La nonviolenza e' in cammino. 1402



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1402 del 29 agosto 2006

Sommario di questo numero:
1. Del casarse pronto y mal
2. Robin Morgan: Il suo nome era Abeer
3. Giuliana Sgrena: Il giogo patriarcale, i crimini contro le donne, i media
4. Renata Sarfati: L'emozione che questa storia suscita...
5. Omero Dellistorti: Fallibili
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. DEL CASARSE PRONTO Y MAL

A molti cari amici vorremmo suggerire di essere piu' cauti nel mettersi al
servizio della politica militarista, guerrafondaia e razzista del governo
"senza se e senza ma".
Comprendiamo: c'e' il fascino della divisa (abbiamo letto anche noi i
romanzi dell'Ottocento), c'e' il riconoscimento e la promozione sociale
(invece della fame e delle galere, ed e' certo una bella differenza); ma
succede sovente che chi s'illude di fare il consigliere del principe diviene
invece l'usignolo dell'imperatore, quando non il sergente di servizio.
*
Si vuol sostenere la poltiica militarista e razzista del governo in carica?
chi ha stomaco per farlo ne ha facolta'.
Ma non si pretenda di dire che questa politica militarista e razzista e'
pacifista e nonviolenta.
Si abbia un po' di rispetto se non per le vite altrui, se non per la propria
ed altrui intelligenza, almeno per la lingua italiana.

2. RIFLESSIONE. ROBIN MORGAN: IL SUO NOME ERA ABEER
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di
Robin Morgan. Robin Morgan e' nata a Lake Worth in Florida nel 1941, e vive
e lavora a New York; poetessa, saggista, romanziera, giornalista, e' dagli
anni '70 una delle figure piu' vive del movimento delle donne. Tra le sue
opere disponibili in italiano: l'intervista a cura di Maria Nadotti,
Cassandra non abita piu' qui, La Tartaruga, Milano 1996; Sessualita',
violenza e terrorismo, La Tartaruga, Milano 1998, 2003; un suo nuovo libro,
Fighting Words, sara' pubblicato a settembre da Nation Books]

Compiva gli anni il 19 agosto, il giorno della sua morte e' stato il 12
marzo. Non possiamo permettere anche a questo crimine di cadere nell'oblio.
Quando e' emerso sui giornali che i soldati americani avevano molestato,
terrorizzato e infine effettuato uno stupro di gruppo su una donna irachena,
gli Usa hanno tentato di minimizzare quest'ultima atrocita' commessa dalle
nostre truppe: dicendo che la vittima aveva 25 anni, o addirittura 50, come
se uno stupro seguito da omicidio fosse meno orribile quando la vittima e'
una donna adulta.
Ora le udienze preliminari sono terminate a Camp Liberty, una base americana
in Iraq (le truppe statunitensi non sono soggette al processo penale
iracheno). In settembre, un generale decidera' se gli accusati dovranno
comparire di fronte alla corte marziale. La difesa ha gia' addotto come
prova a discarico il "disordine da stress post traumatico": nei quattro mesi
precedenti il crimine 17 membri del battaglione degli accusati erano stati
uccisi, la loro compagnia, "Bravo", aveva riportato 8 morti in
combattimento.
Ma anche se gli Usa omettono di fornire l'identita' della vittima, gli
investigatori conoscono il suo nome: Abeer Qassim Hamza al-Janabi. Abeer
significa "fragranza di fiori". Aveva 14 anni.
I soldati la notarono ad un posto di blocco. Cominciarono a seguirla e
infastidirla dopo che un paio di loro avevano espresso l'intenzione di
violentarla. Il 12 marzo scorso, dopo aver giocato a carte e mischiato il
whisky ad una bibita energetica, e dopo aver provato qualche tiro a golf,
hanno indossato abiti neri civili ed hanno fatto irruzione nella casa di
Abeer, a Mahmoudiya, una citta' cinquanta miglia a sud di Baghdad. Hanno
ucciso sua madre, Fikhriya, suo padre Qassim, e la sorellina di cinque anni,
Hadeel, con pallottole in fronte, poi hanno "fatto i turni" per stuprare
Abeer. Infine l'hanno uccisa, hanno inzuppato i corpi di kerosene, e hanno
dato loro fuoco per distruggere le prove. Poi i soldati se ne sono andati ad
arrostire ali di pollo sulla griglia.
*
Questi dettagli vengono dalla testimonianza giurata del soldato James P.
Barker, uno degli accusati assieme al sergente Paul Cortez, al soldato
scelto Jesse Spielman, ed al soldato scelto Bryan Howard; un quinto, il
sergente Anthony Yribe, e' accusato di non aver riferito l'accaduto, ma non
di avervi partecipato.
Poi c'e' l'ex soldato scelto Steven Green. Congedato in maggio per
"disordini della personalita'", Green e' stato arrestato nella Carolina del
Nord, si e' dichiarato innocente di fronte ad un tribunale federale, ed e'
stato rilasciato senza alcun vincolo. E' il capro espiatorio piu'
conveniente, poiche' il suo caposquadra ha testimoniato quanto spesso Green
abbia dichiarato di odiare tutti gli iracheni e di volerli uccidere tutti.
Il comandante della compagnia ha dichiarato che Green aveva "seri problemi
di rabbia".
E insomma chi e' la mela marcia? Un bravo ragazzo di Midland, Texas. "Se
volete capirmi", dice sempre il presidente Bush, "dovete capire Midland".
Steven Green la capisce, Midland; era casa sua fino a quando i suoi genitori
divorziarono e sua madre si risposo' quando lui aveva otto anni, ed era gia'
perennemente nei guai a scuola. Non fini' le superiori, e si arruolo' nel
2005. Si immerse nella "polla battesimale" a Fort Benning, in Georgia,
diventando un "rinato" mentre gli si insegnava ad uccidere legalmente ed a
morire eroicamente. Aveva 19 anni e tre convinzioni: combattere, avere
accesso all'alcool, avere accesso alle droghe.
Una volta, l'esercito lo avrebbe rifiutato.
Ma lui si arruolo' nel momento in cui l'esercito, disperato per la scarsita'
di nuovi arrivi, comincio' ad aumentare, di circa la meta', il grado in cui
permette cio' che chiama "moralita' differita" ai potenziali soldati.
