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Nonviolenza. Femminile plurale. 88
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 88
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 2 Nov 2006 10:21:19 +0100
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 88 del 2 novembre 2006 In questo numero: 1. In libreria "La nonviolenza delle donne" a cura di Giovanna Providenti 2. Rania Abouzeid: May Chidiac di nuovo in onda 3. Ida Dominijanni: Polisemie velate 4. Susan Sontag: Alcune pagine di diario 5. Rossana Rossanda: Se 6. Lea Melandri: Religioni in guerra 7. Anna Simone presenta "Altri femminismi" di autrici varie 1. LIBRI. IN LIBRERIA "LA NONVIOLENZA DELLE DONNE" A CURA DI GIOVANNA PROVIDENTI [Ringraziamo Giovanna Providenti (per contatti: g.providenti at uniroma3.it) per averci inviato la seguente scheda di presentazione del libro: Giovanna Providenti (a cura di), La nonviolenza delle donne, "Quaderni satyagraha", n. 10, Libreria Editrice Fiorentina - Centro Gandhi, Firenze-Pisa 2006, pp. 288, euro 16 (per richieste: Centro Gandhi, via Santa Cecilia 30, 56127 Pisa, tel. 050542573, e-mail: roccoaltieri at interfree.it, sito: www.centrogandhi.it). Giovanna Providenti e' ricercatrice nel campo dei peace studies e women's and gender studies presso l'Universita' Roma Tre, saggista, si occupa di nonviolenza, studi sulla pace e di genere, con particolare attenzione alla prospettiva pedagogica. Ha due figli. Partecipa al Circolo Bateson di Roma. Scrive per la rivista "Noi donne". Ha curato il volume Spostando mattoni a mani nude. Per pensare le differenze, Franco Angeli, Milano 2003, e il volume La nonviolenza delle donne, "Quaderni satyagraha", Firenze-Pisa 2006; ha pubblicato numerosi saggi su rivista e in volume, tra cui: Cristianesimo sociale, democrazia e nonviolenza in Jane Addams, in "Rassegna di Teologia", n. 45, dicembre 2004; Imparare ad amare la madre leggendo romanzi. Riflessioni sul femminile nella formazione, in M. Durst (a cura di), Identita' femminili in formazione. Generazioni e genealogie delle memorie, Franco Angeli, Milano 2005; L'educazione come progetto di pace. Maria Montessori e Jane Addams, in Attualita' di Maria Montessori, Franco Angeli, Milano 2004. Scrive anche racconti e ha in cantiere un libro dal titolo Donne per, sulle figure di Jane Addams, Mirra Alfassa e Maria Montessori] E' in libreria La nonviolenza delle donne, a cura di Giovanna Providenti, "Quaderni Satyagraha", Libreria Editrice Fiorentina, Pisa-Firenze 2006. * Scheda di presentazione Nel presentare questo libro conviene chiarire subito l'equivoco a cui il titolo - La nonviolenza delle donne - potrebbe indurre: non e' intenzione delle autrici perpetuare l'oppressivo luogo comune secondo cui le donne sarebbero meno violente e meno aggressive degli uomini. Non solo perche' e' stato fin troppo dimostrato che le donne possono essere anche molto cattive (vedi soldatesse torturatrici, madri assassine, ministre guerrafondaie e via dicendo). E non solo perche' sempre piu' uomini mettono seriamente in discussione il dogma culturale della loro connaturale attitudine a bellicosita' e competizione. Il motivo per cui ci preme non cadere nell'equivoco delle donne nonviolente per "natura" e' perche' siamo consapevoli che, per quanto riguarda il tema "genere maschile e femminile", la maggior parte delle cose definite "naturali" sono in realta' frutto della secolare cultura patriarcale da cui proveniamo: una cultura in via di sfaldamento, da quando sono state individuate le false premesse del pensiero bipolare e si e' compreso il valore dell'ambivalenza e complessita' del mondo. Oggi, la differenza tra persone e' stata riconosciuta come una ricchezza, e non piu' motivo di discriminazione. E il femminismo ha contribuito moltissimo alla trasformazione della realta' da manichea e oppressiva in plurale e potenzialmente libera. Le autrici de La nonviolenza delle donne hanno scelto di raccontare qualcosa a proposito di donne che vivono in maniera autentica e significativa in realta' potenzialmente libere, pur se molto problematiche. Attraverso il racconto di esperienze di donne rivolte all'essenziale (e per questo instancabili e profonde costruttrici di pace) e il recupero di contenuti e pratiche femministe, in questo libro emerge il contributo che la liberta' femminile sta offrendo alla realizzazione di un mondo aperto all'esistenza, allo sviluppo e alla liberta' autentica di ogni essere. Nei diversi contributi del volume emergono luoghi concreti e simbolici in cui la differenza delle donne sta generando cambiamento della politica e della societa' in una direzione nonviolenta. Nella prima parte si susseguono otto contributi che esaminano alcuni temi comuni a femminismo e nonviolenza. Nella seconda parte, divisa in due sezioni, si snocciola una sorta di panoramica, di alcune realta' femminili che hanno trovato modalita' creative ed alternative per risolvere la difficile conduzione materiale della quotidianita', spesso intrisa di violenze, guerre e ingiustizie. Queste donne, creando reti tra loro e lasciando da parte ostilita' e barriere, realizzano pace. * Indice del volume - Lidia Menapace - Giovanna Providenti, Femminismo e nonviolenza: dialogo tra due generazioni diverse - Giovanna Providenti, Introduzione. La libera aggiunta femminista Riflessioni - Luisa Muraro, La forza in campo dell'amore: per un uso pensante delle differenze - Giovanna Providenti, La rispondenza delle donne alla nonviolenza - Valeria Ando', Nonviolenza e pensiero femminile: un dialogo da iniziare - Patrizia Caporossi, Il dono della liberta' femminile - Fabrizia Abbate, Il tempo al femminile. l'attesa, la cura, la cittadinanza pacifica - Debora Tonelli, Donne e nonviolenza: il ruolo di Debora nella vittoria di Israele - Elisabetta Donini, La rete delle Donne in nero: tra capacita' e limiti, tra locale e globale - Luisa Del Turco, Le donne e la comunita' internazionale: pratiche politiche e strategie Pratiche - Donne dal Sud del mondo costruttrici di pace - Ada Donno, Donne di pace arabe ed ebree nel conflitto israelo-palestinese - Federica Ruggiero, Pratiche di resistenza delle donne nel genocidio rwandese - Sandra Endrizzi, La pace che viene da sud: donne ed economie che