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La nonviolenza e' in cammino. 1427
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1427
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 23 Sep 2006 01:02:13 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1427 del 23 settembre 2006 Sommario di questo numero: 1. Enrico Piovesana: La fabbrica dei talebani 2. L'incidente 3. Emanuela Ceva: Giustizia procedurale e pluralismo dei valori (parte prima) 4. Riletture: Simona Forti, Il totalitarismo 5. Riletture: Maria Laura Lanzillo, Il multiculturalismo 6. La "Carta" del Movimento Nonviolento 7. Per saperne di piu' 1. AFGHANISTAN. ENRICO PIOVESANA: LA FABBRICA DEI TALEBANI [Da www.peacereporter.net riprendiamo il seguente articolo del 20 settembre 2006 di Enrico Piovesana, "La fabbrica dei talebani. Civili uccisi dalle bombe Isaf spacciati per talebani con armi messe accanto ai cadaveri". Enrico Piovesana, giornalista, lavora a "Peacereporter.net", per cui segue la zona dell'Asia centrale e del Caucaso; nel maggio 2004 e' stato in Afghanistan in qualita' di inviato] Le forze Nato della missione Isaf che combattono nel sud dell'Afghanistan spacciano per combattenti talebani le vittime civili dei bombardamenti. Lo ha rivelato a "PeaceReporter" una fonte militare affidabile e ben informata che ha chiesto di rimanere anonima. * Fucili messi accanto ai cadaveri per farli apparire come "talebani" "L'aviazione bombarda i villaggi in cui si pensa vi siano dei talebani. Vengono sganciati ordigni da 500 libbre, che non distinguono certo tra combattenti e civili. Dopo il raid aereo, intervengono sul posto le forze speciali per rastrellare il villaggio, neutralizzare eventuali combattenti superstiti e quindi verificare il risultato dell'attacco per fare poi rapporto al comando. Queste pattuglie si portano sempre dietro una bella scorta di kalashnikov sequestrati in altre occasioni e li depongono accanto ai civili. Scattano una bella foto ed ecco che quei morti, nel rapporto, diventano talebani. Il sistema lo hanno inventato gli statunitensi, stanchi di vedersi messi sotto accusa per i 'danni collaterali': con queste messe in scena e con le prove fotografiche sanno di poter farla franca di fronte a chiunque li accusi. Ma adesso hanno imparato a fare lo stesso anche i britannici e i canadesi. Tale pratica si sta pero' rivelando strategicamente controproducente perche' la popolazione locale, che in passato non appoggiava minimamente i talebani, preferisce andare a combattere con loro per vendetta o semplicemente perche', se vengono ammazzati lo stesso, tanto vale morire in battaglia. E' una condotta idiota, che sta facendo innervosire molti negli ambienti militari Nato, dove tutti sanno queste cose. Ma non vi aspettate che qualcuno ve lo confermi: nessuno vuole perdere il posto!". * "Cosi' si rischia una rivolta generale come al tempo dei sovietici" Qualcuno che confermasse questa incredibile storia l'abbiamo trovato: un altro militare, in servizio a Kabul. Ma anche lui ha chiesto di non rivelare il suo nome. "Qui lo sanno tutti quello che succede", spiega la fonte. "Non e' un segreto per nessuno. Quando leggete sui giornali 'Uccisi 50 talebani qui, 90 talebani la'', in realta' si tratta sempre di civili spacciati per talebani con il giochino dei fucili buttati vicino ai cadaveri. E' una cosa che rivolta lo stomaco. Ma nessuno per ora ha il coraggio di denunciarlo. Per paura di ritorsioni, ma anche perche' non verrebbe creduto: le foto sono una prova, costruita, ma sono una prova. Qualcuno pero' dice che, prima o poi, qualcosa saltera' fuori, qualcuno denuncera' questi fatti ufficialmente. Se non altro per evitare che la situazione in Afghanistan precipiti, diventando un'insurrezione generale come al tempo dell'occupazione sovietica. Questo non converrebbe a nessuno". * I racconti di testimoni e sopravvissuti Il 13 settembre, il comando Isaf dichiara di aver eliminato 510 talebani solo nelle ultime due settimane di combattimenti. Fonti locali riferiscono che tra la gente circola invece la cifra di 100 talebani e 500 civili uccisi nello stesso lasso di tempo. Cifre raccolte dai racconti degli oltre 85.000 civili fuggiti dalla zona dei combattimenti e accampatisi alla periferia di Kandahar e Lashkargah, senza la minima assistenza umanitaria da parte del governo, che non ha fornito loro nemmeno delle tende. Mohammad Giran, un abitante di Panjwayi, ha dichiarato: "La Nato bombarda senza sosta, di giorno e di notte. Per ogni talebano ucciso, almeno tre civili perdono la vita sotto le bombe. Negli ultimi quattro giorni ho perso dieci parenti. Sparano su tutti, senza stare a guardare se sono civili o talebani". Haji Khudai Nazar, residente di Nawzad, provincia di Helmand, dice di aver perso 4 familiari in un bombardamento e di volerli vendicare: "Da oggi in poi non faro' altro che combattere le truppe straniere e il governo che consente loro di bombardare i nostri villaggi, distruggere le nostre case e uccidere la nostra gente". * Secondo Usa e Nato, 1.650 "talebani" uccisi in quattro mesi Quattro mesi fa le forze della Coalizione hanno sferrato nel sud dell'Afghanistan la piu' grande offensiva militare contro i talebani dal 2001. Undicimila soldati statunitensi, britannici, canadesi e afgani hanno lanciato l'operazione "Mountain Thrust" (Avanzata di montagna) contro le roccaforti talebane nelle province meridionali di Kandahar, Helmand, Uruzgan e Zabul. Dopo il 31 luglio - data in cui la missione Nato Isaf, alla quale partecipa l'Italia, ha ufficialmente assunto il comando delle operazioni sul