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La nonviolenza e' in cammino. 1465
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1465
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 31 Oct 2006 00:33:58 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1465 del 31 ottobre 2006 Sommario di questo numero: 1. L'ora, la via 2. Maria G. Di Rienzo: Matrimoni 3. La casa di riposo. Una conversazione di Lea Melandri con Adriana Nannicini 4. La "Carta" del Movimento Nonviolento 5. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. L'ORA, LA VIA [Gabriele Torsello, giornalista, fotografo e documentarista freelance, collaboratore di movimenti umanitari, impegnato contro la guerra e contro le violazioni dei diritti umani, e' stato rapito in Afghanistan sabato 14 ottobre 2006] Cessi la guerra in Afghanistan. Sia restituito alla liberta' Gabriele Torsello. Nulla giustifica le uccisioni. Nulla giustifica l'omissione di soccorso. * Lo stato italiano puo' molto: lo faccia. Ottenga la liberazione di Gabriele Torsello. Cessi di partecipare alla guerra afgana, e si impegni contro ogni guerra e contro ogni terrorismo: con il disarmo, con l'azione nonviolenta, con la promozione di iniziative internazionali di smilitarizzazione dei conflitti e di gestione negoziale e cooperativa dei conflitti, con aiuti umanitari alle vittime dei conflitti, con azioni positive ed incentivi concreti al riconoscimento ed alla promozione dei diritti umani di tutti gli esseri umani, riconoscendo la necessita' e l'urgenza di una politica della nonviolenza e mettendola in atto. * Lo stato italiano puo' molto: ma in primo luogo deve cessare di partecipare alla guerra terrorista e stragista; in primo luogo deve denunciare e contrastare i crimini della Nato, coalizione di cui fa parte; in primo luogo deve tornare al rispetto della Costituzione della Repubblica Italiana. Troppa gente il pregresso e il presente governo hanno contribuito a far morire. Ora basta. Troppa gente il pregresso e il presente parlamento hanno contribuito a far morire. Ora basta. * Basta con le uccisioni. Pace e Costituzione. Basta con le uccisioni. Disarmo e solidarieta'. Basta con le uccisioni. Vi e' una sola umanita'. Basta con le uccisioni. Occorre la scelta della nonviolenza. * Nulla giustifica l'omissione di soccorso. Nulla giustifica le uccisioni. Sia restituito alla liberta' Gabriele Torsello. Cessi la guerra in Afghanistan. 2. MONDO. MARIA G. DI RIENZO: MATRIMONI [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005] "A scuola avevo una compagna che era eccellente negli studi. Sognava di diventare medica. In famiglia c'erano cinque sorelle e nessun maschio e questo indispettiva il padre della mia amica. Pensava che solo un ragazzo potesse essere il suo erede. Il ruolo di un figlio da noi, in Kirghizistan, viene considerato piu' importante. La mia amica e le sue sorelle amavano molto il loro padre e lo rispettavano in tutto. Questa ragazza ando' all'universita' e anche la' si dimostro' eccezionalmente brava. Un giorno un suo compaesano la rapi' a scopo matrimoniale. Lei era scioccata, non si era aspettata che succedesse nulla del genere: minaccio' il suicidio, si invento' di avere un ragazzo anche se non era vero, ma non servi' a nulla. Il ruolo dei parenti e' troppo grande, e' invasivo nella vita di una persona kirghisa. I parenti la costrinsero a restare con l'uomo che l'aveva rapita. Le dicevano: 'Tuo padre ti benedira', per questo. Se invece rifiuti il matrimonio la nostra famiglia sara' svergognata'. Infine lei cedette, ma il matrimonio era un inferno. Tento' svariate volte di uccidersi. Recentemente il marito l'ha lasciata andare. Ma questo e' solo uno dei tanti esempi che potrei fare. "Le statistiche dicono che piu' del 30% delle donne sposate, nel nostro paese, sono state prese per strada dai loro attuali mariti, in un costume che viene chiamato 'ala kachuu' (maggiori informazioni su http://faculty.philau.edu/kleinbachr/ala_kachuu.htm, un documentario e' disponibile su http://www.pbs.org/frontlineworld/stories/kyrgyzstan/thestory.html): si potrebbe tradurlo approssimativamente con 'afferra e scappa'. Nella regione di Naryn sono circa il 55% le donne che sono state rapite e forzate al matrimonio. Solo il 10% di loro ha osato lottare per i propri diritti e lasciare i rapitori. La maggioranza di questi uomini prendono le ragazze anche se queste non li conoscono neppure. A volte accade che la ragazza non abbia mai visto quell'uomo, ne' sentito parlare di lui. Questo succede con piu' frequenza nelle aree rurali. "Io considero i rapimenti a scopo matrimoniale violenza di genere. Ogni essere umano ha il diritto di vivere, di scegliere, di parlare, di riposare, di avere un'istruzione. I diritti delle donne vengono violati quando non si da' ad una ragazza la possibilita' di scegliere il suo futuro marito. Tutti i paesi democratici si impegnano a provvedere e proteggere i diritti umani delle persone, ma nel nostro paese il governo non lo fa. "Penso che un grosso problema sia la mentalita' della gente. Se la ragazza rapita rifiuta il matrimonio la societa' locale la maledice e la insulta. A Jalal-abad hanno conteggiato che su dieci divorzi registrati, sette avevano alle spalle il rapimento della sposa. Queste tradizioni devono cambiare, spogliano le persone del loro diritto alla liberta', rovinano completamente le vite delle donne". Il racconto e' di Nurilya, una studentessa universitaria, l'anno e' quello corrente: 2006. * Zainab Bibi, pakistana, non racconta di un'amica: parla di cio' che e' accaduto a lei. "Mi hanno data in sposa ad un uomo di cinquant'anni, io ne avevo tredici. Mio fratello aveva ucciso un uomo di quella famiglia, ed io sono stata data a loro per compensazione. E' finita con il divorzio". Zainab oggi ha 16 anni e cresce da sola due figli. Ricorda bene cos'era il suo matrimonio, lo