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La nonviolenza e' in cammino. 1462
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1462
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 28 Oct 2006 00:18:30 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1462 del 28 ottobre 2006 Sommario di questo numero: 1. Sia liberato Gabriele Torsello. Cessi la guerra 2. Enrico Piovesana: Parlano i reduci dall'Afghanistan 3. Riccardo Orioles: Anna, e non solo 4. Brian Whitaker: Una lingua che nessuno ha mai parlato 5. Il 2 novembre a Torino 6. Rossana Rossanda presenta "Volevo la luna" di Pietro Ingrao 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. SIA LIBERATO GABRIELE TORSELLO. CESSI LA GUERRA [Gabriele Torsello, giornalista, fotografo e documentarista freelance, collaboratore di movimenti umanitari, impegnato contro la guerra e contro le violazioni dei diritti umani, e' stato rapito in Afghanistan sabato 14 ottobre 2006] Sia liberato Gabriele Torsello. Cessi la guerra. * Gabriele Torsello col suo lavoro documentava e denunciava la violenza della guerra, col suo lavoro invocava che si cessasse di uccidere e si recasse soccorso ai superstiti, invocava il rispetto della vita, della dignita' e dei diritti di tutti gli esseri umani. Documentava e denunciava gli orrori indicibili tuttora in corso in Afghanistan. Sia liberato Gabriele Torsello. Cessi la guerra. * Massacri di civili, sequestri illegali e torture le piu' atroci, finanche profanazione di resti umani; e devastazioni che ricordano Coventry, Dresda, Hiroshima; ieri anche l'annuncio protervo e insensato che l'occupazione militare della Nato e le sue pratiche naziste, e l'animalizzazione di tutte le vittime e di tutti i combattenti, dureraranno ancora per altri dieci anni almeno: crimine e disumanita', follia e terrorismo, che terrorismo e follia, disumanita' e crimine, propagheranno in tutto il mondo. E' cosi' evidente che la guerra e' nemica dell'umanita', che la guerra e' il terrorismo supremo, che l'intera umanita' e' minacciata di distruzione se non si fa la scelta della pace, la scelta della convivenza, la scelta della nonviolenza. Sia liberato Gabriele Torsello. Cessi la guerra. * E l'Italia - in flagrante violazione della sua stessa legge fondamentale, della sua carta costituzionale - sta partecipando alla guerra afgana, e' complice di tutto questo orrore, e' parte della coalizione militare stragista e terrorista e suscitatrice di stragismo e terrorismo. Nel silenzio vile e schiavo di un'opinione pubblica narcotizzata e idiotizzata, nella criminale corresponsabilita' di un ceto politico che nella sua quasi totalita' ha condiviso la scelta dell'occupazione militare neocoloniale e della guerra terrorista e stragista, e nella complicita' dei cosiddetti "movimenti" che si occupano di tutto tranne che di questo: della guerra che la Nato - e con essa l'Italia - sta conducendo in Afghanistan. Cessi immediatamente la partecipazione italiana alla guerra afgana. Torni lo stato italiano al rispetto del diritto internazionale e della legalita' costituzionale. Troppo sangue e' stato sparso. Sia liberato Gabriele Torsello. Cessi la guerra. * Sia liberato Gabriele Torsello. Cessi la guerra. 2. TESTIMONIANZE. ENRICO PIOVESANA: PARLANO I REDUCI DALL'AFGHANISTAN [Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo il seguente articolo del 25 ottobre 2006. Enrico Piovesana, giornalista, lavora a "Peacereporter.net", per cui segue la zona dell'Asia centrale e del Caucaso; nel maggio 2004 e' stato in Afghanistan in qualita' di inviato] I soldati Isaf britannici, canadesi e olandesi di ritorno dalla guerra in Afghanistan raccontano le loro verita'. Verita' scomode per i governi che continuano a parlare di "missione di pace". * Gran Bretagna. "Dopo sei mesi di missione in Iraq sono venuto volontario in Afghanistan. Non avevamo capito che qui sarebbe stata cosi' dura. E' stato uno shock! In confronto con la situazione afgana, quella irachena era tranquilla". Sono le parole di Michael Diamond, 20 anni, soldato del Primo Battaglione del Reggimento Reale Irlandese dell'esercito britannico. E' appena tornato dal fronte, da Musa Qala, nella provincia di Helmand, dove i talebani hanno tenuto sotto assedio le forze Isaf per mesi, fino a costringerle alla ritirata, avvenuta pochi giorni fa. "I loro attacchi iniziavano ogni giorno intorno alle 4 di mattina e proseguivano per sei, sette ore", racconta il suo comandante, Paul Martin, 29 anni, gravemente ferito da una granata lanciata dai talebani su una postazione d'artiglieria britannica. "Sono tenaci, coraggiosi e addestrati. Ci stavano addosso senza sosta. E' stata molto dura". * Canada. Racconti simili vengono fatti dai soldati canadesi che nelle scorse settimane hanno combattuto a Panjwayi e Zhari, nella provincia di Kandahar. L'operazione "Medusa" e' stata segnata da violente battaglie che hanno lasciato sul terreno 43 soldati canadesi e 231 feriti, molti dei quali - un numero molto maggiore di quelli dichiarati dal governo di Ottawa - paralizzati e mutilati. Proprio sui feriti gravi e' in corso a Ottawa una durissima polemica tra governo e opposizioni: queste ultime accusano il Ministero della Difesa canadese di fornire cifre false, ampiamente sottostimate, sul numero dei ragazzi che tornano dall'Afghanistan senza gambe, braccia o costretti per tutta la vita su una sedia a rotelle. Ma l'accusa piu' dura e' quella di aver mentito alla nazione, usando la menzogna della "missione di pace" per mandare i ragazzi canadesi a morire in guerra. * Olanda. Anche le truppe olandesi impegnate sul fronte nord del "triangolo talebano", quello della provincia centrale di Uruzgan, stanno pagando le conseguenze di mesi di battaglie. Soprattutto dal punto di vista psicologico. Molti soldati inviati a combattere i talebani in Afghanistan si sono trovati in una situazione cosi' dura che hanno perso la testa. Chi, secondo la stampa olandese, dandosi ad atti di violenza gratuita, chi suicidandosi, come ha fatto lo scorso 11 ottobre il sergente Dijkstra. L'esperienza afgana deve essere stata davvero dura se i reduci, pur di non essere rimandati al fronte, preferiscono la galera. Come il soldato ventunenne Wegenaar, afflitto da disturbi psichici dovuti alla sua ultima missione in Afghanistan e ora finito davanti alla corte marziale come disertore per essersi rifiutato di tornare al fronte. "Quella e' una missione suicida", ha dichiarato davanti ai giudici in divisa. 