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La domenica della nonviolenza. 98
- Subject: La domenica della nonviolenza. 98
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 5 Nov 2006 11:30:45 +0100
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 98 del 5 novembre 2006 In questo numero: 1. Mao Valpiana: La politica della nonviolenza. Un seminario promosso dal Movimento Nonviolento 2. Ron Allen: Le medaglie e i ragazzi 3. Ambra Pirri: Alterita' e relazione. la riflessione di Gayatri Chakravorty Spivak 4. Barbara Spinelli: Compromaty 5. Da Firenze il 4 novembre un invito nonviolento ai militari 6. "We vote for peace". Un sit-in a Roma 1. INCONTRI. MAO VALPIANA: LA POLITICA DELLA NONVIOLENZA. UN SEMINARIO PROMOSSO DAL MOVIMENTO NONVIOLENTO [Ringraziamo Mao Valpiana (per contatti: mao at sis.it, e anche presso la redazione di "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org) per averci messo a disposizione l'editoriale del fascicolo di "Azione nonviolenta" di novembre 2006 che presenta un primo resoconto del seminario su "La politica della nonviolenza (alla prova della guerra)" svoltosi il 21-22 ottobre 2006 a Verona. Mao (Massimo) Valpiana e' una delle figure piu' belle e autorevoli della nonviolenza in Italia; e' nato nel 1955 a Verona dove vive ed opera come assistente sociale e giornalista; fin da giovanissimo si e' impegnato nel Movimento Nonviolento (si e' diplomato con una tesi su "La nonviolenza come metodo innovativo di intervento nel sociale"), e' membro del comitato di coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento, responsabile della Casa della nonviolenza di Verona e direttore della rivista mensile "Azione Nonviolenta", fondata nel 1964 da Aldo Capitini. Obiettore di coscienza al servizio e alle spese militari ha partecipato tra l'altro nel 1972 alla campagna per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza e alla fondazione della Lega obiettori di coscienza (Loc), di cui e' stato segretario nazionale; durante la prima guerra del Golfo ha partecipato ad un'azione diretta nonviolenta per fermare un treno carico di armi (processato per "blocco ferroviario", e' stato assolto); e' inoltre membro del consiglio direttivo della Fondazione Alexander Langer, ha fatto parte del Consiglio della War Resisters International e del Beoc (Ufficio Europeo dell'Obiezione di Coscienza); e' stato anche tra i promotori del "Verona Forum" (comitato di sostegno alle forze ed iniziative di pace nei Balcani) e della marcia per la pace da Trieste a Belgrado nel 1991; nel giugno 2005 ha promosso il digiuno di solidarieta' con Clementina Cantoni, la volontaria italiana rapita in Afghanistan e poi liberata. Un suo profilo autobiografico, scritto con grande gentilezza e generosita' su nostra richiesta, e' nel n. 435 del 4 dicembre 2002 di questo notiziario] Piu' di cinquanta amiche ed amici della nonviolenza si sono riuniti a Verona nei giorni 21 e 22 ottobre per partecipare al seminario sulla politica della nonviolenza. Nella sala dei missionari comboniani, che ha ospitato i nostri lavori, erano appesi quattro cartelli significativi che hanno dato l'impronta alle due giornate di riunione: "Parlare e ascoltare", "Il potere di tutti", "La forza preziosa dei piccoli gruppi", "Tensione e familiarita'". E proprio questi erano gli stati d'animo che si percepivano da parte di tutti gli intervenuti. Ognuno si e' sentito protagonista. Nessuno era solo spettatore. Sicuramente la formula proposta (ogni sessione di lavoro veniva introdotta da alcune domande, alle quali ciascuno era chiamato a rispondere, con interventi di dieci minuti, e poi una conclusione che cercava di raccogliere tutti gli spunti e le proposte espresse) ha aiutato a far emergere tutta la "tensione" verso la nonviolenza e tutta la "familiarita'" che ci deve essere tra amici della nonviolenza, che spesso si respirano negli incontri del nostro Movimento. L'obiettivo del seminario di Verona era definire e verificare i fondamenti, i fini e i mezzi, di una possibile strategia della nonviolenza in Italia. L'appuntamento di Verona era una tappa del lungo cammino che abbiamo intrapreso nel 2000 con la Marcia nonviolenta Perugia-Assisi "Mai piu' eserciti e guerre", proseguito nel 2004 con la camminata Assisi-Gubbio "In cammino per la nonviolenza", poi nel 2004 con il Congresso "Nonviolenza e' politica" e infine nel 2006 con il convegno di Firenze "Nonviolenza e politica". Il seminario e' nato dal disagio per quanto e' avvenuto in questi mesi nel movimento per la pace, sia nella base che a livello istituzionale, dopo le vicende del voto parlamentare sull'Afghanistan, dopo la missione militare in Libano, dopo l'iniziativa della Tavola della pace ad Assisi, dopo la proposta di una campagna per il disarmo atomico, dopo i tanti appelli lanciati ma troppo spesso lasciati cadere... Ci sembrava che una seria riflessione di chi si riconosce nella nonviolenza organizzata, fosse doverosa. Nel prossimo numero di "Azione nonviolenta" pubblicheremo un resoconto degli interventi. Qui di seguito le domande proposte e alcune risposte emerse. * La teoria (sulla guerra) Domande - Cosa significa "opposizione integrale alla guerra" (e alla sua preparazione)? - Abolire la guerra o ridurre la guerra? Esiste una riduzione del danno militare? - Come e' possibile "ripudiare la guerra"? Bisogna ripudiare anche le armi? - La guerra e' "il piu' grande crimine contro l'umanita'": chi sono i criminali? - Guerra no, ma interventi armati si'? Eserciti no, ma polizia internazionale si'? Risposte - Contro la guerra duri come la pietra. Il rifiuto della guerra e' la condizione... - La guerra: mai piu' guerra e eserciti. La specificita'. - L'obbedienza non e' piu' una virtu', ma la disobbedienza lo e' sotto specifiche condizioni. - Da guerra motore della storia, a flagello dell'umanita'. - Dal bellum justum allo jus contra bellum: raccogliamo le bandiere lasciate cadere. - Critica