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La nonviolenza e' in cammino. 1429
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1429
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 25 Sep 2006 00:29:18 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1429 del 25 settembre 2006 Sommario di questo numero: 1. Come e' possibile? 2. Domenico Gallo: Il muro di gomma di Nassiriya 3. Maria Felicia Schepis: La comunita' in divenire. Dal principio dialogico di Martin Buber 4. La "Carta" del Movimento Nonviolento 5. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE: COME E' POSSIBILE? Come e' possibile tacere dinanzi all'orrore della guerra afgana? Come e' possibile tacere dinanzi alle stragi compiute dalla Nato? Come e' possibile tacere dinanzi alla illegale e criminale partecipazione militare italiana alla guerra? Come e' possibile tacere dinanzi a una politica assassina che avalla ed alimenta il terrorismo? * Se in Italia vi e' qualcuno che ha a cuore la pace e rivendica il diritto alla vita di tutti gli esseri umani, cosa aspetta a chiedere l'immediata cessazione della partecipazione italiana alla guerra? Cosa aspetta a chiedere che lo stato italiano contesti e denunci i crimini della Nato, alleanza di cui fa parte? Cosa aspetta a chiedere che la politica internazionale del nostro paese inverta la rotta rispetto a quella seguita dal 1991 ad oggi, e torni al rispetto della Costituzione, e si impegni quindi per costruire la pace con mezzi di pace, per contrastare tutti i terrorismi, per il disarmo, per la smilitarizzazione dei conflitti, per la cooperazione e la solidarieta' tra gli ordinamenti giuridici, i popoli e le persone? L'opposizione alla guerra e' il compito dell'ora. La nonviolenza e' la via. 2. RIFLESSIONE. DOMENICO GALLO: IL MURO DI GOMMA DI NASSIRIYA [Dal quotidiano "Liberazione" del 20 settembre 2006. Una sola osservazione sul capoverso conclusivo: ovviamente e' frutto di scrittura frettolosa e non meditata sostenere che il mentire sia piu' grave dell'uccidere esseri umani; nulla e' piu' grave dell'uccisione di esseri umani (p. s.). Domenico Gallo (per contatti: domenico.gallo at tiscali.it), illustre giurista, e' nato ad Avellino nel 1952, magistrato ed acuto saggista, gia' parlamentare, tra gli animatore dell'Associazione nazionale giuristi democratici; tra i suoi scritti segnaliamo particolarmente: Dal dovere di obbedienza al diritto di resistenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia 1985; Millenovecentonovantacinque, Edizioni Associate, Roma 1999; (a cura di, con Corrado Veneziano), Se dici guerra umanitaria. Guerra e informazione. Guerra all'informazione, Besa, 2005; (a cura di, con Franco Ippolito), Salviamo la Costituzione, Chimienti, Taranto 2006. Vari suoi scritti sono disponibili nel sito www.domenicogallo.it] Nel 1991 un coraggioso film di Marco Risi, Il muro di gomma, denunciava i silenzi, gli ostacoli e i depistaggi operati dai vertici militari per impedire l'emergere della verita' in ordine alle responsabilita' per la sciagura del Dc9 dell'Itavia, abbattuto da "ignoti" sui cieli di Ustica il 27 giugno 1980. All'epoca sembrava che si potessero aprire delle crepe, ma il muro di gomma ha tenuto e la vicenda di Ustica si e' conclusa con l'impossibilita' di accertare la verita' e di punire i responsabili del suo occultamento. Fatte le dovute proporzioni, un'altra strage di innocenti ha turbato la coscienza felice del nostro paese: si tratta della strage dell'ambulanza di Nassiriya, fatta esplodere dai militari italiani durante la seconda battaglia dei ponti, nella notte fra il 5 ed il 6 agosto 2004, provocando la morte di una partoriente, con il bambino, e di tre suoi familiari. * Se c'e' un'azione disonorevole, anche durante una guerra, questa e' indubbiamente quella di aprire il fuoco contro i feriti, i malati, le partorienti o i mezzi di soccorso che li trasportano, tanto che l'espressione "sparare sulla Croce Rossa" e' diventata una metafora per indicare un comportamento vigliacco ed ingiustificabile. Questo evento, cosi' drammatico ma non inusitato in un teatro di guerra, dove le truppe americane hanno sparato piu' volte sulle ambulanze, rischiava di incrinare, imbrattandolo con uno schizzo di sangue indelebile, il mito della missione di pace. Una missione dettata da una politica di mero servilismo nei confronti dell'alleato americano che il governo Berlusconi aveva venduto all'opinione pubblica italiana, poco incline alle imprese guerresche, come una impresa umanitaria, volta a portare aiuti alla popolazione civile e ad aiutare la ricostruzione del paese. Quel mito doveva essere difeso contro ogni evidenza, tanto che dopo la prima battaglia dei ponti, il 6 aprile 2004, il ministro della difesa, Martino aveva dichiarato al Parlamento che "la nostra e' una missione di pace. Chi parla di coinvolgimento dei nostri militari in una guerra stravolge la realta'". A questo punto ci mancava solo l'uccisione di una partoriente con il bambino per rovinare definitivamente "l'immagine" della missione dei nostri soldati in Iraq. * La soluzione a questo problema - politico, umano e militare - e' stata trovata immediatamente, rispolverando il "metodo Ustica", che cosi' bene aveva funzionato in passato. Poiche' nella civilta' della comunicazione la realta' e' la comunicazione, gli eventi reali possono anche essere cancellati, basta fornire false comunicazioni ed impedire che i fatti veri entrino nel circuito della comunicazione. Cosi' e' capitato che il portavoce del contingente militare italiano, il capitano Ettore Sarli, abbia trasformato - con un comunicato stampa - l'ambulanza in una "autobomba", che i militari italiani hanno giustamente fatto esplodere, sventando un insidioso tentativo d'attacco. In fondo e' elementare: basta qualificare come terroristi la partoriente ed i suoi parenti ed ecco che un'ambulanza si trasforma in un'autobomba. Per completare questa trasfigurazione dell'evento e' intervenuto addirittura il comandante del contingente, il generale Corrado Dalzini, il quale, il 28 agosto 2004, ha consegnato un encomio al lagunare che ha avuto l'ordine di sparare contro l'ambulanza, perche' "con il suo coraggioso ed esemplare comportamento, contribuiva