3. INFORMAZIONE. RICCARDO ORIOLES: ANNA, E NON SOLO [Dalla bella rivista telematica di Riccardo Orioles (per contatti: riccardoorioles at sanlibero.it), "La Catena di San Libero", n. 342, del 23 ottobre 2006, riprendiamo alcuni testi. Riccardo Orioles e' giornalista eccellente ed esempio pressoche' unico di rigore morale e intellettuale (e quindi di limpido impegno civile); militante antimafia tra i piu' lucidi e coraggiosi, ha preso parte con Pippo Fava all'esperienza de "I Siciliani", poi e' stato tra i fondatori del settimanale "Avvenimenti", cura attualmente in rete "Tanto per abbaiare - La Catena di San Libero", un eccellente notiziario che puo' essere richiesto gratuitamente scrivendo al suo indirizzo di posta elettronica; ha formato al giornalismo d'inchiesta e d'impegno civile moltissimi giovani. Per gli utenti della rete telematica vi e' anche la possibilita' di leggere una raccolta dei suoi scritti (curata dallo stesso autore) nel libro elettronico Allonsanfan. Storie di un'altra sinistra. Sempre in rete e' possibile leggere una sua raccolta di traduzioni di lirici greci, ed altri suoi lavori di analisi (e lotta) politica e culturale, giornalistici e letterari. Due ampi profili di Riccardo Orioles sono in due libri di Nando Dalla Chiesa, Storie (Einaudi, Torino 1990), e Storie eretiche di cittadini perbene (Einaudi, Torino 1999)] Anna Politkovskaja, giornalista siciliana. Anche stamattina, al giornale, i colleghi hanno dato un'occhiata alla scrivania vuota e si sono messi al computer a lavorare. Il potere e' mafioso, lo si sa: pero' loro lo scrivono, fanno i nomi e i cognomi, e sono soli. Di chi e' la scrivania vuota? Chi e' il collega, assassinato dagli imprenditori mafiosi, che fino all'altro giorno scriveva? In che lingua scriveva? In russo, in italiano, in castigliano? Russia, Sicilia, Colombia? E che importanza ha. Siamo in un paese dove l'informazione non e' libera, dove i politici al massimo livello fanno accordi coi mafiosi (si chiamino Cuffaro o Putin, gioviali notabili o cupi apparatniki), dove l'imprenditoria e' collusa, dove il popolo fiaccato da rassegnazione e miseria non osa alzare la testa eppure (essi sanno benissimo) un giorno, grazie a loro che resistono, la rialzera'. E in quale chiesa si sono svolti stavolta - sempre piu' soli e inutili - i funerali? Pochi compagni attorno, dichiarazioni sprezzanti ("La mafia qua non esiste", "Nessuno stava a leggere il suo giornale") delle Autorita'. E quell'applauso commosso, di quelle poche centinaia di impauriti ma consapevoli cittadini. E loro che si allontanano, a spalle chine, per ritornare alla redazione, a scrivere tutto cio' che e' successo, anche in questa giornata. Manderanno ai giornali esteri ("I servizi hanno sequestrato il suo computer", "stava facendo un'inchiesta sui massacri") note redazionali. Aggiorneranno il palinsesto di questo numero, sperando che gli edicolanti - almeno per un altro po', almeno qualcuno - acconsentano a esporre ancora il giornale. Non parleranno, fra di loro, di lei, salvo che per ragioni di lavoro. Ma a lei penseranno ogni attimo, firmando le nuove inchieste, guardando la rotativa che le stampa, seguendo con lo sguardo le macchine che si allontanano portando dovunque possibile le copie del giornale. * Nessuno scrive piu' di te, Anna, ed e' passato appena un paio di settimane. Ci sono altre cose da scrivere, guerre, re, star system, presidenti, cantanti: altri eventi del vasto mondo ingombrano la grande stampa internazionale. Hanno scritto che eri una giornalista, una brava giornalista, e che sei morta: cosa potevi chiedergli di piu', a questi illustri e - per quasi due giorni - partecipi colleghi? E' nelle povere stanze e fra i computer rabberciati, con gli altri redattori dei tuoi stenti giornali, che ancora vive il giornalismo. Lui non ti ha dimenticata, ne' tutti gli altri come te. * Giornalismo. Convegno della stampa libera siciliana, il quattro e cinque novembre a Catania. Come spezzare il monopolio, come dare tecnologie alla liberta'. Come organizzarsi - insieme. Come trasformare. Per informazioni: riccardoorioles at sanlibero.it, lucio at sanlibero.it * Informazione 1. Sergio Saviano e' un ragazzo di Napoli che ha scritto il piu' bel libro sulla mafia degli ultimi anni. La mafia, che la' si chiama camorra, in realta' non e' piu' ne' mafia ne' camorra: e' un Sistema, moderno e omnicomprensivo, che regge parte grandissima dell'economia e gestisce - insieme ai poteri ufficiali - la sua parte di societa'. Sergio adesso e' in pericolo per aver scritto questo. Non lasciamolo solo - non ci ha lasciato soli. Per informazioni: www.sosteniamosaviano.net * Informazione 2. Dal 3 ottobre (decreto legge n. 262, art. 32) in internet non si possono piu' riportare liberamente articoli dai giornali ma bisogna pagare un compenso all'editore, a pena di sanzioni salatissime. Prima il copyleft era ammesso sul web con il solo obbligo di citare rigorosamente fonte e autore del pezzo. Cosi' si imbavagliano migliaia di siti, di blog e di forum. Questo incredibile balzello non fa differenza tra gli operatori professionali dell'informazione e chi pubblica articoli senza scopo di lucro: semplicemente, si penalizza chi diffonde informazione. Una "svista" del governo Prodi? Se cosi' e', la si corregga subito. Se no, sarebbe un grossolano e inaccettabile tentativo di limitare e