dell'istituzione militare. - Portare armi, prepararsi alla guerra, eseguirla nelle sue varie forme - Guerra e polizia - A fare che (e come) in Iraq, Afghanistan, Libano: distinguere. * La pratica (nella politica) Domande - La nonviolenza e' riformista o rivoluzionaria? - Abbandonare la radicalita'? Navigare a vista? - Puo' esistere un partito della nonviolenza? - Fare noi le proposte, che poi gestiranno altri? - Solo controllo dal basso e mai al governo? Risposte - La critica della politica: Gandhi, Capitini. - Arendt versus Weber: costruzione di potere di eguali e non dominio. - Voglia di impero: assemblee e opinione pubblica. - Il contemporaneo ci commuove. - Il politico e l'obiettore di coscienza. - La sinistra, cioe' dal basso, perche' da li' si muove. - La nonviolenza organizzata e il "movimento" e l'interlocuzione con i politici. - Il confronto con verdi e rifondatori. - I nostri amici nei partiti e nelle istituzioni. * La strategia (delle iniziative) Domande Dalla teoria alla pratica: come si organizza la nonviolenza? - L'azione diretta nonviolenta e' solo del singolo, o di tutti? - La "rete" funziona sempre? La "leadership" come nasce? - Due metodi: metodo del consenso, o metodo della fiducia? - Quali gli elementi essenziali di una campagna nonviolenta? Risposte - Le pratiche: iniziative, abbandoni, riprese, proposte... - Forte autoreferenzialita' e frammentazione: approfondire e confrontarsi. - La nonviolenza e' una freccia direzionale anche nella dimensione pubblica. - Metodo dell'azione, che e' opera d'arte. - Acquisire autorevolezza e capacita' di aggiunta ad azione per diritti umani, pacifismo, democrazia... - Gli amici della nonviolenza si riconoscono da familiarita' e tensione, da portare nel confronto. 2. TESTIMONIANZE. RON ALLEN: LE MEDAGLIE E I RAGAZZI [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione la seguente lettera pubblicata sul quotidiano "The Oregonian" il 27 ottobre 2006. Ron Allen, pluridecorato veterano del Vietnam, e' impegnato contro la guerra] Mio padre era nativo dell'Oregon e ha combattuto nella seconda guerra mondiale. Anch'io sono nato in Oregon e sono un veterano del cosiddetto "conflitto" in Vietnam. Combattendo nell'esercito Usa ho, come mio padre, visto la mia parte di morte e di rovine, da ambo le parti. Ora, due dei miei figli continuano a ricevere volantini che incitano al reclutamento da differenti corpi dell'esercito. Sebbene io ami il mio paese quanto chiunque altro, incoraggero' i miei figli a fare cio' che io non feci negli anni '60, e cioe' a rifiutarsi di andare ad uccidere persone innocenti in altri paesi, in una guerra nata dalle menzogne, solo perche' i tuoi governanti ti dicono di farlo. George Bush, Donald Rumsfeld, Dick Cheney: quante onorificenze avete tutti voi messi insieme? Io ho quattro "Stelle di bronzo" e ho quattro ragazzi. Le posso restituire le medaglie, signor Bush, ma non avra' mai i miei figli. 3. RIFLESSIONE. AMBRA PIRRI: ALTERITA' E RELAZIONE. LA RIFLESSIONE DI GAYATRI CHAKRAVORTY SPIVAK [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo originariamente apparso sul quotidiano "Il manifesto" del 16 giugno 2004 col titolo: Disimparare il proprio privilegio e imparare la relazione. Ambra Pirri, intellettuale femminista, scrittrice, traduttrice, curatrice di collane editorali, docente, e' esperta di storia, storie e studi di genere postcoloniali. Gayatri Chakravorty Spivak insegna alla Columbia University di New York; bengalese di nascita, vive negli Stati Uniti; e' una delle piu' note e apprezzate teoriche femministe americane e tra le massime rappresentanti degli studi postcoloniali. Tra le opere di Gayatri Chakravorty Spivak: In Other Worlds: Essays in Cultural Politics, London, Methuen 1987; Selected Subaltern Studies, edited with Ranajit Guha, Oxford, Oxford University Press 1988; The Post-Colonial Critic: Interviews, Strategies, Dialogues, edited by Sarah Harasym, London, Routledge 1990; Outside In the Teaching Machine, London, Routledge 1993; A Critique of Post-Colonial Reason: Toward a History of the Vanishing Present, Harvard University Press 1999; Death of a Discipline, New York, Columbia University Press 2003; in italiano: "La politica delle interpretazioni" in AA. VV., Spettri del potere, Meltemi, Roma 2002; Morte di una disciplina, Meltemi, Roma 2003; Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004. Su Gayatri Chakravorty Spivak riproduciamo la seguente scheda apparsa sul quotidiano "Il manifesto" del primo febbraio 2005: "Gayatri Chakravorty Spivak e' nata il 24 febbraio 1942 a Calcutta dove si e' laureata. Nel 1960 e' andata a studiare negli Stati Uniti, alla Cornell University, dove ha preso un master nel 1962 e il PhD nel 1967. Ha insegnato inglese e letteratura comparata in numerose universita', tra cui Stanford, Santa Cruz e la Goethe-Universitat a Francoforte. E' Avalon Foundation Professor nelle Humanities alla Columbia University di New York dove insegna dal 1991. Non ha mai voluto prendere la cittadinanza statunitense. Nel 1976 ha tradotto De la Grammatologie di Jacques Derrida firmando una prefazione che l'ha resa famosa. Ha scritto piu' di cento saggi, sparsi in volumi collettanei: alcuni di essi sono raccolti nei suoi pochi libri. In Italia, i suoi primi testi a essere tradotti sono stati due saggi: "Decostruire la storiografia", contenuto in Subaltern Studies, Modernita' e (post)colonialismo, pubblicato da Ombre corte nel 2002; e "La politica delle interpretazioni" nel volume collettaneo Spettri del potere, edito da Meltemi nel 2002. Sempre Meltemi ha curato la traduzione di Morte di una disciplina (2003) e ora del volume A Critique of Postcolonial Reason (Harvard University Press, 1999), nelle librerie italiane con il titolo Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia del presente in dissolvenza.Tra i suoi testi pubblicati in inglese ricordiamo: In Other Worlds: Essays in Cultural