fronte afgano meridionale, prima in carico alla missione Usa "Enduring Freedom" - l'offensiva e' proseguita, ma con un nome diverso: operazione "Medusa". Secondo i comandi militari alleati, oltre 1.650 combattenti talebani sono stati uccisi finora, nel corso di queste due operazioni. Delle vittime civili uccisi non c'e' traccia nei bollettini dei comandi militari alleati, che parlano ogni giorno di decine di morti, tutti "talebani". * Versioni discordanti e dichiarazioni sibilline Spesso, pero', e' successo che fonti locali indipendenti abbiano confutato la versione dei fatti fornita dalla Nato (vedi la scheda sotto). Versioni discordanti che fanno sorgere legittimi dubbi sulle verita' ufficiali dei comandi della missione Isaf e confermano quanto rivelatoci dalle nostre fonti. Soprattutto se considerate alla luce delle sibilline dichiarazioni del generale Fabio Mini, ex-comandante della missione Nato in Kosovo, "Kfor", che su "La Repubblica" del 10 settembre ha scritto: "La legalita' dell'intervento (della Nato in Afghanistan), piu' che nelle risoluzioni o nella forza delle armi, sta nella capacita di affibbiare ai morti il titolo di Taliban, a prescindere dall'etnia, dal sesso e dall'eta'". * Scheda 2 giugno - il comando Usa dichiara di aver ucciso 15 talebani nel distretto di Chora, provincia di Uruzgan. Secondo gli abitanti del posto, sotto le bombe sono morti 11 civili, di cui 4 bambini e un'anziana. 10 luglio - il comando Usa annuncia l'uccisione di 40 talebani nel distretto di Tarin-Kot, provincia di Uruzgan. Abdul Khaliq Mujahid, parlamentare del posto, ha dichiarato che almeno 50 civili sono stati uccisi. 11 luglio - il comando Usa afferma di aver eliminato 30 talebani nel distretto di Sangin, provincia di Helmand. La gente del posto afferma che sotto le bombe sono morti 10 civili, di cui due donne. 12 luglio - il comando Usa dice di aver ucciso oltre 40 talebani nel villaggio di Nawzad, provincia di Helmand. Hajji Dad Mohammad, parlamentare originario della zona, afferma che almeno 25 civili sono morti nel bombardamento. Fonti locali riferiscono che i morti civili sono almeno 50, che le bombe hanno distrutto una scuola appena costruita e hanno ridotto in macerie il bazar. 15 luglio - il comando Usa dichiara l'uccisione di 10 talebani a Sangin, provincia di Helmand. Il signor Kakar, residente del posto, ha poi riferito che la sua casa e' stata distrutta da una bomba e che otto dei suoi familiari sono rimasti uccisi. 22 agosto - il comando Isaf annuncia di aver ucciso 15 talebani in un raid nel distretto di Zhari, provincia di Kandahar. Fonti locali riferiscono poi che tutte le vittime erano in realta' civili. 25 agosto - il comando Nato sostiene di aver ucciso 7 talebani in fuga su un veicolo a Musa-Qala, provincia di Helmand. Abdul Habib, abitante del villaggio, ha poi dichiarato che una famiglia di 13 persone che stava cercando di scappare dal bombardamento aereo sul centro abitato e' stata sterminata in un bombardamento lungo la strada. 27 agosto - il comando Isaf afferma di aver eliminato 10 talebani in un raid aereo sullo stesso villaggio di Musa-Qala. L'ospedale di Emergency a Lashkargah riceve tre bambini feriti dalle schegge delle bombe. Il loro padre racconta che sua moglie e tutto il resto della famiglia e' morta sotto il bombardamento, che ha colpito una festa di matrimonio. 5 settembre - il comando Isaf comunica l'uccisione di 50-60 talebani nel distretto di Panjwayi, provincia di Kandahar. Haji Agha Lalai, consigliere distrettuale, sostiene che almeno 21 civili sono stati uccisi nella zona di Zangabad, in Panjwayi. Il dottor Qayyum Pohya, dell'ospedale Mir Wais di Kandahar, afferma di aver ricevuto 14 civili feriti nei bombardamenti aerei su Panjwayi, due dei quali sono morti. 9 settembre - il comando Isaf dichiara di aver ucciso 94 talebani nei raid aerei sui distretti di Panjwayi e Zhari. Fonti locali riferiscono pero' che almeno 50 civili, vecchi, donne e bambini, sono morti sotto le macerie delle case bombardate nei villaggi di Pashmul, Zangabad e Sufaid Rawan, e che l'intensita' dei bombardamenti non consente nemmeno il recupero dei corpi. 2. EDITORIALE. L'INCIDENTE Le decine di ragazzi italiani mandati a morire in Afghanistan e in Iraq. La politica di potenza di un governo che ricalca il ragionamento con cui Mussolini entro' nella seconda guerra mondiale, il ragionamento fascista. Le innumerevoli donne, gli innumerevoli uomini assassinati dalla guerra in Afghanistan, in Iraq. Assassinati dal terrorismo della "coalizione dei volenterosi" di cui anche l'Italia oscenamente, scelleratamente fa parte, ed assassinati dal terrorismo ad esso speculare, in una escalation in cui a orrore orrore si aggiunge, a strage strage, fino all'incipiente onnicidio. * La Costituzione della Repubblica Italiana lo dice chiaro e forte: "L'Italia ripudia la guerra". La coscienza di ogni persona di retto sentire lo sa, lo proclama: tu non uccidere. La guerra e' orribile solo quando la fanno gli altri? Le stragi sono stragi solo quando le compiono gli altri? Il dovere di rispettare la legge vale solo per gli altri? * O non e' forse giunta l'ora di una insurrezione morale, di un movimento nonviolento di massa che imponga al governo e al parlamento la cessazione della partecipazione italiana alle guerre e l'impegno a soccorrere le vittime e a una politica internazionale di costruzione della pace con mezzi di pace? Non e' forse giunto il momento di uscire da ogni equivoco, ogni ambiguita', ogni subalternita' e promuovere una politica internazionale coerente con la Costituzione italiana, con la Carta delle Nazioni Unite, con la Dichiarazione universale dei diritti umani? Non e' forse giunto il giorno dell'azione nonviolenta contro tutte le guerre, contro tutte le stragi, contro tutte le armi, in difesa della democrazia, della legalita', della convivenza, dell'umanita' intera infine e dell'unico mondo che abbiamo? * Non e' forse il tempo di dichiarare la bancarotta della politica guerrafondaia, militarista e armista, rapinatrice e assassina, e promuovere invece la politica dell'umanita': del disarmo, della smilitarizzazione, della pace, della giustizia e della solidarieta'? E se queste cose le pensiamo perche' non le facciamo? 