Secondo i dati del Pentagono, i "differiti" nel 2001 erano 7.640, e sono
saliti ad 11.018 nel 2005. La "moralita' differita" permette il reclutamento
di persone con precedenti penali, problemi emotivi e debole retroterra
educativo, a cui insegnare ad usare mitragliatori e lanciarazzi. Dopo di
che, se sopravvivono, saranno chiamati eroi e reintegrati nella societa'.
*
L'esercito Usa e' oggi una forza mercenaria. In aggiunta alle milizie
affittate ed ai "contractors" indipendenti, abbiamo un distaccamento
specifico, quello dei poveri. Questo spiega perche' l'esercito e' cosi'
sproporzionatamente gremito di gente di colore, in cerca di istruzione,
accesso alla salute ed alla casa. Ma l'esercito da' loro anche altro:
adolescenti maschi, al loro risveglio ormonale, vengono addestrati a
confondere il proprio corpo con le armi e a rilasciare le loro energie in
questo modo.
Una canzone díaddestramento, notissima, accompagnata da gesti sconci, dice:
"Questo e' il mio fucile, questa e' la mia pistola: uno e' per uccidere, e
l'altra e' per divertirsi". L'aviazione militare statunitense ammette di
mostrare filmati pornografici violenti ai piloti, prima delle loro missioni
di bombardamento aereo. I manuali militari rigurgitano di frasi quali
"lanciatori eretti", "razione di spinte", "penetrazione territoriale
profonda e rigida", "potente durezza nucleare". Ci sono anche i "bersagli
soffici". Cosa significa? Civili.
*
Le studiose femministe hanno esposto queste connessioni fallocentriche
militari per decenni. Quando io scrissi Il demone amante: le radici del
terrorismo (ultima edizione Washington Square Press, 2001), presentavo molte
piu' prove di quanto lo spazio qui mi permetta di esporre che la mistica del
terrorismo e la leggenda dell'eroe spuntavano entrambe dalla medesima
radice: la concezione patriarcale della mascolinita'.
Come puo' lo stupro non essere centrale, nella propaganda che vuole la
violenza erotica, un messaggio pervasivo che infetta ogni cosa, dalla
politica estera Usa (afflitta da eiaculazione precoce), alla moda
"camuffamento militare chic" e "stile banda di gangster"?
Questa definizione della mascolinita' e' tossica per gli uomini, e letale
per le donne. Ma la fatica dell'atrocita' e' divenuta stabile. Non era forse
lo stupro il prodotto principale della guerra, ben prima dell'Iliade? Non
sono state stuprate 100.000 donne e ragazze nei bordelli-campi della morte
in ex Jugoslavia? Non hanno i clan guerrieri somali, negli anni '90, qualche
volta in compagnia delle truppe di peacekeeping dell'Onu, stuprato "gli uni
le donne degli altri"? E cinque sopravvissute somale allo stupro, non sono
poi state lapidate a morte dagli islamisti per "adulterio"? E non si erano
ignorati i rapporti provenienti da un piccolo, fastidioso paese, sugli
stupri nei villaggi commessi da gruppi chiamati Interahamwe ("I nostri
eroici ragazzi")? In fondo riguardava solo le donne, e chi aveva mai sentito
parlare di quel posto, il Ruanda.
Pero' il Pentagono e' sconvolto. "Non puo' trattarsi dei nostri simpatici
soldati americani. Devono essere poche mele marce". Ci siamo gia' scordati
di Abu Ghraib? Le fotografie di uomini torturati sessualmente abbondano, ma
le foto delle donne umiliate ed abusate sono ancora secretate, nel timore di
una reazione mondiale di oltraggio ancora maggiore.
Abbiamo gia' dimenticato i due marine ed il marinaio che rapirono una
dodicenne di Okinawa nel 1995, la batterono, la violarono e l'abbandonarono
nuda in un'area deserta? In qualche modo e' sopravvissuta e li ha
denunciati, sebbene il suo "disordine da stress post traumatico" la tormenti
senza dubbio ancora. Cosi' tanti stupri sono stati commessi dall'esercito a
Okinawa, in Corea e nelle Filippine, che le femministe asiatiche hanno
organizzato interi movimenti di protesta. Incidenti continuano ad accadere
attorno ai porti ed alle basi Usa, incluse le centinaia di denunce delle
donne sotto le armi di stupri subiti dai loro commilitoni (e l'attuale
epidemia congiunta di stupri ed "evangelismo" all'Accademia dell'aviazione
militare statunitense).
Nel 1998, una decisione Onu che funge da pietra miliare riconobbe lo stupro
come crimine di guerra, e cio' solleva una questione: se lo stupro durante
una guerra e' un crimine contro l'umanita', cos'e' in tempo di pace? I
tribunali internazionali per il Ruanda e l'ex Jugoslavia hanno dato inizio a
processi ed emanato condanne usando i termini giuridici relativi alla
violenza sessuale.
Ogni tanto, alcuni simpatici ragazzi americani vengono riconosciuti
colpevoli, come potrebbe accadere a Green ed ai suoi compagnoni. Poi tutto
ritorna "normale". I colpevoli vengono sacrificati per salvaguardare il
rango di coloro che li hanno addestrati a fare quello che hanno fatto, e per
salvare le carriere di politici che oscenamente fanno sermoni sui "valori
morali" mentre consentono "moralita' differite".
Ma questo crimine non possiamo lasciarlo cadere nel vuoto. Aveva 14 anni ed
il suo nome era Abeer. Significa "fragranza di fiori".

3. RIFLESSIONE. GIULIANA SGRENA: IL GIOGO PATRIARCALE, I CRIMINI CONTRO LE
DONNE, I MEDIA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 agosto 2006. Giuliana Sgrena,
giornalista, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu'
prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle
culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza, e'
stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase
piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata
rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo, sopravvivendo anche
alla sparatoria contro l'auto dei servizi italiana in cui viaggiava ormai
liberata, sparatoria in cui e' stato ucciso il suo liberatore Nicola
Calipari. Opere di Giuliana Sgrena: (a cura di), La schiavitu' del velo,
Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma
1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq,
Manifestolibri, Roma 2004; Fuoco amico, Feltrinelli, Milano 2005]

Perche' proprio nel momento in cui tutta la stampa e' impegnata nella
condanna - che condivido assolutamente - dell'uso di termini storici come
nazismo per definire i crimini commessi da Israele in Libano e Palestina,
nessuno si sconvolge se si definisce uno stupro - orrendo come tutti gli
stupri - "etnico" solo perche' il colpevole (ha parzialmente ammesso) e' un
algerino? In Italia non e' in corso una guerra etnica. A meno che si voglia
avallare in modo subdolo e strisciante attraverso lo "stupro etnico" lo
scontro di civilta'. Se cosi' non e', in Italia uno stupro e' una violenza
terribile contro una donna, comunque. Senza la necessita' di sollevare, come
aggravante, tabu' reazionari del passato quale la verginita', come fa
Francesco Merlo su "la Repubblica" (24 agosto 2006), che dimostrano piu'
morbosita' che orrore.
