandimento con cui scoprire isole democratiche nel mondo intero,
che forse non contemplano il voto, ma sollecitano lo stesso la
partecipazione personale.  Per esempio, nell'Africa subsahariana funziona
una periodica assemblea di villaggio, detta Palabra, dove si discutono i
problemi della comunita'. Il suo simbolo e' l'uccello sankofa, appartenente
alla cultura adinkra degli Ashanti del Ghana. Volto all'indietro, l'animale
raccoglie l'uovo sfuggitogli: un gesto che indica l'importanza di
raccogliere il passato, in vista di un futuro da inventare.
In ogni luogo del pianeta dovremmo essere capaci di riconoscere dove si
decide in cupole segrete o, al contrario, negli spazi aperti dall'inclusione
sociale. Soprattutto gli europei dovrebbero essere capaci di "pressing
democratico", affinche' altri paesi riscoprano tradizioni di "esercizio di
ragione pubblica". Fatema Mernissi sostiene che l'Occidente mette paura
quando fa il democratico sul serio, "perche' obbliga i musulmani a riesumare
i corpi di tutti gli oppositori, religiosi e profani, intellettuali e ignoti
artigiani che furono massacrati dai califfi... come i sufi e i filosofi che
parlavano di idee straniere provenienti dalla Persia e dalla Grecia, dal
profumo di immaginazione e liberta' individuale" (23). Sarebbe un buon modo
per risanare le reciproche ferite: l'Europa non evitando i suoi oscuri grumi
totalitari e l'Islam trovando il coraggio per riabilitare la sua corrente di
pensiero democratico. Sia per l'una, immemore della sua "alba" rispettosa
dei diritti umani, che per l'altro, orfano della dimensione centrata
sull'individuo, si potrebbe aprire un dialogo profondo.
Spesso nei paesi colonizzati non occidentali non si e' verificata quella
fase della storia in cui lo stato ha trasmesso, attraverso istituzioni come
la scuola, idee di tolleranza e liberta', ne' ci sono stati libri di testo
che hanno riportato una costruzione storica della parola o dell'ente
chiamato democrazia, unificando la cultura media della cittadinanza sul suo
significato. Il dibattito democratico, nell'Islam non ha attraversato i
territori dello stato organizzato, ma e' stato tutto interno alle comunita'
religiose, teso fra il potere della comunita' e il ruolo del singolo. In
altre parole, mentre in Occidente il diritto ha presupposto l'individuo, nei
popoli non occidentali e' ancora la comunita', ente piu' coinvolgente sul
piano identitario, a dettare le regole del vivere civile. Tuttavia, in
entrambi i luoghi, Oriente e Occidente, e' di nuovo il diritto che deve
farsi opinione, diventare valore profondo della cittadinanza interiore.
Scoprire le "ragioni pubbliche" significa riflettere sulla "biodemocrazia"
(24). Vandana Shiva sostiene che usi diversi della terra producono modi di
pensare corrispondenti, perche' il pensiero cresce come i fiori e ha bisogno
di un humus ben concimato. Scoprire le "ragioni pubbliche" significa ancora
accettare la "demodiversita'" come "coesistenza pacifica o conflittuale di
differenti modelli e pratiche democratiche" (25). Il sentire democratico, in
altre parole, sostiene un'etnografia della contemporaneita' in cui ogni
spazio quotidiano scopre "schegge di globalita' planetaria, piovute da altre
societa' e altre culture" (26). In questa prospettiva, i bianchi europei,
con un impiego fisso e molte (apparenti) sicurezze, devono abituarsi a
essere anche guardati. A tal proposito, consiglio la lettura di un vecchio
libro della collana "millelire" di Stampa alternativa, Papalagi, scritto da
Tuiavii di Tiavea, capo indigeno delle isole Samoa, che all'inizio del
Novecento compie un viaggio in Europa e descrive gli occidentali, i Papalagi
appunto, per il suo popolo. Ne consegue un insegnamento fondamentale: i
gesti, scontati in un luogo, sembrano assurdi in un altro, come soffiarsi il
naso e conservarne il tolto in un ritaglio di stoffa ricamata! La
consapevolezza dell'essere educati alla democrazia comincia  dall'accettare
le visioni degli altri su noi e dalla constatazione che sono necessarie
"traduzioni" per far capire una cultura all'altra, a partire dai gesti del
corpo. Come insegna Desmond Morris (27), ad esempio, le mani sui fianchi,
posizione tipica del mondo contadino italiano, in Malesia e nelle Filippine
significano rabbia furibonda. E se non e' importato conoscere fino a ieri
queste differenze, oggi l'ignorarlo potrebbe causare guai.