controllare la libera e autonoma diffusione dell'informazione. "La liberta' non si puo' fermare - dice Peacelink, la rete pacifista che ha lanciato l'allarme sul decreto - L'informazione su internet deve rimanere libera. Chiediamo al governo che ritiri questo decreto legge. Chiediamo al Parlamento che lo cancelli". Per informazioni: db.peacelink.org/campagne/info.php?id=3D20 * Sicilia. Inchiesta su banche e notabili locale dello storico ragusano Carlo Ruta. Denunce del (discusso) procuratore locale Fera e dell'avvocato delle banche Di Paola. Condannato al bavaglio e a otto mesi di galera. Per informazioni: accadeinsicilia at tiscali.it * Memoria. Un uomo e la sua lotta ("Antimafia", marzo 1990). La sede dei "Siciliani" a Roma era in via Cola di Rienzo ed era in realta' un mezzo appartamento, completamente vuoto salvo che per una branda, un tavolo e due sedie. Con l'affitto, eravamo molto indietro: bisognava percio' cercare di salire senza farsi notare dal portiere, il quale tuttavia immancabilmente ci fulminava con uno sguardo di disprezzo. Il giornale era uscito, il numero uno, da tre settimane, e i cavalieri avevano gia' mandato i loro messaggi. Uno, il piu' bestia dei quattro, aveva offerto senz'altro dei denari. Un altro, il piu' raffinato, aveva invece mandato suo figlio (un giovane assai perbene, studente a Oxford e senza il minimo accento siciliano) a congratularsi col direttore per il bellissimo giornale e a osservare pero' che limitarsi a fare un mensile era, per giornalisti del suo valore, del tutto inadeguato: perche' non fare invece una televisione? La prima tv privata della Sicilia, budget iniziale un miliardo: i soldi, si sarebbero trovati; s'intende, liberta' assoluta. Io ero a Roma, in quei giorni, per gli esami di giornalista; lui per rintracciare non so che funzionario Rai che aveva vagamente parlato di citare in qualche trasmissione il giornale, Antonio per un servizio e poi c'erano anche Claudio e Miki e il direttore racconto' del miliardo di Rendo e l'assemblea, seduta sulle due sedie e sulla branda, decise all'unanimita' di rifiutare. Eravamo allegri quella sera, mandare al diavolo un miliardo non e' cosa di tutti i giorni, poi lui e Miki si misero a commentare le tre brasiliane che c'erano al ristorante sotto, poi io dissi che all'esame mi avevano chiesto chi era Fossati, poi scendemmo passando con indifferenza davanti al portiere che non ci saluto', poi salimmo sulla macchina del direttore che era una cinquecento rosso ruggine e ce ne andammo tutti alla Rai e fummo ricevuti, dopo tre ore d'attesa, dalla segretaria del dottore. Della televisione se ne riparlo' a settembre, venne l'onorevole Ando' a parlare col direttore e gli fece esattamente la stessa proposta che a gennaio aveva fatto Rendo, e anche a lui fu garbatamente spiegato che non c'interessavano le televisioni. Non so: ci sarebbe la birreria di Catania dove, dall'una in poi, passavano solo scippatori e metronotte, e noi. I metronotte prendevano una birra in fretta, al banco, gli scippatori invece grandi scodelle di pasta alla Norma. "Potremmo fare un settimanale" venne fuori l'idea, una notte, e allora facemmo i conti sui tovagliolini di carta per vedere quanto poteva costare fare un settimanale. Eravamo immortali, allora, niente di male avrebbe mai potuto accaderci. (Ne sono morti parecchi, di quegli scippatori, da allora; di uno fecero trovare la testa sotto la statua di Garibaldi, per una rapina sbagliata; ma bevevano intanto e scherzavano fra di loro, come tutti). Oppure la vecchia sede, in un paesino sopra Catania, quando arrivarono - prese a cambiali - le macchine da stampa. Il direttore non c'era, e noi ragazzi festeggiammo con uno spinello; qualcuno di noi ha ancora il filtro di cartone, con le firme di tutti e la data. Oppure la "conferenza stampa" per il primo numero de "I Siciliani", avevamo invitato tutti i giornalisti della citta' e il bar di fronte aveva mandato un quintale di pasticcini e spumanti per il buffet, ma venne solo un anziano giornalista sportivo, vecchio amico del direttore, e per tutta la sera rimase disciplinatamente la', a un capo dell'enorme e solitaria tavolata, a fare le regolamentari domande e auguri che si fanno alla presentazione di un giornale nuovo, e noi mangiammo amaramente pasticcini per una settimana. Certo: bisognerebbe parlare di mafia adesso, e di lotta alla mafia e dell'informazione coraggiosa e di quella puttana. Ma a volte e' una fatica troppo grande ripetere sempre le stesse cose. Il direttore e' morto, sei anni fa, e questo e' un fatto. I cavalieri sono ancora al potere, a Catania ed altrove, e anche questo e' un fatto. Ci sono piu' ragazzini scippatori, a Catania, di ogni altra citta' d'Europa, esattamente come sei anni fa: e anche questo - che gl'intrallazzi e le vigliaccherie finiscano per essere selvaggiamente e pacificamente pagate dai piu' indifesi, che un ragazzo che nasce a Catania non abbia diritto a nient'altro che a finire in galera - e' un fatto come gli altri. Ci siamo illusi, per alcuni anni, che una parte almeno dello stato italiano considerasse questi e altri fatti come estranei da se', come nemici, e che sarebbe stato possibile - come si dice - "fare giustizia". Ma era un'illusione, e basta guardare la faccia del giudice Ayala - cacciato perche' voleva fare il giudice - per averne un'idea. Sono state illusioni nostre, non di Giuseppe Fava. Lui sapeva perfettamente (era molto piu' siciliano di noi) che in fondo era tutta una questione di "berretti" e di "cappelli", di disgraziati sfruttati e di galantuomini: e che mai i disgraziati hanno avuto giustizia dai galantuomini, tranne che costruirsela da se', a poco a poco. 4. MONDO. BRIAN WHITAKER: UNA LINGUA CHE NESSUNO HA MAI PARLATO [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo. Brian Whitaker e' un autorevole giornalista del "Guardian", esperto del Medioriente. Rauda Morcos, attivista palestinese per i