3. RIFLESSIONE. EMANUELA CEVA: GIUSTIZIA PROCEDURALE E PLURALISMO DEI VALORI (PARTE PRIMA) [Dal sito della Societa' italiana di filosofia politica (www.sifp.it) riprendiamo il seguente saggio di Emanuela Ceva pubblicato originariamente in M. Ricciardi, C. Del Bo' (a cura di), Pluralismo e liberta' fondamentali, Milano, Giuffre', 2004 (la Societa' italiana di filosofia politica "ringrazia la casa editrice Giuffre' per aver autorizzato la pubblicazione"). Emanuela Ceva, studiosa di filosofia politica (laurea in filosofia presso l'univerista' di pavia, master in filosofia politica presso l'Universita' di York, dottorato (PhD) in teoria politica presso l'Universita' di Manchester) lavora presso l'universita' di Bari; le sue principali aree di interesse accademico sono la teoria e la filosofia politica contemporanea; in particolare, la sua ricerca attuale si concentra sull'idea di pluralismo e sulle teorie della giustizia procedurale; "Piu' precisamente, sto al momento studiando la possibilita' di definire i tratti essenziali caratterizzanti procedure giuste per la gestione di conflitti di valore. Queste dovrebbero essere in grado di affrontare le sfide di convivenza pacifica sollevate dal riconoscimento di una pluralita' di valori e di concezioni del bene all'interno delle comunita' politiche contemporanee". Autrice di vari saggi e contributi a lavori collettanei e convegni, suoi scritti sono disponibili nella rete telematica (in questo ambito collaboro con lo Swif - Sito web italiano per la filosofia, e fa parte della segreteria di redazione del Bollettino telematico di filosofia politica). Tra le opere di Emanuela Ceva: Liberal pluralism and pluralist liberalism, in "Res Publica", vol.11, 2005; "The principle of adversary argument. Justice between substance and procedures", in Mancept Working Papers, Manchester Centre for Political Theory, University of Manchester, 2005; Impure procedural justice and the management of conflicts about values", in Mancept Working Papers, Manchester Centre for Political Theory, University of Manchester, 2005; "Giustizia procedurale e pluralismo dei valori", in Ricciardi, M., Del Bo', C. (a cura di), Pluralismo e liberta' fondamentali, Milano: Giuffre', 2004; Le molte facce del pluralismo. Un approccio procedurale, in "Il Politico", LXIX (1), 2004; Verso una definizione di pluralismo, in "Dissensi. Rivista Italiana di Scienze Sociali", 3, 2003] 1. Introduzione Questo saggio ha come interesse principale l'analisi del pluralismo dei valori come circostanza problematica per l'elaborazione di una teoria della giustizia, che sia rilevante per le comunita' composite dei nostri giorni. In vista di questo obiettivo procedero' nella prima parte di questa riflessione a fissare i termini in essa coinvolti. Cerchero', dunque, di proporre una definizione di teoria della giustizia e, in particolare, una caratterizzazione di pluralismo che ci aiutino a fissare i punti centrali della questione. In seguito passero' a sottolineare le ragioni per cui il pluralismo dei valori rappresenta una circostanza problematica di giustizia, focalizzando l'attenzione su due famiglie di teorie: le teorie della giustizia "sostantive" e le teorie della giustizia "procedurali". Procedero', quindi, col mettere in evidenza i loro punti deboli e i loro punti di forza, soffermandomi in particolare sulle teorie della giustizia procedurale secondo la presentazione offerta da John Rawls, in termini di proceduralismo perfetto, imperfetto e puro (1). Concludero' questo percorso con alcune riflessioni critiche e suggerimenti per lo sviluppo di possibili linee di ricerca. * 2. Verso una caratterizzazione del pluralismo Prima di addentrarmi nel cuore delle questioni appena tratteggiate, vorrei cercare di fissare, in primo luogo, il significato dei termini coinvolti in questa analisi. Innanzi tutto, vorrei chiarire che con l'etichetta di teorie della giustizia, come nota Salvatore Veca (2), la filosofia politica contrassegna le teorie della giustificazione, ove per giustificazione s'intende l'offerta di ragioni a sostegno di qualcosa. Cosa giustificano, dunque, le teorie della giustizia? In termini generali possiamo affermare che esse forniscono ragioni a sostegno di determinate istituzioni tramite l'elaborazione di principi di giustizia, che definiscono, a loro volta, cosa e' giusto (ad esempio, le istituzioni della democrazia possono essere giustificate da una teoria della giustizia che ha come principio fondamentale una qualche formulazione dell'idea di eguaglianza). In altre parole, se vogliamo costruire una definizione piu' precisa, per teorie della giustizia s'intendono quei resoconti normativi - che offrono, cioe', una visione del mondo come dovrebbe essere, non una descrizione di come esso e' - atti a giustificare un certo assetto istituzionale e le relative regole di interazione tramite l'elaborazione di principi di giustizia. Tenendo a mente questa