Lo stupro "etnico" non e' solo un reato contro la persona, come viene
definito lo stupro dal nostro codice penale. E va oltre l'affermazione del
dominio totale dell'uomo "forte" sulla donna "debole". Usato in molti
conflitti come "arma di guerra" per umiliare il nemico, la definizione
"etnica" interviene nel momento in cui lo stupro assume una valenza
ideologica a supporto della "pulizia etnica". Questo uso viene inserito in
una strategia di guerra complessiva di annientamento del nemico anche
tramite la contaminazione etnica, visto che si ritiene che a determinare
l'appartenenza etnica del figlio sia il padre. In questo caso, se la guerra
e' la continuazione della politica con altri mezzi, la violenza sessuale, lo
stupro etnico, diventa un mezzo per continuare la guerra.
Si e' cominciato a parlare diffusamente di "stupro etnico" con la guerra
nella ex-Jugoslavia,e in particolare in Bosnia, ma non e' certamente,
purtroppo, questo l'unico caso. Il tribunale per i crimini commessi in
Ruanda e in Burundi, per la prima volta, ha definito lo stupro etnico
crimine contro l'umanita', quale atto di genocidio quando le donne vengono
stuprate perche' appartenenti a gruppi etnici presi di mira.
Questo per dire che i termini, le definizioni hanno un significato ben
preciso e se si deve evitare di usare il termine nazismo per Israele e
fascisti per gli Hezbollah libanesi (come ha fatto Bush), se si vuole
veramente imparare dagli errori e gli orrori del passato, occorre coltivare
la memoria collettiva tenendone presente il contesto storico.
Quindi gli autori degli stupri (italiani o meno) e dello sgozzamento di Hina
(pachistani) dovranno essere giudicati secondo la legge italiana (dove per
fortuna e' stata eliminata l'attenuante per il delitto d'onore) perche'
vivono nel nostro paese e se avessero un trattamento diverso dai cittadini
italiani questo si' sarebbe razzismo.
Sul piano dell'analisi non basta denunciare la matrice patriarcale del
delitto. Quante Hina ci sono in Italia che non vogliono o non vorrebbero
dover sottostare a un matrimonio combinato nel paese d'origine e non osano
ribellarsi? O forse si sono anche ribellate ma non l'abbiamo saputo perche'
fortunatamente non sono state uccise dal padre, ma magari ogni giorno
subiscono pressioni della famiglia.
Cosa possiamo fare per queste donne che vivono in Italia e rivendicano
semplicemente i nostri stessi diritti, che sono diritti universali? Potremmo
per esempio cominciare, come e' gia' stato fatto in Francia, con il
costituire una associazione contro il matrimonio forzato per fornire
strumenti e sostegno (anche legale) a quelle giovani immigrate che si
vogliono sottrarre a questo giogo patriarcale.

4. RIFLESSIONE. RENATA SARFATI: L'EMOZIONE CHE QUESTA STORIA SUSCITA...
[Da "Una citta'", n. 115, settembre 2003 (disponibile anche nel sito
www.unacitta.it) riprendiamo la seguente intervista. Renata Sarfati vive a
Milano, dove lavora presso uno studio di traduzioni]

La mia famiglia e' originaria dell'impero turco; entrambi i miei genitori
infatti sono nati in Turchia; il ramo paterno, poi, e' di origine macedone.
Il nonno paterno era un funzionario delle poste dell'impero turco per cui
tutti i suoi figli nacquero in citta' diverse. Mio padre a diciotto anni
emigro', dapprima in Francia, dove gia' si trovava uno dei suoi fratelli,
per poi arrivare a Milano, dove conobbe mia madre. Mia madre, invece, era
arrivata dalla Turchia a dodici anni, con i suoi genitori, stabilendosi a
Bologna e poi a Milano.
La mia e' sempre stata una famiglia cosmopolita, forse perche' un po' sparsa
per tutta l'Europa, e tuttavia molto legata alla cultura e alla tradizione
ebraica. Sia mio padre che mia madre pero' erano assolutamente atei e quindi
io non ho ricevuto una formazione religiosa.
*
Le nostre vicissitudini iniziarono nel '38 quando, a causa delle leggi
razziali, fummo costretti a lasciare l'Italia: mio padre, infatti, in quanto
straniero non poteva piu' rimanere ne' lavorare (faceva il rappresentante
per una societa' di seterie di Como). In un primo momento andammo in
Jugoslavia, a Belgrado. Non fu un periodo facile: nel '40 la citta' fu
occupata dai tedeschi e ci fu uno spaventoso bombardamento, arrivato senza
preavviso, che io ricordo ancora; per anni e' stato un incubo ricorrente: il
rifugio, le fiamme, la paura... Presero anche tutti gli ebrei.
Fortunatamente noi non eravamo conosciuti; non eravamo iscritti da nessuna
parte, e poi mio padre parlava bene il tedesco, perche' aveva frequentato la
scuola tedesca.
Cosi' rimanemmo un po' sotto l'occupazione tedesca fino a che decidemmo di
fuggire in Macedonia, a Skopje, dove mio padre aveva dei parenti. La' fummo
aiutati dal console italiano a Belgrado, una persona veramente straordinaria
che aiuto' molti ebrei a fuggire; il console ci fece ottenere dei documenti
falsi, ricordo che mio padre divento' Salfati e mia madre da Cohen divenne
Collini; poi mise sopra ai documenti un sacco di timbri per dargli un po' di
importanza, perche' i tedeschi erano molto sensibili a queste cose
burocratiche. Cosi', in modo abbastanza rocambolesco, dalla Macedonia
riuscimmo a passare in Albania, nonostante le frontiere fossero chiuse e
controllatissime.