ricorda fra le lacrime: "Per tre anni mi hanno picchiata ogni giorno, come se dovessero vendicare l'omicidio su di me". La pratica culturale che ha segnato la vita di Zainab si chiama "swara" nel nord-est del Pakistan, e "vanni" nella provincia del Punjab. Consiste nell'offrire ragazze minorenni per comporre le dispute fra le famiglie, ovvero figlie e sorelle pagano per le offese commesse dai loro padri o fratelli. Per la ragazzina che viene data via, e che non ha voce in capitolo, questo matrimonio e' uno stigma sociale; si tratta di un'unione in cui non c'e' "onore" ed anche se termina con il divorzio la sposa ne resta "macchiata" per sempre. L'intero processo e' supervisionato dai consigli di villaggio (jirga) che usualmente favoriscono la famiglia piu' influente. Spetta a chi e' stato danneggiato scegliere che bambina portarsi a casa, di solito non appena questa diventa pubescente, e se la questione da compensare e' la perdita di un uomo potente, anche i suoi eredi possono prendersi delle piccole vite da forzare in semischiavitu' nella loro casa. Ci sono migliaia di ragazze in questa situazione (Samar Minullah, che dirige "Ethnomedia", ha prodotto uno scioccante documentario al proposito nel 2003) e nonostante gli sforzi dei gruppi femministi o per i diritti umani delle donne, come "Aurat", "Shirkat Gah" e "Khwendo Kor", i politici continuano a non raccogliere l'invito a portare soccorso alle ragazzine. Non si tratta solo di matrimoni precoci ed imposti, che sarebbe gia' abbastanza, si tratta anche del fatto che sovente essi diventano una sentenza di morte. L'anno scorso, grazie alla pratica "swara", la diciassettenne Rubina Bibi mori' in circostanze misteriose nel villaggio di Kas Koroona in Pakistan, dopo aver mangiato un pasto. A quell'epoca viveva in una stalla, l'unico posto in cui i suoi parenti acquisiti le permettevano di stare. Non molto distante, nel villaggio di Gumbat Banda, gli abitanti hanno ammesso che la giovane Tayyaba, anch'ella morta stranamente nel giugno 2006, un mese e mezzo dopo il suo matrimonio "swara", era stata avvelenata dai parenti di suo marito. Tayyaba Begum fu torturata dal giorno in cui entro' in nella sua nuova casa al giorno in cui ci mori'. * Ci si puo' sposare in tanti modi, nel mondo. Circa dieci anni fa a Yasmina e' stato chiesto di farlo mentre qualcuno le teneva un coltello premuto sul collo. "Ero terrorizzata, ma rifiutai. Allora comincio' lo stupro". All'epoca ventunenne, Yasmina stava attraversando la Casbah nella sua citta', Algeri, quando fu aggredita e trascinata in un edificio da miliziani islamisti. Il matrimonio propostole in punta di lama si chiama "nikah-ul-mutta" o "matrimonio temporaneo", una pratica particolarmente ripugnante di abuso sessuale assai in auge durante la guerra civile algerina negli anni '90. Yasmina e' una delle "fortunate". Un numero non calcolato di donne (Amnesty International ne stima "centinaia") sono morte di queste nozze. Ma anche se riusci' a salvarsi la vita, la violenza sessuale l'aveva disonorata agli occhi della sua famiglia: non fece quasi in tempo ad arrivare a casa che l'avevano gia' buttata fuori. Si sposto' a Bejana, una citta portuale ad est della capitale, dove trovo' lavoro come barista. Fini' per sposare un cliente del locale che sembrava comprendere la difficile situazione della ragazza e mostrava simpatia per lei. Subito dopo il matrimonio, la simpatia e la comprensione finirono. "Pensavo mi amasse, ma in effetti ha solo abusato della mia disperazione. Mi diceva che mi aveva raccolta dalla strada, che ero una prostituta. Non potevo assolutamente uscire di casa, e neppure affacciarmi alla finestra". Infine, dopo tre anni, il marito si e' stancato di lei e se ne e' andato in Francia, lasciandola con due figliolette da mantenere. "Tutto quello che voglio e' un lavoro. Voglio lavorare e trovare un posto per me e le mie bambine, dove vivere in pace. Da quello che mi hanno fatto non guariro' mai. Ci sono diversi tipi di terrorismo, ed io sono una vittima del terrorismo". * Ci si puo' sposare in tanti modi, dicevo. Si puo' dare una figlia in sposa per pagare i conti del negozio di alimentari, o per assicurare una moglie al di lei fratello: sono due ragioni comuni riportate dagli studi fatti sull'Afghanistan, un paese in cui l'eta' legale minima per il matrimonio di una fanciulla e' di 16 anni, ma in cui piu' del 16% delle ragazze si sposa prima dei quindici. La maggioranza di esse viene data ad uomini di eta' molto maggiore, che spesso hanno gia' altre mogli. Alcune restano vedove o vengono abbandonate mentre sono ancora molto giovani. Nessuna delle spose-bambine raggiunta dalle ricerche era mai andata a scuola. ("Early Marriage: A Harmful Traditional Practice", Unicef 2005; "Too Young to Wed: The Lives, Rights, and Health of Young Married Girls", Sanyukta, M., M. Greene e A. Malhotra, Icrw 2003; "Growing Up Global: The Changing Transitions to Adulthood in Developing Countries", National Research Council and Institute of Medicine 2005). * Facciamo un po' di numeri: entro la prossima decade cento milioni di ragazze contrarranno matrimonio prima del compimento dei 18 anni in tutto il mondo; 82%, 75%, 63%, 57% e 50%: sono le percentuali di ragazze in Niger, Bangladesh, Nepal, India e Uganda che si sposano prima dei 18 anni: in Nepal, tra l'altro, il 7% delle bambine e' data in sposa prima di compierne dieci; quelle che danno alla luce bimbi prima dei 15 anni hanno una possibilita' cinque volte maggiore di morire di parto delle madri che hanno passato la ventina; due milioni: e' il numero di queste spose-bambine che soffre di fistole, ovvero di lacerazioni di vagina e retto con perdita continua di urina e feci, una complicanza comune alle partorienti fisicamente immature; 6.000 e' il numero di adolescenti che giornalmente al mondo viene contagiato dall'hiv: sovente