definizione, procedero' ora a tratteggiare una caratterizzazione dell'idea di "pluralismo". A questo scopo, faro' riferimento a un ottimo saggio di Charles Larmore (3) in cui vengono presentati due modelli di pluralismo proposti rispettivamente da (i) Isaiah Berlin e (ii) John Rawls. Il primo puo' essere definito come normativo e si presenta come una teoria sulla natura plurale delle fonti di valore. Il secondo modello, di natura descrittiva, viene invece espresso nei termini del riconoscimento di un disaccordo ragionevole tra diversi soggetti su cio' che vale ed e' buono. Vediamo nei dettagli le caratteristiche di questi due modelli di pluralismo. (i) Il pluralismo, cosi' come viene concepito da Berlin, si presenta come una teoria sui valori. Tale teoria sottolinea la natura plurale dei valori e li caratterizza come dotati di una validita' oggettiva e per questo irriducibili ad un singolo ordine gerarchico, o comunque a un sistema omogeneo e unitario. Al contrario, i differenti sistemi di valori si rivelano essere irriducibilmente eterogenei e destinati ad entrare in conflitto. Isaiah Berlin formula l'argomento in questo modo: "[Il pluralismo] non e' relativismo (...) Lo concepisco [il relativismo] come una dottrina per la quale il giudizio di un individuo o gruppo, in quanto espressione di un gusto, di un atteggiamento o di un'espressione emozionale, e' semplicemente cio' che e', senza alcun correlato oggettivo che ne determini la verita' o la falsita'. Mi piace la montagna, a te no; io amo la storia, tu la consideri una cosa di poca importanza: tutto dipende dal punto di vista adottato da ognuno. Ne segue che parlare di verita' e falsita' su simili assunzioni non ha senso. Ma i valori di ogni cultura (...) non sono meri fatti psicologici, ma hanno un carattere oggettivo, anche se non necessariamente commensurabile sia all'interno di una stessa cultura, sia (ancora meno) tra culture" (4). Larmore suggerisce acutamente che il pluralismo alla Berlin puo' essere meglio compreso nel distacco dall'ideale platonico che ha dominato a lungo il pensiero filosofico occidentale. Tale ideale e' stato tradizionalmente identificato con la convinzione per cui ogni singola domanda fondamentale su cio' che vale deve avere una e una sola risposta vera, raggiungibile da differenti prospettive e perfettamente commensurabile con tutte le altre risposte vere a differenti questioni (5). In opposizione a una simile posizione teorica, Berlin argomenta a favore dell'esistenza di piu' risposte vere alla fondamentale questione circa il modo in cui dovremmo vivere. Come emerge chiaramente dalle parole di Berlin, questa posizione differisce di molto da quello che egli chiama relativismo. Infatti, mentre il relativismo si concentra su questioni di preferenze e sull'esistenza di molteplici espressioni di gusto, il pluralismo si presenta come una teoria sulla natura plurale di cio' che vale. Come si puo' vedere dal passo appena riportato, le questioni di pluralismo sono caratterizzate da una funzione di verita' che e' del tutto estranea alle istanze di relativismo. Il fatto che un agente A preferisce andare in montagna, mentre B ha una predilezione per il mare non ci dice nulla sulla verita' di queste due posizioni, che possono essere compresenti senza per questo implicare che l'accettazione della posizione di A neghi la possibilita' di esistenza di B. Uno status differente viene invece attribuito alle questioni di eterogeneita' di valore di cui si occupa il pluralismo. Se C da' valore alla liberta' mentre D valuta positivamente la schiavitu', non vi e' modo che queste posizioni possano venire entrambe accettate. L'attribuzione di valore alla liberta' nega la possibilita' di attribuire valore alla schiavitu'. In altri termini, se accettiamo la posizione di C come vera, non potremo che riconoscere la prospettiva di D come falsa. Pertanto, se il relativismo sembra ridurre ogni questione di valore alla dimensione delle preferenze soggettive, il pluralismo, dal canto suo, avanza un argomento a favore della coesistenza di differenti valori oggettivi (in quanto espressioni di verita'), adottati da differenti persone all'interno di differenti contesti (storici, geografici e culturali). Essendo queste differenze essenziali alla natura stessa dei valori, esse non sono presentate come una sorta di errore o deviazione dalla verita' della quale sbarazzarsi per ripristinare la giusta visione delle cose. Ogni posizione differente e' concepita come legittima e "valida" per differenti individui all'interno di diversi contesti e deve percio' essere conservata. Ad esempio si prenda in considerazione l'idea di giustizia (6) che per alcune persone rappresenta un valore assoluto. Essa puo' essere (di fatto e, talvolta, di principio) incompatibile con altri valori ritenuti fondamentali dagli stessi soggetti, quali ad esempio i valori di pieta' o compassione. Nessuno di questi valori puo' essere classificato come vero o falso in termini universali: sono tutti possibili, o meglio, possibilmente veri anche se (una volta portati all'interno di uno stesso contesto) e' probabile che collidano gli uni contro gli altri. Tale posizione si contrappone al monismo normativo per cui vi e', invece, una sola fonte di valore. Si pensi a questo proposito a teorie come l'utilitarismo, per il quale ogni valore che un singolo puo' abbracciare e' comunque subordinato alla realizzazione del bene supremo, cioe' la massimizzazione dell'utilita' in una sua qualche forma. Una simile definizione di pluralismo, come teoria sulla natura dei valori, avanza una tesi piuttosto forte