diritti umani, e' tra le fondatrici dell'associazione "Aswat"] Quando Rauda Morcos senti' dire che c'era una mailing list per le lesbiche palestinesi, dapprima non riusci' a crederci. "Pensavo fosse uno scherzo. Prima d'allora, credevo di essere l'unica lesbica al mondo a parlare arabo". La lista certamente non era uno scherzo, ma in una societa' in cui le relazioni fra persone dello stesso sesso sono ancora tabu', le aderenti alla lista tenevano molto alla privacy. L'unico modo per aggiungersi era tramite una raccomandazione personale. "Alla fine riuscii ad iscrivermi", ricorda Rauda, "E scoprii che c'erano un bel mucchio di donne lesbiche, anche se non potevano dirlo apertamente". Dopo aver corrisposto via e-mail per qualche mese, Rauda penso' che sarebbe stato bello incontrare di persona alcune delle donne invisibili e nel gennaio 2003, assieme all'amica con cui condivide l'abitazione, organizzo' una riunione. "Non avevamo aspettative, ma otto donne vennero. E l'incontro duro' otto ore, e penso che nessuna avesse voglia di tornare a casa". Questo incontro segno' la nascita di "Aswat" (Voci), la prima organizzazione di arabe lesbiche a funzionare apertamente in Medio Oriente. "Durante la riunione comprendemmo di avere una grossa responsabilita' verso le altre donne della nostra comunita'. Tentammo di contattare diverse organizzazioni e mandammo lettere, ma l'unica risposta venne da "Kayan" (Essere), un gruppo di femministe di Haifa. Troppe ong non pensano alla nostra istanza come ad un diritto umano, e non vogliono esservi associate". Tre anni piu' tardi, tuttavia, "Aswat" conta piu' di settanta socie sparse fra la West Bank, Gaza ed Israele (dove il gruppo ha una sede). Solo circa una ventina partecipa regolarmente alle riunioni: il bisogno di tenere segreta la propria sessualita' e le restrizioni ai movimenti imposte da Israele impediscono ad altre donne di partecipare, tuttavia esse si tengono in contatto tramite e-mail e il forum di discussione on line. Segni positivi cominciano ad apparire, dice Rauda Morcos: "Facciamo un gran mole di lavoro all'interno della comunita', per esempio con i gruppi di giovani. Io credo che il movimento gay/lesbico stia iniziando ad esistere per noi come palestinesi". Uno degli scopi di "Aswat" e' riuscire a fornire informazioni sulla sessualita' che sono ampiamente disponibili ovunque in altre lingue, ma che non sono mai state pubblicate in arabo. Non si tratta semplicemente di un problema di traduzione, spiega Rauda: "Non so come dire 'fare l'amore' in arabo senza suonare sciovinista, aggressiva ed alienata dall'esperienza. Si tratta di sviluppare una 'lingua madre' con espressioni positive, affermative e non svilenti rispetto alla donne, alla sessualita' lesbica ed al genere. Stiamo creando una lingua che nessuno ha mai parlato prima". Un riconoscimento per il lavoro di "Aswat" e' arrivato agli inizi di quest'anno, quando Rauda Morcos ha vinto il premio "Felipa de Souza" della Commissione internazionale per i diritti umani dei gay e delle lesbiche. La motivazione del premio la descrive come "un vero esempio di guida coraggiosa ed efficace nell'ambio dei diritti umani", ma Rauda ha subito aggiunto che molto lavoro viene fatto da donne che restano dietro le quinte. Invitata questo mese a Londra dalla Campagna di solidarieta' con la Palestina, Rauda Morcos ha spiegato la necessita' che ha fatto di lei il volto pubblico di "Aswat". Numerose donne coinvolte nel gruppo non vogliono essere identificate, spesso per buone ragioni. "Ma se per il momento non vogliamo uscire allo scoperto come persone, facciamolo almeno come movimento". Lo stesso coming out di Rauda non fu del tutto volontario, ed ebbe conseguenze particolarmente spiacevoli. Nel 2003, fu intervistata dal giornale israeliano "Yedioth Ahronot" sulle poesie che scrive. Parlando menziono' la propria sessualita', solo per trovarsela in prima pagina, nel titolo dell'articolo. "Di colpo, sembro' che tutta la popolazione araba della mia cittadina, nel nord di Israele, che generalmente credevo indifferente ai supplementi letterari dei giornali ebraici, avesse letto l'articolo e avesse qualcosa da dire su di me. I proprietari dei negozi facevano fotocopie e le distribuivano. Le conseguenze furono piu' serie di quelle che mi ero aspettata. I finestrini della mia auto vennero sfasciati, e le gomme tagliate piu' volte; ricevetti minacce per lettera e per telefono, e come ciliegina sulla torta persi il lavoro di insegnante. Mi dissero che i genitori non volevano che io stessi a contatto con i loro figli". La societa' araba di oggi e' attraversata dallo stesso tipo di pregiudizi sull'omosessualita' che erano comuni in Gran Bretagna un secolo fa. La persecuzione degli omosessuali e' altrettanto comune. I chierici musulmani condannano l'omosessualita' in termini assai chiari, e dichiarazioni simili provengono anche da leader arabi cristiani, come il patriarca copto in Egitto, il quale ha detto che "i cosiddetti diritti umani per la gente gay sono inammissibili". * Nella societa' palestinese la questione viene ulteriormente complicata, e resa maggiormente politica, dal conflitto con Israele, che ha legalizzato le unioni fra persone dello stesso sesso nel 1988. Quattro anni piu' tardi compi' un ulteriore passo avanti e divenne l'unico paese in Medio Oriente a dotarsi di una legislazione contro le discriminazioni basate sulla sessualita'. Questi risultati, sicuramente apprezzabili, sono pero' divenuti anche uno strumento propagandistico, che rinforza la pretesa di Israele di avere il monopolio della democrazia in Medio Oriente. Allo stesso tempo, sottolineare l'associazione di Israele con i diritti delle persone omosessuali ha reso la vita piu' difficile ai gay arabi, aggiungendo alimento alla nozione diffusa che vede l'omosessualita' come una "malattia" propagata dagli stranieri. Un recente articolo sul quotidiano egiziano "Sabah