queste ragazze lo contraggono dai loro mariti. "Per tragica ironia il matrimonio e' diventato un fattore di rischio.", dice il dottor Peter Piot, direttore esecutivo di Unaids, "Le donne contraggono l'hiv dai loro unici partner sessuali, i mariti. In molte societa' il maggior fattore di rischio e' un matrimonio precoce, di solito con uomini assai piu' anziani". * Portate ancora un attimo di pazienza, ascoltate queste ragazze. Adjaratou ha 14 anni, vive in Mali. Quando ne aveva 12 i suoi genitori la diedero in moglie al cugino di sua madre. Adjaratou ha le sue idee, le piace indossare i pantaloni, avrebbe voluto studiare. Descrive gli inizi del suo matrimonio come "tempi difficili". Sebbene lei non fosse credente, suo marito la forzava ad imparare i versi del Corano, pretendeva che si coprisse la testa e che indossasse il "boubou", una veste lunga che donne e uomini usano in Africa occidentale. Adjaratou si oppose a tutto, e venne sistematicamente picchiata dal marito. Ebbe due aborti a causa di questi pestaggi, infine mise al mondo un bimbo. Sarebbe gia' scappata con il figlioletto, se i genitori non continuassero a fare pressioni affinche' resti con il marito. * Bijli, che e' indiana, oggi di anni ne ha 21 ma e' andata sposa a dieci. Non vide l'uomo che e' stata costretta a sposare sino al giorno del matrimonio. Non ricorda la propria madre che, cosi' le hanno detto, si suicido' dandosi fuoco quando lei era molto piccola. Il padre e' un alcolista e non si cura molto della famiglia. Dopo il matrimonio, Bijli resto' a vivere con la nonna sino a quando ebbe le prime mestruazioni, a dodici anni. Allora fu tolta da scuola e condotta a vivere con il marito. A quattordici anni ebbe un bambino. Per i primi sei anni del suo matrimonio non le fu permesso di tornare a scuola, ed il suo compito erano i lavori domestici. Ora che il piccolo va a scuola, le e' stato concesso di continuare ad istruirsi. "Naturalmente non penso che sposarsi a quell'eta' fosse una buona idea, ma non potevo dire niente. Almeno adesso mio marito mi lascia studiare". * Halima, quindicenne, e' stata data in moglie l'anno scorso, in Bangladesh. "Rimasi di stucco quando sentii che dovevo sposarmi. Prima dissi a mia madre che non volevo, perche' stavo studiando, poi lo dissi a mio padre, ma lui rispose: 'Non posso mantenerti agli studi. Ho trovato un bravo ragazzo che si accontenta di una piccola dote. Non perdero' questa occasione". Ma il padre di Halima quella piccola dote non l'ha ancora pagata. La ragazza impallidisce, raccontando: "La gente prende in giro mio marito, gli dicono: 'E cosi' tuo suocero non ti ha ancora consegnato la dote? Batti per bene sua figlia, e vedrai se lei non ti porta subito i soldi!'. Dopo di che lui mi ha picchiata due volte. Ogni tanto cerco di dirgli: hai visto in che condizioni di poverta' e' mio padre. In che modo battermi mi dara' la capacita' di aver denaro da lui?". Suo marito non aveva informato neppure la propria famiglia dei propri progetti matrimoniali. "Tutta quella gente veniva a vedermi e faceva commenti su di me come se io non ci fossi", conclude Halima fra i singhiozzi. * Rakiya e' nigeriana. Per vivere vende focacce all'angolo della strada. Sta mandando a scuola tutti i suoi figli. Quand'era bambina sognava di andarci lei stessa, ma la fidanzarono a undici anni, e a dodici ando' sposa. Il marito era solito stuprarla, e quando lei cercava di lamentarsene con la propria famiglia d'origine era il suo stesso padre a batterla, affinche' si sottomettesse al marito. A 13 anni mise al mondo il suo primo figlio: "Il travaglio fu lungo e difficile. Persi i sensi, e non ero cosciente quando il bimbo nacque". A vent'anni, quando resto' vedova, era incinta del sesto figlio. Vendette tutto quel che possedeva per dar da mangiare ai bambini. Quando non resto' piu' nulla, Rakiya vendette se stessa. Infine, riusci' a trovare un altro modo, anche se con il commercio delle focacce non guadagna molto, ed e' sempre ansiosa rispetto al futuro. "E' l'ignoranza che porta a dare in mogli le bambine", sostiene Rakiya, "Le gente pensa che le bambine siano un peso. A me gli uomini non interessavano per niente, poi mi sono trovata in una situazione terribile, ed ho usato quel che Dio mi ha dato per uscirne. Naturalmente ora nessuno mi sposerebbe, non posso far conto su un nuovo marito per avere aiuto, neppure se lo volessi". * Takia e Ramatu, dodicenne la prima, undicenne la seconda, sono sorelle. Vivono a Niamey, nel Niger. La loro madre e' morta di parto. Il loro padre ha altre tre mogli ed altri cinque figli. La famiglia e' povera, ed il padre e' convinto che dare in spose le figliolette sia il solo modo di tirare avanti. Takia e' stata data in moglie a nove anni, ad un uomo di circa cinquanta. Molto gentilmente (si', sono ironica), grazie alle pressioni della locale organizzazione per la gioventu', costui ha aspettato che la bambina compisse undici anni per avere rapporti sessuali con lei. Takia e' gia' madre di una figlia, Layla, di un anno. Ramatu avrebbe dovuto subire lo stesso destino: il padre l'aveva destinata allo zio materno. Fu un altro zio ad intervenire e a cancellare il giorno della cerimonia, sostenendo che Ramatu era troppo piccola. "Un giorno mio padre mi ha detto che mi sarei sposata", racconta Takia, "Non mi e' mai stato chiesto se volevo bene a quest'uomo o no, dovevo solo rispettare le decisioni dei miei parenti. Non sono contenta, sono rassegnata al mio destino. Se avessi potuto scegliere, avrei voluto aspettare sino a che avessi trovato qualcuno da amare. Ma ora e' troppo tardi. Preferisco non pensarci". Takia non e' mai andata a scuola. Lavora per il marito. "Al mattino pulisco. Vado a prendere l'acqua, lavo i vestiti. Preparo il cibo: qualche volta il riso, cereali. Faccio la salsa di pomodoro e cucino la carne. A volte vado a casa di un'amica, ho qualche