*
L'Interculturalita' entra ormai nella vita quotidiana in modi sempre piu'
simili a quelli di un comune cittadino americano, parodiati da Ralph Linton,
che  svegliandosi ripete gesti, come il fumare, originari di antiche
civilta' latinoamericane o consuma prodotti, come i dolci confezionati
secondo tecniche scandinave, o altro ancora che impedisce sempre una chiara
definizione di appartenenza (28). L'Interculturalita' non appartiene solo
alla conoscenza reciproca dei popoli. Quella delle multinazionali, per
esempio, persegue il semplice profitto. La statunitense Kellog's (quella
dell'avena, dei fiocchi di riso ecc.) nel 1999 ha speso 906 milioni di
dollari per promuovere i suoi cereali in 160 paesi: un importo pari a sette
volte l'intera spesa militare della Bolivia. Altro esempio e' la Nike che
vende in tutto il mondo 9,2 miliardi di dollari di scarpe da ginnastica, di
cui l'8% non finalizzato ad attivita' sportive, bensi' a regalare status di
modernita', allo stesso modo dei jeans, la cui vendita mondiale raggiunge le
110.000 paia al giorno. Questo per dire che il Mercato apre vie di consumo
trasformate in stili culturali senza differenze fra ricchi e poveri: birra e
capi firmati si comprano in Giappone come in Colombia, in Svezia come in
Turchia, al nord come al sud del mondo.
Altro esempio di globalita' e' la musica: la salsa cubana e' suonata ormai
in tutto il mondo, anche in Vietnam. La globalizzazione, da un lato produce
comportamenti uniformi, visti come simbolo di emancipazione, dall'altro,
scatena la ribellione di etnie locali che si sentono invase. Il risveglio
etnico e' un indiscutibile valore per la memoria collettiva, se si limita al
piano culturale. Quando invece provoca conflitti che dividono le societa',
diventa l'oscuro infossarsi sulle proprie radici. C'e' da dire che, spesso,
tali conflitti hanno origine dallo sguardo europeo che, per interesse
economico, ha scelto un gruppo piuttosto che un altro, com'e' successo in
Africa fra gli aristocratici Tutsi, sostenuti dai belgi e gli agricoli Hutu,
declassati socialmente, con il terribile risultato del reciproco massacro.
Fra globalita', globalizzazione e localismi, come si colloca la proposta
educativa dell'Interculturalita'? L'Intercultura non e' invenzione del
presente. Tutta l'umanita' potrebbe, infatti, essere letta attraverso la
storia degli scambi fra culture, dai tempi dell'incontro-scontro fra nomadi
e stanziali; dai tempi dei patti di reciproco rispetto fra impero romano e
popoli conquistati; dai tempi delle migrazioni ereticali europee del XII e
XIII secolo, in cui la vita itinerante era una scelta evangelica; dai tempi
delle repubbliche marinare aperte al commercio con le Indie; dai tempi delle
conquiste intercontinentali e cosi' via, fino al Novecento, in cui fu il
bisogno di lavoro a motivare i grandi esodi.
L'Intercultura rappresenta l'esito di un lungo percorso studiato dalle
scienze umane. In particolare l'antropologia, nata dai resoconti di
viaggiatori e mercanti del Cinquecento e divenuta scienza nell'Ottocento, ha
registrato varie fasi nella scoperta dei popoli "altri". I "diversi" furono
definiti "culture altre", "societa' multiculturali", "mondi transculturali",
in transito appunto, verso l'"antropologia reciproca" e infine si teorizzo'
l'Interculturalita' che accetta lo scambio paritario delle reciproche
visioni. Nello "spazio di desiderio" cresciuto fra le culture, e'
prosperata, infatti, "una certa indulgenza fantasmatica" (29), dentro la
quale bisogna evitare che crescano le reciproche paure. La complessita'
interculturale confonde i popoli, cambiando la geografia delle appartenenze.