cambiano la vita - Luana Pistone, Fiocco rosa e spose bambine. Storie di donne e resistenza nonviolenta in Bangladesh - Itala Ricaldone, Vasantha, le scuole, le donne: un percorso in espansione con l'Assefa - Diego Marani, Donne sudanesi realizzatrici di pace. Esperienze nonviolente di donne instancabili - Cecilia Brighi, Aung San Suu Kyi: un Nobel per la pace agli arresti domiciliari - Adriana Chemello, Maria Occhipinti: "la donna di Ragusa" - Monica Lanfranco, Femminismi, nonviolenza, reticenze: un'esperienza di formazione italiana - Giancarla Codrignani, Donne, diplomazie, nonviolenza: donne con volonta' concreta di cambiare - Maria G. Di Rienzo, Per cosa mio figlio va a morire? Il linguaggio semplice delle madri statunitensi - Elena Zdravomyslova, Il movimento delle Madri dei soldati in Russia - Giovanna Providenti, Un'esperienza nonviolenta in una comunita' femminile Recensioni - Valeria Ando', L'ape che tesse. Saperi femminili nella Grecia antica, Carocci, 2005 - Sandra Endrizzi, Pesci piccoli. Donne e cooperazione in Bangladesh, Bollati Boringhieri, Torino 2002 - Francesca Brezzi, Antigone e la Philia. Le passioni tra etica e politica, Franco Angeli, 2004 - Marlene Tuininga, Donne contro le guerre. Femminile plurale nonviolento, Nord Sud * Per richieste alla casa editrice: Libreria Editrice Fiorentina, via Giambologna 5, 50132 Firenze, e-mail: editrice at lef.firenze.it, tel. 055579921, fax: 0553905997, orario di apertura: dal lunedi' al venerdi' dalle 9 alle 12 e martedi' e giovedi' dalle 15 alle 18, ccp 19065507. 2. MONDO. RANIA ABOUZEID: MAY CHIDIAC DI NUOVO IN ONDA [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di Rania Abouzeid. Rania Abouzeid e' una giornalista freelance che vive a Beirut; da sette anni invia i suoi reportage dal Libano a svariati media internazionali. May Chidiac, giornalista libanese impegnata per la pace e i diritti umani, e' stata vittima di un attentato nel 2005] Beirut, Libano. Nella sua ventennale carriera televisiva, May Chidiac ha ricevuto parecchi riconoscimenti. Ma c'e' un segno di distinzione che la rende particolare: la giornalista quarantatreenne e' l'unica donna, nella storia spesso brutale del Libano moderno, ad essere stata presa di mira da assassini politici. Dopo l'attentato che le ha portato via il braccio sinistro e la gamba sinistra, Chidiac ha ricevuto nel 2006 il Premio mondiale per la liberta' di stampa dalle Nazioni Unite e quello per il Coraggio nel giornalismo dall'International Women's Media Foundation (Iwmf). Usando una protesi per camminare, Chidiac si e' recata in ottobre alle cerimonie di premiazione a New York e Los Angeles, nello stesso mese che ha visto l'omicidio di Anna Politkovskaya, destinataria del premio di Iwmf nel 2002, una giornalista russa conosciuta per i suoi reportage sulla guerra in Cecenia. Nel giorno del settembre 2005 che cambio' la sua vita, Chidiac condusse regolarmente il suo talk show politico del mattino sulla rete privata Lebanese Broadcasting Corporation, uno dei media d'informazione piu' influenti e rispettati del paese. Come spesso ha fatto, Chidiac si interrogo' sul possibile coinvolgimento della Siria nell'omicidio di Rafik Hariri, l'ex primo ministro ucciso assieme ad altre ventidue persone da una esplosione il 14 febbraio 2005. Poche ore dopo la trasmissione, mezzo chilo di esplosivo detono' sotto il sedile di guida della sua Range Rover. La bomba le strappo' via la gamba sinistra all'altezza del ginocchio e maciullo' il suo braccio sinistro, che fu in seguito amputato. Il viso fu risparmiato, perche' la donna si era girata verso i sedili posteriori al momento dell'esplosione. "Sapevo che li stavo disturbando", dice May Chidiac, riferendosi ai sostenitori della Siria ed ai loro mentori a Damasco, "Ma non avrei mai pensato che sarebbero arrivati a pensare di uccidermi". I suoi aggressori non sono ancora stati trovati. * L'esercito siriano occupo' il Libano dal 1976 al 2005, dopo essere entrato nel paese come forza di peacekeeping. Ben presto divenne uno dei contendenti nella sanguinosa guerra civile che infurio' dal 1975 al 1990. In un paese in cui il dissenso verso la Siria spesso significa la morte o la sparizione, Chidiac non si e' mai astenuta dal porre domande difficili, persino durante la presenza dei siriani in Libano. L'omicidio di Hariri accese le dimostrazioni di strada che rovesciarono il governo filosiriano e forzarono Damasco a ritirare le sue truppe. I mesi che seguirono furono tumultuosi, e una profusione di bombe prese di mira politici antisiriani. Chidiac ignoro' le minacce di morte nei suoi confronti, riportatele da colleghi preoccupati. Ad un certo punto, racconta, un ufficiale siriano dell'intelligence si rivolse direttamente al suo direttore alla Lebanon Broadcasting Corporation, dicendo che voleva bere il sangue della giornalista. "Pensavo si trattasse solo di un'intimidazione", dice Chidiac, "Inoltre, non avevano mai attaccato una donna sino ad allora, ed io non facevo politica, ero una giornalista che si occupava di politica". Ma i suoi sentimenti erano coperti da un velo molto fine. Di rado apertamente combattiva, Chidiac faceva pero' i suoi commenti mirati e ficcanti, addolcendoli subito dopo con un sorriso. Si trattava di un approccio che la rendeva cara a decine di migliaia di spettatori del suo talk show del mattino e del notiziario in cui spesso appariva la sera. * "L'attentato a May Chidiac non e' stato solo un attacco ad una donna e ad una giornalista, era diretto contro i media nel loro insieme", dice Gina Ofeiche, una giornalista televisiva che lavora a Beirut per la stazione saudita Al-Ikhbariya, "La reazione a questo dell'opinione pubblica e' stata molto forte". Migliaia di messaggi di solidarieta' e sostegno furono inviati a Chidiac da tutto il paese e da tutto il mondo. Veglie e fiaccolate furono tenute fuori dall'ospedale di Beirut dove la giornalista passo' diverse settimane, prima di trasferirsi in Francia per ulteriori cure. I suoi energici sforzi per la guarigione sono stati lunghi, dolorosi e molto pubblici. "Ha la simpatia dei libanesi, e l'ammirazione per il suo coraggio e la sua professionalita'", dice Hanna Anbar, del quotidiano di Beirut "Daily Star", "Non ha accettato il tentato omicidio