In Albania c'erano gli italiani, cosi' io potei frequentare una scuola di
suore italiane. Andare in quella scuola mi piaceva moltissimo, c'erano i
fiori, il mese di Maria, volevo persino fare la comunione... Certo, mi
rendevo conto che c'era qualcosa di strano ma non riuscivo a capire bene
cosa fosse. Alle mie richieste poi mia madre rispondeva sempre: "Bisogna
aspettare papa'".
Nel frattempo infatti mio padre era tornato in Italia, rimanendo bloccato
dall'armistizio. Mia madre si era cosi' trovata in Albania da sola con noi
figli (ci restammo per quasi tre anni). Pensandoci oggi devo dire che fu
molto coraggiosa. Allora la preoccupazione principale era che nessuno
scoprisse che eravamo ebrei. Anche per questo, di fronte alle nostre
domande, si barcamenava sempre dicendo che doveva aspettare il ritorno di
nostro padre. In seguito abbiamo scoperto che in realta' lo sapevano gia'
tutti.
*
Il viaggio di mio padre dall'Albania all'Italia era stato davvero
avventuroso. Era voluto tornare in Italia, con i documenti falsi, per poter
lavorare e mantenerci, perche' la filiale albanese delle seterie intanto
aveva chiuso. Cosi' si imbarco' su una nave italiana che pero' fu silurata e
naufrago' sulle coste jugoslave. Lui fortunatamente venne salvato da alcuni
pescatori. Riusci' cosi' a raggiungere Fiume, dove pero' rimase di nuovo
bloccato.
Mio padre era anche un po' pazzerello: a Fiume aveva scelto di alloggiare
nell'albergo che ospitava il comando tedesco; sosteneva fosse "il modo
migliore per non farsi notare", perche' parlava bene tedesco. Certo,
pensandoci adesso, avra' suscitato molti sospetti: un signore solo in un
albergo di Fiume, che non si capiva bene cosa ci facesse. Comunque rimase a
Fiume per un paio di mesi prima di riuscire a raggiungere Milano, dove
rimase sempre nascosto.
In quel periodo di separazione, mia madre dall'Albania gli aveva scritto una
lettera - l'unico tentativo di comunicazione in quei tre anni di distacco -
e l'aveva affidata a un maresciallo dei carabinieri che stava tornando in
Italia; come indirizzo aveva messo quello di una sua amica, ma quest'ultima
era sfollata cosi' la lettera era tornata indietro al maresciallo. Allora
lui per trovare mio padre penso' bene di mettere un annuncio sul "Corriere
della sera". Mio padre quando lesse: "Il signor Michele Salfati e' pregato
di presentarsi per comunicazioni urgenti" naturalmente si spavento'
moltissimo. Non sapendo cosa fare, se presentarsi o meno, decise di mandare
un amico, che piu' o meno avrebbe dovuto dire: "Questo signore lo conosco ma
non so dov'e', pero' magari se c'e' qualcosa di grave posso cercare di
rintracciarlo". Questa lettera la conservo ancora.
Dopo la guerra tornammo in Italia. I miei genitori mi iscrissero alla scuola
ebraica fino alla quinta elementare; li' si parlava di religione e cultura
ebraica. La consapevolezza di essere ebrea fino a quel momento non aveva mai
avuto un contenuto; certo, c'era la lingua, lo spagnolo sefardita, che i
miei genitori parlavano con i parenti, ma per il resto non mi avevano
spiegato quasi niente. Il loro modo di spiegarci era stato quello di farci
frequentare la scuola ebraica, affinche' potessimo avere una formazione
culturale, una conoscenza della nostra origine.
Tuttavia, questo non pose fine alla confusione rispetto alla mia identita',
alla mia appartenenza: mentre infatti gli amici e compagni di scuola
andavano al tempio coi loro genitori, i miei genitori erano assolutamente
contrari. Questa sensazione di essere sempre un po' fuori luogo devo dire
che e' stata un po' una costante di quegli anni: alla scuola cattolica non
potevo fare la comunione, alla scuola ebraica ero quella che non andava al
tempio... Ricordo che mi rimaneva sempre come una sensazione di
insensatezza.
Certo, c'erano i racconti di mio padre, ma riguardavano soprattutto gli
eventi della guerra; ricordo che per due o tre anni la sera si faceva
regolarmente tardi per ascoltarlo; ci raccontava le sue vicissitudini;
addirittura ci faceva imparare a memoria le tappe del nostro percorso di
fuga fino all'Albania: Milano-Belgrado, Belgrado-Skopje, Skopje-Urosevac.
Per lui era importante che ricordassimo. Pero' a me questo non bastava.
*
Il vero momento di svolta fu quando cominciai a frequentare il movimento
degli scout ebrei, organizzato dai soldati della Brigata Ebraica
dell'esercito britannico. Milano in quegli anni - parlo del '47-'48-'49 -
era un posto di transito per tutti quelli che tornavano dall'Est, dai campi,
in attesa di andare in America o in Palestina.
Milano ovviamente era distrutta. Queste persone allora venivano alloggiate
in via Unione, in un palazzo del Comune che era stato affidato alla
Comunita' ebraica (adesso c'e' una sede della polizia). Alcune stanze erano
state adibite a uffici, c'era anche il tempio, ma la gente era talmente
tanta che dormiva nei corridoi, nelle scale. Ho un ricordo molto doloroso di
quel luogo, e' un'immagine che ho ancora ben presente: erano persone
terribilmente provate... molte donne avevano subito degli esperimenti,
allora io non sapevo ancora niente, per cui vedere queste persone cosi'...
Tra l'altro due o tre di questi ragazzi erano stati inseriti nella mia
classe, in quarta elementare; erano piu' grandi di noi, ma psicologicamente
distrutti, maleducati, impossibili da tenere... La Brigata Ebraica, allora,
per cercare di raccogliere questi giovani, ma anche i ragazzi che
frequentavano la scuola, aveva organizzato una specie di movimento
scoutistico.
Io avevo subito cominciato a frequentarne le riunioni. E' stato li' che ho
cominciato veramente ad avvicinarmi alla cultura ebraica. E' stato un
momento importante, di ricerca di senso rispetto alle cose che mi erano
accadute.
Questo movimento piano piano si e' sviluppato trasformandosi in HaShomer
Hatzair, un gruppo giovanile sionista di sinistra vicino al partito Mapam
(Partito unico del lavoratori, legato al movimento kibbutzista).