E' sempre piu' difficile identificarsi con qualcosa di unico: un paese, un
ceto sociale, una storia, una professione. L'"io sono" richiede pertanto un
arduo compito di decifrazione di cio' che fa essere cio' che siamo, mentre
le identita' traboccano dalle tradizionali dicotomie che le hanno
interpretate: occidentale e orientale, civilizzato e selvaggio, scienza e
magia, nord e sud... Le frontiere appaiono una desueta eredita' dalla
storia, come diceva Albert Jacquard, o meglio, la loro formulazione non
esaurisce la complessa classificazione del presente dove altre identita':
"alpina", "mediterranea", "latina", "globale", ecc., affiancandosi,
pretendono attenzione.
*
A questo punto s'impone una domanda, soprattutto a chi e' impegnato nel
campo educativo: come favorire le personalita' pronte all'incontro
interculturale e consapevoli che la storia puo' svolgersi in modo
nonviolento?
Non e' un compito facile perche' nella nostra societa', sovente, hanno il
cammino aperto personalita' non "naturalmente democratiche". Il successo
sociale oggi sorride a personalita' "dipendenti", figlie del nuovo "fascismo
sociale" (30). Tipico di questo regime in cui tutti, bene o male, siamo
immersi, e' il mantenere i soggetti nel caos di aspettative apparentemente
democratiche, senza mai una risposta che produca emancipazione sostanziale.
E' la condizione tipica di una societa' che espropria la capacita'
decisionale dei suoi membri e che, mentre ne mantiene strategicamente una
parte in perenne dipendenza, favorisce l'altra meta' nel suo farsi "serpenti
in carriera". Al proposito, non e' oscuro a nessuno che certi comportamenti
devianti sono diventati oggi la norma, e che gli individui oscillano fra
sottomissione tremante all'autorita' da un lato, e aggressivita' autoritaria
rovesciata sugli outgroup dall'altro. Questo oscillare permette
l'instaurarsi in posizione di guida alla "personalita' autoritaria",
indagata da psicologi e filosofi del Novecento che si sono interrogati a
lungo sui motivi della nascita dei fascismi. La "personalita' autoritaria",
studiata soprattutto da Adorno, e' funzionale alla loro esistenza. Cosi'
come, secondo Zamperini, nessuno e' esente dai risvolti autoritari del
proprio comportamento "mura interiori che imprigionano menti" (31), verso i
quali e' sufficiente un ambiente che li rafforzi perche' immediatamente
diventino egemoni nel dettare le norme di convivenza.
La tendenza a imporre la propria autorita' per Wilhelm Reich e' uno stato
della mente. L'introiezione dell'immagine del capo a cui si affida, alimenta
la mentalita' dell'uomo della strada, "mediocre, soggiogato, smanioso di
sottomettersi a un'autorita' e allo stesso tempo ribelle" (32).
Idealizzazione del leader ed emarginazione degli spiriti critici, lealta' a
istituzioni rassicuranti e uniformita' ai comportamenti dominanti
caratterizzano la "psicologia di massa del fascismo", titolo del libro che
Reich pubblico' nel 1933 e che causo' la sua espulsione dal Partito
comunista tedesco e, l'anno successivo, anche dalla Societa' psicoanalitica.
Duplice espulsione per un uomo non ortodosso, che sostenne cio' che molti
hanno ripetuto dopo di lui: la vera rivoluzione non e' solo quella sociale,
ma quella che passa nell'animo umano. Reich volle interrogare
psicologicamente la politica, proprio come molti desiderano, nell'epoca
attuale, interrogarla spiritualmente. Reich invito' a cercare nel proprio
essere "l'energumeno fascista... e le istituzioni sociali che lo covano ogni
giorno" (33), perche' questa forza devastatrice delle coscienze puo' essere
abbattuta solo con la conoscenza approfondita dei processi vitali.