come un ostacolo alla sua carriera, un ostacolo che avrebbe indotto molti a ritirarsi". Dopo mesi di intensa terapia fisica per imparare ad usare la gamba artificiale, May Chidiac e' tornata a casa l'11 luglio scorso. In piena forma, con una pettinatura immacolata, ha insistito per camminare anziche' usare la carrozzella sul breve tragitto che l'ha portata dal parcheggio alla sala dove ministri, leader politici e dignitari religiosi l'aspettavano per darle il bentornata. "La donna che si e' ripresentata al pubblico non appariva affatto piu' debole, a causa delle sue ferite. Sembrava addirittura piu' forte", commenta Gina Ofeiche. * Il giorno dopo, il gruppo sciita Hezbollah catturo' due soldati israeliani in un raid sul confine che diede inizio ad una massiccia offensiva israeliana. Circa milleduecento libanesi e centocinquanta israeliani sono morti nel conflitto che duro' 34 giorni e termino' a meta' agosto. La convalescente Chidiac non sedette in disparte, a guardare una guerra a cui si opponeva. Dieci mesi e 26 operazioni chirurgiche dopo l'attentato, Chidiac ando' di nuovo in onda con un talk show politico settimanale, che debutto' durante il conflitto e su esso era centrato. La giornalista critico' Hezbollah per il raid ma ne ospito' dei rappresentanti nel talk show. I dibattiti erano vivaci e accesi, in un periodo in cui molti libanesi che prima della guerra erano critici verso Hezbollah ne adottarono la retorica per evitare di essere scambiati per sostenitori di Israele. "Non e' facile discutere con i membri di Hezbollah, pensano che o sei con loro o sei contro di loro", racconta May Chidiac, "Se per esempio parli delle perdite che il paese ha subito, ti considerano subito un traditore". Chidiac e' ancora largamente dipendente dalla sedia a rotelle. Le sue due guardie del corpo fungono anche da assistenti. Non si e' ancora ripresa abbastanza per ricominciare a condurre lo show del mattino, ma nel frattempo tiene due corsi di giornalismo all'universita' e appare nel notiziario della sera. "Il mio corpo e' differente, ma la mia mente e' sempre la stessa", mi dice puntando il braccio artificiale, dalle unghie smaltate e ornato di braccialetti, "Sono decisa come prima. Anzi, forse lo sono di piu'". 3. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: POLISEMIE VELATE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 ottobre 2006 riportiamo ampi stralci del seguente articolo. Ida Dominijanni, giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia sociale all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale femminista. Tra le opere di Ida Dominijanni: (a cura di), Motivi di liberta', Angeli, Milano 2001; (a cura di, con Simona Bonsignori, Stefania Giorgi), Si puo', Manifestolibri, Roma 2005] Nel 2004, in pieno dibattito sulla legge francese contro l'uso del foulard islamico (mi scuso con lettrici e lettori se torno sul punto per la terza settimana consecutiva, ma l'ossessione non e' mia), un'inchiesta pubblicata nel volume Le foulard islamique en question (a cura di C. Nordmann, Editions Amsterdam) individuava quattro diversi usi del velo nelle periferie parigine. Nella stratigrafia generazionale delle famiglie di immigrati coesistevano il velo portato per ragioni tradizionali dalle nonne, il velo imposto alle giovani da genitori conservatori, il velo scelto e rivendicato da altre giovani contro i genitori emancipati e occidentalizzati, il velo indossato come schermo di difesa dalle aggressioni di maschi islamici e occidentali. Una polisemia in cui precipitano fattori storici, antropologici e culturali diversi - la tradizione religiosa, l'assimilazione occidentale, la simbolizzazione della differenza sessuale, il conflitto generazionale, il conflitto fra i sessi, l'identita' culturale ereditata o reinventata, le pratiche di travestitismo e performance tipiche delle metropoli postmoderne - e di fronte a cui e' impossibile schierarsi con un si' o con un no, com'e' d'uso negli attuali derby da talk show pro o contro il velo: tocca tollerare, decifrare, e soprattutto ascoltare le ragioni e sragioni delle donne interessate. Una bella inchiesta di Guido Rampoldi sul litorale di Tunisi pubblicata l'altro ieri su "La domenica di Repubblica" arriva, in un contesto diverso dalle periferie parigine, a conclusioni analoghe. Sulla spiaggia di Tunisi dove dieci anni fa imperava il bikini, dal 2000 in poi molte ragazze hanno preso a coprirsi prima coi pants da ciclista, poi con le t-shirt (ma corte sopra l'ombelico), poi col foulard bianco e adesso col velo "nero Hezbollah", e a fare sorveglianza contro il velo non c'e' il desiderio di emancipazione femminile ma la polizia della piu' laica fra le nazioni arabe. Interrogata da Rampoldi sul perche', una intellettuale laica, che il velo non lo porta, indica varie e contraddittorie cause: una religiosita' peccaminosa predicata nelle periferie metropolitane europee dai missionari islamici fra gli emigrati tunisini che poi tornano in patria delusi dall'occidente, la contestazione da parte delle giovani dei genitori laici, le soap-opere egiziane con le attrici velate, e soprattutto "la stupidita' di voi europei, quel vostro modo grossolano di discutere del velo: se lo proibite nel modo piu' rozzo, metterlo diventa un punto d'onore, non metterlo una vilta'". Nella stessa pagina, della situazione in Marocco scrive Tahar Ben Jelloun. La' il velo torna "per convinzione religiosa; per moda; per precauzione e per mostrare di essere persone serie a un esame o a un colloquio di lavoro; per essere lasciate in pace dagli uomini che importunano le donne per strada; per obbedire ai genitori; per affermare un'identita' diversa da quella europea, ecc.". Nella pagina a fianco, Nadia Fusini riferisce di una trasmissione televisiva inglese in cui giovani donne islamiche nate, cresciute e istruite a Londra rivendicavano in ottimo inglese la loro scelta di portare il velo in base al principio - occidentale - del free will, della libera volonta'. Vuol dire che l'uso del velo si e' emancipato da quello oppressivo tradizionale, ed e' ormai frutto sempre e solo di una libera scelta femminile? No, ovviamente. Vuol dire pero' che lo e' talvolta, come altre volte invece e' dovuto a tradizioni oppressive, altre ancora a ragioni imitative o al contrario reattive, che cambiano di senso e di segno a seconda dei contesti sociali, relazionali, culturali. In tutti i casi, il velo non e' un reperto arcaico dell'arretratezza culturale: e' un simbolo in corso, come si dice, di risemantizzazione (in Italia, l'antropologa Anna Maria Rivera l'ha piu' volte dimostrato nei suoi scritti). Prima smettiamo di trattarlo nei talk show televisivi come un feticcio su cui misurare il tasso di modernita', disinvoltura e conformita' ai criteri estetici e morali della femminilita' nell'immaginario (maschile) occidentale, meglio e' per tutti (...). 