E' stata la mia iniziazione politica: attraverso questo movimento, ho
imparato a leggere Marx, a discutere, a fare politica. Ricordo che facevamo
dei campeggi in una fattoria in Toscana, una grande casa di campagna un po'
malandata che era stata donata al movimento, e la' la vita era strutturata
come nei kibbutz. C'era l'idea di costruire un uomo nuovo; Ber Borochov
affermava che il popolo ebraico era rappresentato da una piramide
rovesciata, perche' non aveva ne' classe operaia ne' contadina; quindi per
raddrizzare la piramide bisognava liberarsi da paure e condizionamenti,
dalla diaspora, e andare in Israele - che nel frattempo era diventato uno
Stato - a creare questa base.
Su questo progetto mi impegnai molto: frequentavo assiduamente le riunioni,
avevo anche delle responsabilita', organizzavamo campeggi all'interno dei
quali si tenevano dei seminari di cultura ebraica e di marxismo, per unire
le due cose.
In fondo per me e' stata proprio una scuola di politica. Tra l'altro questo
movimento precorreva abbastanza i tempi, facevamo cose che all'epoca erano
impensabili, come la vita in comune, oppure il fatto di parlare, di
confrontarci, di raccontare le proprie difficolta' rispetto al lavoro
collettivo, una sorta di autocoscienza ante litteram; era una specie di
utopia. Certo, era un movimento improntato su un modello stalinista, anche
perche' era stato fondato da russi e polacchi, che quindi avevano in testa
quel modello.
*
A diciannove anni il movimento mi mando' in Israele a fare un corso di un
anno, per imparare la cultura e la lingua ebraica. Trascorsi sei mesi
all'universita' ebraica di Gerusalemme e sei mesi in un kibbutz dove per
meta' giornata lavoravo e per l'altra meta' studiavo. Colsi anche
l'occasione per conoscere alcuni zii e cugini trasferitisi la'. Questa
esperienza in particolare mi piacque. Io in Europa avevo una famiglia
piccola, composta da poche persone, la' invece trovai una famiglia grande,
incuriosita da me, e questa cosa mi trasmise un grande senso di
affettivita'. Infatti poi sono diventata il trait d'union tra loro e il
resto della mia famiglia.
Il paese mi colpi' moltissimo. Era il '57, Israele era stato fondato da poco
ed era ancora molto povero, il cibo era carente, la carne scarsa e la gente
lavorava moltissimo. C'erano persone ancora fresche della guerra che non
volevano mai parlare del proprio passato, e pero' nello stesso tempo c'era
una grandissima tensione, una forza e una vitalita' che mi colpirono e
affascinarono: qualcosa si stava formando e tutti partecipavano.
Il kibbutz dove vissi quei sei mesi era composto perlopiu' da vecchi
originari di una colonia della Russia, persone di grande qualita'
intellettuale, scrittori, gente colta e brillante. La mia insegnante, ad
esempio, era una scrittrice molto nota in Israele e suo marito dirigeva una
casa editrice di sinistra, tipo Rinascita. Ricordo che in quel periodo c'era
un grande dibattito in merito alla questione se i kibbutzim dovessero o meno
prendere manodopera araba - qualche kibbutz si era ingrandito e non riusciva
piu' a far fronte a tutto il lavoro con la manodopera interna -; rammento
grandi discussioni: "Ma allora tu sfrutti gli arabi", "No, perche' sono loro
a cercare lavoro"; furono in molti a lasciare il proprio kibbutz perche' era
stata fatta la scelta di prendere questa manodopera esterna.
Devo dire pero' che in generale il livello delle discussioni era molto
ideologico. Io infatti, non riuscivo assolutamente ad immaginarmi in quella
vita, la sentivo un po' claustrofobica. E poi mi frenava molto la lingua;
gia' avevo dei genitori che non avevano una vera lingua madre, perderla
anch'io, e ricominciare in un paese nuovo, con una lingua nuova, la sentivo
come una cosa che non avrei potuto tollerare. Israele mi affascinava, mi
piacevano molto anche alcune delle persone che avevo conosciuto, degli
ambienti che avevo frequentato, pero' nello stesso tempo sentivo
un'estraneita' di fondo. Cosi' fui felice di tornare a Milano.
Mio padre era fermamente antisionista, diceva sempre che la nascita di
Israele era stata la vittoria di Hitler, che era cosi' riuscito nell'intento
di mandare via gli ebrei dall'Europa. Infatti quando andai in Israele mi
osteggio' in tutti i modi, ricordo che dovetti fare delle scene tremende.
D'altronde lui era stato contrario anche a tutta la mia esperienza
precedente nel movimento. Mia madre era una che lasciava fare, non
interveniva; lui invece aveva un carattere molto polemico. Durante l'anno ch
e trascorsi in Israele mi telefonava dall'Italia ogni tre giorni dicendomi
di tornare. Anche perche' la situazione stava cominciando a peggiorare,
cominciavano gli attentati... Certo, non c'era una tensione paragonabile a
quella attuale, ma comunque non era un'atmosfera tranquilla.
*
Tornata da Israele lavorai per due anni, poi mi sposai e nacquero i miei due
figli. Devo dire che pero' da allora ho sempre mantenuto i rapporti con il
movimento, e in generale ho sempre fatto parte di gruppi che hanno seguito
la vita di Israele, anche contestandolo duramente.
Dopo il '67, quando Israele occupo' i territori (allora si sperava che
l'occupazione fosse temporanea) lavorai molto con la sinistra italiana e col
Pci di allora, che aveva assunto posizioni molto rigide contro lo Stato di
Israele; si facevano moltissime riunioni nelle cellule del partito, alle
feste dell'Unita' o nei convegni: noi cercavamo di far si' che la critica
tenesse conto anche delle ragioni di Israele.
Anche i miei figli hanno frequentato un po' questo movimento giovanile, ci
tenevo che avessero una conoscenza informale, non religiosa, della cultura
ebraica. Pero', verso i diciotto anni hanno fatto le loro scelte e hanno
perso i contatti con il mondo ebraico; soprattutto mia figlia si e'
allontanata: ha fatto un suo percorso politico scegliendo di ignorare
quest'aspetto. Mio figlio invece si e' riavvicinato verso il 1998, quando si
e' unito a un gruppo di ebrei contro l'occupazione in cui e' tuttora
impegnato. Va spesso in Israele ed e' profondamente indignato contro questo
governo, i check-point, ecc. Ha fatto anche un'intervista ad Amira Hass, che
l'ha molto colpito.