amica che ha marito come me, le bambine con cui giocavo prima non vogliono piu' avere a che fare con me, perche' sono sposata. Con loro correvo e saltavo, adesso non posso piu'". Sua figlia si sposera' giovanissima come lei? Takia e' risoluta: "Lo decidera' lei, solo lei. Io voglio che abbia la possibilita' di andare a scuola, voglio che possa scegliere cosa fare". Ramatu, intanto, frequenta la scuola coranica. Per divertirsi, all'uscita, sfida le sue amichette alla corsa. "Vinco sempre", dice orgogliosa. Come vede il suo futuro? "Intanto voglio finire la scuola. Poi voglio imparare il francese. Mi sono procurata il certificato di nascita della mia sorellina piu' piccola, Rabi, e l'ho iscritta a scuola io stessa". Ramatu e' decisa a non lasciare indietro la sorella maggiore sposata. "Sono contenta di imparare, perche' tutto quello che imparo poi lo insegno a Takia". Takia e' gelosa del fatto che Ramatu non abbia dovuto sposarsi e possa andare a scuola? "No, lei e' mia sorella, io sono felice se lei e' felice". * Potrei continuare. Parlarvi di Rebeca, sposata a forza a quattordici anni ad un uomo di 39. Rebeca per i primi mesi di matrimonio evito' i rapporti sessuali urlando per quanto aveva fiato, ma alla fine lui la stupro': da sei anni la ragazza combatte con le malattie a trasmissione sessuale che ha contratto dal marito, e' stata operata due volte. O parlarvi di Mariana, per cui le operazioni chirurgiche sono state sino ad ora tre: le fistole derivate dai parti precoci non le danno requie. O di Shahnaz, che ha 16 anni e la mano impedita da una ferita ricevuta dal suocero, scontento dell'ammontare della dote: suo marito ha relazioni adulterine, e la punizione per Shahnaz, se osa lamentarsene, e' lo stupro. Questa ragazzina ha messo al mondo due figli contro la sua volonta': "Se non fossi madre avrei gia' lasciato questa casa. E dopo essermene andata tornerei a studiare, di modo da poter trovare un buon lavoro e stare in piedi da sola". * C'e' sempre qualcuno che con aria sorniona, fra un "rispetto delle tradizioni altrui" e un "femminismo post coloniale", mi chiede cosa accidenti vogliamo ancora noi donne (in realta' sta chiedendo cosa diavolo voglio io e perche' sono cosi' fastidiosa). Riprendete questo pezzo dall'inizio, notate gli schemi: lui la vede, la vuole, la prende per strada, e a lei e' chiesto di rendere legittimo il proprio ratto ed il proprio stupro. Lui combina un guaio, lei paga per lui. A lui non basta violentarla, vuole la benedizione di chissa' quale dio sull'atto. Di fronte alle difficolta', lui decide che lei e' una risorsa economica per tutti, e la scambia come tale con un altro lui. Quando lui si stanca del giocattolo, ovvero di lei, sparisce o la fa sparire. Forse la domanda va fatta a qualcun altro. A tutti questi "lui", per esempio, e a chiunque li trovi meri seguaci di antiche ed onorevoli tradizioni. Dopo esservi nutriti come cannibali della dignita', dell'intelligenza, della forza e della speranza di donne e bambine, dopo averne usati ed abusati i corpi, dopo aver tentato con tutti i mezzi ma senza risultato di umiliarne gli spiriti, che brillano vivi in tutti gli occhi che ho visto e in tutte le parole che ho letto ed ascoltato, si', proprio voi: cosa accidenti volete ancora? 3. RIFLESSIONE. LA CASA DI RIPOSO. UNA CONVERSAZIONE DI LEA MELANDRI CON ADRIANA NANNICINI [Dal sito dell'Universita' dellle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo, dal titolo " La casa di riposo", gia' pubblicato in forma ridotta sul supplemento "D" del quotidiano "La Repubblica" dell'8 ottobre 2006. Lea Melandri, nata nel 1941, acutissima intellettuale, fine saggista, redattrice della rivista "L'erba voglio" (1971-1975), direttrice della rivista "Lapis", e' impegnata nel movimento femminista e nella riflessione teorica delle donne. Opere di Lea Melandri: segnaliamo particolarmente L'infamia originaria, L'erba voglio, Milano 1977, Manifestolibri, Roma 1997; Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli, Milano 1988, Bollati Boringhieri, Torino 2002; Lo strabismo della memoria, La Tartaruga, Milano 1991; La mappa del cuore, Rubbettino, Soveria Mannelli 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996; Una visceralita' indicibile, Franco Angeli, Milano 2000; Le passioni del corpo, Bollati Boringhieri, Torino 2001. Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo la seguente scheda: "Lea Melandri ha insegnato in vari ordini di scuole e nei corsi per adulti. Attualmente tiene corsi presso l'Associazione per una Libera Universita' delle Donne di Milano, di cui e' stata promotrice insieme ad altre fin dal 1987. E' stata redattrice, insieme allo psicanalista Elvio Fachinelli, della rivista L'erba voglio (1971-1978), di cui ha curato l'antologia: L'erba voglio. Il desiderio dissidente, Baldini & Castoldi 1998. Ha preso parte attiva al movimento delle donne negli anni '70 e di questa ricerca sulla problematica dei sessi, che continua fino ad oggi, sono testimonianza le pubblicazioni: L'infamia originaria, edizioni L'erba voglio 1977 (Manifestolibri 1997); Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli 1988 ( ristampato da Bollati Boringhieri, 2002); Lo strabismo della memoria, La Tartaruga edizioni 1991; La mappa del cuore, Rubbettino 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996; Una visceralita' indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle donne degli anni Settanta, Fondazione Badaracco, Franco Angeli editore 2000; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia, Bollati Boringhieri 2001. Ha tenuto rubriche di posta su diversi giornali: 'Ragazza In', 'Noi donne', 'Extra Manifesto', 'L'Unita''. Collaboratrice della rivista 'Carnet' e di altre testate, ha diretto, dal 1987 al 1997, la rivista 'Lapis. Percorsi della riflessione femminile', di cui ha curato, insieme ad altre, l'antologia