a conferire ulteriore lustro e prestigio al Corpo di appartenenza ed alla forza armata in ambito multinazionale". E' inutile dire che questa coraggiosa operazione di trasfigurazione dell'evento ha trovato la massima comprensione nel governo Berlusconi, tant'e' vero che il 27 agosto del 2004, in occasione di una seduta delle Commissioni riunite esteri e difesa della Camera e del Senato il ministro degli esteri Frattini (con la complicita' del ministro della difesa Martino) ha respinto, con indignazione, ogni addebito relativo alla vicenda dell'ambulanza, dichiarando che la notizia era completamente falsa. Testualmente: "E' sbagliato ed ingiusto asserire che i nostri militari hanno sparato contro un'ambulanza con una donna incinta a bordo. Semplicemente non e' vero". Evidentemente il Ministro Frattini pensava di mettere il coperchio sulla pentola di Nassiriya, confidando sulla sua autorita', ispirandosi al principio del diritto romano secondo cui Auctoritas facit veritatem (l'autorita' fa la verita'). Ma i fatti sono duri a morire e la verita', anche quando viene sommersa da un diluvio di menzogne, poi ritorna quasi sempre a galla. * In effetti tutto sarebbe filato liscio, se non si fosse messo di mezzo il fato cinico e baro. In questo caso il fato e' rappresentato dalla presenza, al campo italiano, di un giornalista americano ficcanaso, Micah Garen, il quale non si e' bevuto la verita' ufficiale e si e' preso la briga di fare una sua inchiesta personale, intervistando l'autista dell'ambulanza, miracolosamente sopravvissuto, raccogliendo testimonianze e filmando il veicolo spacciato per autobomba. Micah Garen ci ha raccontato i fatti di cui e' stato testimone, attraverso un libro, American hostage, pubblicato negli Stati Uniti nell'ottobre 2005. Ma quello che e' veramente interessante, e' che adesso i fatti li accertera' l'autorita' giudiziaria, in modo incontrovertibile, demolendo il muro di gomma, poiche' e' di pubblico dominio che la procura militare di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di tre militari italiani con l'imputazione di aver sparato contro l'ambulanza. Purtroppo questa notizia non ha avuto il rilievo che meritava. Da un punto di vista politico-istituzionale, la gravita' di questa vicenda non sta nel fatto in se', malgrado la sua drammaticita', poiche' in un teatro bellico puo' capitare anche questo: che per paura o per stupidita' si apra il fuoco contro un'ambulanza. La gravita' - e quindi la vera notizia - sta nel fatto che i vertici militari abbiano tentato di nascondere l'evento, proprio come e' accaduto ad Ustica, e che i vertici politici (il governo Berlusconi) abbiano mentito spudoratamente al parlamento, mostrandosi complici del disegno di nascondere la verita' di una strage. E' questo comportamento - piu' che gli spari - cio' che veramente disonora il nostro paese. 3. RIFLESSIONE. MARIA FELICIA SCHEPIS: LA COMUNITA' IN DIVENIRE. DAL PRINCIPIO DIALOGICO DI MARTIN BUBER [Dal sito della Societa' italiana di filosofia politica (www.sifp.it) riprendiamo il seguente saggio di Maria Felicia Schepis, "La comunita' in divenire. Dal principio dialogico di Martin Buber", il cui testo, parzialmente modificato, e' tratto dal volume Confini di sabbia. Un'ermeneutica simbolica dell'esodo, Giappichelli, Torino 2005. La Societa' italiana di filosofia politica "ringrazia la casa editrice Giappichelli per aver autorizzato la pubblicazione". Maria Felicia Schepis insegna ermeneutica del linguaggio politico all'Universita' di Messina. Opere di Maria Felicia Schepis: Confini di sabbia. Un'ermeneutica simbolica dell'esodo, Giappichelli, Torino 2005. Martin Buber, filosofo, educatore, scrittore e straordinario uomo di pace, e' nato a Vienna nel 1878 ed e' deceduto a Gerusalemme nel 1965. Per almeno tre ragioni Martin Buber e' uno dei nostri maestri piu' grandi: per essere il grande filosofo del principio dialogico, che pone alla base del nostro esserci la relazione io-tu; per essere il grande uomo di pace che sempre oppose la civilta' e la comprensione alla violenza e alla chiusura; per essere il grande amorevole ricercatore delle tradizioni e delle memorie dei pii, degli umili e dei dimenticati. Opere di Martin Buber: tra le sue opere segnaliamo Il principio dialogico, Comunita', Milano 1958 (contiene anche il saggio Ich und Du); Il problema dell'uomo, Patron, Bologna 1972; Sentieri iin utopia, Comunita', Milano 1967; Immagini del bene e del male, Comunita', Milano 1965; L'eclissi di Dio, Comunita', Milano 1965; Sette discorsi sull'ebraismo, Israel, Firenze 1923, Carucci, Assisi-Roma 1976; Israele. Un popolo e un paese, Garzanti, Milano 1964; Gog e Magog, Bompiani, Milano 1964; La leggenda del Baal-Schem, Israel, Firenze 1925; I racconti dei chassidim, Longanesi, Milano 1962, 1978, Garzanti, Milano 1979; La regalita' di Dio, Marietti, Casale Monferrato 1989; La fede dei profeti, Marietti, Casale Monferrato 1985; Mose', Marietti, Casale Monferrato 1983. Cfr. anche, con Franz Rosenzweig, Prigioniero di Dio, Studium, Roma 1989; e il dibattito con Gandhi, in M. K. Gandhi, M. Buber, J. L. Magnes, Devono gli Ebrei farsi massacrare?, in "MicroMega" n. 2 del 1991 (pp. 137-184). Opere su Martin Buber: per un'introduzione cfr. Clara Levi Coen, Martin Buber, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1991] 1. Il Due e' all'origine "La dualita' tiene insieme le alternative" (S. Levi Della Torre, Zone di turbolenza) Due indici protesi uno verso l'altro quasi si toccano, intervallati da un brevissimo spazio che demarca la "distante prossimita'" (1) tra il Creatore e la sua creatura, tra Dio e Adamo, l'uno di fronte all'altro nella loro assoluta differenza. Questo particolare della Creazione, nel suggestivo affresco dipinto sulla volta della Cappella Sistina, si presta come raffigurazione emblematica di un'apertura relazionale. Un'apertura che l'uomo sembra dover sopportare come costitutiva del suo essere al mondo. All'inizio e' infatti la dualita', non l'unita', ricorda la tradizione rabbinica, una dualita' simboleggiata dalla bet, la seconda lettera dell'alfabeto ebraico, con valore numerico due, iniziale di bere'sit ("In principio"), parola inaugurale della Torah (2). Le riflessioni