*
C'e' poi il delicato rapporto tra israeliani e ebrei della diaspora. Io, in
qualche modo, sento che Israele mi riguarda; voglio che esista lo stato di
Israele. E tuttavia non voglio che esista cosi'. Ci sono degli errori
profondi che stanno alla base della sua fondazione, e' uno stato teocratico,
e pero' oggi esiste. Credo allora che l'unica cosa che possiamo fare noi
ebrei che viviamo fuori, sia quella di sostenere chi, dentro Israele, sta
lottando per un paese diverso. Non sono d'accordo con quelli che dicono: "E'
una cosa che non ti riguarda perche' non sei israeliano". Non e' vero.
Intanto riguarda tutti, in un modo o nell'altro, e poi io la' ci sono stata
un anno, conosco delle persone, ho degli amici e dei parenti a cui voglio
bene e questo non lo posso ignorare. E comunque, la mia vita e' stata
condizionata dal fatto di essere ebrea, non posso dire: "Ah si', sono nata
ebrea, pero'...". Ovviamente parlo per quelli della mia generazione; vedo
che ad esempio per mia figlia e' meno condizionante, per i suoi figli forse
lo sara' ancora meno.
*
L'ultima volta che sono stata in Israele e' stato quattro anni fa, in
occasione della Pasqua. Sono stata impressionata da una specie di eccesso di
vitalita'. Ricordo ad esempio l'autobus (si', ho preso l'autobus, quando si
e' la' la percezione del pericolo cambia radicalmente) che da Tel Aviv porta
a Gerusalemme: era pieno di pendolari, studenti, lavoratori, che durante il
tragitto studiavano, scrivevano, tutto in modo frenetico. E cosi' per le
strade: la gente fa mille cose, si percepisce una tensione fortissima; e'
una cosa che mi ha molto colpito e anche incuriosito. Poi c'e' una grande
varieta' di gente, e' una torre di babele in questo momento, senti parlare
tante lingue...
Tel Aviv, la citta' dove risiedono i miei cugini, e' un luogo assolutamente
vitale, che mi piace e mi affascina. Pero' quando discuti, la gente, alla
fine, fa sempre prevalere il problema del terrorismo, per cui, anche se e'
contro l'occupazione, ritiene indispensabile avere un primo ministro come
Sharon, e difende l'operato del governo. Non riescono mai a dire: "C'e' il
terrorismo ma forse, dall'altra parte, c'e' uno stato di disperazione". C'e'
anche il fatto che molti ormai hanno avuto un lutto in famiglia o tra i
conoscenti; sono quasi tutti provati personalmente o indirettamente.
Da Tel Aviv sono poi andata in un kibbutz in Galilea, dove vivono ancora dei
miei vecchi amici italiani. Li' ho provato un grande senso di tristezza: il
kibbutz era molto bello, curato, le case confortevoli, c'era anche una
piscina e intorno una natura, un paesaggio stupendi; era un kibbutz ricco,
con una fabbrica, degli allevamenti di pesci, frutta, ecc. Pero' ognuno
viveva in casa propria, come in un paese qualsiasi; la sala da pranzo comune
era quasi deserta, la gente cucinava in casa propria oppure andava a
mangiare un boccone in fretta. Solo dieci anni fa la sala comune a
mezzogiorno era l'occasione migliore per incontrare tutti, parlare, salutare
i vecchi amici... Questa volta invece c'era un'aria di smobilitazione: i
giovani erano pochi, e perlopiu' venivano dall'estero per fare le ferie o
degli stages (ce ne sono sempre, soprattutto ragazzi tedeschi). Insomma, era
diventato un posto di pensionati.
D'altronde oggi Israele e' un paese in difficolta', per tanti motivi: c'e'
disoccupazione, miseria, violenza nelle famiglie; il welfare e il sistema
pensionistico stanno andando a rotoli e c'e' una crisi politica estremamente
pericolosa. E' un paese che sta andando rapidamente verso il disastro. E'
come se fosse in attesa di una qualche apocalisse. Anche tra gli stessi
israeliani, chi puo' cerca di andarsene. Sono oramai centocinquanta le mense
per i poveri, dove non vanno solo gli immigrati, ma proprio gli israeliani,
persone, famiglie che si sono impoverite; e questa e' tutta gente che vota
Sharon, anche se e' ridotta a chiedere la carita'. La paura e' diventata una
specie di malattia collettiva. E poi magari leggi sui giornali: "Forse
uccideremo Arafat". Questo cinismo e' una cosa che a me fa molta
impressione. Poi, dall'altra parte, ci sono ancora tutti i dibattiti: la
diaspora, Israele, chi e' ebreo, chi non e' ebreo, un tormentone che va
avanti da secoli...
*
Sono iscritta alla Comunita' di Milano, che e' abbastanza di destra.
Parlando con le amiche, spesso viene fuori il discorso: "Perche' non ti
togli?". Io non mi tolgo perche' finche' nella Comunita' ci sono ancora
alcune persone di una certa generazione a cui sono legata, affezionata,
questo gesto non lo posso fare, sarebbe una specie di abiura. E' il gesto
simbolico che non mi va di fare. Pero' di fatto queste persone frequentano
la Comunita' in maniera molto marginale; invece quelli che se ne occupano,
almeno qui a Milano, sono i fanatici, i libanesi o i persiani. Gli ebrei
libanesi ad esempio sono ricchissimi, religiosissimi ed estremamente
reazionari; addirittura hanno costituito un'altra scuola e un altro tempio
perche' ritenevano che la scuola ebraica e il tempio esistenti non fossero
frequentati da veri ebrei, ma da atei. E sono quelli che difendono Israele
ad oltranza. Poi, magari nella dimensione privata possono anche criticarlo,
ma, come dire, i panni sporchi si lavano in famiglia. E questo per me e' una
cosa orribile. D'altronde la Comunita' e' in mano alle persone che poi la
vivono, ed e' anche giusto che sia cosi'.