Lapis. Sezione aurea di una rivista, Manifestolibri 1998. Nel sito dell'Universita' delle donne scrive per le rubriche 'Pensiamoci' e 'Femminismi'". Adriana Nannicini e' filosofa, psicologa, consulente di organizzazione del lavoro e del lavoro in gruppo, dirige da piu' di un anno tre strutture residenziali private per lungodegenti anziani a Milano] "Forse, con il prolungamento della vita negli ospedali e negli ospizi e nella solitudine delle case - scrive Franco Rella nel suo libro Ai confini del corpo (Feltrinelli 2000) -, la vecchiaia e' davvero diventata un'altra cosa, tanto che non puo' piu' sorreggerci la sapienza del passato, e in essa vediamo quella vita nuda che, secondo Agamben, ci espropria della vita come tessuto di eventi, di esperienze: della vita come storia e racconto". Quand'e' che la vecchiaia ci appare tale? Dei miei nonni, cresciuti e morti nei campi che avevano coltivato e dove ancora si muovevano autonomamente all'eta' di ottanta e novant'anni, non ho avvertito il precipitare del tempo verso il suo termine. Sara' che nella giovinezza la morte e' ancora un'astrazione, un'ombra che passa accanto senza mettere radici, sara' che i contadini guardano alla vita dell'uomo non diversamente che al trascorrere naturale delle stagioni, o sara', come dice Rella, che la possibilita' di ricordare e raccontare e' la soglia estrema che ci separa, per qualche tempo ancora, dal nulla. Ma, a far cadere il silenzio e il vuoto intorno all'invecchiamento, sono anche le mutate condizioni in cui viene a collocarsi la fase ultima della vita, quando il corpo torna a farsi protagonista, nella perdita di forza propria e nell'estrema dipendenza dagli altri. Viviamo in una societa' che invecchia senza essere compensata da nuove nascite, che si affanna a prolungare la vita senza tener conto dei mali che la insidiano, che promuove la liberta' dell'individuo contro i vincoli soffocanti della famiglia, ma che non si preoccupa allo stesso modo di creare rapporti sociali alternativi, forme nuove di amore e di solidarieta'. Rispetto alla lunga degenza in un ospedale, a corpi diventati appendici delle macchine che li tengono in vita, anche la morte solitaria di un anziano, scoperta dopo mesi nella sua casa, puo' diventare desiderabile. Con la disgregazione dei nuclei famigliari e i cambiamenti intervenuti nelle societa' occidentali riguardo ai ruoli femminili tradizionali, sembra che non ci siano alternative, per l'assistenza dei vecchi, tra l'ingresso in una casa di riposo e la delega del lavoro di cura a donne straniere. Su queste scelte, che rispondono a un margine molto limitato di liberta', per ragioni economiche o affettive, si sa poco, confinate come sono nella sfera di un "privato" che neppure la vorace curiosita' dei media e' riuscita a stanare. Per questo e' importante l'esperienza di chi in questi luoghi vive e lavora, prezioso e' il racconto che ne possono fare, perche' non resti "impresentabile" proprio quel passaggio della vita che alcuni considerano il piu' vicino alla verita' della condizione umana. Adriana Nannicini, filosofa, psicologa, consulente di organizzazione del lavoro e del lavoro in gruppo, dirige da piu' di un anno tre strutture residenziali private per lungodegenti anziani a Milano. Ho chiesto di incontrarla e di rivolgerle alcune domande. * - Lea: Tempo fa lessi un libro dello psichiatra Claude Olievenstein, La scoperta della vecchiaia (Einaudi 1999), con un sottotitolo accattivante: Una nuova stagione della nostra vita. Per imparare a riconoscerla e ad amarla, senza subirla. Rimasi colpita dall'eta' dell'autore: 66 anni. Avvicinandomi oggi a quell'eta', mi viene da chiedere "quando comincia la vecchiaia?". Di chi stava parlando Olievenstein in quel momento, con una immedesimazione cosi' forte? Si riferiva alla propria esperienza o a quella dei suoi pazienti? Non siamo forse tentati di dilazionare, proiettare l'invecchiamento sul tempo che ci sta davanti? - Adriana: Nel mio lavoro come dirigente delle case di riposo io ho davanti i "grandi vecchi", quella che puo' essere considerata la quarta eta'; gli ospiti hanno dagli 80 anni in su, sono persone non autosufficienti, di cui la struttura e il personale che vi lavora si deve fare carico. Paradossalmente mi sembra piu' preparata all'incontro con questa vecchiaia la trentacinquenne che le donne della nostra generazione, "le ragazze di cinquant'anni", come dice il titolo del libro di Marina Piazza, una generazione che pensa a se stessa come sempre giovane, vitale, attiva. Una struttura per anziani e' per i giovani un luogo di accesso al lavoro,rappresenta la possibilita' concreta di esercitare una professione. In questo periodo, per gli stranieri e le donne straniere, puo' rappresentare la prima occupazione che regolarizza la loro presenza in Italia, uno dei pochi lavori che permette di uscire dal mercato informale, di uscire dalle case dove sono "badanti", presenze magari attente, magari competenti, ma spesso in situazioni chiuse, nella solitudine domestica. Sia le italiane che le straniere sono donne giovani, la maggior parte appartiene alla generazione tra i 25 e i 35 anni. Forse e' questa opportunita' di lavoro che facilita soggettivamente l'impatto con la vicinanza alla vecchiaia. * - Lea: Comincio a farti la prima domanda: che cosa ti ha spinto ad affrontare questo tipo di incarico, che io vedo gravoso anche dal punto di vista della responsabilita' organizzativa oltre che relazionale? Si tratta di incontrare quotidianamente aspetti della vita, dell'umano, che si preferisce rimuovere, delegare ad altri, almeno finche' non ci si trova dentro. - Adriana: Con il mondo dei grandi vecchi non ho mai avuto in precedenza esperienze dirette, mi ero orientata verso altri tipi di popolazione. Non ne sapevo niente e percio' avevo l'impressione che si trattasse di una nuova frontiera, un "mondo" da