di Martin Buber muovono a partire da questa prospettiva. Nel tempo di crisi di ogni certezza il filosofo ebreo suggerisce di ricominciare dall'inizio. Di ricominciare proprio dall'uomo. Non come individuo, tuttavia, ma nella sua noita' originaria. Lungi dal riferirsi ad un'entita' unitaria indifferenziata, egli parla del noi come di una dualita'. Pensa cioe' il fondamento del reale come una struttura relazionale raccolta nella parola io-tu (3): una dicotomia intrinseca, io e tu, un'antinomia insolubile. Come quella tra Dio e Adamo nella Creazione michelangiolesca, assicurata dal breve spazio tra i loro indici rivolti l'uno verso l'altro. Chi tenta di pensare una sintesi, afferma Buber, "distrugge il senso della situazione" dell'uomo (4). Il noi e' una realta' eterogenea: ognuno non riceve l'altro che per restare altro da lui. Un con-essere ontologico, dunque, senza fusione, ma nella relazione. Scrive infatti: "Solo la visione dell'ente che mondanamente mi e' di fronte nella pienezza della sua presenza e nei confronti del quale io stesso, presente nell'interezza della mia persona, mi sono posto in relazione, mi da' veramente il mondo come totalita' e unita'" (5). Questo orientamento supera il principio individualistico, di cui il cogito cartesiano era stato vessillo, secondo cui l'io e' autosufficiente e in opposizione negativa e inconciliabile con cio' che e' fuori di esso. Oltrepassa cioe' la prospettiva della solitaria essenza stabile e chiusa per sostenere l'esistenza (existieren) dell'io in direzione del tu: non vi e' "alcun io in se', ma solo l'io della parola fondamentale io-tu", afferma Buber (6). D'altro lato si discosta pure dal punto di vista di coloro che, come Heidegger, pur intuendo l'impossibilita' di un ego che non sia gia' da sempre un noi (dasein), pensano ad un indifferenziato "si impersonale" (7), ovvero rifiutano l'idea che l'altro stia di fronte all'uno in un rapporto di necessaria separazione, intervallato dal fra, garanzia contro qualunque forma di pensiero totalitario. Buber constata che tuttavia la nostra epoca - "epoca senza casa (Hauslosigkeit)" (8) - ha dimenticato il fondamento relazionale, riducendo il tu che da sempre ci accompagna all'esso, a oggetto da conoscere, da manipolare, da considerare come "macchina adatta ai molteplici usi" (9). Allo stesso modo, circondato da "contenuti", anche l'io e' diventato fissita'. Incapace di presente egli si e' pietrificato come il passato, poiche' il presente nasce "solo attraverso il farsi presenza del tu" (10). Invero, riflette, "in tempi malati succede che il mondo dell'esso, non piu' percorso e fecondato dal mondo del tu che vi affluisce come una corrente vitale, separato e arenato, come un immenso fantasma palustre, prevale sull'uomo" (11). Per cacciare l'"immenso fantasma", ossia per superare la tendenza verso l'esperienza oggettivante dell'essita' che rende anche l'uomo cosa, Buber ritiene necessario ripronunziare il tu. Unilaterale, egoico, spaesato, solamente nell'incontrarsi con l'altro l'io puo' far ritorno alla realta' autentica da cui si e' allontanato. Posta nei termini buberiani la domanda "che ne e' dell'uomo?", lungi dal condurre verso soluzioni solipsiste, si capovolge dunque in un'altra domanda: "che ne e' della comunita'?". Che ne e' dell'unico spazio possibile dell'uomo con l'uomo? Per recuperarne le tracce bisogna chiarire innanzitutto il significato di relazione, a partire dalla quale solamente, per Buber, la comunita' puo' essere ricostruita. Relazione e' certamente "reciprocita'" (Gegenseitigkeit), ma non "reversibilita'": la risposta del tu cioe', spiega il filosofo, "non e' semplicemente un'eco della parola dell'io che rimbalza sul tu", poiche' il tu non e' identico all'io (12). Ciascuno non e' una copia come quella prodotta dal Demiurgo greco, bensi' un originale, come Adamo, ad immagine e somiglianza di Dio e degli altri uomini, ma non identico ad essi (13). Reciprocita', dunque, nella piu' radicale differenza: se il tu non e' riducibile ad oggetto, neppure e' riconducibile a duplicazione, ad alter ego dell'io. Per Buber insomma tra l'io e il tu deve esistere un intervallo che nel separare distingua, ma che nel distinguere sia anche area di contatto. Parlare di differenza non vuol dire invito a prendere le distanze - atteggiamento tipico della tendenza individualistica all'altruicidio. Differenza significa, invece, allo stesso tempo, distacco - necessario ad impedire la confusione in una totalita' indistinta - e legame tra le diverse parti di una realta'. Parti che stanno una di fronte all'altra, legate tra loro senza scopo alcuno. Partecipazione dunque, e' la forma dello stare in relazione: "Chi e' nella relazione e' parte di una realta', cioe' di un essere che non e' semplicemente in lui, ne' semplicemente fuori di lui. Ogni realta' e' un effetto di cui sono parte senza poterlo far mio" (14). Un relazionarsi senza nessuno scopo conoscitivo, senza "alcun fine, alcun desiderio, alcuna anticipazione" (15). Quanto piu' la relazione al tu e' immediata, tanto piu' la partecipazione si compie. Partecipazione che rende l'io consapevole di non essere individuo ma persona. Mentre l'individuo, infatti, non e' partecipe di alcuna realta', argomenta Buber, la persona e' in un legame costitutivo con gli altri, si delinea nella relazione. Questa distinzione terminologica e' ancora piu' convincente se si pensa che persona e' etimo latino di maschera, che per sua natura richiama la proiezione verso l'esterno, evoca l'essere-per-l'altro (16). Relazione e' dunque reciproco prender parte della stessa realta'. Ma e' solo nel suo dispiegarsi dialogico che essa puo' venire pienamente compresa, poiche' "i momenti della relazione sono uniti dall'elemento del linguaggio in cui sono immessi" (17). * 2. L'apertura dialogica "Conosco tre specie di dialogo: quello autentico - non importa se parlato o silenzioso - in cui ciascuno dei partecipanti intende l'altro o gli altri nella loro esistenza e particolarita' e si rivolge loro con l'intenzione di far nascere tra loro una vivente reciprocita'; quello tecnico, proposto solo dal bisogno dell'intesa oggettiva; e il monologo travestito da dialogo, in cui due o piu' uomini riuniti in un