Poi, certo, c'e' da dire che le Comunita' ebraiche costituiscono una piccola
rappresentanza ufficiale ed e' abbastanza comprensibile che si conformino
alla maggioranza, al governo, e non con eventuali minoranze che lottano. Ad
esempio Amos Luzzatto, che non si puo' certo dire che sia un reazionario,
quando deve prendere posizione su Israele a nome dell'Unione delle comunita'
ebraiche sta molto attento e misura ogni parola, perche' ogni ebreo si sente
come una specie di paladino che deve andare in giro con la spada a difendere
Israele contro il nemico, contro tutto il mondo, che non si sa perche' ce
l'ha con lui.
Certamente anche il fatto di non vivere in Israele conta molto; non
condividere il disagio, i rischi, la paura, genera, si', un senso di colpa,
ma soprattutto porta a dire: "Noi dobbiamo difendere questo luogo al di la'
di quello che fa, non abbiamo il diritto di interferire, perche' non viviamo
la'. Il nostro compito e' quello di difenderlo e basta".
Andree Ruth Shammah tempo fa ha organizzato un dibattito nel suo teatro, il
Pierlombardo; le sue parole mi hanno colpito: "Noi non dobbiamo giudicare
Israele, dobbiamo solo difenderlo agli occhi del mondo, qualsiasi cosa
faccia". Ecco, io questo modo di pensare non lo posso condividere. Come non
potrei accettare di difendere un figlio stupratore, allo stesso modo non
potrei mai difendere un figlio che va nei territori occupati a fare del
male; non potrei sopportarlo. Invece l'atteggiamento della diaspora e'
proprio questo: difendere il governo che rappresenta Israele, qualunque sia;
tu non sei li', non voti, non corri pericoli, quindi non hai il diritto di
giudicare, devi soltanto difendere l'esistenza di Israele agli occhi del
mondo.
Mio figlio, tempo fa, ha cercato di organizzare un dibattito con il
rappresentante dell'Olp a Milano, una Donna in nero e alcuni membri della
comunita'; avrebbe voluto farlo in comunita', ma gliel'hanno impedito: "No,
e' impossibile, non si puo' fare". Finalmente, dopo varie insistenze e
trattative, si e' potuto fare nella sede dell'HaShomer Hatzair. E' riuscito
a far venire alcune persone, perlopiu' amici e suoi ex compagni, anche loro
su queste posizioni - Israele sbaglia pero' va difeso - e ne e' uscita una
serata incredibile. Il rappresentante dell'Olp e' stato moderatissimo, molto
attento, sull'occupazione ha detto cose che dicono tutti, niente di
eccessivo, la donna in nero ha portato delle testimonianze e ha parlato dei
check-point... Ebbene, la reazione e' stata un'immediata levata di scudi:
"Voi kamikaze...", una tensione incontenibile. Poi, verso le undici, la
discussione ha cominciato a sciogliersi e l'atteggiamento di difesa
aggressiva ha cominciato a cedere a un'articolazione del discorso: "Si', e'
vero, questo e' vero, quest'altro e' vero". Alla fine si era creata quasi
una situazione di fiducia: "Forse possiamo parlarne, forse possiamo dire che
anche Israele ogni tanto fa qualcosa che non va bene". Alla fine, uno
addirittura ha detto: "Bisognerebbe fare piu' spesso queste discussioni",
uno che fino a quel momento si era scagliato continuamente contro i
relatori, che aveva interrotto, che non aveva lasciato parlare. E' come se
di fronte ad estranei - figurarsi un palestinese - non volessero ammettere
niente, pero' poi, di fatto, in fondo in fondo tutti hanno voglia di
articolare maggiormente il discorso. Sanno come stanno le cose pero' non
possono riconoscerlo, perche' la psicologia e' che il mondo gli e' ostile e
vivono le critiche come un tradimento. A volte, dopo un attentato, telefono
a mia cugina in Israele, e lei risponde: "Che vuoi? Questo e' il destino di
essere ebrei".
Ma cosi' non se ne esce. Ripeto, l'unica possibilita', l'unica strada per me
e' quella di sostenere in Israele le forze che sono contro l'occupazione,
che non sono poi cosi' esigue. Purtroppo, non riescono a costituire una
forza reale, ad avere una loro consistenza, una loro unita'; e non so
nemmeno che tipo di visibilita' e di capacita' di pressione abbiano in
Israele. Sono talmente tante, disperse e frammentate, che non si riesce
neanche a seguirle...
*
Sarebbe bello uno Stato di arabi e ebrei insieme, ma mi rendo conto che non
e' una strada percorribile. Puoi affermare il principio teorico, ma nella
pratica non passa, tanto piu' se instauri la legge del ritorno anche per i
palestinesi, com'e' giusto che sia. La federazione allora forse e' una
soluzione piu' praticabile e ricca di possibilita': potrebbero essere due
Stati distinti pero' avere degli scambi, che anche ai palestinesi
porterebbero benessere e crescita economica.
Qualcuno ha proposto che Israele entri a far parte dell'Unione Europea. La
trovo un'idea un po' inquietante. Allora si vuole che Israele sia proprio
un'emanazione dell'Europa, dell'Occidente (se vogliamo parlare in termini di
due mondi contrapposti), ma questo creerebbe un ulteriore abisso tra
palestinesi ed ebrei, quando ce ne sono gia' tanti. Che senso ha? Se cominci
a dire: "Siamo qui, pero' siamo un'altra cosa"...
Io resto dell'idea che quando la gente vive vicina, alla fine si creano
delle relazioni; l'ho potuto constatare anche durante i miei viaggi in
Israele, parlando con i kibbutzim che vivono vicino ai villaggi arabi:
nonostante tutto quello che succede, ci sono ancora delle situazioni in cui
ebrei e palestinesi hanno delle relazioni. Ho letto in alcune interviste che
molti palestinesi che vanno a fare gli operai in Israele (anche se non e'
una situazione di parita') hanno un buon rapporto col loro datore di lavoro.
Per fortuna l'umanita' delle persone esiste e produce dei fatti, prende vie
inattese.
Ma se Israele dovesse diventare un pezzo d'Europa, sarebbe veramente la fine
di ogni possibilita' di dialogo. Se per i palestinesi non ha senso, allora
non ha senso neanche per Israele. Tra l'altro dobbiamo ricordare che chi e'
andato in Israele sapeva di lasciare l'Europa per andare a vivere in
Medioriente, anzi era una scelta ragionata e precisa: "Basta con l'Europa
dove abbiamo sofferto tanto", quindi ora e' paradossale e inutile volersi
riconoscere nell'Europa.