Politics, Methuen, New York 1987; The Post-Colonial Critic: Interviews, Strategies, Dialogues, ed. Sarah Harasyn, Routledge, New York 1990; Outside in the Teaching Machine, Routledge, New York, 1993"] Gayatri Chakravorty Spivak, femminista post-coloniale e studiosa di letteratura comparata, puo' aiutarci a riflettere su alcune cose che succedono oggi tra l'Occidente e il resto del mondo, tra noi e l'Altro. Ancora nel suo ultimo libro, Morte di una disciplina, tradotto da Meltemi l'anno scorso, Spivak ripropone con forza - come nota Judith Butler - "un contesto radicalmente etico come approccio allo studio dell'alterita'". Perche', forse, non ci resta che rifugiarci nell'etica se davvero vogliamo tentare di avere un rapporto con l'Altra, con l'Altro. Indiana per nascita, studi e cittadinanza alla quale non ha mai abdicato; statunitense per residenza, green-card e lavoro poiche' a New York, alla Columbia University, insegna, Spivak si potrebbe definire un'intellettuale organica al pianeta. E' proprio per queste ragioni che Spivak parte sempre dalla divisione internazionale del lavoro e dalla globalizzazione che, con i suoi rapporti di potere tra il primo e il terzo mondo, e' incastrata dentro la storia economica, politica e culturale dell'imperialismo e del colonialismo. Analizzare gli effetti culturali e sociali che la colonizzazione ha avuto, e continua ad avere, sui paesi e sui soggetti colonizzati e' uno degli obiettivi degli studi post-coloniali. Ma, a differenza degli altri intellettuali post-coloniali, per esempio quelli che fanno capo ai Subaltern Studies, l'attenzione di Spivak e' sempre rivolta al soggetto sessuato al femminile, doppiamente marginalizzato dall'economia e dalla subordinazione di gender. * Per capire la differenza sessuale all'interno di un mondo globalizzato, Spivak si serve di un vocabolario concettuale e critico quasi sempre di sua invenzione. Nascono cosi' espressioni significative come epistemic violence, la violenza alle forme della conoscenza che l'imperialismo ha perpetrato - e continua a perpetrare - sui popoli un tempo colonizzati, e in particolare sulle donne. L'epistemic violence e' la rottura violenta operata sul sistema di segni, di valori, sulle rappresentazioni del mondo, sulla cultura, sull'organizzazione della vita e della societa' dei paesi che ieri erano colonie, e che oggi sono, non a caso, il sud del mondo. E' grazie all'epistemic violence che lo spazio colonizzato e' stato brutalmente trasformato in modo tale da poter essere portato all'interno di un mondo costruito dall'eurocentrismo. Questo processo attraverso cui l'Occidente si e' consolidato e costituito in quanto soggetto sovrano dell'intero globo riempiendolo del suo modo di conoscere, delle sue rappresentazioni, del suo sistema di valori, Spivak lo chiama worlding of a world. In questo processo, l'Occidente ha creato i suoi Altri come oggetti da analizzare, assumendosi cosi' il potere/sapere di rappresentarli e controllarli. Questi Altri, suggerisce Spivak, non sono veramente umani: costruiti come inferiori fin da quando l'Europa conquisto' quasi l'intero mondo, continuano a esserlo anche oggi perche' non sono considerati abbastanza sviluppati o abbastanza civilizzati o abbastanza democratici. C'e' un unico soggetto universale e abbastanza perfetto, la norma per l'appunto: il maschio bianco; e l'Occidente ne e' la grande estensione. * E che l'Altro continui a essere costruito e rappresentato come un essere inferiore, privo di storia e cultura, al confine tra l'uomo e la bestia, e con il quale non c'e' ragione di dialogare perche' l'unica ragione possibile e' l'umiliazione o la violenza, non e' mai stato cosi' vero. Ce lo hanno detto ancora una volta, casomai ce ne fosse stato bisogno, quegli uomini e quelle donne che abbiamo visto ridere, fumare e alzare il pollice in posizione eretta mentre scattavano foto dell'Altro, nudo e al guinzaglio o morto di tortura. Racconta Spivak a Elisabeth Grosz, in un'intervista dell'84, di essersi appassionata al pensiero di Derrida dopo aver scoperto che il filosofo francese stava smantellando dall'interno la tradizione filosofica occidentale, il cui eroe era l'essere umano universale. "A noi - dice Spivak parlando del sistema educativo britannico-coloniale - insegnavano che se potevamo cominciare ad avvicinarci a quell'essere umano universale, allora anche noi saremmo stati umani". Umani e dunque soggetti. Oppure, soggetti e dunque umani. Ma e' davvero cosi'? Soggettivita' e umanesimo vanno davvero insieme anche nella pratica, oltre che nel pensiero occidentale? * In uno scritto del 1985, considerato il suo saggio piu' famoso, piu' malinteso, ma anche piu' citato, Can the Subaltern Speak?, scritto in polemica con il gruppo dei Subaltern Studies ma anche con alcuni intellettuali post-strutturalisti e post-umanisti (Foucault e Deleuze), Spivak mostra come l'interessamento degli intellettuali occidentali nei confronti del soggetto coloniale finisca sempre per essere "benevolente"; il loro atteggiamento mentale e il loro punto di vista, alla fine, coincide con la narrazione imperialista perche' quel che promette al nativo e' la "redenzione". In questo saggio, Spivak si domanda se la donna subalterna puo' parlare ed essere ascoltata o se c'e' sempre qualcuno che lo fa al suo posto e che la rappresenta in modo distorto: gli inglesi, nell'abolire la pratica indu' del sati (1827), si assunsero il compito di parlare per la donna nativa oppressa dal patriarcato locale. In questo modo autolegittimarono se stessi come liberatori e l'imperialismo come missione civilizzatrice. Gli inglesi attribuirono alla donna subalterna una voce libera e tale da richiedere la propria liberazione all'uomo bianco, all'imperialismo inglese. Dall'altra parte, e contro la rappresentazione britannica, c'era il patriarcato locale, il maschio nativo, che sosteneva che la vedova era ben felice di salire sul rogo col