luogo, in modo stranamente contorto e indiretto, parlano solo con se stessi" (18). Nel dialogo le differenze trovano una comune abitazione. Dia-logos, non logos. Buber infatti respinge le valenze totalitarie del logos ereditato dalla grecita', che, anche nella pretesa di funzionare come dialogo, era soprattutto tecnica argomentativa per giustificare, dimostrare, motivare cio' che veniva affermato come verita' da racchiudere nell'indiscutibilita' di un concetto. Logos che, ispirando il sapere scientifico della modernita', si e' tradotto in un linguaggio che inchioda nelle sue formule ogni fonema. Un linguaggio "proposto solo dal bisogno dell'intesa oggettiva" (19) che finisce per risuonare monologo, fissita', che fa esistere l'altro soltanto come esperienza, fino a sopprimere lo spazio in cui ogni relazione possa avvenire. A vivere nel monologo - riflette Buber - "e' colui che non e' capace di rendere sostanzialmente reale la societa' all'interno della quale (...) si muove". Infatti, rimarca, "l'esistenza monologica" non percepisce nulla "al di la' dei limiti del proprio io" (20). Testimone diretto della crisi occidentale, egli considera questo parlare senza in-tendere responsabile dello sfibramento dei legami sociali. Percio' ritiene essenziale riscoprire il potere dialogico della parola. Quel potere intimamente vitale nelle valenze del dabar della cultura ebraica, alla quale pure egli appartiene, che l'Occidente e' ormai incapace di riconoscere. Influenzato proprio dall'ebraismo che svaluta l'immobilita' (21), il filosofo pensa infatti il linguaggio in termini di movimento. Non il movimento fondamentale del monologo che e' il ripiegarsi, cioe' "il sottrarsi all'accettazione dell'essere di un'altra persona", bensi' il movimento fondamentale del dialogo, il rivolgersi, che "significa accettazione dell'alterita'" (22). Dialogo e' dunque il medium che impedisce che io e tu dileguino nella reciproca indifferenza. Segnala l'io come presenza e riconosce la presenza autonoma dell'altro come essere unico con un "nome proprio" (23). E' apertura, cammino verso cio' che e' distante, verso cio' che rimane nella sua incolmabile distanza. E' esodo, sforzo verso una meta, attesa inesauribile di pienezza. E' attraversamento della distanza, ponte, prossimita'. Prossimita' senza fusione, ma piuttosto "carezza", come direbbe Levinas, contatto che non profana (24). Percio' la "reciprocita'" di cui parla il filosofo implica la reciproca rinunzia al totale assoggettamento dell'altro alla propria conoscenza, lasciando che l'altro resti irriducibile ad un sapere che incorpora. Un margine di silenzio - "il silenzio di ogni linguaggio" - scrive Buber, "lascia libero il tu", lo distanzia abbracciandolo, e' con lui, impedisce che si trasformi in esso (25). Nella reciprocita' dialogica la parola e' domanda dell'io rivolta al tu, ma e' anche risposta, responsabilita' (respondere) nei confronti di chi interpella: Responsabilita' presuppone uno che mi appella primariamente, da una regione indipendente da me, al quale io debbo rendere conto (...). Questa e' la realta' della responsabilita': rendere conto di qualcosa che ci e' stato affidato da un essere che ci da' fiducia (...). Dove nessun appello primario mi puo' toccare, perche' tutto e' 'mia proprieta'', la responsabilita' e' diventata un'ombra. E contemporaneamente si dissolve il carattere reciproco della vita. Chi non da' piu' risposta, non percepisce piu' la parola" (26). Responsabilita' e' capacita' di rispondere a colui che "mi appella", a colui al quale "debbo render conto" poiche' chiamandomi mi si affida, mi da' fiducia, a colui che mi "presta attenzione" (27). Responsabilita' che dal punto di vista relazionale implica corresponsabilita', una sinergia reciproca, un flusso dialogico che va e viene dall'io al tu. Se cessa tale flusso la relazione, cristallizzandosi, si spegne. Certamente l'ex-posizione e' un rischio, avverte il filosofo, poiche' la domanda puo' rimanere senza risposta e il dialogo puo' morire sul nascere. Ma se la reciprocita' si realizza, allora l'interumano fiorisce nel dialogo autentico (28). Nel tempo in cui sembra salvifico solamente arroccarsi nell'unita', il richiamo di Buber al dialogo responsabile, attraversato da espliciti toni etici, puo' essere inteso come invito a scardinare la monoliticita' della soggettivita', a deporre la pretesa dell'io alla sovranita', ad incamminarsi verso la comunita'. * 3. Verso la comunita' La comunita' e' per Buber la soluzione al problema dell'uomo. Ma cosa intende il filosofo per comunita'? Egli non pensa alla comunita' naturale, in cui i rapporti sono determinati da vincoli di sangue o dalla terra, piuttosto che cercati attraverso la tensione e l'impegno personale (29). E non pensa neppure alla massa, in cui l'uomo "e' come un fuscello stretto in un fascio che galleggia sull'acqua in balia della corrente" (30), senza capacita' di movimento autonomo, ottusamente perduto in essa. Specifica inoltre che comunita' non e' da scambiare con alcuna forma di collettivismo verso cui pare incline la modernita': "la conduzione dei gruppi, soprattutto nell'ultimo scorcio della storia umana - scrive infatti - e' piu' incline a reprimere l'elemento della relazione personale a favore di quello puramente collettivo". "L'uomo - continua - si sente sorretto dalla collettivita', che lo solleva dalla solitudine, dall'angoscia del mondo, dallo smarrimento", ma in realta' limita "l'inclinazione al rapporto personale (...), come se coloro che sono riuniti nel gruppo dovessero insieme essere rivolti principalmente solo all'opera del gruppo" (31). Tutte quelle collettivita' composite sono "affastellamento": gli individui stanno "impacchettati insieme", uno vicino all'altro, perduti in una soffocante totalita' che tende a rimuovere, in chi ne e' parte, persino la capacita' di porsi il problema di se', nell'illusione di vivere in una societa' tecnicizzata perfettamente controllabile (32). Percio' - conclude - mentre il collettivo diventa cio' che ha esistenza vera, la persona non e' che un'esistenza derivata, cui non compete nemmeno piu' la piena responsabilita' (33). In fondo il collettivismo per il filosofo non e' che "l'atteggiamento complementare