e radicale che, essendo fondata su di una serie di considerazioni ontologiche sui valori e sulla loro fonte, richiederebbe una giustificazione altrettanto forte e sostanziale. Invece di scendere nei dettagli di una simile proposta, obiettivo che va al di la' dell'interesse di questo saggio, le riflessioni che vorrei qui proporre si concentreranno su di una versione di pluralismo in un certo senso piu' debole (quella di pluralismo come disaccordo ragionevole proposta da J. Rawls), ma che nello stesso tempo meglio si adatta, proprio per la sottigliezza della sua formulazione, a evidenziare la natura delle questioni problematiche che vorrei qui affrontare. (ii) Il pluralismo, in questa seconda accezione, si traduce nel riconoscimento del disaccordo ragionevole tra diversi soggetti su cio' che vale. Come Charles Larmore evidenzia, alla base di un simile riconoscimento non c'e' ne' una concezione sulla natura propria di tali valori, ne' un impegno normativo di spiegazione. Come Rawls stesso sottolinea, questa situazione di pluralita' e' un semplice fatto il cui riconoscimento (che chiamiamo pluralismo) pone alcune circostanze problematiche, dando vita a conflitti tra contrastanti valori e visioni del mondo. L'attenzione che Rawls dedica all'analisi del pluralismo non e' estesa alla considerazione di un qualsiasi tipo di disaccordo che possa emergere tra agenti divisi su cio' che per loro vale, ma e' limitata alle conseguenze dell'uso legittimo della ragione umana; e' limitata, cioe', a quella che Rawls chiama la sfera della ragionevolezza (7). Secondo Rawls, il pluralismo trae le proprie origini dai cosiddetti limiti della ragione (burdens of reason (8), cioe' difficolta' e fraintendimenti che gli individui e' probabile che incontrino nel normale e corretto uso della loro ragione). Siccome i differenti giudizi all'interno della sfera politica vengono formulati attraverso l'uso proprio della ragione - qualsiasi variazione essi assumano - non sono da considerarsi come errori da correggere o di cui sbarazzarsi, ma sono in qualche modo essenziali conseguenze delle normali attivita' intellettuali di agenti ragionevoli. Anche intuitivamente possiamo riconoscere come - al livello delle interazioni ordinarie tra agenti ragionevoli - partendo dall'osservazione della stessa situazione, persone diverse possono giungere a conclusioni diverse, basate sull'elaborazione di diversi giudizi. Per comprendere meglio la natura di questo disaccordo, vorrei concentrarmi sulla caratterizzazione dell'idea del ragionevole. Essa puo' essere intesa, seguendo un'indicazione di Charles Larmore (9), come la capacita' e la disposizione a pensare e conversare in buona fede, applicando al meglio le generali capacita' della ragione che appartengono ad ogni dominio di ricerca e riflessione. Queste capacita' possono essere identificate con l'abilita' di dare ragioni a sostegno della propria posizione in un modo che possa essere comprensibile agli altri, insieme con la disposizione a essere aperti e pronti a rivedere la propria concezione alla luce di fondati argomenti alternativi. Alla luce di queste considerazioni, il monismo in questo caso si potrebbe di riflesso identificare con il mancato riconoscimento di un tale disaccordo come fatto (derivante dall'uso proprio della ragione e, quindi, ineliminabile) e il suo ridimensionamento a disaccordo apparente che puo' invece essere risolto individuando un ordine di priorita' tra i diversi valori in contrasto. Rawls argomenta che una simile riduzione monistica e' in realta' impossibile proprio perche' l'insorgenza del pluralismo e' un fatto intrinseco all'esercizio della ragione umana. * 3. Pluralismo e questioni di giustizia Nel corso di questa riflessione, mi concentrero', come anticipato, sul pluralismo in questa seconda accezione come circostanza problematica per la definizione di una teoria della giustizia. Ciononostante, l'approccio al pluralismo che vorrei proporre si differenzia significativamente da quello rawlsiano. Infatti, come accennato in precedenza, mentre l'interesse di Rawls si concentra su di un tipo specifico di pluralismo - il pluralismo ragionevole - questo saggio vuole essere un tentativo di analizzare il pluralismo nei suoi aspetti radicali (10). Questa scelta e' basata sulla convinzione che limitare l'area d'indagine al solo ambito della ragionevolezza ci impedisce di incontrare e affrontare alcune delle questioni piu' significative legate al pluralismo, quali la necessita' di gestire una molteplicita' di "visioni normative del mondo radicalmente differenti e generalmente indifferenti le une alle altre" (11). La difficolta' fondamentale nella riduzione rawlsiana al pluralismo ragionevole puo' essere individuata nelle caratteristiche dell'idea di ragionevolezza stessa. Essa porta con se', infatti, un'assunzione di impegno per il raggiungimento di un accordo mutuamente accettabile, da parte di attori ragionevoli, divisi a causa delle loro lealta' a dottrine ragionevoli differenti (12). In questa ottica, la differenza principale tra il pluralismo ragionevole e il pluralismo radicale si puo' individuare nel fatto che nel secondo caso sono assenti assunzioni sulla disposizione degli agenti a risolvere nel confronto la questione su cui vi e' disaccordo, giustificando o, meglio, dando ragioni a sostegno della propria posizione agli altri; una disposizione, questa, che e' invece assunta e posta alla base delle interazioni in un contesto di ragionevolezza. All'interno di una simile prospettiva, se dovessimo limitare l'attenzione al solo pluralismo ragionevole e a