costruire utilizzando la posizione di dirigente. Mi attirava la novita', l'idea di dar vita a uno stile di organizzazione del servizio. * = Lea: Di fronte a famiglie che si disgregano, anzianita' che si prolungano nel tempo diventando per questo uno dei problemi sociali fondamentali, e' vero che si delineano nuove mappe relazionali, alternative da immaginare e costruire. Ma non sono comparse anche fantasie, paure, legate al proprio invecchiamento? - Adriana: Non per me, non adesso, ho una storia famigliare in cui la vecchiaia appare sfocatissima, coperta da grande pudore e riservatezza. I miei interrogativi e i miei timori riguardavano invece il modo di trattare un corpo invecchiato: odori, colori, deformita'. Mi sono domandata quale sarebbe stata la mia relazione con un corpo per me "sconosciuto". L'unica rappresentazione che avevo del corpo nella vecchiaia mi proveniva dalle pagine di Una morte dolcissima, di Simone de Beauvoir. Alquanto astratto! Poi ho incontrato anche le persone dementi. Quando mi sono trovata davanti, nel salone, quaranta persone sedute in quaranta carrozzine, ho pensato che il corpo di carne e il corpo di metallo erano insieme, come un tutt'uno, un'immagine che mi e' parsa aggressiva, sconcertante, non comunicabile. Ho cercato di renderla meno inquietante collegandola con l'abitudine dei giovani di riempirsi di piercing di metallo, ma non e' la stessa cosa. E' quel tipo di vecchiaia, quella fisicita' dei corpi che mi ha colpito. Tanto e' vero che ho deciso che non sarei entrata in una camera senza bussare, diversamente da altri colleghi che hanno assunto le abitudini dei medici. I primi giorni mi sono data l'indicazione di avvicinare i pazienti, far conoscenza con qualcuno, capire che rapporto si stabiliva. Il primo e' stato un signore che camminava con un sostegno e che aveva sempre un libro in mano. Ho pensato: comincio con qualcuno con cui ho una somiglianza. Era un personaggio simpatico e spiritoso. Quel giorno mi ha letto la mano: lui agiva sul mio corpo, mi diceva delle cose, approfittava dell'occasione di toccare una donna, farle un po' la corte, avvicinare la direttrice, stupirla con una lettura maliziosa. * - Lea: E quindi stabilire un minimo di reciprocita'. In quella situazione, che cosa hai notato di particolare partendo dalla consapevolezza di cosa significa essere uomo o donna. - Adriana: Un ruolo direttivo ti mette a contatto con tutti, ma ti lascia anche molto separata. Mi chiedevo: come faccio a condividere, cosa metto in comune e con chi? Le prime persone che ho "incontrato" sono state le donne straniere, perche' erano le piu' distanti per bisogni, lingue, cultura, ma anche le prime che mi venivano a chiedere una mano per problemi immediati, da risolvere subito: figli, ricongiungimenti famigliari, viaggi. Mi raccontavano subito la storia della loro vita, potevo trovare differenze e somiglianze. * - Lea: Dicevi che era un ambiente prevalentemente femminile, parlavi del contatto coi corpi, della spudoratezza... - Adriana: Si', mi colpiva una certa litigiosita' infantile tra tutte quante: pazienti, operatrici, familiari, un po' come in famiglia. Ma una struttura cosi' grande deve rispettare tempi e modalita' stabilite. Questo crea distanza, spersonalizzazione. Si apre una contraddizione che pesa su tutte: sulle operatrici, sulle degenti che vivono la freddezza come abbandono, o che si sentono avvicinate con un tocco di famigliarita' fittizia, che risulta umiliante. Comunque e' interessante vedere cosa succede quando le stesse funzioni che sono del privato, della casa, della famiglia, si spostano in un luogo di socialita' allargata. Le funzioni restano le stesse (l'igiene, il cibo, la compagnia) mentre i ritmi e le regole si fanno piu' precisi. Vale anche per i famigliari? I parenti sono le persone con cui ho passato piu' tempo: incontri di gruppo, incroci informali, risposte a reclami, interviste, lettere. Persone diverse, per eta' e contesto culturale. Ci sono quelli che si fermano tutto il giorno, facendo salotto con altri famigliari. A volte danno indicazioni utili, altre assumono ruoli impropri di cui sono consapevoli, gli stessi che hanno a casa. Sembra che sia difficile per le donne rinunciare al ruolo di cura, accettare di avere tempo per se'. Il rischio che temono e' di sentirsi egoiste. Alcune si sentono in colpa perche' hanno portato il genitore in casa di riposo, per cui devono almeno venire a trovarlo e dare suggerimenti, anche perche' conoscono meglio degli operatori i cenni del paziente, mantenere almeno un ruolo di "interprete", di "mediatrice", le aiuta a rappresentarsi ancora in ruoli familiari, a dare consistenza e concretezza a legami affettivi. Ho fatto molti colloqui approfonditi con i parenti e ho visto che le famiglie di una grande citta', o di centri limitrofi, vivono in un grande isolamento, per cui, quando si tratta di portare un anziano in casa di riposo non dispongono di una socialita' allargata con cui affrontare dubbi e discutere incertezze. Spesso e' una decisione che prendi in un attimo e che ti accorgi di aver fatto dopo che l'ingresso nella struttura residenziale e' gia' avvenuto. Le donne che passano la' tanto del loro tempo, lo fanno spesso per elaborare una decisione che non hanno maturato; devono tornare a raccontare la vicenda, immetterla nella storia famigliare,lo fanno per raccontarla ai figli, per se stesse, forse e' anche un modo per anticipare la loro storia futura. Quello che spesso appare come un tempo da salotto, talvolta viene usato anche per affrontare domande e solitudini. * - Lea: Questo indugiare penso risponda inconsapevolmente anche al bisogno di riflettere su un'esperienza che non ha luoghi, ne' privati ne' pubblici, per potersi esprimere. La vecchiaia e le infermita' che spesso l'accompagnano e' vissuta in solitudine. Anche se oggi e' uno dei principali problemi