al-Kheir", che ricordava il trentesimo anniversario della guerra d'ottobre, aveva come titolo "Golda Meir era lesbica". Nel 2001, a seguito dell'arresto di 50 uomini sospettati di essere gay, il magazine "al-Musawwar" pubblico' una foto ritoccata del supposto "leader" del gruppo, mostrandolo vestito di un'uniforme israeliana, seduto ad un tavolo ricoperto dalla bandiera d'Israele. Israele, comunque, non e' un paradiso per i gay. C'e' ancora ostilita' da parte degli ebrei piu' conservatori, le cui truci dichiarazioni non sono molto diverse da quelle grandemente pubblicizzate dei chierici musulmani. A Gerusalemme, l'anno scorso, il sindaco ultraortodosso proibi' la sfilata del "gay pride", sebbene la sua decisione fosse poi immediatamente rovesciata da un tribunale israeliano. La marcia ebbe luogo, ma un fanatico religioso israeliano attacco' tre partecipanti a coltellate, e disse in seguito alla polizia che era andato a "uccidere in nome di Dio". La storia del movimento per i diritti delle persone omosessuali in Israele e' per alcuni controversa. Lee Walzer, autore di "Tra Sodoma e l'Eden", spiega in un articolo che i primi attivisti gay israeliani adottarono una strategia che "rinforzava la percezione dei diritti dei gay come istanza non di parte, non collegata al maggior problema della politica israeliana, ovvero il conflitto arabo-israeliano ed i metodi per la sua soluzione. Riconoscere i diritti dei gay ha permesso agli israeliani di darsi pacche sulle spalle per quanto erano di mente aperta, sebbene la societa' israeliana abbia registrato meno successi nel raddrizzare altre ineguaglianze sociali. Gli attivisti cercarono di convincere l'opinione pubblica che i gay israeliani era buoni e patriottici cittadini, a cui era semplicemente accaduto di sentirsi attratti dal loro stesso sesso". Il che, come principio generale, puo' essere valido, ma nel contesto di una guerra e di un'occupazione puo' condurre a situazioni ambigue. E' veramente un titolo d'orgoglio, per un membro apertamente gay dell'esercito israeliano, essere capace di distruggere i propri vicini di casa libanesi? * La questione, qui, e' se veramente i diritti dei gay, in Israele o ovunque, possano essere separati dalla politica, o trattati isolandoli dal resto dei diritti umani. "Helem", l'associazione gay/lesbica libanese pensa di no, ed allo stesso modo la pensa Rauda Morcos. Secondo Rauda, c'e' una connessione fra nazionalita', genere e sessualita'. La sua identita' e' triplice: e' donna, lesbica e palestinese (e in piu' ha un passaporto israeliano), ovvero, come dice lei stessa, fa parte di "una minoranza di una minoranza di una minoranza". La sua prima preoccupazione e' la fine dell'occupazione israeliana, ed ella non vede prospettive per l'ottenimento dei diritti delle persone omosessuali palestinesi fintanto che l'occupazione continua. Anche alcuni attivisti gay israeliani riconoscono questo legame. Durante il "gay pride" del 2001, a Tel Aviv, un gruppo chiamato "Omosessuali in nero" sfilo' con un cartello che recitava "Non c'e' orgoglio nell'occupazione". Nel 2002, quando Ariel Sharon divenne primo ministro, ed incontro' formalmente una delegazione gay, la questione torno' alla ribalta. L'attivista Hagai El-Ad scrisse: "Non e' pensabile sedersi tranquillamente con il primo ministro e, in nome della nostra comunita', ignorare i diritti umani degli altri, incluso cio' che accade in relazione alla Palestina: blocchi stradali, rifiuto di accesso alle cure mediche, omicidi, e l'implementazione della politica dell'apartheid nei territori occupati ed in Israele. La lotta per i nostri diritti e' priva di valore, se e' indifferente a cio' che sta accadendo alle persone che si trovano a tre chilometri da noi. Tutto quel che abbiamo guadagnato dall'incontro con il primo ministro e' una legittimazione simbolica della comunita' gay. Quel che ci ha guadagnato lui e' l'aura di persona illuminata e pluralista". L'aura non si estende comunque al trattamento che Israele riserva ai gay palestinesi. Per coloro che subiscono persecuzioni nella West Bank e a Gaza la via di fuga piu' ovvia e' Israele, ma cio' li lascia spesso sospesi, a livello amministrativo, in una sorta di "terra di nessuno", con scarse speranze di trovare lavoro nel paese e costantemente a rischio di arresto e deportazione. Nel frattempo, agli occhi del palestinese medio, fuggire in Israele si configura come un tradimento, e persino gli omosessuali che restano nei territori palestinesi diventano sospetti. A volte non senza ragione: ci sono stati vari rapporti sui gay palestinesi presi a bersaglio o ricattati dagli agenti dello spionaggio israeliano affinche' divenissero informatori. Che poi soccombano alle pressioni o no, "tutti sono immediatamente visti come collaborazionisti", conferma Rauda Morcos. 5. INCONTRI. IL 2 NOVEMBRE A TORINO [Da Enzo Gargano, del centro studi "Sereno Regis" di Torino (per contatti: enzo.gargano at cssr-pas.org) riceviamo e diffondiamo] Il Centro studi "Sereno Regis" invita alla presentazione della campagna internazionale per la messa al bando delle armi all'uranio impoverito che si terra' giovedi' 2 novembre 2006, alle ore 18, presso il Centro studi "Sereno Regis" di Torino, in via Garibaldi 13. Parteciperanno: Hitoshi Shimizu, regista di documentari; Naomi Toyoda, fotoreporter; Massimo Zucchetti, docente di impianti nucleari al Politecnico di Torino. Nel corso dell'incontro verra' proiettato il video-inchiesta "Unknown Terror of DU" di Hitoshi Shimizu e Naomi Toyoda, realizzato a Nassiriya, gia' diffuso da Rainews24 e sara' inoltre allestita una mostra fotografica con immagini scattate in Iraq da Naomi Toyoda. L'inziativa e' in collaborazione con il Centro di documentazione "Semi sotto la neve", via O. Gentileschi 6/a, Pisa, tel. e fax: 050564238. Per ulteriori informazioni: Centro studi "Sereno Regis", via Garibaldi 13, 10122 Torino, tel. 011532824, fax: 