portatori di valore ragionevoli, scontri duri (derivanti da aspri conflitti di valore) (13) sembrerebbero essere destinati a giacere sotto silenzio. Se la disposizione alla cooperazione dialogica viene assunta, ogni volta che un'istanza controversa emerge gli attori ragionevoli sembrano gia' essere in possesso degli strumenti di cui hanno bisogno per gestire il loro disaccordo (l'impegno, cioe', a dare ragioni a sostegno delle proprie posizioni che gli altri agenti possano comprendere). Ma se siamo interessati, come io sono, a prendere in esame conflitti di valore irrisolti - che stanno alla base di scontri aspri tra individui differenti - il fuoco della nostra attenzione deve essere di conseguenza spostato dal pluralismo ragionevole a quello radicale. Scontri aspri emergono quando i conflitti di valore non vengono efficacemente gestiti. Di conseguenza, se vogliamo incontrare casi rilevanti per l'elaborazione di una teoria della giustizia nella gestione dei conflitti di valore (una teoria della giustizia cioe' che sia sensibile al pluralismo), la presenza di scontri aspri puo' essere vista come una sorta di indicatore per individuare casi significativi che possano essere interessanti per l'elaborazione di una simile teoria. Poiche' in un contesto di pluralismo radicale un piu' ampio spettro di agenti e istanze vengono presi in considerazione e nessuna assunzione viene fatta sulla loro ragionevolezza, sembra essere piu' probabile che conflitti di valore significativi emergano e mettano in discussione le esistenti procedure di gestione dei conflitti, richiedendone cosi' di nuove. Per questo motivo la definizione qui proposta non solo si presenta in termini descrittivi (come il riconoscimento di un fatto) ma cerca di considerare il pluralismo nella molteplicita' delle sue dimensioni, estendendo la sfera dell'analisi anche al di fuori dei confini del ragionevole, nella tensione all'inclusione del maggior numero possibile di posizioni. Dato l'impegno a proporre una definizione descrittiva di pluralismo, appare interessante chiedersi qual e', a questo punto, la differenza tra pluralismo e pluralita' di valori. Come ho suggerito altrove (14), propongo di fare riferimento alla pluralita' dei valori come il fatto (o fenomeno) sottostante al pluralismo, inteso a sua volta come riconoscimento di tale fatto. Mettendo in questione la tradizionale ricerca di armonia tra sistemi di valori differenti, il pluralismo radicale (nel senso prima specificato) mina le basi della vita in comune e appare, di conseguenza, come qualcosa che la filosofia politica non puo' esimersi dall'affrontare. Alla luce di queste considerazioni sembra ora possibile rispondere alla domanda sul perche' il pluralismo cosi' definito possa essere considerato come una circostanza problematica di giustizia. Se si considera il pluralismo dei valori - cosi' caratterizzato in termini essenziali - come una delle caratteristiche piu' rilevanti delle comunita' attuali, e' necessario anche riconoscere la situazione di profonda incertezza che esso ha portato con se'. Data la coesistenza di un elevato numero di differenti visioni del mondo sostantive, sembra essere impossibile costruire una teoria della giustizia che si basi su una di queste visioni senza essere accusati di fare un torto a una delle altre. Di fronte a una tale complessita' il compito affidato al teorico politico sembra essere quello di delineare una teoria della giustizia che possa accomodare il maggior numero possibile di posizioni e richieste. Nel contempo, una simile teoria dovrebbe anche essere in grado di garantire un sicuro livello di stabilita' e certezza. * 4. Un approccio procedurale alle questioni di giustizia Avendo definito in questo modo i termini fondamentali in cui l'idea di pluralismo dei valori viene qui considerata, possiamo procedere ora con l'analisi della necessita' di una teoria della giustizia procedurale che ha origine proprio dall'impegno nei confronti di una simile idea. La coesistenza di una varieta' di concezioni del bene e sistemi di valore (piu' o meno radicalmente differenti) sembra scontrarsi con la tradizionale ricerca di armonia attraverso l'individuazione di un nucleo valoriale ampiamente (se non universalmente) accettato, intorno al quale costruire una formulazione stringente di una teoria della giustizia. Di fronte all'eterogeneita' portata alla luce dal riconoscimento del fatto della pluralita' dei valori, invece, la ricerca di valori fondamentali - per una teoria della giustizia - definiti nella loro sostanza e' destinata a non dare risultati convincenti ed inclusivi. Mi dedichero' in quanto segue a rendere esplicite le ragioni di una simile posizione critica nei confronti della possibilita' di costruire e difendere una teoria della giustizia sostantiva in circostanze di pluralismo. Se richiamiamo alla mente la definizione di teoria della giustizia precedentemente proposta, come elaborazione di una giustificazione per un determinato assetto istituzionale e relative regole di condotta e interazione, cio' che appare come maggiormente problematico nell'adozione di impegni sostantivi e' il ruolo chiave che i valori fondamentali giocano nella formazione della giustificazione offerta. In altre parole, il problema maggiore con le teorie sostantive della giustizia non e' tanto il loro prendere le mosse da una qualche sorta di assunzione. La difficolta' maggiore e', invece, la pesante e forte influenza - in termini di derivabilita' logica - che un simile tipo di assunzione ha sulle caratteristiche particolari della giustificazione offerta. All'interno