e susseguente all'individualismo" (34), nasce anzi proprio dallo scacco strutturale di quest'ultimo, che provoca come reazione "l'immersione e la dispersione nella struttura anonima del gruppo" (35). Alternativa sia all'individualismo che al collettivismo, la comunita' e' per Buber un sistema di relazioni interpersonali connesse con un centro. Affinche' si realizzi, due condizioni appaiono necessarie. Prima condizione. La comunita' "consiste nel non essere piu' semplicemente uno vicino all'altro, ma nell'essere uno presso l'altro di una molteplicita' di persone che (...) ovunque fa esperienza di una reciprocita', di un dinamico essere di fronte" (36). Comunita' cioe' non e' da intendersi come un essere comune, come l'heideggeriano "si impersonale", bensi' come un essere in comune, che prevede al suo interno il pluralismo, reso possibile dal riconoscimento reciproco dei singoli componenti: "il fondamento dell'essere uomo-con-l'uomo", afferma invero Buber, consiste nel "desiderio di ogni uomo di essere confermato per cio' che e' (...) e la capacita' innata dell'uomo di confermare allo stesso modo gli uomini come lui" (37). La comunita' nasce dunque da eventi d'incontro. Eventi che possono accadere solamente nella "dimensione pubblica" (38), quella "struttura fondamentale dell'alterita'", in cui ciascuno si sente legato, promesso, all'altro. Alcuni atteggiamenti tuttavia, avverte Buber, possono deformare il senso della dimensione pubblica facendo cosi' scivolare l'evento relazionale dalla sua piattaforma essenziale. Ad esempio l'entusiasmo per il momento storico che come una sorta di "estasi" conduce verso la massificazione: "la trasfigurazione della massa e' cosi' abbagliante - scrive - da oscurare ogni alterita' e la persona, sopraffatta da un'estasi inebriante, scompare nel movimento della vita pubblica". Un altro atteggiamento, opposto al precedente, e' dato dalla passivita', dalla fusionalita', dall'omologazione: "e' l'usuale 'stare dalla parte' dell'opinione pubblica e del pubblico 'prendere posizione'". Atteggiamento che mina il terreno del confronto, cancella i segni dell'alterita' e convince "che l'uniformita' e' la realta'". Queste distorsioni sono sconosciute da colui che, invece, vivendo con la dimensione pubblica senza affidarsi ciecamente ad alcuno, decide da solo. Poiche' "la dimensione pubblica non e' affastellamento, ma legame", in essa il tu e' "cercato, incontrato, tratto dalla massa" come persona (39). Seconda condizione. Per Buber si puo' parlare di comunita' se i prolungamenti delle linee degli incontri io-tu convergono verso il centro, se, in altri termini, si realizza cio' che egli definisce conversione. Con l'espressione "conversione" (Umkehr) Buber intende la capacita' di superare l'atteggiamento centrifugo dell'individuo per volgersi-di-nuovo verso il punto da cui si diparte l'onda di ogni sfera di relazione. Conversione e' un cambiar direzione, o meglio un ritornare dalla non-direzione alla direzione, alla "via" (40). Chi abita il centro? Per Buber e' il Tu divino, "il custode della sepolta potenza della relazione" (41), colui che puo' avvertirsi come "soffio" ad ogni incontro con il tu, colui che, definito il "totalmente Altro" (42), e' anche il "totalmente Presente", colui che, "mysterium tremendum" (43), e' anche "il mistero di cio' che e' ovvio". La possibilita' di relazionarsi con la centralita' di Dio, scrive il filosofo, "abbraccia e comprende la possibilita' di relazione con ogni alterita'" (44). Ma nel nostro tempo Dio e' stato eclissato (45). Scomparso dal cielo del mondo, la sua centralita' viene ereditata dall'uomo da quando il processo di secolarizzazione, facendo cadere nell'oblio la memoria della relazione originaria col "vero centro in cui si dispongono le molteplici relazioni", ha finito con lo svuotare la dimensione comunitaria della sua anima. Cosicche' oggigiorno il mondo e' affollato da diverse comunita' di interessi che tuttavia appaiono sistemi chiusi, comunita' solo di nome. Buber avverte la necessita' di riscoprire la relazione verticale (io-Tu), rispondendo a "Colui che silenziosamente invoca" (46) attraverso la relazione orizzontale (io-tu). Avverte in altri termini la necessita' di far ritorno al senso del sacro che possa rendere all'uomo la forza di aprirsi ancora ad una possibilita' d'uscita, la forza di attendere che il parlare fatto di domande ottenga un'ultima risposta. La forza di attendere, certo, poiche' il tu non e' che traccia. Se infatti in tempi di disincanto con il "tu sulle labbra" si e' riconsegnati al mondo, tuttavia, constata lo stesso Buber, il mistero - cio' "in cui, da cui e verso cui viviamo" - rimane cio' che era, esso si fa semplicemente "presente a noi", annunziandosi "come salvezza", ma non ci dice ancora nulla, non si svela, resta quel silenzio che accompagna ogni suono. Apre una domanda sul senso ultimo che, rimasto inespresso, attende una risposta semplicemente possibile. Il margine di inafferrabilita' del mistero non deve pero' essere interpretato come sconfitta, come il muro invalicabile di fronte al quale le possibilita' gnoseologiche dell'uomo si arrestano. Tale margine, invero, come ogni limite segnala un oltre, invita a sporgersi al di la'. La mancanza di una risposta definitiva, infatti, alimentando continuamente la domanda, e' apertura soteriologica, movimento che spezza la chiusura della totalita'. Se il pensiero logocentrico ci ha abituati a pretendere una verita' compiuta attraverso risposte certe ed evidenti, l'ebraismo, filtrato dal pensiero di Buber, puo' condurci a pensare che il vero senso si da' nel silenzio, alla soglia del linguaggio. Nella reciprocita' dialogica dell'incontro io-tu, infatti, l'uomo non riceve un "contenuto", ma una "forza", la forza di comprendere che il senso "non ha formula o immagine e tuttavia diviene certezza". Non puo' essere sperimentato, ma puo' essere attuato (47). Cosi', mentre il logos greco si mostra insufficiente a spiegare il significato che sfugge a questa tempo "non piu' sostenuto dalla speranza" (48), Buber propone l'idea cronologica di "conversione": l'azione dell'uomo puo' mutare il corso della storia. Il mutamento storico per il filosofo non e' evoluzione, progresso, come voleva il positivismo, bensi' rottura della linearita', attimo senza durata, evento (49). "La malattia della nostra epoca (...) e' una discesa nelle spirali del sottomondo spirituale, (...) dove non c'e' piu' un avanti e un indietro, solo l'inaudita conversione" (50). La comunita' si edifica quindi solamente se l'uomo lo decide. Decisione che davanti al "varco" (51) e' brivido di estraniazione e il mondo "mette angoscia" (52), "come quando, nel mezzo di una triste notte, tu giaci tormentato tra il sonno e la veglia (...) e in mezzo al tormento ti viene in mente: 'C'e' ancora vita, devo solo farmi strada verso di lei; ma come, come?'