marito cadavere. Per Spivak ne' l'una ne' l'altra versione rappresenta la "vera" voce della donna subalterna; in ambedue i discorsi la sua voce e' "ventriloquizzata" e lei scompare dentro questo violento fare avanti e indietro tra tradizione e modernizzazione, tra patriarcato e imperialismo. Ecco che la posizione di soggetto della donna nativa viene costruita dall'Occidente e serve solo a rinforzare il prestigio dell'intellettuale-interprete-benevolente della funzione subalterna. * Oppure serve a rinforzare i valori laici e nazionalisti della nazione; e' quel che e' successo in Francia con il velo. All'improvviso la patria, cosi' affine al patriarcato con i suoi valori militaristi e sessisti, diventa femminista e usa il femminismo contro le altre culture; abbiamo avuto due anni fa il paradosso dell'antiabortista Bush che andava a bombardare l'Afghanistan per liberare le donne dal burqa, e oggi abbiamo quello della Francia che libera le musulmane dal velo. Il fatto e' che il velo continua ad accendere le fantasie pruriginose del maschio occidentale che non sopporta di essere guardato ma di non poter guardare; solo lui ha diritto a osservare, analizzare, valutare, giudicare. Il suo "imperial I-eye" non deve incontrare barriere: l'espressione, che gioca con i suoni, simili in inglese, e che significa tanto l'Io quanto l'occhio imperiale, e' della studiosa post-coloniale Mary Louise Pratt; descrive lo sguardo insistente del maschio bianco che "disumanizza, paralizza e uccide", come scriveva, a proposito dell'Algeria, della colonizzazione francese e del velo, Fanon. In Algeria, durante i 130 anni della loro occupazione, i francesi hanno tentato di "svelare" le donne, di rendere i loro corpi disponibili all'I-eye occidentale, come mezzo per conquistare culturalmente l'intero paese. Ecco che il velo diventa la posta di una battaglia grandiosa tra l'Occidente e l'Altro, mentre l'Altra viene usata come simbolo e terra di conquista, dagli uni e dagli altri. Conquistare lei significa annientare lui. Imporle o vietarle il velo significa ascriverla a un patriarcato o a un altro. * Oggi, in epoca di emancipazione femminile - che tuttavia poco o nulla ha a che vedere con la liberta' delle donne - si trasforma nel suo contrario-uguale: lei occidentale che porta lui musulmano al guinzaglio; la metafora sessuale, maschil-dominante, e' identica. Ma Spivak critica anche il femminismo internazionale, che continua a mettere al centro l'Occidente - o un personaggio occidentale, in questo caso la femminista - che si autocostituisce come soggetto di conoscenza, salvezza, aiuto, proprio perche' ha costruito l'Altra come oggetto della sua illuminata compassione. Rappresentare l'Altra, dall'altra parte del mondo, come una sorella svantaggiata serve a farci sentire soggetti liberati, a rimandarci un'immagine di noi stesse ingrandita. E' cosi' che si diventa soggetti, in senso maschile, costruendosi un oggetto, un Altro inferiore. Il femminismo occidentale ha criticato il soggetto sovrano maschile ma poi rischia di fare, con le donne del cosiddetto terzo mondo, esattamente la stessa cosa che hanno fatto gli uomini per 2500 anni. E continua a porsi domande ossessivamente autocentrate, tipo "cosa posso fare io per loro?". Se vogliamo evitare di nuocere alle donne del terzo mondo, dobbiamo anche evitare di guardare le cose dal punto di vista di chi, in quanto soggetto, fa le analisi; dobbiamo evitare che il centro sia determinato, definito - come al solito - dalla ricercatrice. Il soggetto non si puo' decentrare, senno' non e' piu' soggetto, ma questa centratura va persistentemente criticata e decostruita: "La decostruzione - sostiene Spivak in un'intervista con Alfred Arteaga del '93 - non dice che non c'e' il soggetto, che non c'e' la verita', che non c'e' la storia; semplicemente interroga il privilegiare l'identita' cosi' che qualcuno e' ritenuto possedere la verita'. La decostruzione non e' l'esposizione di un errore. Costantemente e persistentemente guarda al modo in cui la verita' e' stata prodotta. Ecco perche' la decostruzione non dice che il logocentrismo e' una patologia. La decostruzione e', tra le altre cose, una critica persistente di cio' che uno non puo' non volere". Cosa e' che non si puo' non volere (e che viene dall'Occidente)? Per esempio, proprio la soggettivita', o il femminismo. Se pero' non si vuole diventare quel soggetto normativo che e' (stato) il maschio bianco, l'unica possibilita' e' una critica persistente al modo in cui ci si mette al centro del discorso. * Essere consapevoli, criticare persistentemente, decostruire: questo e' l'itinerario del pensiero di Spivak che, infatti, non crede alle grandi costruzioni teoriche che spiegano tutto e che vogliono essere coerenti nella loro pretesa di raccontare la verita', assoluta e definitiva. Spivak non crede alle master narratives, le narrazioni dei maestri, ma anche dei padroni. Questo non vuol dire che le master narratives vadano demonizzate perche' chiunque viene catturato a narrare; dobbiamo accettare l'impulso di pensare alle origini e alle finalita', di fare programmi di giustizia sociale, restando pero' al contempo consapevoli che si tratta di una nostra necessita', non della via verso la verita', o di una soluzione ai problemi del mondo. Il caveat sulle grandi narrazioni, che rischiano di prendere il sopravvento e apparirci come se fossero vere, vale anche per le parole di cui le narrazioni si servono; Spivak le chiama masterwords, le parole dei maestri ma, di nuovo, anche dei padroni. Parole come "il lavoratore" o "la donna" sono parole a rischio perche' spingono a creare, e poi a costruire, grandi narrazioni; e tuttavia, sono parole che non hanno alcun riferimento letterale perche' non esistono esempi "veri" del "vero" lavoratore o della "vera" donna, che sono "veramente" pronti a battersi per gli ideali che noi abbiamo costruito e sui quali sono stati mobilitati. Queste