di una prospettiva teorica sostantiva, dunque, alcuni valori fondamentali, come - ad esempio - una qualche formulazione dell'idea di eguaglianza o di liberta', vengono assunti come base per la giustificazione dei particolari principi di giustizia che verranno proposti. Al di la' di elaborate argomentazioni, sembra piuttosto intuitivo vedere che, se accettiamo il pluralismo dei valori, una giustificazione di questo tipo verra' rifiutata da tutti coloro che non condivideranno i valori assunti e posti alla base della giustificazione stessa e della teoria da giustificare, limitandone cosi' la capacita' inclusiva e rendendola controversa (come controversi sono i valori che ne stanno alla base). Un esempio, tratto dalla cronaca recente, puo' aiutarci a vedere con maggiore chiarezza la natura problematica di simili questioni. Pochi mesi fa, a seguito dell'inasprirsi delle polemiche sull'opportunita' di permettere alle studentesse musulmane di indossare il foulard a scuola, il presidente francese Jacques Chirac ha proposto un provvedimento atto ad eliminare la possibilita' di ostentare in classe ogni simbolo religioso, sia esso un crocifisso, un copricapo ebraico o lo Hijab islamico (15). Come potremmo giustificare una simile posizione dalla prospettiva della giustizia sostantiva? Una teoria della giustizia sostantiva giustificherebbe un simile stato di cose argomentando contro la possibilita' di indossare a scuola simboli religiosi per mezzo del riferimento a valori o a determinate visioni del mondo. A titolo esemplificativo, un teorico della giustizia sostantiva potrebbe argomentare che la scuola deve essere laica perche' Dio non esiste (16). Ora il problema di una simile giustificazione della laicita' della scuola (problema comune a tutti i tipi di giustificazione sostantiva) e' che essa verra' rifiutata, senza possibilita' di appello, da tutti coloro che non condividono la visione del mondo (o il valore) posto alla base della giustificazione stessa; in questo caso da tutti coloro che sono religiosi e credono che, invece, Dio esista e proprio per questo chiedono di poter essere accettati nella manifestazione della propria fede. Ora, in un contesto sociale caratterizzato dalla presenza di differenti individui e gruppi, ognuno con convinzioni e credenze differenti, e' davvero difficile poter pensare che vi siano valori (o visioni del mondo) sufficientemente condivisi ai quali fare appello per risolvere questioni controverse, e sui quali fondare una giustificazione per principi di giustizia che dicano alle parti in causa che cosa e' giusto per loro. Di fronte a simili difficolta' sembra essere necessario spostare l'attenzione verso teorie che possano aprire una strada piu' promettente verso la definizione di principi di giustizia piu' inclusivi e sensibili ai diversi contesti. E' in questa direzione che vanno le teorie della giustizia procedurale. Come abbiamo visto, lo scopo di una teoria sostantiva e' quello di definire principi di giustizia elaborati nella loro sostanza alla luce di valori assunti alla base della teoria stessa. Prendiamo come esempio un principio di giustizia che garantisca a tutti i cittadini pari liberta' fondamentali, un principio quindi evidentemente basato su un elevato valore attribuito alla liberta'. Qui il valore fondamentale emerge chiaramente e la teoria ci fornisce un principio di giustizia ben confezionato nella sua sostanza. Una teoria della giustizia procedurale invece, non ha come scopo la formulazione di principi di giustizia di questo tipo, ma la definizione di procedure e regole procedurali che possano fornire linee guida a differenti soggetti coinvolti in differenti contesti per decidere quali principi di giustizia sostantivi adottare. Una teoria della giustizia procedurale, dunque, non proporra' principi di giustizia che dicono agli agenti cosa e' giusto fare alla luce di un dato valore (ad esempio, dare a tutti pari liberta'), ma il modo in cui e' giusto agire per giungere all'elaborazione di principi che possano essere accettati dai differenti agenti coinvolti e giustificati sulla sola base delle procedure adottate e seguite. Partendo dal riconoscimento del fatto della pluralita' dei valori, il compito per un teorico delle procedure sembra, dunque, essere quello di costruire una sorta di rete di sicurezza per le interazioni tra i soggetti coinvolti in una situazione conflittuale. Gli attori sociali sanno che le loro relazioni e comunicazioni non possono uscire al di fuori dei confini della rete se non vogliono cadere nell'ingiustizia. Ma, allo stesso tempo, sanno che possono muoversi liberamente all'interno della rete. Anche se non sanno quali saranno le precise caratteristiche e i termini del loro accordo finale, essi sanno che fino a che rimarranno all'interno dei limiti marcati dalla rete qualsiasi risultato raggiunto potra' essere considerato come giusto e accettabile da tutti. Fuor di metafora, la teoria e' chiamata a definire un sottoinsieme minimo di procedure, tra le molteplici alternative possibili, che definisca l'ambito della giustizia. Gli attori sociali sanno che agendo in accordo con quelle procedure giungeranno alla definizione di principi di giustizia accettabili da tutti, anche se il contenuto di simili principi e' a loro sconosciuto prima dell'inizio dell'interazione stessa. Per tornare all'esempio precedentemente introdotto, mentre un teorico della giustizia sostantiva avrebbe suggerito a Chirac di sostenere come principio di giustizia la laicita' della scuola, in virtu' di una data visione del mondo (caratterizzata, ad