4. MAESTRE. SUSAN SONTAG: ALCUNE PAGINE DI DIARIO [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo alcuni straci dall'anticipazione dei diari di Susan Sontag apparsa sul quotidiano "La Repubblica" il 15 ottobre 2006. Susan Sontag e' stata una prestigiosa intellettuale femminista e pacifista americana, nata a New York nel 1933, deceduta sul finire del 2004; acutissima interprete e critica dei costumi e dei linguaggi, fortemente impegnata per i diritti civili e la dignita' umana; tra i molti suoi libri segnaliamo alcuni suoi stupendi saggi, come quelli raccolti in Contro l'interpretazione e Stili di volonta' radicale, presso Mondadori; e Malattia come metafora, presso Einaudi; tra i suoi lavori piu' recenti segnaliamo particolarmente il notevole Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003] 30 dicembre 1958 Sul tenere un diario. Superficiale intendere il diario solo come il ricettacolo dei propri pensieri privati, segreti - come se fosse un confidente sordo, muto e analfabeta. Nel diario non mi limito a esprimere me stessa piu' apertamente di quanto potrei fare con un'altra persona; creo me stessa. Il diario e' un mezzo per darmi un senso d'identita'. Mi rappresenta come emotivamente e spiritualmente indipendente. Percio' (purtroppo) non registra semplicemente la mia vita concreta, quotidiana ma piuttosto - in molti casi - ne offre una alternativa. C'e' spesso una contraddizione tra il modo in cui ci comportiamo con una persona e cio' che in un diario diciamo di provare per quella persona. Ma questo non significa che quello che facciamo e' superficiale, e che solo quello che confessiamo a noi stessi e' profondo. Le confessioni, e naturalmente intendo le confessioni sincere, possono essere piu' superficiali delle azioni. Sto pensando adesso a quello che oggi (quando sono andata al 122 Bd. St-G per controllare la sua posta) ho letto su di me nel diario di H. - quel giudizio secco, sleale e ingeneroso su di me in cui dice in conclusione che non le piaccio veramente ma che la passione che io provo per lei e' accettabile e opportuna. Dio sa se fa male, e sono indignata e umiliata. Raramente sappiamo cio' che gli altri pensano di noi (o, meglio, che pensano di pensare di noi...). Mi sento in colpa per aver letto quello che non era destinato ai miei occhi? No. Tra le principali funzioni (sociali) di un diario c'e' proprio quella di essere letto furtivamente da altre persone, quelle persone (come i genitori e gli amanti) sui quali si e' stati crudelmente sinceri solo nel diario. E H. lo leggera' mai, questo? * 9 dicembre 1961 La paura di invecchiare viene nel momento in cui si riconosce di non vivere la vita che si desidera. Equivale alla sensazione di abusare del presente. * [Senza indicazione di data] Scrivo per definire me stessa - un atto di auto-creazione - parte di un processo di divenire - in un dialogo con me stessa, con gli scrittori vivi e morti che ammiro, con i lettori ideali. Perche' mi da' piacere (un'"attivita'"). Non so per certo a cosa serva il mio lavoro. Salvezza personale - Lettere a un giovane poeta di Rilke. * 27 luglio 1964 Il crimine piu' grande: giudicare. Il difetto piu' grande: la mancanza di generosita'. * 17 novembre 1964 Quando mi sono accorta di essere invidiata, mi sono astenuta dal criticare - per paura che le mie ragioni fossero poco chiare, e il mio giudizio non del tutto imparziale. Sono stata benevola. Sono stata malevola solo con gli sconosciuti, con le persone che mi erano indifferenti. Sembra nobile. Ma, in tal modo, ho salvato i miei "superiori", coloro che ammiravo, dalla mia avversione, dalla mia aggressione. Ho riservato le critiche solo per chi era "sotto" di me, per coloro che non rispettavo... ho usato il mio potere di critica per confermare lo status quo. * 17 settembre 1965 (su un aereo diretto a New York) Sartre: "Quando le persone hanno opinioni cosi' diverse, come fanno anche solo ad andare a vedere un film insieme?". Beauvoir: "Sorridere allo stesso modo a nemici e amici significa ridurre cio' in cui si crede allo stato di mere opinioni, e tutti gli intellettuali, sia di destra che di sinistra, alla loro comune condizione borghese". * [Senza indicazione di data] L'espressione di se' e un'idea limitante, limitante se e' centrale (l'arte come espressione di se' e' molto limitante). Dall'espressione di se' non si puo' mai arrivare a giustificare, in modo autentico, genuino, e non meramente opportunistico, la gentilezza. Ma se si parte dalla gentilezza, si puo' far spazio alla maggior parte delle cose che si attribuiscono all'espressione di se' (attraverso l'idea della gentilezza verso se stessi). * Primo giugno 1966 Una delle mie emozioni piu' forti e piu' dispiegate: il disprezzo. Disprezzo per gli altri, disprezzo per me stessa. Sono impaziente (sprezzante) con la gente che non sa come proteggersi, come rivendicare le proprie ragioni. La mia mente = King Kong. Aggressiva, fa a pezzi la gente. Per la maggior parte del tempo la tengo in gabbia - e mi mangio le unghie. * 6 aprile 1967 La vita ideale: fare solo cose indispensabili. 