considerazioni ci dovrebbero mettere in guardia sulle pretese universali, per esempio del marxismo o del femminismo occidentale, di parlare in nome degli uni e delle altre. Anche l'impegno femminista occidentale col sud del mondo spesso maschera una superiorita' condiscendente in nome delle sorelle (costruite e dunque considerate) piu' svantaggiate. La dobbiamo smettere di sentirci privilegiate e di conseguenza migliori, dice Spivak "situandosi"; mettendo cioe' in gioco i suoi numerosi privilegi che vanno dall'essere un'intellettuale di grande prestigio nell'accademia statunitense, coinvolta nella produzione neocoloniale, all'insegnare ai cittadini piu' garantiti e viziati del mondo, al vivere nella citta' piu' opulenta e consumista del globo. Situarsi vuol dire non candidarsi all'universalita' e cioe' all'essenza, anche se, che una lo riconosca o meno, non si puo' fare a meno delle universalizzazioni. Il punto e' esserne consapevoli, e utilizzare le universalizzazioni piuttosto che ripudiarle: e' quel che lei chiama strategic essentialism, anche perche', in un mondo dominato dagli uomini, come si fa a fare analisi e politica femminista se non - rischiando l'essenzialismo - "come una donna"? * Anche il privilegio va decostruito, perche' non sempre e non necessariamente implica intelligenza, comprensione e possibilita' di rapporto. Spesso, anzi, succede esattamente il contrario. Spivak suggerisce di "unlearn one's privilege as one's loss", cioe' di disimparare i propri privilegi perche' sono una perdita. Il razzismo - per esempio - si impara, e' un punto di vista e un comportamento acquisito che ci impedisce di vedere, capire e comunicare con chi e' diverso da noi; attribuiamo all'Altra/o degli stereotipi, la/o interpretiamo attraverso dei pregiudizi e, di fatto, chiudiamo la nostra mente, la nostra possibilita' di comunicazione, apprendimento, scambio e relazione; ecco che il nostro privilegio - in questo caso quello di appartenere alla "razza" bianca - si trasforma in una impossibilita', in una incapacita'. Disimparare il proprio privilegio significa cominciare ad avere "una relazione etica" con l'Altra/o. E' un modo di pensare, di concepire la propria identita' e quella dell'Altra differentemente. Non piu' l'Altra che, dall'altra parte del mondo, ha la funzione di specchio che ingrandisce la nostra immagine, ma la possibilita' di comunicare attraverso distanze e differenze impossibili. E' un abbraccio, un atto d'amore all'interno del quale ambedue le persone hanno la possibilita' di imparare l'una dall'altra. 4. RIFLESSIONE. BARBARA SPINELLI: KOMPROMATY [Dal quotidiano "La stampa" del 29 ottobre 2006. Ci sia consentito dire che anche per chi come noi non condivide l'ideologia e la retorica del cosiddetto bipolarismo, della cosiddetta alternanza e del modello elettorale maggioritario (e per molte buone ragioni), l'analisi e la denuncia di questo articolo restano di estremo rilievo, e valore (p. s.). Barbara Spinelli e' una prestigiosa giornalista e saggista; tra le sue opere segnaliamo particolarmente Il sonno della memoria, Mondadori, Milano 2001, 2004; una selezione di suoi articoli e' in una sezione personale del sito del quotidiano (www.lastampa.it)] Kompromaty si chiamano nella Russia di Putin quei documenti destinati a compromettere l'avversario e liquidarlo nel momento piu' conveniente: cosa che di solito si fa non coi concorrenti politici, ma con i nemici in guerra. Il Cremlino affida la fabbricazione dei kompromaty a organi segreti che il potere personalmente controlla, siano essi pubblici o privati. I dossier son fatti per seminare paura, e di paura si nutrono: servono a ricattare, infangare, bloccare qualsiasi alternativa al regime esistente. Sono ingredienti basilari d'ogni dittatura e d'ogni regime dove lo Stato vien confiscato da una persona, un partito o una lobby. La politica della paura che regna dall'11 settembre ha immensamente affinato le tecniche di questi poteri segreti, e la loro disinvoltura. Chi si presta a simili operazioni - politici, funzionari pubblici sleali, giornalisti - ha il piu' grande disprezzo dello Stato e di chi fedelmente lo serve. E' abituato ai bassi servizi, non al servizio della cosa pubblica: la res publica e' qualcosa che non riconosce e in cui non crede. Gli scandali scoppiati ultimamente in Italia - le rivelazioni sullo spionaggio fiscale di un gran numero di personalita' e soprattutto dell'attuale capo del governo Romano Prodi, cui si aggiunge un piano del Sismi che risale all'inizio del governo Berlusconi, inteso a "disarticolare, anche con mezzi traumatici", i nemici del centrodestra - somigliano come fratelli gemelli all'uso che Putin fa del kompromaty (gli italiani, piu' fumosi, parlano di dossieraggio). Sono operazioni che vengono condotte a fianco dello Stato, ignorando e aggirando i molti suoi servitori onesti. E' un lavoro - meglio sarebbe dire un lavorio, perche' l'azione e' martellante, di lungo respiro - che viene affidato a un potere non visibile, non eletto e non controllato. E' un potere che fugge non solo lo Stato, ma la politica stessa: ambedue infatti - Stato e politica - sono giudicati da chi fa questi servizi come disprezzabili, inesistenti, comunque aggirabili. Per questo Carlo Federico Grosso ha dato a quest'ennesima criminalita' di corpi dello Stato (elementi della Guardia di Finanza e del Sismi, appaiati) il nome di eversione, ieri su questo giornale. Eversione e' una destabilizzazione permanente, un'erosione sistematica della cosa pubblica. Il dizionario Battaglia ricorda come fin dal '400, nelle parole di Leon Battista Alberti, significhi "sovvertimento radicale e rivoluzionario (letteralmente atterramento) degli ordini politici o della struttura della societa', compiuto dall'interno". * Nell'ultimo decennio i commentatori hanno discusso spesso attorno alla natura del potere berlusconiano: era un Regime o no? Qui basti rammentare che l'eversione