Rispetto alla politica Reich si pose molte domande, fra le quali una:
perche' i membri del partito comunista, il suo partito, combattessero con
violenza gli effetti sociali del suo lavoro medico, quando "masse di
impiegati, operai dell'industria, piccoli commercianti, studenti ecc.
affollavano le organizzazioni orientate sessuo-economicamente ansiosi di
conoscere il funzionamento dei processi vitali". Il "Partito", specie nella
tradizione comunista, non solo ha sempre privilegiato l'analisi economica
della societa', ma ha incarnato l'ente supremo a cui sottomettere, come un
pontefice, la coscienza del militante. A dare importanza a valori e
sentimenti, in ogni caso, i partiti non sono giunti ancora oggi, altrimenti
non accoglierebbero nelle loro fila personaggi incapaci di tensione ideale.
Anche nella politica, come nella societa', prolificano, infatti, soggetti
antisociali, i cosiddetti "serpenti in carriera" (34), che agiscono in
favore di se stessi, pianificando strategie per arrivare ai posti di
comando. Per attuarle, si dotano di metodologie precise, per esempio
dimostrandosi amicali e poi colpendo alle spalle con assoluta mancanza di
paura. Eredi dell'"Uomo qualunque", con l'unico obiettivo di farsi strada
nell'istituzione prescelta, sono il nutrimento dei totalitarismi e si
camuffano da "serpenti in carriera" nei regimi democratici. Complici ne sono
le organizzazioni, che per mantenersi hanno bisogno di questo tipo di
persone: il contagio, dunque, diventa reciproco, in un perfetto incastro che
rende la societa' sempre meno sana.
*
L'educazione alla democrazia, basata sulla storia nonviolenta del mondo e
sull'Interculturalita', puo' impedire, o almeno ridurre, il proliferare di
queste  personalita' malate con percorsi educativi che insegnano vincoli
etici. La democrazia, perche' gli individui non diventino pedine di massa,
deve essere un desiderio del cuore. Hitler, non dimentichiamolo, e' salito
al potere democraticamente, e anche tanti altri dirigenti europei che poi si
sono dimostrati capaci di difendere solo i propri interessi. Affinche' le
personalita' non si lascino ingannare da falsi miraggi, occorre predisporre,
complice la scuola, metodologie per imparare l'umano e decifrare
comportamenti malati e soggetti profittatori d'altrui. In che modo?
Individuando spazi di pratica democratica, il che significa insegnare, fin
da piccoli, a fare la vera politica della polis, quella della "ragione
poetica", come suggerisce Maria Zambrano.
"Il senso della politica e' la liberta'" (35), commenta in modo lapidario
Hannah Arendt. Tuttavia, nessuno, continua la filosofa, dall'antichita'
della polis l'ha davvero pensata cosi'. Si scorda, infatti, che  il
cittadino greco, per esercitare la cittadinanza, doveva essere "libero", non
piu' schiavo. Il suo apprendistato alla dialettica democratica traeva
alimento da una "vita activa", fondata su pensare, volere e giudicare, tre
facolta' intellettive e spirituali allo stesso tempo che, nella convergenza
dell'agire comune, salvavano l'uomo dalla dissoluzione del tempo. Solo la
tensione della "vita activa" trasforma, dunque, per Arendt, la
frammentarieta' esistenziale in costruzione collettiva ispirata alla
liberta'.
La "vita activa" non va confusa con quella degli ipercinetici. Vita attiva
e' la vita  politicamente attenta, presa in considerazione dalla societa'.
Non basta, infatti, essere predisposti alla politica, sono necessari spazi
in cui le avventure umane, tradotte in culture condivise, incoraggiano
ognuno a dire: "posso rivelare il mio nome soltanto a colui che non mi
conosce. Colui che mi conosce lo rivela a me" (36). Quali sono questi
luoghi? In realta', sono molti, dai quartieri alle osterie, dalle scuole ai
Consigli comunali dei ragazzi (37), dalle sezioni di partito alle comunita'
religiose: ogni ambito e' adatto a far crescere la democrazia, se si sente
eletto a valorizzare percorsi politici che "partano da se'". Questi luoghi
esistono anche in Italia: scuole, sezioni sindacali, circuiti ecclesiastici
internazionali, come i Centri giovanili protestanti o la rete di
volontariato cattolico Macondo, costruiscono saperi dal "basso", elaborando
le esperienze vissute.