*
Che ruolo ha la shoah, un passato cosi' pesante in tutto questo? Qualche
tempo fa il ministro della cultura del partito Meretz, una donna molto in
gamba, aveva posto fine ai pellegrinaggi ad Auschwitz per gli studenti delle
scuole superiori. Fino ad allora, i ragazzini di diciassette anni, al liceo,
avevano nel programma scolastico un viaggio ad Auschwitz con gli insegnanti,
da cui tornavano assolutamente traumatizzati: "Tutti ci odiano, tutto il
mondo ci odia", altri addirittura arrivavano a dire: "Ma allora abbiamo
fatto qualcosa"; per loro era veramente uno choc tremendo. Allora questo
ministro della cultura ha detto: "Basta con questi pellegrinaggi; alimentano
la sindrome di essere odiati da tutti, accerchiati; in questo modo
alleveremo una generazione di traumatizzati". Poi pero' e' caduto il
governo, lei e' stata estromessa, e credo che i pellegrinaggi ora siano
stati reintrodotti. Faccio un altro esempio: l'ultima volta che sono andata
a Tel Aviv, mi sono recata a vedere il museo della diaspora, e la' ho
incrociato una scolaresca, accompagnata da un'insegnante. I ragazzini
avranno avuto quattordici-quindici anni e anche l'insegnante era molto
giovane, sui venticinque anni. Nel museo c'era tutta la documentazione
iconografica, con foto e documenti vari, sui campi di concentramento e
l'insegnante commentava: "Ragazzi, negli anni '40 il mondo odiava gli ebrei
e ha fatto questa cosa; poi, per fortuna, e' nata Israele cosi' adesso
stiamo tranquilli". Mi ha fatto venire un'indignazione...
Ecco, la cosa terribile, che a me fa molto impressione, e' che Israele e'
uno Stato fondato su una tragedia. E la tragedia continua. Quando ci penso
mi viene un senso di orrore: non so se Israele sarebbe nato se non ci fosse
stato lo sterminio.
Certo, c'erano i sionisti idealisti che sarebbero andati ugualmente e
avrebbero costruito una comunita', ma sarebbero vissuti insieme con i
palestinesi. D'altronde ci sono sempre stati degli ebrei che andavano a
morire a Gerusalemme, o che andavano a vivere in Palestina singolarmente;
c'e' gente che vive in Israele gia' da tre o quattro generazioni, ma senza
un'idea di Stato. Il sionismo conteneva in se' l'idea di Stato, pero' di
fatto gli ebrei europei non avevano alcuna intenzione di andare in Palestina
a crearne uno prima della tragedia della shoah. Forse si sarebbero limitati
a dare soldi, offerte, magari per piantare degli alberi, cose di questo
tipo. Nel '48, quando fu creato lo Stato e scoppio' la prima guerra erano
passati solo tre anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Questo
passato era cosi' pesante e cosi' vicino che lo Stato di Israele ha assunto,
di fatto, il senso di una sorta di riscatto. Il fratello di mia madre, che
non aveva nemmeno fatto il servizio militare ed era totalmente estraneo a
certe cose, tuttavia quando Israele vinceva le varie guerre si sentiva cosi'
fiero, cosi' orgoglioso, da arrivare a dire: "Finalmente noi ebrei non siamo
piu' le vittime". Nel '57, quando andai in Israele, l'esercito non era
percepito come qualsiasi altro esercito del mondo; li' c'erano i tuoi amici,
i soldati facevano l'autostop, erano visibilmente stanchi, la divisa non era
mai a posto. La formazione era molto severa, pero' poi c'era questa
familiarita'... C'era un po' l'idea che Israele aveva un esercito perche'
bisognava difendersi, ma non era un vero esercito.
E poi ci sono i grandi paradossi: se da un lato da un certo punto in poi e'
scattata una pesante enfasi sulla shoah, dall'altro, in Israele per anni e
anni parlare della shoah e' stato veramente un tabu' (e se tu chiedevi,
com'e' capitato a me in Israele, da che paese venisse qualche
sopravvvissuto, si rifiutavano di rispondere, ti dicevano: "Non voglio
dirlo, voglio solo dimenticare"). A essere idealizzata era la lotta del
ghetto di Varsavia, e quindi l'eroismo ebraico, la ribellione; di tutta la
tragedia accettavano di parlare solo di quello: "Non siamo stati delle
pecore", perche' la gente si vergognava e aveva il bisogno di ribaltare
questa immagine, che e' venuta fuori con la seconda guerra mondiale, degli
ebrei che si sono lasciati portare al macello senza reagire, senza un gesto
di ribellione. Sono accadute anche delle cose tremende, processi, ebrei dei
ghetti denunciati dal consiglio ebraico, esperienze spaventose, ma presenti
anch'esse nella nascita dello Stato ebraico. Perche' dico tutto questo?
Perche' la situazione e' complicatissima e intricata, ricca di paradossi.
C'e' poi un altro aspetto: in ambito ebraico si trascorrono ore, giornate, a
discutere di queste vicende, e questo spesso crea lacerazioni, divisioni e
rotture irreparabili anche in seno alle famiglie. E' veramente
impressionante il coinvolgimento emotivo e la passionalita' che questa
storia suscita.

5. LE ULTIME COSE. OMERO DELLISTORTI: FALLIBILI

Uno dei motivi fondamentali per scegliere la nonviolenza e' la
consapevolezza che nei nostri ragionamenti siamo fallibili.
Possiamo sbagliarci: e poiche' possiamo sbagliarci e' comunque sempre
preferibile scegliere di compiere quell'azione che non ha conseguenze
irreversibili (ovvero astenersi da quell'azione che conseguenze
irreversibili ha). La piu' irreversibile delle conseguenze e' provocare la
morte di qualcuno.
Per questo la nonviolenza e' quella lotta contro la violenza che invera
l'antico principio "tu non uccidere" nella forma piu' adeguata. Per questo
essa si oppone a tutte le tradizioni vittimarie. Per questo essa puo'
tradursi, con Schweitzer, nella formula "rispetto per la vita".
Vedi come convergono nella scelta della nonviolenza le piu' longeve radici
sapienziali e gli esiti piu' preziosi dell'epistemologia contemporanea.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1402 del 29 agosto 2006

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