e' arma essenziale d'ogni regime autoritario, brandita per conquistare il potere e poi mantenerlo. I cittadini che assistono all'emersione di questi crimini sanno che la storia italiana incessantemente li riproduce: ogni volta con le loro oscurita', che diventano perenni; con i loro personaggi, di cui si dimenticano presto i reati. Ogni volta con i loro giudici, accusati di malafede e fallimento per il solo fatto che non sempre riescono a condannare, pur avendo accertato colpe non confutate (e' il caso di Andreotti, assolto anche se giudicato reo di associazione con la mafia fino al 1980). Ma i cittadini sanno anche che nell'ultimo decennio le azioni dei corpi dello Stato che agiscono nell'illegalita' si son moltiplicate, bersagliando ripetutamente la persona di Romano Prodi. La magistratura dira' se queste operazioni, che hanno come protagonisti Guardia di Finanza, Sismi e servizi privati, hanno risposto a ordini del centrodestra che ha governato nel '94 e nel 2001-2006. Fin da ora sappiamo tuttavia che le manovre hanno colpito soprattutto l'opposizione a Berlusconi, e che hanno fatto di tutto per inquinare o svuotare contropoteri indispensabili in democrazia (stampa e magistratura). Colpisce il piano del Sismi, che risalirebbe all'inizio del governo Berlusconi del 2001 e che Guido Ruotolo ha portato alla luce su "La Stampa" di giovedi'. Il dossier cui si fa riferimento e' stato trovato il 5 luglio dagli uomini della Digos, nella sede distaccata del Sismi diretta da Pio Pompa, uomo molto legato a Pollari, e conferma l'esistenza di un'eversione circostanziata. Colpisce soprattutto a causa del linguaggio: i redattori del piano d'azione si propongono di "colpire e disarticolare una struttura nemica del centrodestra con azioni anche traumatiche", e' scritto nel dossier. * Disarticolare, struttura nemica, azioni traumatiche: chi ricorda i comunicati delle Brigate Rosse ritrova qui un vocabolario immondamente familiare. Un vocabolario che rimanda al linguaggio terroristico di servizi come il Kgb, rinato dalle ceneri grazie a Putin. Paralleli storici di questo tipo sono stati evocati da personalita' note per la loro circospezione, in Italia. Degno di menzione e' il discorso tenuto a Torino dal procuratore capo Marcello Maddalena, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario 2006. Il magistrato si riferiva a una legge ad hoc del governo Berlusconi, che aveva impedito a Gian Carlo Caselli di divenire procuratore nazionale antimafia, e disse cosi': "L'episodio mi ha fatto venire in mente un motto tristemente famoso: colpirne uno per educarne cento. Hanno sbagliato i conti: siamo in novemila (tanti quanti sono i magistrati, ndr)". Colpirne uno per educarne cento era un motto di Mao Tse-Tung, fatto proprio dalle Brigate Rosse. Chi disarticola con azioni traumatiche ha questo in mente: colpisce per educare, cioe' per avvertire ricattando, impaurendo. Chi opera in tal maniera vuol educare chi ancora serve lo Stato, scoraggiando la sua fedelta'. Vuole educare i giudici abolendone l'autonomia, educare i cittadini abolendo la fiducia che vorrebbero avere nel proprio Stato. Vuol educare infine l'opposizione, ricordandole che l'alternanza e' - in Italia - la piu' pericolosa, stravagante, sconveniente delle avventure. * Questo si e' inteso e s'intende ferire e demolire, usando i corpi dello Stato per azioni illegali. Non e' questione solo di Prodi, nei cui conti si e' spiato 128 volte con la speranza di eliminarlo come candidato alla successione di Berlusconi. Berlusconi stesso pare sia stato spiato. Il senso generale di queste operazioni destabilizzanti, che dopo Mani Pulite e la fine dei vecchi partiti non sono diminuite ma si son dilatate e hanno attinto forza nell'anti-politica, e' quello di demolire due cose congiuntamente: l'alternanza intesa come alternativa, e il bipolarismo che ne e' la premessa. In uno Stato slabbrato e sistematicamente aggirato - Aldo Schiavone lo spiega bene, nel libro Italiani senza Italia - il bipolarismo non puo' funzionare, o funziona appunto cosi': sempre alle prese con azioni eversive, e con un potere che fugge il piu' lontano possibile dalla politica, sino a divenire totalmente opaco e a smaterializzarsi. L'azione eversiva di corpi che formalmente appartengono allo Stato ma in realta' rendono servizi a chi se ne e' impossessato ha come scopo quello di creare una situazione in cui cambiare le cose (il funzionamento dell'amministrazione pubblica, la forma piu' meno trasparente della politica, la giustizia) diventa impossibile. Piu' crescono le forze di chi vuol cambiare, piu' i poteri paralleli fuggono per irrobustire lo status quo e impedire riforme profonde d'ogni tipo. Una volta era il denaro a fuggire, destabilizzando l'Italia, quando si annunciavano cambiamenti politici sostanziosi. Oggi e' il potere stesso a mettersi in fuga: fuga dalla politica, dalla giustizia, dalla buona amministrazione. Dalla P2 e' sempre la stessa storia: e' la storia di poteri che investono tutto sulla debolezza della cosa pubblica, rendendola sempre meno pubblica e sempre piu' privata. Berlusconi forse non e' all'origine di tali manovre. Ma senz'altro e' all'origine di questa confisca-privatizzazione della politica, del prevalere metodico dell'interesse particolare su quello generale, di una retorica che critica lo Stato per meglio estenderne le violenze arbitrarie. Il suo stesso ingresso in politica avvenne all'insegna di tale privatizzazione. Lui stesso spiego' a Enzo Biagi la molla che nel '94 lo fece scendere in campo: "Caro Biagi, se non entro in politica mi fanno fallire". * Una delle cose piu' perturbanti in queste ore e' la reazione intimorita, lenta, di molti politici: non son pochi, nell'opposizione e fuori, che proprio a causa di questi scandali sostengono la necessita' di larghe intese, piu' che di vero risanamento. Proprio ora urgerebbe rinunciare a quel bipolarismo e a quelle chiare alternanze