Cio' che desidero sostenere e' che la democrazia  comincia "dal due", come
sostiene Irigaray, ma si rafforza crescendo nel "piccolo" delle  piu' minute
forme di societa' umana. Un tempo sulla montagna occitana si riunivano gli
Escartons (38). Negli anni Settanta del Novecento funzionavano i "Consigli":
di zona, di quartiere, di fabbrica, delle donne, dei giovani e altri ancora.
Erano forme create per legittimare la costruzione di un pensiero comune,
cresciuto dalle fondamenta della societa', modi di stare insieme ormai
sconosciuti e reclamati da Pietro Barcellona, quando invita a "restituire a
ciascuno il gusto di decidere sulle cose che lo riguardano e di produrre
solidarieta' e senso comunitario nei condomini e nei quartieri come nella
fabbrica e nella scuola" (39).
La democrazia pone il problema di cosa, avvalorandola, le sta "dentro". Il
"dentro" non puo' che essere la costruzione, un passo dopo l'altro, di
piccoli nuclei partecipativi di "vita attiva", chiamati a comporre la trama
di legami sociali che lo scenario urbano ha dissolto. I percorsi possibili
di una citta' non sono marcati da esigenze comunitarie, ma dall'iperconsumo.
Sono "vie di fuga dell'individuo metropolitano" che hanno annullato, nello
spazio distrutto della polis, "un intero ordine politico, etico, sociale"
(40). Un sistema istituzionale, al contrario, per forgiare un sistema
funzionante di relazioni, deve saper emanare i valori piu' profondi di una
societa', fra i quali, il modo di incontrare chi proviene da altre culture.
Le politiche di accoglienza del "diverso", infatti, dipendono dal modo di
percepirsi patria da parte di chi li ospita. L'idea di patria che propongo
e' quella descritta da Walter Barberis. Oltre a pretendere il rispetto delle
tradizionali virtu' civiche, dal pagare le tasse alla giustizia, questa
patria dovrebbe contare "per la sua capacita' di promuovere l'incontro con
altre comunita', di corroborare lo scambio con la vena profonda della sua
cultura cosmopolita, di concorrere alla determinazione di altre e piu' alte
regole di convivenza" (41). Per l'Italia cio' significa aspirare ad essere
una patria capace di recuperare gli "splendidi frammenti cittadini" (42)
della sua storia, per trasformarli nella cultura della cittadinanza di
un'intera comunita' nazionale: la competenza mercantile delle repubbliche
marinare, il senso dell'autonomia delle vallate alpine e l'accoglienza
dell'ospite della cultura mediterranea.
*
Note
1. J. Hillman, Il codice dell'anima, Milano, Adelphi, 1997, p. 153.
2. G. Steiner, La lezione dei maestri, Milano, Garzanti, 2004, p. 10.
3. L. Irigaray, La democrazia comincia a due, Torino, Bollati Boringhieri,
1994, p. 105.
4. E. Morin, I sette saperi necessari all'educazione del futuro, Milano,
Cortina, 2001.
5. Ivi, p. 97.
6. Ivi, p. 113.
7. E. Baeri, I lumi e il cerchio, Roma, Editori Riuniti, 1992.
8. E. J. Leed, Terra di nessuno, Bologna, Il Mulino, 1985.
9. J. Hillman, Un terribile amore per la guerra, Milano, Adelphi, 2005, p.
11.
10. Ivi, p. 21.
11. Ivi, p. 134.
12. P. Barcellona, Il suicidio dell'Europa, Bari, Dedalo, 2005, p. 18.
13. A. Cavaglion, La Resistenza raccontata a mia figlia, L'ancora del
Mediterraneo, 2005, p. 98.
14. N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1995, p. IX.
15. N. Revelli, Il prete giusto, Torino, Einaudi,1998.
16. La testimonianza di E. Serafino e' contenuta in B. Peyrot, La Resistenza
nella memoria laica ed ecclesiastica dei valdesi, in B. Gariglio, R. Marchis
(a cura di), Cattolici, ebrei ed evangelici nella guerra. Vita religiosa e
societa' 1939-1945, Milano, Franco Angeli,1999.