. Cosi' e' l'uomo nell'ora della riflessione, rabbrividisce, soppesa, non sa dove andare. E tuttavia (...) forse la strada la conosce, e' la direzione della conversione" (53). L'ora del varco, l'ora della pura liberta', la liberta' di poter essere altrimenti, "e' il fecondo punto zero (...), e' la rincorsa per il salto" (54). Pertanto e' anche il tempo dell'angoscia, il "tormento di una triste notte". "Tormento" che oggi puo' assumere il benefico valore di un elemento dirompente, denunciante, rivitalizzante. E' l'inquietudine necessaria a vedere oltre il buio della "notte", per comprendere che i luoghi del comune abitare sono diventati sempre piu' somma di individui. L'ora della liberta', il tempo dell'angoscia, e' anche il tempo della solitudine, reputata essenziale da Buber ai fini della decisione (55). Non nel senso tuttavia in cui l'ha intesa un'intera epoca, come ideale modus vivendi per la realizzazione dell'individuo, bensi' come condizione che dispone favorevolmente affinche' una questione trovi risposta. La solitudine nel contesto buberiano e' in altri termini da intendersi come l'effetto di un momento di crisi di chi sente opprimente la chiusura nei rapporti di sperimentazione e utilizzazione delle cose. Un momento di crisi decisivo che orienta alla scelta, che da' occasione affinche' l'uomo affronti in modo autentico il problema di se'. Se la solitudine e' la condizione per porre la domanda, la risposta deve essere invece, per il filosofo, il superamento della solitudine stessa: la comunita' (56). Dalla sorda chiusura della solitudine, allora, alla capacita' di dare "ascolto" (57). L'ascolto rinvia infatti alla dimensione pubblica in quanto misura della capacita' di relazionarsi, della capacita' di prestare orecchio persino alla sofferenza, condividendola. Non solo la sofferenza che abita la citta' attuale (che forse non e' cosi' felice come l'Occidente si e' sforzato di far credere) (58), ma anche quella procurata dall'attesa che l'autentica comunita' si compia. Sta dunque all'uomo decidersi. L'atto della decisione nella sua ultima ascesa, fa notare Buber, nella lingua ebraica antica si chiama teshuvah. Ed e' significativo che questo termine indichi contemporaneamente sia la conversione che l'attivita' di ascolto (59). Se oggi fare comunita' sembra impossibile perche' non se ne vede piu' il senso, se anzi l'opacizzazione del senso e' la vera questione, il pensiero di Buber suggerisce che paradossalmente la comunita' puo' essere riedificata sulla coscienza di tale opacita', a partire dalla condivisione dell'attuale impossibilita' di senso, dall'umile comunione di questa impotenza. Comunita' insomma puo' voler dire comune disponibilita' ad attendere che il silenzioso non-detto che sottende il dialogare si apra ad una possibile comprensione. Percio' quella di Buber e' "comunita' in divenire" (60): premessa dell'autentica esistenza dell'uomo, essa si pone anche come promessa, destinazione, attesa di compimento. * In margine La comunita' descritta da Martin Buber e' libera da accenti sentimentali o romantici: "non nasce dal fatto che le persone nutrano sentimenti reciproci" (61) o dalla "simpatia" (62). Lontana dall'essere pensabile come un'istituzione che offra "sicurezza", essa dunque e' solo una possibilita'. Una possibilita' che spetta all'uomo cogliere come alternativa agli atteggiamenti annichilenti dell'individualismo e del collettivismo. "E' solo una possibilita' - scrive il filosofo - ma non esiste altro che questa" (63). Condividere un dialogo che rinunci alla pienezza della verita', accettare di nominare il tu lasciandolo esistere nella sua inafferrabilita', disporsi al mistero cui allude: puo' essere proprio questo in fondo il significato puro di comunita', luogo di apertura salvifica piuttosto che di mortifera chiusura. Il dialogo, intervallato da zone di silenzio, rappresenta infatti il limite della comunita', ma anche la possibilita' del superamento del limite stesso. La consapevolezza di essere immersi in un linguaggio inesauribile - sembra volerci dire Buber - rappresenta la grande malinconia, ma anche la vera forza che alimenta la speranza, che da' energia allo sforzo verso cio' che salva. In fondo persino Mose' - insegna la tradizione rabbinica - non poteva aprire che quarantanove porte della conoscenza, la cinquantesima gli era stata interdetta! Certo l'invito del filosofo a fare parte di questa comunita' dialogica non e' indolore. Accettare di aprirsi di nuovo alla comunita' come alla propria originaria dimora vuol dire abbandonare l'abitudine alla scorza protettiva di una conclusa totalita'. Significa lacerare la quiete per catapultarsi all'esterno. Significa esporsi nudi al mondo, donarsi senza riserve fidandosi dell'altro o, meglio, affidandosi all'altro come ad uno sconosciuto. Sporgersi verso il tu, riscoprirlo come essenziale al proprio io, eppure dovervi rinunciare: tutto questo puo' sembrare vertigine. Ma e' davvero possibile vivere fuori dal luogo comune? Non e' forse piu' rischioso per l'uomo definire i margini della propria esistenza dentro una monade senza porte e finestre, dove il proprio monologo consuma ogni possibilita' di parola a venire? * Note 1. P. Stefani, Le radici bibliche della cultura occidentale, Mondadori, Milano 2004, p. 60. 