che i poteri paralleli intendono da decenni disarticolare, traumatizzare. Parlare in queste condizioni di larghe intese significa prender atto della disarticolazione, cedere alla sua pressione eversiva, farsi metter paura, scegliere non il compromesso ma la compromissione. Significa riconoscere che in Italia, a differenza dei Paesi dove la democrazia cammina, non sono praticabili alternanze autentiche perche' non esiste una struttura dello Stato che sopravviva integra, con i suoi leali e neutrali servitori, ai mutamenti di maggioranza. Significa convincere gli italiani che tutti i politici si equivalgono, che nessuno servira' qualcosa di diverso dall'interesse privato. Puo' darsi che un giorno l'Italia avra' bisogno di larghe intese (o non potra' far altro che questo, come ha dovuto Angela Merkel, senza volerlo, in Germania). Ma le larghe intese come risposta a quel che sta accadendo, e' congedo dal bipolarismo e vittoria dell'eversione. Due sono infatti le conclusioni che si possono trarre dagli odierni avvenimenti. O il bipolarismo e l'alternanza sono improponibili in Italia, perche' lo Stato non esiste, e allora le larghe intese sono la via, anche se la via dell'abdicazione. Ci sono pessimisti che condividono questa opinione e parlano di alleanze tra volenterosi, senza mai chiarire cosa i volenterosi debbano volere. Oppure si riforma lo Stato non limitandosi a far cadere qualche testa, ben sapendo che minacciati - dunque da salvare - sono sia le alternanze sia il bipolarismo. Stare in bilico ed esitare e' la terza via, tante volte imboccata e tante volte perdente. Quando scoppiano scandali di questo genere si sente sempre solo un'esclamazione: "E' inaccettabile!". La parola e' vana: andrebbe bandita dal dizionario dei politici rispettabili. Il politologo francese Raymond Aron diceva che nel momento stesso in cui prendi tempo per pronunciare l'aggettivo - inaccettabile - hai gia' accettato. Vuol dire che la minaccia oscura ha funzionato. Che cerchi un accomodamento con l'eternita' dell'illegalita'. Che hai rinunciato a combatterla, e non credi gia' piu' ne' nella politica, ne' nell'alternanza. 5. DOCUMENTI. DA FIRENZE IL 4 NOVEMBRE UN INVITO NONVIOLENTO AI MILITARI [Da varie persone amiche (Pierluigi Ontanetti, Alberto L'Abate...) impegnate nell'esperienza della "Fucina della nonviolenza" di Firenze riceviamo e diffondiamo questa lettera aperta indirizzata alle ed ai militari italiani, diffusa da vari movimenti pacifisti e nonviolenti a Firenze il 4 novembre 2006] Scriviamo contenti di ricordare che, come noi, voi siete esseri viventi appartenenti alla specie umana; quindi persone, cittadine e cittadini del mondo nate e nati nella terra che qualcuno ha chiamato Italia. In questo paese e' diffusa l'idea che ci sono tante cittadine e tanti cittadini che odiano i militari e tutti quelli che portano una divisa; tra questi vengono inclusi erroneamente anche gli antimilitaristi. Proviamo a far chiarezza. Antimilitaristi, nel senso nonviolento, non si nasce. Ci scopriamo antimilitaristi man mano che maturiamo una visione del mondo basata su valori, principi e dimensione progettuale che hanno come fine il rispetto di ogni persona, l'equita' economica, il rispetto della natura, l'opportunita' per tutti di partecipare attivamente alle decisioni che la comunita' umana prende ai vari livelli, da quello locale a quello mondiale. Ci scopriamo antimilitaristi quando cittadini come noi si accorgono che l'esercito trasforma in matricole, numeri incasellati al posto giusto, per produrre meccanismi violenti di relazione e di potere. Ci scopriamo antimilitaristi perche' la cultura e l'organizzazione militare riproducono, in una visione maschilista, meccanismi che mortificano la persona trasformandola in oggetto che il potere politico, economico e culturale possono usare come e quando vogliono per realizzare progetti di dominio, di conquista e di controllo. Non siamo a chiedervi perche' siete entrate ed entrati nell'esercito, e lungi da noi il voler giudicare la scelta di ognuna ed ognuno di voi. Quello che sappiamo e' che in molte e molti patite per le condizioni in cui siete costrette e costretti a vivere. Quello che sappiamo e' che cresce sempre piu' il numero dei militari che non vogliono imbracciare le armi per andare fuori confine. Quello che sappiamo e' che a voi non e' riconosciuto il minimo diritto sancito dalla Costituzione di potervi esprimere. Quello che sappiamo e' che a molti, politici e religiosi compresi, va bene che la struttura esercito sia fatta da uomini e donne trasformati in numeri pronti ad obbedire agli ordini di qualsiasi governo in carica. Per fortuna, in questo paese e nel mondo c'e' chi la pensa diversamente e sta lottando col fine di trasformare le Forze armate in una esperienza nonviolenta di societa' civile organizzata: i Corpi civili di pace, dove la persona non viene ridotta a numero, ma, insieme alle altre, e' chiamata ad esercitare il diritto-dovere di interposizione, alla prevenzione di tutti i micro e macroconflitti sul territorio italiano e oltre. Siamo ancora in tempo per cambiare in meglio la situazione attuale, diventa fondamentale rompere la barriera che viene posta tra noi cittadini "civili" e voi cittadini "militari" affinche' l'Italia conosca realmente cio' che accade nelle caserme e nelle catene di comando. Diventa vitale creare spazi di incontro con la societa' civile, oltre che con le istituzioni locali, per poter dialogare, dare voce a chi voce non ha, dentro e fuori le caserme. Siamo tutti corresponsabili in questo mondo, ognuno di noi e' chiamato ad assumersi la responsabilita' dinanzi alla propria coscienza, alla storia dell'oggi e a quella futura. La stragrande maggioranza di noi civili e voi militari sa benissimo che e' falsa l'immagine dei "soldati di pace" presentata da molti politici. Anche i bambini che frequentano la prima elementare chiedono alle maestre: "come fa un soldato