17. A. Bravo, "La Repubblica", 26 aprile 2005.
18. A. Bravo, A. M. Buzzone, In guerra senza armi. Storie di donne.
1940-1945, Bari, Laterza, 1995.
19. E. Hillesum, Diario 1941-1943, Milano, Adelphi, 1990, p. 29.
20. Cecilia Pron, Testimonianza registrata del 21 marzo 2001, archivio
privato Bruna Peyrot.
21. R. Mantegazza, Pedagogia della Resistenza, Troina (En), Citta' Aperta,
2003.
22. Amartya Sen, Le radici della democrazia in "Internazionale", 7-13
novembre 2003, n. 513.
23. F. Mernissi, Islam e democrazia. La paura della modernita', Firenze,
Giunti, 2002, p. 36.
24. Vandana Shiva, Monoculture della mente, Torino, Bollati Boringhieri,
1995, p. 89.
25. B. De Sousa Santos, Democratizar a democrazia. Os caminhos da democrazia
participativa, Civilizacao brasileira, Rio de Janeiro, 2002, p. 72.
26. U. Fabietti, Etnografia della frontiera, Roma, Meltemi, 1997, p. 12.
27. D. Morris, I gesti nel mondo. Guida al linguaggio universale,  Milano,
Mondadori,1995.
28. M. Aime, Eccessi di cultura, Torino, Einaudi, 2004, p. 25.
29. V. Crapanzano, Tuhami. Ritratto di un uomo del Marocco, Roma, Meltemi,
1995, p. 10.
30. B. de Sousa Santos, A caida del Angelus Novus. Ensayos para una nueva
teoria social y una nueva practica politica, Ilsa, Universidad Nacional de
Colombia, Bogota', 2003, p. 82.
31. A. Zamperini, Prigioni della mente, Torino, Einaudi, 2004, p. 130.
32. W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, Torino, Einaudi, 2002, p.
XLVII.
33. Ivi, p. LI.
34. Senya Muller, Serpenti in carriera, in "Mente & Cervello", luglio-agosto
2005, n. 16.
35. H. Arendt, Che cos'e' la politica, Milano, Edizioni di Comunita', 1995,
p. 21.
36. E. Jabes, Il libro dell'ospitalita', Milano, Cortina, 1991, p. 74.
37. G. Ameglio, C. Caffarena, I Consigli comunali dei ragazzi, Trento,
Erickson, 1993.
38. Gli Escartons, dal francese escartoner, cioe' ripartire le imposte,
rappresentano le cinque comunita' che nel 1343 firmarono con il Delfino
Umberto II il diritto a governarsi. Esse furono: Briancon, Oulx, Queyras,
Val Chisone e Casteldelfino, nel Piemonte occidentale. La loro storia fini'
con il trattato di Utrecht (1713), quando la regione venne spartita fra
Francia e Savoia. La sua identita', tuttavia, sopravvive nell'uso ancora
comune della lingua d'oc, nello stile architettonico e nella lunga
tradizione di autonomia politica che arriva fino alle attuali Comunita'
montane.
39. P. Barcellona, Un regime reazionario di massa, "L'Unita'", 19 maggio
2003.
40. P. Barcellona, Il ritorno del legame sociale, Torino, Bollati
Boringhieri,1990, p. 35.
41. W. Barberis, Il bisogno di patria, Torino, Einaudi, 2004, p. 7.
42. Ivi, p. 22.

4. STRUMENTI. L'AGENDA "GIORNI NONVIOLENTI" 2007

Come ogni anno le Edizioni Qualevita mettono a disposizione l'agenda-diario
"Giorni nonviolenti", un utilissimo strumento di lavoro per ogni giorno
dell'anno. Vivamente la raccomandiamo. Il costo di una copia e' di 9,50
euro, con sconti progressivi con l'aumento del numero delle copie richieste.
Per informazioni ed acquisti: Edizioni Qualevita, via Michelangelo 2, 67030
Torre dei Nolfi (Aq), tel. e fax: 0864460006, cell. 3495843946, e-mail:
qualevita3 at tele2.it

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1478 del 13 novembre 2006

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