sociali, legato alla disgregazione della famiglia, stentano a profilarsi alternative, progetti condivisi da collettivita' allargate. - Adriana: E' proprio per questo che la casa di riposo mi e' parsa una specie di nuova frontiera, in cui ciascuno e' un po' pioniere, operatori e famigliari li' insieme, in pomeriggi in cui chiacchieri della famiglia. Ci sono nipoti ventenni, allevati dalla nonna, che sono li' tutti i giorni, soprattutto nelle ore di pranzo. Forse non vogliono perdere il legame con l'infanzia. Nelle varie occasioni informali, nei tempi non direttamente operativi, quello che si vede e' una transizione non ancora elaborata. La transizione dalla casa alla struttura, dalla vecchiaia alla "grande vecchiaia", all'attesa della morte. Alcuni parenti chiedono cure terapeutiche e sanitarie fino al limite dell'accanimento: tenerli in vita in ogni modo. Fuori la societa' accelera tutti i tempi, qui sembra che si dilatino, che un rallentamento sia necessario per dar spazio ad un tempo "interno". * - Lea: Per quel poco che ho potuto constatare, mi sembra che ci sia un'altalena tra chi e' presente a tutte le ore e chi e' quasi sempre assente, tra chi rimanda all'infinito il distacco e quelli che consegnano l'anziano a una sorta di "anticamera della morte". Cosi' almeno era considerata la casa di riposo nella famiglie contadine in cui sono cresciuta: la miseria estrema, l'estremo abbandono. Strappati dalla loro radice - casa, affetti -, smarriti luoghi e abitudini, molti anziani muoiono subito dopo il ricovero. Quello che manca ancora e' la capacita' di portare alla coscienza, e quindi alla cultura, alla storia, alla progettualita' politica, un passaggio fondamentale della vita come l'invecchiamento. La vicinanza con la morte contribuisce sicuramente a farlo precipitare nella fatalita' delle catastrofi naturali. Essendo una delle vicende chiave dell'esperienza umana ha bisogno di una riflessione collettiva, tanto piu' che i sostegni tradizionali, come la famiglia, la dedizione femminile alla cura, stanno venendo meno. Nessuno auspica un ritorno alle famiglie numerose del passato, ma come mai non si riesce a fare un passo avanti? Anche la cultura nata dal femminismo sembra abbia perduto la capacita' di interrogarsi a fondo sulla vita, benche' oggi per molte di noi la cura di un anziano genitore e il nostro stesso invecchiamento siano parte non secondaria del vissuto personale. Il termine della vita ormai si e' profilato all'orizzonte e la reazione e' sempre la stessa: rimuovere, dilazionare il momento in cui si comincia a farne oggetto di riflessione. La vecchiaia resta il volto impresentabile della vita. La sua "oscenita'", cio' che la sposta fuori dai nostri pensieri, e' il fatto intollerabile che la vita finisca. - Adriana: Dentro una struttura come questa la morte c'e', e' presente, e' un accadimento costante, che ha uno spessore concreto, materiale e affettivo contemporaneamente; c'e' come esperienza della morte degli altri, come necessita' di elaborare il lutto. Si fanno incontri di formazione con gli operatori su questo, tempi e modi di riflessione, non semplice addestramento tecnico, oppure, a tavola coi medici ci si dice: "facciamo un patto tra noi, se incappiamo in un ictus ci diamo una pillolina", che e' un modo di esorcizzare sul registro del cinismo, per tenere a bada la paura senza nominarla e riconoscerla a voce alta. Ci sono degli ospiti che muoiono improvvisamente lasciando un forte ricordo tra le operatrici, provocando emozioni intense e rimpianti, come si trattasse della perdita di un parente. La morte e' stata molto presente nella mia vita personale, ci sono cresciuta in mezzo, l'ho frequentata, per cui mi pare di avere meno paura e reticenza ad avvicinarla di quante ne ho avute nell'affrontare il corpo anziano nella sua materialita'. Quando e' morta la madre anzianissima di una signora con cui avevo parlato tante volte, una donna cortese e spiritosa che mi aveva portato richieste precise e lamentele, ma che a me piaceva, sono entrata in camera e ci siamo tenute per mano vicino al letto della madre. Piangeva: "Non posso pensare di perderla, di salutarla". Io sono rimasta con lei, pur essendo un'estranea totale. Dopo mi ha ringraziato, ma non era la mia una presenza solo professionale, e' vero che io volevo essere li' con lei. In questi luoghi si puo' piangere, e si puo' farlo assieme ad altri. Io non ho potuto piangere la morte dei miei genitori. Sono piccoli segni di cui si dovrebbe tener conto. * - Lea: Mi sembra interessante poter guardare una casa di riposo dall'interno e attraverso una donna che, come te, vi ha esercitato una funzione direttiva, senza perdere per questo la disponibilita' all'identificazione e all'ascolto delle storie di vita, l'attenzione ai rapporti e ai segnali buoni di quella convivenza per molti forzata. Mi e' venuto da confrontare il tuo racconto con la breve esperienza che ho fatto quando mia madre, alcuni anni fa, dopo un ricovero in ospedale, e' stata un mese in una Rsa, per riabilitarsi. Non ho visto niente di cio' che tu dici. Ho visto mia madre sempre piu' smarrita, sempre piu' immobile, mentre avrebbe dovuto riprendere a camminare. Andavo tutti i giorni con grande ansia e quando uscivo piangevo di rabbia perche' avevo l'impressione che li' tutto congiurasse a distruggere quel poco di voglia di vivere che ancora le restava. Tu dicevi di aver visto presenze generazionali diverse. Io non ho visto altro che degenti e mi sembravano tutte immerse in uno stesso angoscioso universo, quale e' quello della demenza e dell'infermita', tutte ugualmente in attesa della morte, tutte sofferenti dell'orfanita' di case, affetti, abitudini perdute. Mi sono rivista bambina, nella colonia estiva, in preda alla disperazione dell'abbandono. So di aver forse frainteso lo stato d'animo di mia madre, tanto era forte il sentimento