5. RIFLESSIONE. ROSSANA ROSSANDA: SE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 22 ottobre 2006. Rossana Rossanda e' nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio Banfi, antifascista, dirigente del Pci (fino alla radiazione nel 1969 per aver dato vita alla rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in rapporto con le figure piu' vive della cultura contemporanea, fondatrice del "Manifesto" (rivista prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata da sempre nei movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu' drammatica attualita' e sui temi politici, culturali, morali piu' urgenti. Tra le opere di Rossana Rossanda: L'anno degli studenti, De Donato, Bari 1968; Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o della politica come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987; con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalita', Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996; La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005. Ma la maggior parte del lavoro intellettuale, della testimonianza storica e morale, e della riflessione e proposta culturale e politica di Rossana Rossanda e' tuttora dispersa in articoli, saggi e interventi pubblicati in giornali e riviste] Che cosa sarebbe avvenuto se l'Urss non avesse invaso l'Ungheria? L'invasione era una dura necessita' - si e' detto o fatto intendere dai partiti comunisti. C'era la guerra fredda, si trattava "oggettivamente" di una controrivoluzione, avrebbe infettato tutto il campo dell'est isolando l'Unione sovietica e infliggendo un colpo fatale al socialismo. Lo stesso argomento sarebbe stato ripreso dodici anni dopo per giustificare i tank a Praga. Il ricorso all'operazione militare rivelava si' una debolezza politica, ma avrebbe salvato il campo. Trentatre' anni dopo il 1956 e ventuno dopo il 1968, il campo non esisteva piu'. E non perche' fosse stato aggredito da eserciti occidentali, ma perche' era imploso su di se'. Nulla lasciandosi alle spalle, neanche qualche minoranza, a difendere la grande avventura del 1917. Peggio di cosi' non sarebbe potuta finire. La storia, si dice, non si fa con i se. Ma da che e' diventata "passato" nel suo prodursi sono fitte le alternative, le previsioni, i dubbi, almeno entro un certo arco di possibilita'. Percio' non e' vano chiedersi che cosa sarebbe avvenuto se nel 1956 il rapporto segreto di Kruscev fosse stato recepito come un goffo ma serio segnale, se il Pcus e gli altri partiti lo avessero elaborato invece che sfuggito, se pochi mesi dopo avessero inteso la rivolta di Poznan, e poi quella di Budapest, e infine se, digerita di malavoglia la prima, la seconda non fosse stata repressa dall'intervento militare sovietico. Non era scritto ne' inevitabile che andasse cosi'. Non pochi dubbi avevano accompagnato gli eventi: i partiti comunisti, presi di contropiede dal rapporto di Kruscev, invece che affrontarlo preferirono che non fosse diffuso perche' le loro basi erano impreparate, tutti gattini ciechi che non si potevano di colpo svezzare. Il Pci accuso' Kruscev insieme di irresponsabilita' e reticenza, non si spinse oltre l'intervista di Togliatti a "Nuovi argomenti" e considero' il meno peggio che i carri armati dell'Urss riportassero l'ordine a Budapest. Da Roma non si infieri' su chi non era d'accordo sull'intervento dell'Urss, ma a coloro che restarono non si dette alimento, fino alla conferenza di Livorno, dove Togliatti si senti' attaccato solo perche' alcuni chiedevano di andare a fondo di quel nodo terribile che rimaneva inesplorato. Dopo di che tutti tacquero, eccezion fatta per Aldo Natoli, fino al 1989. Quando la maggior parte di essi butto' alle ortiche non solo Stalin e l'Urss, ma Lenin e Marx e l'idea stessa d'una societa' di uguali. Il comunismo era quello o niente. Il silenzio del 1956 e poi del 1968 - la condanna del Pci su Praga non era cosi' decisa se chi la espresse in modo netto fu radiato dal partito un anno dopo - fu non solo immorale, ma suicida. Non era obbligato ne' da un punto di vista sociale ne' dalla famosa geopolitica. Quella di Poznan era stata una rivolta limpidamente operaia, niente affatto antisocialista, e sarebbe ripresa in Polonia fino a tutti gli anni Ottanta. A Varsavia si richiamava al governo un comunista, Gomulka, veniva accolto con fervore, c'era dunque la possibilita' di rispondere alla rivolta con intelligenza, comprendendone le cause, traendone una lezione, correggendosi e correggendone, se c'erano, tendenze nemiche. Qualche dubbio dovette esserci stato anche nel Pcus se il 30 ottobre l'Urss dichiarava solennemente che a Budapest non sarebbe intervenuta e cinque giorni dopo vi mandava i tank. Imre Nagy aveva dichiarato di uscire dal Patto di Varsavia, ma non erano cosi' stolidi, i sovietici, da non sapere che a riprendersi militarmente un paese del campo avrebbero pagato un prezzo elevato sulla scena internazionale e nei partiti comunisti. E piu' d'un dubbio dovettero nutrire nel 1968 nel mandare i tank a Praga. Quella volta dovevano andare contro lo stesso partito comunista ceco. E contro il Pci, il piu' grande partito comunista d'occidente che li aveva ammoniti a non farlo, anche se qualche settimana dopo a Botteghe Oscure avrebbe vinto il riflesso "la situazione e' normalizzata" e meglio non insistere sul "tragico errore". Atteggiamento a sua volta suicida. Anche se difficile, mettersi ragionatamente contro il gruppo dirigente dell'Urss e dare una sponda a quanto di popolare e fin socialista c'era nel dissenso polacco e subito dopo di Budapest, e poi di Praga, non sarebbe stato impossibile. Nel 1956 e in seguito, trovarsi all'ovest era un limite ma anche una possibilita' e una responsabilita'. L'Urss non avrebbe invaso l'Europa, ne' Secchia rovesciato Togliatti, ne' Cossutta avrebbe abbattuto Berlinguer. Se Togliatti e Berlinguer fossero andati, con la sottigliezza e prudenza che gli era propria, a una prova di forza tutta politica con il Pcus, avrebbero avuto con se', per quanto sussultante, il partito e tutto il grande sommovimento dell'Est, avrebbero forse alimentato un dissenso nell'Urss e in ogni caso grandemente aumentato la sua credibilita' e forza in Europa, dove le radici del socialismo o della prima socialdemocrazia non erano state ancora recise. Ne' Togliatti ne' Berlinguer ne ebbero il coraggio. Berlinguer sarebbe giunto allo strappo dopo il 1980, fuori tempo massimo: all'est non restava piu' nulla (come avrebbero resistito le spinte che l'Urss reprimeva e noi avevamo del tutto abbandonato?). Ed era mutata anche la scena internazionale: negli anni '70 era partita alla grande la controffensiva teorica e politica di un liberismo che gli anni '30 parevano avere spento e tornava sulla scena e nei governi anche grazie alla disillusione a sinistra. Quello di Togliatti e Berlinguer fu un errore di fondo nell'analisi e nelle previsioni. Per difficile che fosse scontrarsi con Mosca, nulla era piu' rischioso, come si e' visto, dell'accettare e tacere. 6. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: RELIGIONI IN GUERRA [Dal sito dell'Universita' delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo originariamente apparso sul quotidiano "Liberazione" del 26 ottobre 2006. Lea Melandri, nata nel 1941, acutissima intellettuale, fine saggista, redattrice della rivista "L'erba voglio" (1971-1975), direttrice della rivista "Lapis", e' impegnata nel movimento femminista e nella riflessione teorica delle donne. Opere di Lea Melandri: segnaliamo particolarmente L'infamia originaria, L'erba voglio, Milano 1977, Manifestolibri, Roma 1997; Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli, Milano 1988, Bollati Boringhieri, Torino 2002; Lo strabismo della memoria, La Tartaruga, Milano 1991; La mappa del cuore, Rubbettino, Soveria Mannelli 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996; Una visceralita' indicibile, Franco Angeli, Milano 2000; Le passioni del corpo, Bollati Boringhieri, Torino 2001. Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo la seguente scheda: "Lea Melandri ha insegnato in vari ordini di scuole e nei corsi per adulti. Attualmente tiene corsi presso l'Associazione per una Libera Universita' delle Donne di Milano, di cui e' stata promotrice insieme ad altre fin dal 1987. E' stata redattrice, insieme allo psicanalista Elvio Fachinelli, della rivista L'erba voglio (1971-1978), di cui ha curato l'antologia: L'erba voglio. Il desiderio dissidente, Baldini & Castoldi 1998. Ha preso parte attiva al movimento delle donne negli anni '70 e di questa ricerca sulla problematica dei sessi, che continua fino ad oggi, sono testimonianza le pubblicazioni: L'infamia originaria, edizioni L'erba voglio 1977 (Manifestolibri 1997); Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli 1988 ( ristampato da Bollati Boringhieri, 2002); Lo strabismo della memoria, La Tartaruga edizioni 1991; La mappa del cuore, Rubbettino 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996; Una visceralita' indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle donne degli anni Settanta, Fondazione Badaracco, Franco Angeli editore 2000; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia, Bollati Boringhieri 2001. Ha tenuto rubriche di posta su diversi giornali: 'Ragazza In', 'Noi donne', 'Extra Manifesto', 'L'Unita''. Collaboratrice della rivista 'Carnet' e di altre testate, ha diretto, dal 1987 al 1997, la rivista 'Lapis. Percorsi della riflessione femminile', di cui ha curato, insieme ad altre, l'antologia Lapis. Sezione aurea di una rivista, Manifestolibri 1998. Nel sito dell'Universita' delle donne scrive per le rubriche 'Pensiamoci' e 'Femminismi'"] La pedagogia con cui si vorrebbe risanare l'Italia dall'"insidia dell'ateismo", considerato la fonte prima di ogni decadimento morale, passa con sempre maggiore frequenza attraverso i cerimoniali religiosi, i convegni della Cei, e i talk show televisivi. A colpi di versetti biblici e coranici, che chiunque si sente ormai di impugnare come arma per zittire l'avversario, si fa strada una pericolosa lezione di incivilta', che il nostro Paese e il mondo intero potrebbe pagare a caro prezzo. * Parlando dell'Islam "cupo" che sta diffondendosi rapidamente nella "piu' laica delle nazioni arabe", un'intellettuale tunisina intervistata da Guido Rampoldi per "La Repubblica" (22 ottobre 2006) indicava, tra le cause di una cosi' sorprendente regressione, la stupidita' europea: "Quel vostro modo grossolano di discutere del velo: allucinante. A me il velo ripugna, ci vedo qualcosa di fascista. Ma se in Europa lo proibite nel modo piu' rozzo e punitivo, ne fate inevitabilmente un simbolo dell'identita' araba; a quel punto metterlo diventa un punto d'onore, non metterlo una vilta'. Per vietarlo finirete per imporlo a una intera generazione di immigrate". Cio' significa che, la' dove non hanno avuto presa l'oscurantismo, l'intimidazione di un capofamiglia o di una comunita', puo' agire il potere vincolante di leggi promulgate in nome della liberta' femminile. Ma di questa palese, paradossale contraddizione, non sembrano curarsi le promotrici, all'interno del parlamento, di cordate trasversali - la "lobby rosa" proposta da Livia Turco -, convinte che l'abbandono di un velo dai molti significati, possa diventare un sicuro, visibile attestato di integrazione. E' cosi' che, con irresponsabile incuria, inconsapevole disattenzione, o malizia politica, ci si puo' intrattenere nel salotto di Bruno Vespa ("Porta a porta", lunedi' 22 ottobre 2006) indifferentemente sul velo o sulla lapidazione di un'"adultera" ad opera di militanti di Al Quaeda in Iraq, come se fossero la stessa cosa, e come se i roghi con cui l'Inquisizione cattolica ha bruciato innumerevoli donne accusate, per le ragioni piu' varie, di "stregoneria", fossero stati accesi non da una mano assassina ma da un fuoco purificatore. Non a caso nessuno dei presenti se ne e' ricordato. Puntati i fari dell'indignazione sull'Islam "barbaro", divenuto immagine unica di una civilta' multiforme, maschera deformante in cui si dovrebbero riconoscere milioni di musulmani oggi cittadini europei, spariscono secoli di storia, per lasciar posto alla tranquillizzante amnesia di "cristiani rinati". Quanto si puo' regredire per ignoranza, rassegnazione, senso di impotenza, cecita' indotta da messaggi martellanti, sorretti da sapienti scenografie, dalla complicita' insospettabile delle massime autorita' istituzionali, dalla miseria crescente di luoghi collettivi di riflessione e "vita attiva", come direbbe Hannah Arendt? * L'odio e' il peggiore dei virus, proprio perche' raramente si riesce a isolarlo dalla maschera di vittimismo con cui da sempre si accoppia e si confonde, cosi' come e' difficile interrogare il circolo vizioso di azioni e ritorsioni, fomentato da partigianerie opposte e speculari. Nell'estrema confusione in cui sembra caduta una societa' in mutamento, nella lontananza sempre piu' palpabile tra interessi considerati prioritari dalla politica e le preoccupazioni