esempio, dalla convinzione della non-esistenza di Dio), un teorico della giustizia procedurale non aspirerebbe a suggerire principi di giustizia definiti nella loro sostanza, ma consiglierebbe una strategia da seguire per giungere ad una definizione condivisa di cosa e' giusto sulla sola base di criteri procedurali (esempi di simile strategie possono essere una procedura di voto maggioritario oppure una procedura di dialogo dove tutte le parti in causa devono poter dire la loro sull'oggetto della disputa). * Note Alcuni argomenti presenti in questo saggio sono stati precedentemente presentati in Ceva, Le molte facce del pluralismo. Un approccio procedurale, in "Il Politico", in corso di stampa (v. in modo particolare le parti 4 e 5 di questo lavoro). Ringrazio Ian Carter per i suggerimenti che hanno condotto a questa nuova versione. Molte delle idee qui contenute sono il risultato di lunghi confronti con amici e colleghi: ringrazio tutti loro per la pazienza e il sostegno offertomi. Il ringraziamento piu' grande va, come sempre, a Salvatore Veca e Hillel Steiner per tutto quello che ho potuto imparare da loro in questi anni di ricerca. 1. Rawls, Una teoria della giustizia, tr. it. di Santini, a cura di Maffettone, Milano, 1982 [1971], pp. 85-86. 2. Veca, La filosofia politica, Roma-Bari, 1998. 3. Larmore, Pluralism and Reasonable Disagreement, in "Social Philosophy and Policy", 1994. 4. Berlin, The Crooked Timber of Humanity, London, 1991, p. 80. 5. Per un'analisi del pluralismo in Berlin si conceda il rimando a Ceva, Verso una definizione di pluralismo, in "Dissensi. Rivista Italiana di Scienze Sociali", 2003. 6. Berlin, The Crooked Timber of Humanity cit., p.12. 7. Ceva, Verso una definizione di pluralismo cit. 8. Seguendo la linea argomentativa rawlsiana (v. Rawls, Liberalismo Politico, tr. it. di Rigamonti, Milano, 1999 [1993]), Charles Larmore ricostruisce un utile resoconto riassuntivo di simili limiti della ragione. I principali fattori responsabili di simili discrepanze di giudizio sono: "1) l'evidenza empirica puo' essere discordante e complessa. 2) L'accordo sui tipi di considerazioni coinvolte non garantisce l'accordo sul peso da accordare loro. 3) I concetti chiave possono essere vaghi e legati a casi complicati. 4) La nostra esperienza complessiva, che forgia il modo in cui noi misuriamo le prove e soppesiamo i valori, e' facilmente discordante tra individuo e individuo all'interno delle societa' moderne complesse. 5) Diversi tipi di considerazioni normative possono essere coinvolte nella definizione dei vari aspetti di una questione. 6) Trovandoci forzati ad operare scelte tra valori fondamentali, ci troviamo di fronte a numerose difficolta' nella definizione di ordini di priorita'" (Larmore, Pluralism and Reasonable Disagreement, cit., p. 76). 9. Larmore, op. cit., p. 74. 10. Il significato di un simile riferimento alla radicalita' del pluralismo che vorrei qui considerare verra' precisato in cio' che segue. 11. Ho trattato questa idea anche in Ceva, Le molte facce del pluralismo. Un approccio procedurale cit. 12. Per un'interpretazione affine del ragionevole in Rawls vedi Veca, La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull'idea di giustizia, Milano, 2002. 13. L'uso che viene fatto, in questo contesto, dei termini "scontro" e "conflitto" e' di una natura peculiare. Precisamente, faro' riferimento a scontri nel caso di quelle controversie esplicite tra agenti che stanno vivendo una situazione di disaccordo sui valori. I conflitti di valore rappresentano proprio il fenomeno sottostante alla manifestazione di scontri che possono emergere qualora i conflitti sui valori (derivanti dal pluralismo) non vengono gestiti in modo soddisfacente. 14. Ceva, Le molte facce del pluralismo. Un approccio procedurale cit. 15. Per il testo integrale del discorso di Chirac a questo proposito si veda www.elysee.fr/cgi-bin/auracom/aurweb/search/fileaur_file=discours/2003/D0312 17.html. Il testo integrale del progetto di legge (n. 1378 del 28 gennaio 2004) puo' essere, invece, trovato qui: www.assemblee-nat.fr/12/projets/pl1378.asp 16. Si noti che non e' mia intenzione far coincidere, qui, la questione della laicita' con quella dell'ateismo. Il riferimento all'argomento sulla non-esistenza di Dio e' chiamato in causa esclusivamente come una (tra tante) possibile forma argomentativa sostantiva a sostegno della laicita' della scuola. Altri argomenti che insistono sulla neutralita' dello Stato potrebbero essere utilizzati (si pensi, ad esempio, alla tradizionale separazione operata dal pensiero liberale tra questioni appartenenti alla sfera pubblica e questioni facenti riferimento alla sfera privata). Ho scelto, tuttavia, di ricorrere a un simile argomento per sottolineare la natura esclusiva e selettiva che caratterizza le giustificazioni sostantive. Ringrazio Corrado del Bo' per i suoi commenti su questo punto. (Parte prima - Segue) 4. RILETTURE. SIMONA FORTI: IL TOTALITARISMO Simona Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. X + 144, euro 9,30. Un'agile ma puntuale ed acuta monografia la cui lettura vivamente consigliamo. 5. RILETTURE. MARIA LAURA LANZILLO: IL MULTICULTURALISMO Maria Laura Lanzillo, Il multiculturalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. X + 154, euro 10. Un sintetico ma preciso ed utile strumento orientativo. 6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 7. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1427 del 23 settembre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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