che provavo io entrando in quel luogo, unito al senso di colpa, al dubbio di dovervela lasciare per sempre. Non penso che sia una soluzione neppure affidare a donne straniere la cura degli anziani, anche se all'interno di una casa si possono trovare rapporti nuovi, creare convivenze inedite e piu' libere rispetto ai legami di sangue. Mi chiedo se si puo' cominciare a pensare ad alternative che ci aiutino a uscire da questa stretta tra un privato che grava sempre e comunque sulle donne, sul sacrificio delle loro energie fisiche, psichiche e mentali, e una dimensione pubblica, quali sono oggi le case di riposo, cosi' impersonali e totalizzanti. Tu mi parlavi invece di generazioni diverse e di ruoli che si incrinano... - Adriana: Non capita sempre e non e' mai garantito. Le persone talvolta rompono un ruolo indesiderato, anche perche' sono portatrici di culture diverse, come le donne che vengono dall'Est Europa o dall'America Latina. Escono dalla rigidita' delle regole anche solo infantilizzando l'anziano; toccano i corpi in modo un po' brusco, ma cosi' dimostrano che si possono toccare, che si puo' dare un bacio, magari di corsa. Modalita' gestuali non necessariamente delicate o ben orientate, che pero' non sono impersonali e meccaniche. Altre operatrici invece le vedi che vengono a passare la notte, anche se non sono di turno, per fare compagnia a una parente che altrimenti sarebbe la' da sola. Anche se molte giovani accettano questo lavoro perche' non c'e' altro, cio' non impedisce che si creino delle relazioni di grandissima intensita', a volte armoniose altre piu' litigiose. Meriterebbe di essere meglio capita la rabbia o l'insoddisfazione dei parenti, risolta di solito in modo amministrativo. Il "reclamo" viene talvolta interpretato sbrigativamente come l'espressione di un senso di colpa su cui non si puo' intervenire. Penso invece che si possano trovare modalita' di relazione in cui sia possibile anche ascoltare quelle voci che in modo ruvido esprimono emozioni di rabbia profonde e inconsapevoli: "mamma non invecchiare, cosi' demente mi spaventi, mi abbandoni". Forse l'istituzione e' la' per raccogliere non solo la rassegnazione ma anche questo tipo di sentimenti, inquietudini, lasciati alla solitudine di ciascuno. * - Lea: E' vero, al di la' dei ruoli e dei regolamenti possono attivarsi relazioni simili a quelle famigliari, momenti che fanno sentire non piu' soli. Si possono trovare condivisione e modi di stare insieme che preludono a una socialita' diversa. Mi resta pero' un dubbio riguardo allo smarrimento che fa seguito alla perdita di luoghi e abitudini, soprattutto in chi non si e' mai mosso dalle sue radici. Anche nel caso di perdita o allentamento delle facolta' mentali, il corpo trattiene la memoria del suo passato. Dopo la morte di mio padre e di tutte le persone a lei piu' vicine, mia madre non ha piu' voluto uscire dalla sua stanza. Sta seduta immobile nella sua poltrona e gira lo sguardo dentro uno spazio sempre piu' ridotto. Ma in quel cono tracciato dallo sguardo entrano una sedia, una credenza, una lampada che riconosce, e penso che siano questi oggetti, ultimi testimoni della sua storia, uno degli elementi che la tengono ancora in vita. In quel breve periodo che e' stata nella casa di riposo ricordo la sua domanda insistente: dov'e' l'entrata, dov'e' l'uscita? Aveva perso la sua mappa, le traiettorie del suo quotidiano orientamento. Mi chiedo se, nel prospettarsi alternative riguardo alla vecchiaia e alle sue necessita', si possa tener conto di questa memoria del corpo, se si possa recuperare sul versante di una socialita' allargata, meno familistica, la continuita' con tratti riconoscibili della propria vita personale. - Adriana: Penso che non si dovrebbero perdere ne' la propria storia ne' in parte gli oggetti personali. Ma sappiamo che la stanza singola costa: Ho fatto confronti di servizio e mi sono resa conto che i costi sono elevati in tutta Europa, sia per la quota che si assume il welfare sia per la quota che riguarda la famiglia. Quanto piu' il servizio e' costruito sulla persona, tanto piu' e' la famiglia a pagare. Ho visto camere molto personalizzate, come quelle domestiche, in residenze molto costose. Altrimenti restano solo i vestiti e qualche gioiellino. Una signora mi ha parlato in modo positivo del collegio dove era stata da ragazza. Ai suoi tempi era un uso normale: famiglie che si prendevano cura delle figlie facendole studiare. Una buona immagine dunque, tanto che per lei era piu' inquietante considerare la casa di riposo "la sua casa". Preferiva vederla come un "collegio per vecchiette", un luogo transitorio, rispondente a bisogni che nel tempo cambiano. Non era lo stesso per i suoi figli, che sapevano, o temevano invece, della irreversibilita' di quel passaggio, della dimensione definitiva di quell'abitazione. Erano loro i piu' vulnerabili, quasi impreparati. * - Lea: E' chiaro che per prospettarsi in modo nuovo la vecchiaia e i suoi problemi e' necessario ripensare la sfera del privato e del pubblico cosi' come si sono costruiti, come astratta e violenta divisione di ruoli e poteri, diventati per l'uomo e la donna destini "naturali". Se non bastasse l'intelligenza e la sensibilita' diversa con cui si comincia oggi a guardare la vita in tutti i suoi aspetti, a partire dal dominio di un sesso sull'altro, dalla divisione tra famiglia e societa', si dovra' comunque fare i conti d'ora innanzi con lo sfaldamento di rapporti dati come eterni e immodificabili, radicamenti e appartenenze che si eclissano lasciando all'orizzonte solo i bagliori minacciosi della loro potenza immaginaria. 4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 5. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1465 del 31 ottobre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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