della vita quotidiana, puo' capitare che anche una visione apocalittica, distruttiva di faticose conquiste della coscienza storica, possa, come e' avvenuto al recente convegno dei cattolici a Verona, essere celebrata quasi unanimemente come una ripresa della "missione spirituale" della Chiesa. Mi chiedo come Rosy Bindi abbia potuto leggere, nel discorso del papa tenuto in quell'occasione, un richiamo al Vangelo, come non si sia accorta, lei cosi' attenta a distinguere e mediare tra il suo credo religioso e il suo impegno politico, che e' proprio nella progressiva secolarizzazione della politica, e della religione stessa, che papa Ratzinger vede la crisi di valori e la perdita di senso dell'Occidente. Chi critica, con buone ragioni, la sharia, che non prevede alcuna distinzione tra legge di Dio e legge di uno Stato, non sembra guardare con la stessa attenzione e con uguale giudizio la prospettiva che si va disegnando nella lezione che viene oggi dai massimi rappresentanti della Chiesa, quando affermano la necessita' del "ruolo guida" dei cattolici nella nazione italiana, l'impegno dei fedeli laici ad "opporsi a scelte politiche che contraddicono valori fondamentali", come quello della vita, della famiglia basata sul matrimonio, delle scuole confessionali. Dire che "Dio e' escluso dalla cultura e dalla vita pubblica", nell'Occidente democratico, erede di una lunga tradizione religiosa, sede del capo della Chiesa, puo' significare semplicemente che sta diminuendo il numero dei credenti o la frequentazione del culto, che una parte sempre piu' estesa di cittadini si orienta secondo principi etici, convinzioni culturali e politiche, maturati al di fuori del cattolicesimo, non percio' deboli e perversi. Ma non e' questo l'intendimento di una Chiesa che i suoi vertici vorrebbero oggi collocare nel cuore dello Stato, come fonte prima e unica dei suoi assunti etici e legislativi in materia di sessualita', nascita, morte, sofferenza, famiglia, educazione; una Chiesa che teme l'indifferenza piu' che l'ostilita', disposta, per dare maggior peso alla sua sfida, a creare imprevedibili sinergie con i "molti e importanti uomini di cultura" che, pur non avendo la stessa fede, "avvertono il rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civilta'". La legge coranica, pur condannata, e' li' a ricordare al cattolicesimo insidiato dal secolarismo incombente, dalla disaffezione dei suoi stessi fedeli, di quanto, al contrario, l'Islam goda oggi di un forte" risveglio religioso, sociale e politico". L'allusione ai legami tra l'Islam e il terrorismo, rimarcati ogni volta dal papa e dal cardinal Ruini, perche' siano chiare le differenze tra il Dio cristiano dell'amore, della ragione, e il Dio guerriero, violento, di Maometto, non deve trarre in inganno. Scontro e dialogo interreligioso vanno a braccetto, quando si tratta di piegare la politica, la coscienza dei popoli, ai superiori, imprescindibili dettami di una verita' trascendente. Di fronte alla crisi che attraversa il mondo, cristiani e musulmani sono chiamati da Ruini a "operare insieme per la gloria di Dio e per il bene di tutti gli uomini", e, soprattutto, perche' quello che e' in gioco oggi e' "la credibilita' delle religioni" e dei "capi religiosi" ("Corriere della sera", 21 ottobre 2006). Rispetto reciproco e difesa dei contenuti della propria fede sono esattamente i termini con cui Samuel Huntington definisce il non piu' tanto avveniristico "scontro di civilta'". * In confronto a questa fede agguerrita, determinata a riprendersi piena cittadinanza nella vita pubblica, con precise direttive culturali e politiche, appare invece davvero futuribile la posizione assunta dall'arcivescovo di Canterbury, passata non a caso come notizia di giornata, e priva di seguito. Vale la pena di riportarla alla memoria, anche solo per rendersi conto di quanto l'attuale, confuso dibattere di violenza contro le donne e fanatismo religioso sia ancora distante dall'afferrare i nodi di fondo della confusione tra religione e politica, del legame tra patriarcato e oppressione femminile. L'uso di una terminologia maschile per indicare Dio nella Bibbia e nelle funzioni religiose - ha detto facendosi autocritica il massimo rappresentante della chiesa anglicana -, finisce per incoraggiare la sottomissione della donna all'uomo e perfino le violenze domestiche contro le mogli. Allo stesso modo, l'esaltazione della Vergine Maria, puo' spingere le vittime di violenza a perdonare, a non sporgere denuncia ("La Repubblica" del 4 ottobre 2006). Un incontro tra religioni, e tra religione e politica, fuori da logiche di inglobamento reciproco, non puo' che partire dalla critica del maschilismo da cui traggono, sia pure in modi diversi, il loro fondamento. Ma quanto e' pensabile questa svolta per la Chiesa di Roma e per la nostra classe politica? 7. LIBRI. ANNA SIMONE PRESENTA "ALTRI FEMMINISMI" di AUTRICI VARIE [Dal quotidiano "Liberazione" del 27 ottobre 2006. Anna Simone (Altamura, 1971), ricercatrice nell'ambito delle scienze umane, saggista; collabora con l'Istituto di sociologia del dipartimento di Scienze storiche e sociali dell'Universita' di Bari. Opere di Anna Simone: L'oltre e l'altro, Besa, Lecce 2000; Divenire sans papier. Sociologia dei dissensi metropolitani, Mimesis, Milano 2002] Francia, 1838: Herculine Barbin si suicida. Nasce ermafrodito ma viene dichiarata femmina all'anagrafe. Conduce un'infanzia da bambina "sgraziata" rinchiusa in un istituto religioso femminile. Dopo vari accertamenti medici e giudiziari la societa' del suo tempo la riconosce come maschio e la obbliga a cambiare sesso legale e stato civile. Ma lei/lui non regge gli obblighi della norma eterosessuale, si sente soffocare da questa ingerenza continua sul suo corpo e si uccide. Michel Foucault ne curera' i bellissimi diari nel 1978 in Francia. Spostiamoci dall'altra parte del mondo. India, 1926: Bhubanesvari Bhadouri si impicca nella casa del padre. Ma lo fa durante le sue mestruazioni per evitare che le codificazioni "tradizionali" della sua societa' potessero imputarle una gravidanza avuta da una relazione extraconiugale e quindi illegittima. In realta' lei si uccide perche' era un'attivista clandestina del movimento indipendentista indiano