0115158000, e-mail: enzo.gargano at cssr-pas.org, sito: www.cssr-pas.org 6. LIBRI. ROSSANA ROSSANDA PRESENTA "VOLEVO LA LUNA" DI PIETRO INGRAO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 ottobre 2006. Rossana Rossanda e' nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio Banfi, antifascista, dirigente del Pci (fino alla radiazione nel 1969 per aver dato vita alla rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in rapporto con le figure piu' vive della cultura contemporanea, fondatrice del "Manifesto" (rivista prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata da sempre nei movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu' drammatica attualita' e sui temi politici, culturali, morali piu' urgenti. Tra le opere di Rossana Rossanda: L'anno degli studenti, De Donato, Bari 1968; Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o della politica come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987; con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalita', Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996; La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005. Ma la maggior parte del lavoro intellettuale, della testimonianza storica e morale, e della riflessione e proposta culturale e politica di Rossana Rossanda e' tuttora dispersa in articoli, saggi e interventi pubblicati in giornali e riviste. Pietro Ingrao e' nato nel 1915 a Lenola (Latina), laureato in giurisprudenza e lettere, partecipa alla lotta clandestina antifascista e alla Resistenza. Giornalista, direttore de "L'Unita'" dal 1947 al 1957, dal 1948 deputato del Pci al Parlamento per varie legislature e tra il 1976 e il 1979 presidente della Camera dei Deputati. Sono di grande rilievo le sue riflessioni sui movimenti, le istituzioni, la storia contemporanea e le tendenze globali attuali. Tra le opere di Pietro Ingrao: Masse e potere, Editori Riuniti, Roma 1977; Crisi e terza via, Editori Riuniti, Roma 1978; Tradizione e progetto, De Donato, Bari 1982; Il dubbio dei vincitori, Mondadori, Milano 1986; Le cose impossibili, Editori Riuniti, Roma 1990; Interventi sul campo, Cuen, Napoli 1990; L'alta febbre del fare, Mondadori, Milano 1994; (con Rossana Rossanda ed altri), Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; Variazioni serali, Il Saggiatore, Milano 2000; (con Franco Fortini, Alberto Olivetti, Gianni Scalia), Conversazioni su Il dubbio dei vincitori, Cadmo, Roma 2002; (con Alessandro Zanotelli), Non ci sto!, Piero Manni, Lecce 2003; La guerra sospesa, Dedalo, Bari 2003; Una lettera di Pietro Ingrao, Cadmo, Roma 2005; Volevo la luna, Einaudi, Torino 2006. Opere su Pietro Ingrao: Antonio Galdo, Pietro Ingrao. Il compagno disarmato, Sperling & Kupfer, Milano 2004, 2006; Lorenzo Benadusi, Giovanni Cerchia (a cura di), L'archivio di Pietro Ingrao, Ediesse, Roma 2006] Quando Pietro Ingrao pubblico', nel 1986, il suo primo volume di versi (Il dubbio dei vincitori, Mondadori) qualcuno si offusco': ma come, era il dirigente comunista piu' amato, fermo, il sicuro punto di riferimento nella crisi del partito, ed ecco che rivelava una sua dimensione personale, tumultuosa e inquietante, che cercava un raggiungimento nella forma, era come se dicesse: non appartengo tutto a voi, mia comunita' politica. Oggi, riandando sulla sua vita (Volevo la luna, Einaudi, pp. 376, euro 18,75) egli scosta da se' di nuovo l'icona di leader del popolo e padre della patria, infrangibile, quello che nella copertina parla alla folla, il volto asseverativo e la mano alzata in esortazione. L'icona - dicono le sue pagine - e' la cristallizzazione forzosa d'un percorso, interiore e pubblico, nel quale al momento dei bilanci le priorita' e i pesi si ridistribuiscono, e molto rischia di apparire vanita'. Ingrao sa di essere un uomo pubblico, e ci tiene, anche se gli pare un poco cedere alla lusinga, ma quel che ha raggiunto va soppesato e gli errori vanno ammessi. E' una vita autentica. Il titolo stesso pone un interrogativo. Voleva l'irraggiungibile o che quel che voleva e' rimasto distante? La risposta e' sospesa. Penso ai versi di Eluard: "Et s'il etait a' refaire, je referais ce chemin". Si', se si trattasse di rifarla, rifarebbe quella strada. Con qualche illusione o protervia comunista di meno. E quale ne e' l'esito? Il suo attuale compagno di partito, Fausto Bertinotti, non cessa di citare i versi di Kavafis in Itaca: importante non e' l'approdo, e' il viaggio. Ma l'approdo da' senso al viaggio. L'approdo di Ingrao e' che la rivoluzione degli oppressi contro l'oppressione, che resta da compiere, sara' diversa dall'immaginato dalla sua passata milizia e il suo soggetto sara' plurimo. Per strada rimane, con le sue macerie, il leninismo-stalinismo, coppia di sostantivi che non aveva incontrato ancora. E la violenza. * Un ritiro senza clamori Diversamente dal suo ultimo lavoro di indagine, Appuntamenti di fine secolo (Manifestolibri), che si interrogava prima di altri sulla precarizzazione del lavoro, Volevo la luna scandisce sulla esperienza personale cinquanta anni di storia del Novecento. Dall'infanzia in una famiglia meridionale di signori poveri, contraddizione significativa, alla formazione intellettuale e politica ormai giovane nella (gracile) Resistenza romana, alla lunga militanza al vertice del Pci, che diventa nel dopoguerra scontro (aspro) con l'arroganza del ceto dominante e fra i campi in cui il mondo e' diviso. Poi sara' la (amara) divisione nel partito, preludio di una piu' vasta sconfitta, fino alla uccisione di Moro. Perche' la morte di Moro? Ingrao non era stato un fervente del compromesso storico, conosceva abbastanza la Democrazia cristiana per dubitarne, lo aveva detto a Berlinguer, non era stato ascoltato e si era fatto da parte. La ragione e' interiore: da quell'anno non accettera' piu' alcun incarico dal Pci, a cominciare dalla presidenza della Camera che il partito gli vorrebbe imporre