2. In ebraico i numeri si scrivono con le lettere dell'alfabeto, ogni parola e' quindi dotata di valore numerico. La gematriyya, tecnica ermeneutica legata alla tradizione rabbinica, ricava la somma dei valori numerici relativi alle lettere di uno o piu' termini con lo scopo di interpretare il testo delle Sacre Scritture. L'uso di studiare il senso di una parola a partire dal suo valore numerico e' conosciuto anche dai babilonesi, dai greci - in particolare dai pitagorici -, dagli egiziani. Questa pratica e' stata introdotta in Israele all'epoca del Secondo Tempio. Sulla tecnica della gematriyya si veda, tra gli altri, per esempio Giulio Busi e Elena Loewenthal (a cura di), Mistica ebraica, Einaudi, Torino 1999, in particolare Introduzione, pp. XXXIII-XXXV; anche P. Stefani, La letteratura rabbinica, in P. Reinach Sabbadini (a cura di), La cultura ebraica, Einaudi, Torino 2000, p. 333; inoltre G. Stemberger, Einleitung in Talmud und Midrasch (1992), trad. it., Introduzione al Talmud e al Midrash, Citta' Nuova, Roma 1995, p. 48. 3. Cfr. M. Buber, Io e tu, cit., p. 59. La dualita' per Buber e' inscritta nella natura stessa dell'uomo: "la parola fondamentale io-tu" scaturisce cioe' "dal legame naturale (...). Infatti - continua - nel linguaggio mitico ebraico si dice che nel grembo materno l'uomo conosce l'universo, e lo dimentica alla nascita. E questo legame gli rimane impresso, come misteriosa immagine di desiderio (...). Come ogni essere che sta per venire al mondo, ogni figlio d'uomo riposa nel grembo della Grande Madre, di quell'indiviso mondo originario che precede la forma. Sciogliendosene, si apre alla vita personale (...), al figlio dell'uomo e' dato il tempo per passare dal legame naturale che va perdendo al legame spirituale col mondo, cioe' alla relazione" (ibidem, pp. 76-77). 4. Ibidem, p. 128. 5. M. Buber, Urdistanz und Beziehung (1950), trad. it. A. M. Pastore, Distanza originaria e relazione, in Il principio dialogico e altri saggi, cit., p. 283. 6. M. Buber, Io e tu, cit., p. 59. In Recht und Unrecht Buber compie una distinzione fra i verbi tedeschi vorhandensein ed existieren. Entrambi i verbi, sostanzialmente indistinguibili nel lessico italiano, si traducono con "esistere". Tuttavia, mette in rilievo l'autore (come gia' Heidegger in Essere e tempo), in senso letterale il primo vorhandensein, essere autocosciente, e' il mero essere presente di chi ritiene che la misura della vita dipenda dall'Io, di chi non vuole realizzare cio' a cui si e' "destinati". Mentre existieren e' l'"esistenza autentica e piena", di chi concepisce l'esistere come "ex-sistere", cioe' uno "stare" che non ha in se' il proprio centro e punto di equilibrio, ma nell'"ex", fuori di se'. Si veda M. Buber, Recht und Unrecht (1952), trad. it. T. Franzoni, Il cammino del giusto, Gribaudi, Milano 1999, pp. 5, 19 e 78. 7. Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), trad. it., Essere e tempo, Utet, Torino 1969, pp. 214-217. 8. A. Poma, Introduzione, in M. Buber, Il principio dialogico ed altri saggi, cit., p. 11. 9. M. Buber, Io e tu, cit., p. 107. Andrea Poma precisa che "non c'e' in Buber condanna assoluta del mondo dell'esso, della cultura, della scienza, della tecnica, delle istituzioni, ecc. Tale mondo viene invece riconosciuto non solo come inevitabile, ma come necessario per dare continuita' e durata ai frutti della relazione. Cio' che Buber considera come negativo e' il prevalere del mondo dell'esso sino al punto di sopprimere lo spazio in cui la relazione possa sempre di nuovo avvenire" (cfr. ibidem, p. 91, nota 20). 10. Ibidem, p. 67. 11. Ibidem, p. 97. 12. Cfr. ibidem, p. 64, nota 6. 13. Su questo aspetto si veda anche la discussione di G. Limone, Il sacro come la contraddizione rubata, Jovene, Napoli 2000, in particolare p. 270. 14. M. Buber, Io e tu, cit., p. 103. 15. Ibidem, p. 67. 16. Cfr. ibidem, pp. 103-105. Sul rapporto tra maschera e persona si veda per esempio C. Bonvecchio, L'uomo e la maschera, Franco Angeli, Milano 2002, in particolare p. 23. Cfr. anche G. Limone, Il sacro come la contraddizione rubata, cit., p. 8. 17. M. Buber, Io e tu, cit., pp. 132-134. 18. M. Buber, Dialogo, cit., p. 205. 19. Ivi. 20. Ibidem, p. 206. 21. Significativa la distinzione che in Discorsi sull'ebraismo Buber compie tra l'uomo ebreo, che definisce "uomo motorio", e l'uomo greco, che definisce "uomo sensorio". "Ambedue - egli scrive - sono uomini che sentono e che agiscono: ma l'uno sente in movimento, l'altro agisce in immagini (...). Se il Greco vuole dominare il mondo l'Ebreo vuole compierlo; per il Greco esso e', per l'Ebreo sara'". L'Ebreo ha cioe' bisogno di muoversi verso "l'unita' che non e' ancora" (cfr. M. Buber, Reden ueber das Judentum (1923), trad. it. D. Lattes e M. Beilinson, Discorsi sull'ebraismo, Gribaudi, Milano 1996, p. 60). 22. M. Buber, Distanza originaria e relazione, cit., p. 289; cfr. anche Id., Dialogo, cit., pp. 208-209. La cultura ebraica indica nell'episodio biblico di Caino e Abele un esempio di scacco della relazione, causato dalla mancanza del reciproco rivolgersi la parola: il dialogo tra i due fratelli infatti non si stabilisce e i tentativi compiuti si traducono in fratricidio (cfr A. Neher, L'exil de la parole. Du silence biblique au silence d'Auschwitz (1970), trad. it. G. Cestari, L'esilio della parola. Dal silenzio biblico ad silenzio di Auschwitz, Marietti, Genova 1997, p. 107). Tuttavia - come osserva Domenica Mazzu' - e' proprio nell'eliminare Abele, ovvero il suo altro, la sua regola, il suo limite naturale, che Caino prende coscienza del "problema fondamentale della sua identita'" (cfr. D. Mazzu', Il complesso dell'usurpatore, Giuffre', Milano 1999, p. 33). 23. M. Buber, Elemente des Zwischenmenschlichen (1954), trad. it. A. M. Pastore, Elementi dell'interumano, in Il principio dialogico e altri saggi, cit., p. 304. 24. Cfr. E. Levinas, Totalite' et infini. Essais sur l'exteriorite' (1961), trad. it. A. Dell'Asta, Totalita' e infinito. Saggio sull'esteriorita', Jaca Book, Milano 1986, pp. 265-266. 25. M. Buber, Io e tu, cit., p. 86. 26. M. Buber, Die Frage an den Einzelnen (1936), trad. it. A. M. Pastore, La domanda rivolta al singolo, in Il principio dialogico, cit., p. 234. 27. M. Buber, Dialogo, cit., p. 202. Andrea Poma sottolinea che il nesso tra "responsabilita'" e "risposta", presente come si vede anche nella lingua latina, e' reso immediatamente evidente da Buber in lingua tedesca, utilizzando rispettivamente Antwort e Verantwortung, che trovano nel termine "parola" (wort) il loro legame (cfr. M. Buber, Dialogo, cit., p. 201, nota 8). 