a cui era stato chiesto di compiere un assassinio politico che lei, emotivamente, non era in grado di sostenere. Entrambi i suicidi, ripresi poi da Judith Butler e da Gayatri Spivak, non possono essere letti secondo la matrice "sacrificale" delle religioni monoteiste. Herculine, infatti, compie un "atto corporeo sovversivo" (Butler) perche' lei era anche un lui che decide di non farsi banalmente tradurre in una lei assoluta o in un lui assoluto dalla norma eterosessuale. Bhubanesvari sa di essere subalterna al suo leader politico, subalterna ai dispositivi "tradizionali" della societa' indiana, subalterna al potere del padre. Lei non puo' parlare se non attraverso un gesto corporeo ultimo e finale che decide di compiere, appunto, durante le mestruazioni per lasciare almeno un segno sovversivo nel mare magnum della cecita' interpretativa del suo mondo che l'avrebbe voluta solo vittima di un amore illegittimo. Questo intreccio tra fatti e parole, tra realta' e produzione teorica ci fornisce il quadro chiaro di una nuova posta in gioco politica dei femminismi contemporanei. Herculine, Bhubanesvari, Spivak e Butler sono qui a ribadirci che l'eccedenza, la trama intensa e appassionata che travolge i corpi, non puo' mai tradursi in un unicum interpretativo. Anzi, ci dicono con chiarezza inequivocabile che i conti non possono tornare quando a decidere cosa sono e cosa devono dire e fare i singoli corpi e' sempre e solo l'ordine del discorso dei poteri codificati e consolidati. Compresi quelli ideologici piu' all'avanguardia. Ed e' dentro questo intreccio di fatti e parole sovversive, dentro questo contesto filosofico-pratico contemporaneo che ha tradotto l'impossibilita' della presa di parola diretta in una differenza possibile (sia pur ancora problematica) che "prende corpo" il volume collettaneo, appena edito dalla Manifestolibri, Altri femminismi (a cura di Bertilotti, Galasso, Gissi, Lagorio, pp. 159, euro 15). Un prendere corpo che rovescia qualsiasi "passione triste" della reductio ad unum dell'analisi politica, delle esperienze militanti dei movimenti lesbo-queer, transessuali, femministi, migranti, sex-worker, delle pratiche di contro-condotta, ma anche del rapporto sempre piu' visibile che intercorre tra femminilizzazione del lavoro, precarieta' strutturale e sfruttamento del corpo femminile attraverso la reificazione del "lavoro di cura" inteso come nuovo mezzo di regolazione sociale ed economica. Il libro ha piu' matrici di lettura proprio perche' raccoglie autrici e temi che si intersecano e, al contempo, si differenziano pur mantenendo salda l'esperienza felice di un confronto intergenerazionale franco e all'altezza dei grandi temi del presente: dalla biopolitica al lavoro, dalle soggettivita' che cambiano segno oltrepassando le codificazioni del sesso e dei generi alla de-vittimizzazione non acritica del lavoro sessuale, dal postfordismo alle reti di donne migranti, dal femminismo islamico alla lettura critica e problematica dell'infibulazione. * Il volume genera tre piste di lettura ricomposte e tramate nella bella introduzione scritta dalle curatrici. La prima si misura esplicitamente con le nuances del cosiddetto terzo femminismo occidentale, del lesbismo prima e del lesbo-queer poi, che ha creato non poche resistenze da parte del cosiddetto "femminismo storico" - come se il genere potesse essere letto sempre e solo all'interno della matrice eterosessuale e riproduttiva - (Liana Borghi); nonche' la tematizzazione dei femminismi islamici e post-coloniali tesi a tradurre la parola negata delle "subalterne" in presa di parola possibile e contestualizzata, posizionata e situata all'interno di un contesto differente ma non per questo facilmente colonizzabile dai valori universalistici e illuministi a cui facciamo spesso riferimento (Ruba Salih). Una seconda pista di lettura si misura direttamente con il rapporto che intercorre tra l'indefinibilita' di genere dei/delle transessuali e i dispositivi di sicurezza che operano secondo i criteri della norma eterosessuale. Belle e tragiche allo stesso tempo le pagine di Porpora Marcasciano sull'applicazione dell'art. 1 che rendeva e rende ancora "delinquenti abituali" i trans, soprattutto i maschi che si travestono da donne. La terza, invece, tiene assieme il postfordismo, il capitalismo cognitivo, la femminilizzazione del lavoro e la precarieta' (Adriana Nannicini) con il lavoro dei/delle cosiddette sex-worker. Il saggio di Beatrice Busi evidenzia il nesso che intercorre tra lavoro sessuale, lavoro domestico (cosi' come tematizzato dal gruppo delle femministe padovane negli anni '70), lavoro di riproduzione e femminilizzazione globalizzata del lavoro. Questi mutamenti epocali portano Busi a sostenere la tesi del "patriarcato diffuso" (altro che fabbrica diffusa) che spostandosi dal privato al pubblico obbliga i nostri corpi a non essere poi tanto diversi dai corpi delle prostitute. Sempre disponibili, sempre efficienti, sempre sensuali, sempre accoglienti, sempre comprensive. Non e' sempre questo che viene chiesto a chi deve fare la cameriera per pagarsi le tasse universitarie? Non e' sempre questo che viene chiesto a chi muore dietro un telefono dei call center? E non e', infine, sempre questo che viene richiesto tra le pareti domestiche? Un contesto che ci chiede di diventare ciniche, di agire per rimozione e sostituzione come se i corpi fossero spersonalizzati, interscambiabili e seriali. Un contesto in cui non c'e' piu' tempo per amare, giocare, ridere, parlare. Il problema del chi parla e' ancora un nodo per nulla sciolto in tutti gli ambiti della sfera pubblica. Sciogliamolo accogliendo due proposte che ci vengono da questo libro: le soggettivita' si danno solo a partire dall'irriducibilita' delle loro singole esperienze; e' impensabile e riduttivo scindere le pratiche di liberta' e le pratiche di contro-condotta dalle analisi sul lavoro vivo e sul capitalismo cognitivo. Un esercizio che ne' i libertari, ne' i marxisti hanno mai voluto praticare congiuntamente ma che risulta, ora piu' che mai, urgente. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 88 del 2 novembre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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