una seconda volta, dopo avercelo mandato anche per toglierselo d'attorno alle Botteghe Oscure. Sente "il bisogno di riflettere sul fallimento della strategia del Pci in Italia", sull'Europa, sul mondo che cambia. C'e' da studiare, cercare, capire. E' politica, ma non piu' un "fare politico". Ingrao, se ha dubitato della "alta febbre del fare", non si e' mai illuso su che cosa sia o non sia il fare politico. Si ritira senza clamori. Nel libro sono poche righe asciutte, prima di chiudersi sulla figura solitaria ed emblematica del disperso di Marburg nel racconto di Nuto Revelli. Non e' a causa dell'eta' che chiude con la milizia attiva; ha si' e no sessant'anni e del resto ancora un paio d'anni fa raggiungeva una manifestazione traversando Roma intasata sul sellino posteriore di una motocicletta. Lasciava per il dubbio, lungamente maturato, sulla capacita' del partito di intendere il volgere degli eventi e di farvi fronte. Allora non ne ha parlato, ne' oggi getta la responsabilita' su questo o quello. E non perche' sia arrivato alla conclusione, credo, che fin dall'origine il tentativo comunista era destinato a fallire, che c'era il verme nel frutto. Nel tramonto della sinistra che e' stata anche sua e' sempre attento al sorgere di quelli che per primo ha chiamato "i nuovi soggetti". Ma da un pezzo deve aver cessato di credere che il Pci li intendesse, e non crede che qualcuno altro li abbia intesi meglio. Vano, quando non pericoloso, dev'essergli sembrato il tormentarsi degli anni '70. L'aggettivo che gli viene sotto la penna piu' spesso e' ormai "amaro". Ma non ha risentimenti. Anch'egli ha mancato, sbagliato. Dove? Nella "soggezione" al modo di essere del partito. Essa gli pesa di piu' che gli errori di analisi e previsione, dei quali esso e' una causa. Se oggi non propone una lettura diversa del mutare dei rapporti di forza, dagli anni Sessanta in poi, e' perche' la partita e' complessa, non gliene sfugge la dimensione ed e' sua ferma convinzione che soltanto un grande partito - non un coacervo di opinione, ma un "intellettuale collettivo" - avrebbe potuto farvi fronte. E neppure sottolinea di aver personalmente affacciato interrogativi e risposte. E' troppo severo con se stesso: molti di noi lo sanno piu' attento di ogni altro dirigente al mutare delle cose, su cui ha molto ragionato e scritto. Se mai e' irresoluto nel trarne le conseguenze quando il partito non le trae. Ingrao e' sempre un poco oltre e fuori dalla linea, ma e' convinto che non si fa politica da soli. Come se gli parlasse dentro il brechtiano: "Compagno, non avere ragione senza di noi". Tanto piu' che c'e' una consonanza fra la sua formazione e quella del vertice comunista italiano, in particolare della sua generazione: l'impronta morale, antifascista, nazional-popolare piu' che marxista, l'acuta sensibilita' per gli oppressi piu' che per gli sfruttati, per le vessazione dei padroni o dell'apparato repressivo dello stato piu' che per il meccanismo capitalistico di produzione, che gli appare astratto, dunque pressoche' inumano. Umanesimo contro "economicismo" e' la "via italiana", e di economicismo mi ha sempre rimproverato. Questo accento, cui e' stato piegato (perche' piegabile) anche Gramsci e nella discussione interna e' malamente tradotto nella contesa fra meridionalisti nazional-popolari e settentrionali cosmopoliti, e' stato determinante nel Pci assai piu' della ubbidienza alla vulgata marxista-leninista dell'Urss. In Ingrao e' rafforzato da quello "storicismo assoluto", che e' il contrario del determinismo (i popperiani nulla ne hanno capito) e viene dal post-hegelismo filtrato da Labriola e Gramsci. La calorosa scoperta del nonno garibaldino incontra una Weltanschauung segnata dall'intreccio fra risorgimento, antifascismo, democrazia e oppressioni del presente. * Il corpo e il sangue del partito Nell'esperienza soggettiva, i rapporti nel partito pesano di piu' delle scelte del partito. La sua e' una appartenenza, calda, diretta, imponente. Con la base e con il gruppo dirigente, che non sono la stessa cosa. La base e' parente del popolo, della massa, che il vertice interpreta e dirige, sollecita e frena; in essa la memoria ritaglia i singoli, uomini e donne con nome e cognome, con i quali ha condiviso giorni e speranze, allegrie o angosce, azioni e riflessioni indimenticabili. Dagli inizi con il gruppo romano, a mezzo fra generazionale, amicale e politico, e poi - nell'insensato giro della prima clandestinita' - con Salvatore di Benedetto che lo nasconde a Milano o il vecchio pastore che lo copre nella Sila. Poi saranno le centinaia di persone, individui compagni, incontrati nei decenni di lavoro a "l'Unita'" o in segreteria o alla Camera (dalla quale Ingrao s'e' mosso come nessuno, ricordo un incontro di lavoro collettivo con l'assemblea della Montedison di Castellanza). La base e' la pluralita' del paese vivente, che si raggruma nelle istituzioni locali, nei comuni, terminali appunto plurimi di tradizione secolare e modernita'. Essi sono il corpo, il sangue del partito. Altro e' il gruppo dirigente, nel quale Ingrao e' proiettato quasi subito. E' un vertice pervaso della propria responsabilita', al quale si e' cooptati e nel quale si sperimenta la solidarieta' del lavoro comune, un certo senso di missione storica e la discussione quotidiana sul fare. E questa, se spesso converge, altre volte si fa scontro, reso drammatico dalla gerarchia e da un centralismo per il quale il solo balenare di una divergenza sarebbe la catastrofe, spaccherebbe tutto. Una sola volta Ingrao lo sfida, all'XI congresso, dove presenta un'ipotesi di modello di sviluppo e di alleanze opposta a quella amendoliana (ma nel libro la ricorda appena) e una innovazione di metodo, la legittimazione del dissenso (nel libro il ricordo e' vivissimo). Che venga accolto da applausi scroscianti dai delegati poco conta di fronte al gelo del gruppo dirigente. Vuol dire