con il fucile a portare la pace?". Siamo tutti chiamati a scegliere se stare dalla parte di chi pensa di essere padrone della natura e degli esseri umani, o stare con coloro che, sentendosi parte di un equilibrio, mettono al centro del loro pensare e agire il rispetto della vita e della morte. Ma il militarismo e il sistema di guerra non e' un affare solo "di militari". Siamo tutti coinvolti in una filiera che non risparmia nessuno, nessun lavoratore e' estraneo alla produzione che alimenta guerra e violenza. I sindacati, insieme ai lavoratori, si trovano tra l'incudine e il martello; dicono no alla guerra, ma ancora non hanno trovato il coraggio di iniziare una politica forte di trasformazione industriale... Meglio un esercito di pace che troppi disoccupati, ci viene detto. Pensate un po', c'e' dentro anche la Chiesa. Noi non sappiamo cosa pensi il buon Dio dei cappellani militari e ci guardiamo bene dal fargli da portavoce... ma una cosa l'abbiamo capita: chi vuole fare assistenza spirituale ai "figli di Dio" che hanno scelto la vita militare, non e' obbligato a ricoprire il ruolo di cappellano militare. Il fatto stesso che esista ancora questa figura culturale e giuridica da' ragione a coloro che pensano che la Chiesa si e' venduta per poche monete tradendo i valori di amore e fraternita'. I cappellani militari vivono in simbiosi con la cultura e la prassi militare, assecondando il nazionalismo ed esaltando la cultura sacrificale, dando ragione a quelli che dicono "io sono nel giusto, gli altri nel torto". L'esistenza stessa dei cappellani militari, rende corresponsabile la Chiesa dei crimini contro l'umanita' che gli eserciti compiono tutti i giorni e del non rispetto dell'articolo 11 della Costituzione italiana. La stessa cosa, nel mondo, accade con altre chiese e religioni. Nel far nostra la legge cristiana che ci chiede di amare il prossimo come noi stessi, non esiteremo un istante a chiamare quanti ci e' possibile a praticare l'obiezione di coscienza sempre, nelle professioni e in tutti i luoghi e i momenti di vita individuale e collettiva. Tutti i giorni siamo costretti a contare le vittime di tante guerre, comprese quelle "umanitarie". Forse saremo chiamati presto a dare l'estremo saluto a una o un "militare di pace" italiano; mentre i politici, i cappellani, saranno nelle cattedrali e nei palazzi del potere a esaltare il sacrificio, noi saremo con le amiche e gli amici della nonviolenza sulle strade e nelle piazze a dire ancora una volta: no alla guerra senza se e senza ma, si' ai Corpi civili di pace. Con la speranza che anche voi, cittadine e cittadini in divisa, sarete con noi a gridare che un mondo di giustizia e' possibile. Per questo vi invitiamo a brindare con noi a un mondo nuovo, di pace, senza armi. Cordiali saluti. * La Comunita' per lo sviluppo umano, Donne in nero, Gruppo "Via le bombe da Aviano", Comitato "Fermiamo la guerra", Fucina per la nonviolenza Firenze, 4 novembre 2006 6. INIZIATIVE. "WE VOTE FOR PEACE". UN SIT-IN A ROMA [Da Stephanie Westbrook, portavoce dell'associazione "U.S. Citizens for Peace & Justice - Statunitensi per la pace e la giustizia" di Roma (per contatti: e-mail: info at peaceandjustice.it, sito: www.peaceandjustice.it) riceviamo e diffondiamo. Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra in Iraq; per tutto il successivo mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in cui George Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli per chiedergli conto della morte di suo figlio; intorno alla sua figura e alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio movimento contro la guerra; e' stato recentemente pubblicato il suo libro Not One More Mother's Child (Non un altro figlio di madre), disponibile nel sito www.koabooks.com; sta per uscire il suo secondo libro: Peace Mom: One Mom's Journey from Heartache to Activism, per Atria Books] In solidarieta' con il sit-in di Cindy Sheehan in occasione delle elezioni di medio termine negli Stati Uniti, a Roma, martedi' 7 novembre, dalle ore 16 alle ore 18 si terra' sit-in davanti all'ambasciata statunitense promosso dall'associazione "U.S. Citizens for Peace & Justice - Statunitensi per la pace e la giustizia" di Roma. * Il 7 novembre negli Stati Uniti gli elettori sono chiamati alle urne per votare nelle elezioni di medio termine per rinnovare la Camera e un terzo del Senato. Dal 6 al 9 novembre, a cavallo del voto, Cindy Sheehan e altri attivisti statunitensi organizzano un sit-in di quattro giorni a Washington D. C. davanti alla Casa Bianca per dire no all'occupazione dell'Iraq, no ad azioni militari contro l'Iran, no alla tortura, qualunque sia l'esito delle elezioni. E per ricordare al Congresso le proprie responsabilita'. Manifestazioni simili veranno organizzate in diverse citta' negli Stati Uniti e davanti alle ambasciate statunitensi nel mondo. In solidarieta' con gli attivisti negli Stati Uniti, a Roma, martedi' 7 novembre, dalle 16 alle 18, l'associazione "Statunitensi per la pace & la giustizia" organizza un presidio davanti all'ambasciata statunitense per votare simbolicamente per la pace e in particolare per: il ritiro immediato delle truppe dall'Iraq; una soluzione diplomatica con l'Iran; il rispetto delle leggi internazionali; la fine della tortura e delle carceri segrete; il disarmo e una forte riduzione della spesa militare. * Per maggiori informazioni sulla manifestazione a Washington vedere il sito di Gold Star Families for Peace, l'organizzazione di Cindy Sheehan: www.gsfp.org Per informazioni sul presidio di Roma: Stephanie Westbrook, portavoce dell'associazione "Statunitensi per la pace e la giustizia" di Roma, tel. 3331103510 - 06 8411649, e-mail: info at peaceandjustice.it, sito: www.peaceandjustice.it ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 98 del 5 novembre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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