28. Cfr. M. Buber, Elementi dell'interumano, cit., p. 306. 29. Cfr. G. Bon, La filosofia dialogale di Martin Buber, Rosini, Firenze 1998, p. 80. 30. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 255. 31. M. Buber, Elementi dell'interumano, cit., p. 296. 32. Cfr. M. Buber, Dialogo, cit., p. 218; cfr. anche A. Poma, Introduzione, in M. Buber, Il principio dialogico, cit., pp. 14-15. 33. Cfr. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 274. 34. Cfr. M. Buber, Io e tu, cit., p. 105, nota 26. 35. Cfr. G. Bon, op. cit., p. 65. 36. M. Buber, Dialogo, cit., p. 218. 37. M. Buber, Distanza originaria e relazione, cit., p. 288. 38. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 274. 39. Cfr. ibidem, pp. 252-256. 40. M. Buber, Io e tu, cit., p. 132, anche nota 48. 41. Cfr. ivi. 42. Ibidem, p. 116. L'autore richiama l'espressione di Barth (cfr. K. Barth, Der Roemerbrief (1922), trad. it. G. Miegge, Lettera ai Romani, Feltrinelli, Milano 2002). 43. Cfr. M. Buber, Io e tu, cit., p. 116. Buber riprende qui la definizione di Otto (cfr. R. Otto, Das Heilige (1917), trad. it. E. Buonaiuti, Il sacro. L'irrazionale nell'idea del divino e la sua relazione al razionale, Feltrinelli, Milano 1992). 44. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 256. Purche' tuttavia, mette in rilievo Buber, nello scoprire la relazione con il Tu divino non si abbandoni il rapporto con il mondo. Il filosofo si riferisce in particolare a Kierkegaard, con il pensiero del quale si confronta spesso. Se da un lato saluta favorevolmente la categoria kierkegaardiana di singolo nel suo significato di "diventare per qualcosa", cioe' "entrare in relazione", d'altro lato le muove critica per il fatto di alludere ad una relazione esclusiva con Dio sacrificando il legame con il mondo. La rinuncia personale di Kierkegaard al matrimonio con Regina Olsen, simbolo della rinuncia alla relazione con il tu mondano, sembra a Buber un'ulteriore conferma che il filosofo danese ha frainteso il significato di singolo appena conquistato (cfr. ibidem, pp. 240-248). Afferma infatti Buber: "il singolo realizza l'immagine di Dio (...) quando con tutto il suo essere dice tu agli esseri che vivono intorno a lui" (ibidem, p. 247), la relazione cioe' non puo' prescindere dalla "dimensione pubblica" (ibidem, p. 251). 45. L'eclissi di Dio e' titolo di un'opera di M. Buber: Gottesfinsternis. Betrachtungen zur Beziehung zwischen Religion und Philosophie (1952), trad. it. U. Schinabel, L'eclissi di Dio, Passigli, Firenze 2001. 46. M. Buber, Sull'educativo, cit., p. 182. E' importante sottolineare che Buber con il suo richiamo alla centralita' del Tu divino non intende alludere ad una concezione politica teocratica. Egli rifiuta espressamente lo Stato religioso, consapevole che "Dio e' 'oltre', e che pertanto lo Stato non e' Dio" (cfr. M. Buber, Profezia e politica, cit., p. 8). La religione invece rappresenta per il filosofo una garanzia della stessa politica, ne costituisce il "limite critico" in quanto richiamo ad una sfera di mete e di mezzi che sta sempre oltre ogni realizzazione storica (cfr. ibidem, pp. 20-21). 47. Cfr. M. Buber, Io e tu, cit., pp. 139-140. 48. Si veda a tal proposito anche Sergio Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 128. 49. Cfr. M. Buber, Io e tu, cit., p. 146. Tale prospettiva evoca, in termini biblici, il tempo messianico, il cui evento, per Buber, dipende unicamente dalla decisione dell'uomo a convertirsi (cfr. M. Buber, Discorsi sull'ebraismo, cit., p. 61). 50. M. Buber, Io e tu, cit., p. 98. 51. Ivi. 52. Ibidem, p. 110. 53. Ibidem, p. 109. 54. M. Buber, Sull'educativo, cit., p. 170. I richiami al linguaggio kierkegaardiano sono evidenti. 55. M. Buber, Io e tu, cit., p. 134. 56. Cfr. A. Poma, Introduzione, in M. Buber, Il principio dialogico, cit., pp. 13-14. 57. M. Buber, Io e tu, cit., p. 106. 58. Diversi studiosi mettono in rilievo come la nostra societa', attraverso le rassicurazioni della tecnica "operatrice di salvezza", abbia intrapreso una politica di rimozione del dolore (cfr. per esempio F. Riva, op. cit., p. 68). 59. M. Buber, Discorsi sull'ebraismo, cit., p. 61. Cfr. anche R. Panattoni, La comunita'. La sua legge, la sua giustizia, Il Poligrafo, Padova 2000, p. 125. 60. M. Buber, Dialogo, cit., p. 218. 61. M. Buber, Io e tu, cit., p. 90. 62. M. Buber, Elementi dell'interumano, cit., p. 297. Un concetto rimarcato esplicitamente anche in Sentieri e utopia: "Dall'idea di comunita' (...) bisogna tener lontana ogni sentimentalita', ogni esagerazione ed esaltazione. La comunita' non e' mai stato d'animo e, anche dove e' sentimento, e' sempre il sentimento di una costituzione. Essa e' la costituzione interna di una vita comune (...). E' comunanza del bisogno e, di qui, comunanza dello spirito; comunanza della fatica e, di qui, comunanza della salvezza" (M. Buber, Pfade in Utopia (1950), trad. it. A. Guadagnin, Sentieri in Utopia, Edizioni di Comunita', Milano 1981, p. 169). 63. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 262. Per Buber "l'ossatura della societa' non e' data ne' dai singoli (individualismo atomistico), ne' dallo Stato, ma dall'associazione volontaria" (cfr. M. Buber, Profezia e politica, cit., p. 13). Egli sostiene che tra Stato e societa' debba sussistere una linea di demarcazione che impedisca alla societa' di servirsi dello Stato per fini di utilita' di parte e allo Stato di occupare la societa' annullandone il pluralismo consociativo. Buber cioe', se non cede all'utopia anarchica dell'estinzione dello Stato - ritenendo anzi che lo Stato e la politica siano realta' perpetuamente necessarie per la vita associata - pensa tuttavia che sia compito dello Stato predisporre le condizioni che permettano alle diverse associazioni la realizzazione armonica e collaborativa delle loro proprie finalita' (cfr. ibidem, p. 17; anche Id, Sentieri in utopia, cit., pp. 170-172). 4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 5. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1429 del 25 settembre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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