che ha perso; quello e' il perimetro vero del confronto. Non tentera' in alcun modo di sollevare o dividere l'assemblea e sopportera' senza reagire la grandine di punizioni che segue su di lui e sui suoi. Non protesta perche' ancora oggi pensa di avere violato un interdetto: e' vero che eravamo una frazione, scrive. Frazione per aver discusso con quattro o cinque di noi, e per aver confrontato con Lucio Magri il discorso da pronunciare all'XI congresso? Magari ci fossimo mossi come frazione, non lo abbiamo fatto. Non abbiamo cercato di riunire una sola volta i compagni che sentivamo piu' vicini. Conoscevamo tutti e ci conoscevano tutti, sarebbe stato uno scontro acerbo, ma non ci fu. Ci fu la sua solitaria sfida. Ogni "ingraiano" si mosse da solo, piu' o meno felicemente, per rispetto di un leader che pareva volere tutto il partito o niente. Sara' cosi' anche piu' tardi, dopo la caduta del Muro di Berlino, cui queste memorie non arrivano. Ingrao rifiuta il cambiamento del nome del partito, sa che vuol dire cambiamento di identita' e collocazione. Ma quando si coagulano attorno a lui le speranze di una rottura e ricominciamento - una Rifondazione diretta da lui invece che da Armando Cossutta - non se la sente. Il compagno Ingrao non e' uno scissionista. La passione urta con il metodo, introiettati tutti e due. Mettera' per l'ultima volta tutto il suo peso contro la guerra del Golfo. Poi uscira' dal partito, da solo, senza consultare nessuno. * La ferrea appartenenza Oggi sente questa immobilita' come una colpa, ma piu' per alcune discriminanti d'ordine etico che su questa o quella analisi da cui pure dipendevano il presente e il futuro del Pci. Il suo giudizio sui compagni della direzione e' generoso, fin indulgente con chi gli aveva fatto guerra, come Amendola di cui ricorda una brutta minaccia senza farne il nome. Soltanto da uno di essi si sente lontano, Togliatti, che non chiama "il compagno Togliatti". Lo chiama "quel capo". Quel capo ha mentito, tacendo o parlando, quel capo ha brindato all'invasione di Budapest, quel capo ha impedito la discussione sul 1956 definendola come un attacco contro lui medesimo e con cio' azzittendo tutti. L'Ingrao di oggi non si perdona di aver taciuto, peggio di avere scritto a favore dell'invasione dell'Ungheria - eppure non taceva per vilta', ma per patita (aspra, amara) condivisione del metodo interno, per una contraddizione fra due principi di lotta. Molti anni dopo fu il solo comunista di rilievo che intervenisse al secondo convegno del "Manifesto" sull'est, dove di perifrasi non se ne usava nessuna. Ma era il 1981 ed egli era fuori del gruppo dirigente. Tale e' la priorita' delle relazioni. In un partito o in un gruppo essa significa appartenenza. Un tempo noi dicevamo piu' freddamente adesione. Appartenenza e' un legame piu' profondo, comporta vincoli che la mera razionalita' non sospetta. Ingrao si accusa di tradimento per aver votato nel 1969 nel Comitato centrale l'esclusione del gruppo del "Manifesto". Ma quale tradimento? Era evidente che non avrebbe partecipato alla nostra impresa. Non aveva approvato i pochi di noi che erano riusciti a parlare dalla tribuna del XII congresso. Quando gli dicemmo della rivista ci ammoni' che, malgrado la rassicurazione di Berlinguer, saremmo stati sicuramente sanzionati. Ci separammo nel modo piu' limpido e amichevole. Se qualcuno si senti' abbandonato fu molto piu' tardi, dopo il 1989, ad Arco, quando con qualche ragione si attendeva da lui il lancio di un nuovo inizio. Per questo ultimo Ingrao, che "parte da se'", la relazione con l'altro vivente, persona o gruppo, e' il rapporto essenziale, attraverso il quale filtra la verita' dell'esperienza pubblica e privata. E' questo che fa sbiadire nelle sue pagine i lineamenti della posta su cui volta per volta si e' giocato il destino nostro, e del paese, ed oltre di esso: quale era la discriminate che si profilava dopo la morte di Togliatti, che e' stato realmente il partito di Berlinguer, quale consistenza aveva, al di la' dei colloqui di vertice, l'incontro fra Dc e Pci, cattolici e comunisti, come si e' andata disegnando la crisi dei socialismi reali e la risposta di un neoliberismo alle insorgenze degli ultimi anni '60 e dei '70 - come matura insomma, attraverso quali passaggi, la crisi epocale del comunismo. Le sue pagine echeggiano il rombo del mondo come si sente il frastuono d'una mareggiata, disegnano i grandi motivi della umana sofferenza e del riscatto; non li analizzano piu'. Il tempo delle scelte e' passato. Di assoluto e dolce resta la famiglia, radice e luogo del ritorno. Laura, la compagna della vita, Laura spesso piu' forte e avvertita di lui (non percio' le da' retta, sempre maschio italiano e'), Laura che risolve, Laura madre che se la deve sbrigare con i loro cinque rampolli, Laura che e' la passione e l'occhio indulgente. E le figlie, tramite fisico del 1968 romano, conosciuto soltanto attraverso di loro, il figlio cui ha dato il suo nome nella Resistenza (e neanche questo Togliatti aveva capito), la grande tribu' degli Ingrao nella grande vecchia casa a Lenola. E poi gli scorci di fogliame e sole e mare che irrompono negli anni e nel ricordo, la felicita' del corpo. E' il primato della persona in una esperienza che piu' pubblica non sarebbe potuta essere. Questo e' Pietro Ingrao visto oggi da Pietro Ingrao. Poi ce ne e' un altro, simile e dissimile, quello che ha traversato dall'interno la prova politica di molti fra noi. La serie di ritratti che gli fece negli anni Ottanta Alberto Olivetti, e sono stati troppo brevemente esposti all'Auditorium di Roma in occasione dei suoi novanta anni, dicono di lui piu' delle migliaia di fotografie che ne accompagnano l'itinerario come una scia. 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1462 del 28 ottobre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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